E’ stato identificato e denunciato dalla Polizia locale di Bari l’autore dell’ episodio di danneggiamento della lapide del loculo dove è sepolto il gen.Nicola Marzulli, ex comandante del Corpo di Polizia municipale della città. L’autore è un barese di 58 anni, che ora risponde di vilipendio aggravato da futili motivi e di furto per aver sottratto gli accessori della lapide. E’ stato scoperto grazie a un sistema di ripresa video. Secondo l’accusa l’uomo ha danneggiato la fotografia del comandante Marzulli e ha anche rubato la campana della lampada votiva, oltre ad avere rivolto un gesto di disprezzo con la mano in direzione della lapide.
Jasenovac, l’Auschwitz dei Balcani
Appena varcata di pochi chilometri la frontiera tra Bosnia e Croazia, ecco Jasenovac. Siamo nella contea croata di Sisak e della Moslavina, dove il corso d’acqua della Una confluisce nella Sava. Quando si pensa ai campi di concentramento tornano alla memoria i lager in Germania, Austria, Polonia o in Repubblica Ceca. Ma c’è anche “l’Auschwitz dei Balcani”, questo terribile campo di Jasenovac, creato dagli ùstascia di Ante Pavelic, con la collaborazione dei nazisti e dei fascisti italiani.
Il campo di concentramento si trova ad un centinaio di chilometri a sud-est di Zagabria e venne costruito tra l’agosto del 1941 e il febbraio del 1942 proprio sulle rive della Sava, che segnano il confine naturale tra la Croazia e la Bosnia-Erzegovina. All’entrata una scritta incombeva su chi vi era internato: “Red, Rad, Stega”, cioè “Ordine, Lavoro, Disciplina“. In seguito all’alleanza dei nazionalisti di estrema destra croati con le potenze dell’Asse e con la conseguente adozione da parte di Zagabria dell’ideologia razzista, il campo di Jasenovac doveva essere destinato, secondo i piani del Terzo Reich, principalmente alla detenzione e all’eliminazione di ebrei, oppositori politici e zingari. Gli ùstascia, invece, aggiunsero un elemento in più, considerandolo il luogo adatto in cui internare e distruggere la popolazione serba. Così il maggior numero di vittime del campo furono per lo più serbi(oltre la metà degli internati), oltre agli ebrei, zingari (quasi sempre uccisi non appena mettevano piede a Jasenovac), bosgnacchi (bosniaci musulmani), dissidenti croati e in generale membri della resistenza, compresi i partigiani e i loro simpatizzanti, etichettati indistintamente dalle belve di Pavelic come “comunisti“.
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Le condizioni di vita erano simili a quelle degli altri campi di concentramento sparsi per l’Europa: cibo scarso, alloggi con pessime condizioni igieniche, undici, dodici ore di duro lavoro, uccisioni e torture. Nei primi tempi molti detenuti furono costretti a dormire all’aperto perché non erano ancora state completate le baracche. Per la mancanza d’acqua, in tantissimi bevvero l’acqua della Sava e frequenti erano le epidemie di tifo, malaria, dissenteria e difterite. Le guardie permettevano ai prigionieri di lavare i loro pochi indumenti una volta al mese nel fiume. Solo chi aveva particolari abilità professionali, come medici, farmacisti, orefici e calzolai, poteva godere di un trattamento un po’ più umano. A tutti gli altri toccava subire le angherie degli ùstascia. Nell’agosto del ’42 nacque una scommessa tra le guardie su chi avrebbe massacrato il maggior numero dei prigionieri, che venivano uccisi con coltelli, mazze e spranghe, per risparmiare sui proiettili. A Jasenovac vennero utilizzati ,per un breve tempo, i forni della fabbrica di mattoni come crematori e lì trovarono la morte donne e soprattutto bambini (almeno 20mila tra zingari, serbi ed ebrei). L’inferno finì nella primavera del 1945. Il 22 aprile circa seicento prigionieri si ribellarono, ma le guardie ne uccisero la stragrande maggioranza e solo in ottanta riuscirono a fuggire. Prima di abbandonare definitivamente il campo, gli ùstascia uccisero i restanti detenuti e diedero fuoco agli edifici, alle fornaci, alle camere di tortura e a tutto ciò che potesse testimoniare le atrocità commesse. Oggi, quello che rimane è un memoriale in ricordo delle vittime e un enorme dibattito nato tra i serbi e i croati sul numero dei morti: laddove i primi parlano di circa mezzo milione, mentre i secondi cercano di impostare le cifre al ribasso.
Secondo le fonti più accreditate, a Jasenovac persero la vita circa 100mila persone, di cui 45-52mila serbi, 15-20mila zingari (questo però è il dato più controverso e di difficile verificabilità), tra i 12 e i 20mila ebrei, e tra i 5 e i 12mila croati e bosgnacchi. E anche, leggendo l’elenco, diciotto italiani dei quali una donna. Fuori dal mausoleo, nell’aperta campagna che ospitò le baracche e le strutture del campo, sorge il “Fiore di Jasenovac”, il monumento-simbolo progettato dall’architetto e artista serbo Bogdan Bogdanovic. Tutt’attorno, nel terreno reso paludoso dalla pioggia e dalle frequenti esondazioni della Sava, s’intravedono i tumuli che fanno parte dell’assetto paesaggistico del memoriale. Piccole alture erbose che si ergono dove c’erano le baracche e dove i detenuti conobbero atrocità, sofferenze ed esecuzioni. Il tutto in un paesaggio silenzioso, in un luogo – come Bogdanovic stesso volle indicare – “angoscioso, profanato dal crimine”.
Marco Travaglini
IL TURCO TORNA A VIENNA?
FOCUS INTERNAZIONALE di Filippo Re
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É partita dai Balcani la sfida di Erdogan all’Europa. Il “sultano” attacca il Vecchio Continente da Sarajevo, nel cuore dei Balcani e della vecchia Europa ottomana, dove si è recato per preparare la doppia campagna elettorale, legislative e presidenziali, del 24 giugno. Davanti a migliaia di turchi arrivati da mezza Europa in treno e in pullman, grazie ai fondi erogati dallo Stato turco, Erdogan, con toni da crociata, ha puntato il dito contro austriaci, tedeschi, olandesi e francesi, contro quei Paesi che non consentirono tempo fa ai suoi ministri di tenere comizi elettorali nelle locali comunità turche. Fa un po’ effetto vedere che un presidente turco sfida l’Europa proprio dai territori in cui ottomani e cristiani si sono combattuti per lunghi secoli. In particolare Erdogan se l’è presa con Vienna, la più dura ad opporsi alle manifestazioni dei turchi, ma Vienna è abituata a resistere alle minacce anatoliche, ha resistito in modo eccezionale a due memorabili assedi (1529 e 1683), poi l’Impero ottomano ha perso altri colpi e non è stato più in grado di nuocere. Di tempo ne è passato tanto: 335 anni fa, i giannizzeri del Gran Visir Kara Mustafa e del sultano Maometto IV passarono proprio dai Balcani, già sottomessi, per reclutare nuove truppe e marciare sull’Ungheria per puntare poi su Vienna. A quell’epoca il sultano vinceva e perdeva le battaglie sul campo, oggi il neo “sultano” ricatta i suoi potenziali nemici con le armi della propaganda, dei profughi e delle alleanze fragili e variabili. “Non mi consentite di incontrare i miei elettori a Vienna e a Berlino? Allora posso farlo in altre città europee come Sarajevo, un tempo ottomana”. Città musulmana al 90%, Sarajevo conserva ancora oggi stretti legami storici e culturali con la Mezzaluna. Nostalgico della grandezza dell’Impero sultaniale, Erdogan considera i Balcani una parte essenziale della sua sfera di influenza, esattamente come ritiene storicamente legati alla Turchia i territori in Medio Oriente, in particolare quelli vicini alle sue frontiere. Per realizzare il suo sogno di ricostituire almeno in parte l’Impero ottomano, l’uomo forte di Ankara penetra con la propaganda ideologica e con massicci investimenti nei Paesi balcanici, inserendosi nella società civile, sfruttando partiti politici e lobby locali finanziate da Ankara. Altre organizzazioni simili filo-turche operano in Bosnia, Albania, nel Kosovo, in Macedonia e in Bulgaria, Paesi dove la Turchia, insieme ad Arabia Saudita e Iran, sta costruendo decine di moschee, scuole religiose e centri culturali. Teste di ponte di cui Erdogan si serve per estendere la sua influenza nella regione balcanica e nel resto dell’Europa dove invita i turchi a fare almeno cinque figli ciascuno. Finanzia anche la nascita dei primi partiti islamici. In Olanda il partito dei turchi “Denk” ha ottenuto una mini vittoria eleggendo in Parlamento tre deputati mentre in Belgio il partito islamico, in corsa per le elezioni amministrative di ottobre, cerca di introdurre la sharia, la legge religiosa, che nei quartieri islamici è già attiva, e di mettere sulle strade autobus e tram separati per uomini e donne. Il fondatore del partito sostiene perfino che nel 2030 i musulmani saranno la maggioranza in Belgio. Con le elezioni anticipate a giugno il presidente turco mira a conquistare il potere assoluto nel Paese in modo da governare come un vero sultano. Ma ha bisogno anche dei voti dei turchi all’estero, di cui tre milioni vivono nella sola Germania e tanti altri in Austria e in Belgio. “Benvenuto Sultano, unico amico del nostro popolo nei Balcani” si leggeva in questi giorni sui manifesti a Sarajevo per ringraziare Erdogan per la sua visita. Ma di manifesti in città ce n’erano anche degli altri: “dittatore, vattene, noi cittadini di Sarajevo non ti vogliamo”. I panettieri viennesi possono stare tranquilli questa volta. Lavorare di notte è sempre faticoso ma quella notte di oltre tre secoli fa fu davvero speciale. Si sentirono strani rumori giungere dai sotterranei della città. I genieri turchi stavano scavando dei tunnel per far saltare in aria la cinta muraria, aprirsi dei varchi e invadere la capitale. Diedero l’allarme alle sentinelle e contribuirono alla sconfitta dei turchi. Salvarono Vienna e forse l’Europa. Il Gran Visir riuscì a mettersi in salvo ma fu poi strangolato per ordine del sultano. La sua testa fu portata a Maometto IV. Per i turchi fu l’inizio del declino. In 15 anni persero quasi la metà dei territori conquistati nei tre secoli precedenti. Per tutta risposta e allo scopo di celebrare l’evento, i pasticceri viennesi inventarono il cornetto o croissant prendendo spunto dalla mezzaluna della bandiera turca.
Dalle vetrine del centro di Praga uno strano animaletto dagli occhi spalancati e il naso rosso si presenta agli sguardi dei turisti. Con il suo sguardo furbo e simpatico è diventato, nei decenni, uno dei simboli della città magica e dell’intera nazione. E’ Krtek, che in ceco significa semplicemente “talpa”, personaggio dei cartoni animati nato nel 1956 dall’ingegnosa penna del disegnatore Zdenek Miler. Sessantadue anni fa a Miler venne chiesto di immaginare una storia per bambini da trasformare in un film. La ricerca di un personaggio in grado di coinvolgere e appassionare i più piccoli lo impegnò per diverso tempo e l’idea di Krtek gli venne incidentalmente. Durante una passeggiata in un bosco inciampò in un buco scavato da una talpa e da quel piccolo inconveniente scaturì l’idea di disegnare proprio uno di questi piccoli insettivori. Protagonista di moltissimi libri per l’infanzia e giocattoli, la talpa esordì nel suo primo film d’animazione (“Come Krtek trovò i suoi pantaloni”) nel 1957, grazie al quale il suo autore si aggiudicò il premio per miglior film informativo-didattico per bambini alla diciottesima edizione del festival di Venezia. Il successo fu strepitoso. A quel cortometraggio ne seguirono altri cinquanta (l’ultimo nel 2002, “Krtek e una piccola rana”), apprezzati in più di ottanta paesi nel mondo, anche grazie all’intuizione di far esprimere Krtek senza parole, evitando così di tradurne il linguaggio. Così, per mezzo secolo, la simpatica talpa ha lanciato i suoi messaggi ( dai valori della solidarietà al senso di giustizia,all’importanza della cura e del rispetto della natura),pensati per i più piccoli ma in grado di conquistare e far riflettere anche gli adulti.
Marco Travaglini
Usa -Iran, lo scenario della crisi
FOCUS INTERNAZIONALE di Filippo Re
Bandiere a stelle e strisce date alle fiamme nelle piazze delle città iraniane e nel Parlamento di Teheran. Urla e slogan anti-Usa, sermoni bellicosi e incendiari, venti di guerra. Scene già viste quaranta anni fa, all’inizio della rivoluzione incendiaria di Khomeini che nel 1979 travolse la monarchia dello scià e instaurò una teocrazia islamica. Saranno 40 anni il prossimo anno ma pare che la Storia si ripeta oggi. Dall’Iran ai Territori palestinesi che bruciano di rabbia, l’America è tornata ad essere il “Grande Satana” dei tempi di Bush, che oggi si chiama Trump, e il suo alleato Israele, il “piccolo Satana”, che festeggia i settant’anni di vita del suo Stato. Sulla sponda opposta, i palestinesi commemorano la “Nakba” (la catastrofe), l’esodo coatto di 700.000 arabi palestinesi durante la prima guerra con Israele tra il 1948 e il ’49 e si scagliano con violenza contro la nuova ambasciata americana aperta
a Gerusalemme. Per completare il quadro di quel periodo alla fine degli anni Settanta manca solo l’occupazione dell’ambasciata americana a Teheran come accadde nel novembre 1979 con la famosa crisi degli ostaggi quando centinaia di fanatici iraniani assaltarono la sede diplomatica prendendo in ostaggio 52 funzionari della legazione per liberarli solo un anno dopo. Non ci sarebbe da stupirsi se oggi accadesse la stessa cosa nella capitale iraniana con i toni sempre più aspri che volano tra Washington, Teheran e Tel Aviv. Al ministro della difesa israeliano Avigdor Liberman che afferma ” se da noi cade la poggia, su di loro deve rovesciarsi l’alluvione”, il leader religioso Ahmad Khatami risponde che il suo Paese è pronto a “distruggere totalmente Tel Aviv e Haifa se gli israeliani agiranno in modo folle”. Al coro di voci infuocate contro lo Stato ebraico si è aggiunto anche un messaggio audio del capo di al-Qaeda al-Zawahiri il quale ricorda che non solo Gerusalemme ma “anche Tel Aviv è terra dei musulmani”, quindi da riconquistare. Mentre si infiamma la retorica anti-americana e anti- israeliana, il livello dello scontro diplomatico e militare tra Israele e l’Iran continua a salire. Le due potenze regionali si combattono già in Siria diventata un terreno di confronto bellico. Il fronte del Golan è diventato rovente e, a duellare su quelle alture, non ci sono israeliani e siriani ma Tashal e i militari della Forza Quds comandata dal generale iraniano Qassem Soleimani. Anche su questo aspetto dello scontro non mancano i richiami alla storia recente. I raid israeliani della settimana scorsa contro basi iraniane in Siria (almeno settanta missili lanciati da 30 jet), in risposta ai lanci di missili da parte dei pasdaran verso postazioni militari sul Golan, sono stati i più potenti dalla guerra del Kippur nel 1973. Il 6 ottobre di quell’anno, siriani, egiziani e giordani attaccarono di sorpresa Israele, approfittando della festività religiosa. Colto di sorpresa, lo Stato ebraico fu sul punto di vacillare. In quei drammatici giorni cadde il mito dell’invincibilità dell’esercito israeliano ma dopo una serie di sconfitte iniziali nel Sinai e nel Golan il recupero fu prodigioso e la controffensiva devastante. La bocciatura dell’accordo sul nucleare iraniano da parte di Trump apre nuovi scenari sul futuro delle relazioni tra gli ayatollah e la comunità internazionale. Dopo lo strappo degli americani l’Unione Europea è al lavoro per salvare l’intesa faticosamente raggiunta nel 2015 e definita dai vertici di Bruxelles “uno dei più grandi successi della diplomazia negli ultimi tempi”. L’Ue è il terzo partner commerciale dell’Iran con un business economico di oltre 20 miliardi di euro. Dalle auto agli aerei, dall’energia alle banche e agli investimenti, numerose grandi aziende europee avevano scommesso proprio sull’Iran dopo la firma dell’accordo. Ora tutto rischia di andare in fumo. La fine delle sanzioni tre anni fa aveva rialzato l’economia iraniana (+13% nel 2017) ma già quest’anno la Banca mondiale prevede una netta frenata con la riattivazione del blocco economico e a penalizzare l’Iran sarà soprattutto il taglio delle esportazioni di petrolio. Preoccupazione anche per l’Italia, primo partner europeo di Teheran, le cui imprese erano rientrate a tutti gli effetti nel mercato iraniano. Dall’Eni alle Ferrovie, Ansaldo, Danieli, Fata e altre, è lungo l’elenco delle aziende italiane che dopo il 2015 hanno ripreso i loro affari con la nazione persiana facendo risalire l’interscambio nel 2017 a 5 miliardi di dollari. Per l’Europa si apre ora un altro grosso problema che investe non solo l’economia ma mette in discussione gli stessi rapporti diplomatici tra l’America e il Vecchio Continente. Trump intende porre sanzioni a tutti i Paesi, compresa l’Italia, che continueranno a commerciare con Teheran dopo la cancellazione dell’accordo sul nucleare. Il presidente iraniano Rouhani chiede invece agli europei di preservare l’accordo e di garantire la salvaguardia degli interessi iraniani sulla vendita di petrolio e gas, sui rapporti bancari e sugli investimenti. Ma chiede anche alle cancellerie europee di decidere in fretta perchè il tempo stringe. Se non avrà il sostegno necssario da parte dell’Europa l’Iran è pronto a riprendere i piani per l’arricchimento dell’uranio e arrivare prima o poi a possedere la bomba atomica. Una scelta pericolosa che potrebbe innescare una nuova corsa alla proliferazione nucleare nella regione. I sauditi hanno già detto di essere pronti a sviluppare l’atomica se Teheran farà ripartire il suo programma nucleare. Ma le minacce non riguardano solo l’atomica ma il rischio che la decisione di Trump di cancellare il patto del 2015 possa spingere l’Iran ad attività ancora più destabilizzanti di quelle attuali in tutto il Medio Oriente. Nucleare a parte, è proprio la presenza militare iraniana, sempre più massiccia e invadente in Siria e in altri Paesi, a dar fastidio a Trump e agli israeliani. Dalla Siria allo Yemen i fronti degli ayatollah in guerra cominciano a essere troppi. I tentacoli della piovra persiana si allungano da Teheran all’Atlantico. Ai russi è arrivata perfino la richiesta di poter ormeggiare le navi della Marina iraniana nel porto di Tartous, base navale russa in Siria, mentre il lontanissimo Marocco ha rotto le relazioni diplomatiche con l’Iran accusandolo di armare il Polisario, il movimento armato che si batte da sempre per l’indipendenza del popolo Saharawi. In Iraq le prime elezioni dopo la sconfitta dell’Isis (solo il 44% alle urne) sono state vinte dal leader radicale sciita Moqtada al -Sadr che ha ridimensionato il premier uscente al Abadi e frenato l’uomo di Teheran, il capo delle milizie sciite al Amiri che continuerà comunque a tutelare gli interessi iraniani in Iraq. Ecco dunque il piano di Trump per far cadere il regime degli ayatollah e troncare di netto il sostegno alle forze sciite nei Paesi islamici in guerra, a quarant’anni dalla presidenza dello sfortunato Jimmy Carter. Strappare l’accordo sul nucleare per far collassare l’economia iraniana con durissime sanzioni al fine di far insorgere la popolazione contro i suoi leader e porre fine alla rivoluzione khomeinista. Con Trump alla Casa Bianca e il super falco John Bolton, già cowboy di Bush, e oggi capo della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, tutto è possibile.
(dal settimanale “La Voce e il Tempo”)
DALLA CAMPANIA
I genitori della sposa avevano appena preso parte al matrimonio della propria figlia celebrato a Montefalcone di Valfortore . Stavano andando al pranzo nuziale verso Benevento quando, mentre erano a bordo di un’utilitaria guidata dall’ altro loro figlio, è avvenuto uno scontro frontale contro un furgone della Protezione civile. Nell’incidente sono morti all’istante i due genitori, lui di 72 anni e la moglie di 65, e il fratello è stato ricoverato in ospedale L’auto avrebbe urtato un muretto all’ingresso di una galleria per poi sbandare invadendo la corsia opposta dove stava passando il mezzo di un’associazione della Protezione Civile.
Venerdì 18 maggio, presentazione; sabato 19, preparazione e prove, Domenica 20, esecuzione. Un evento come quello che sta per andare in onda non c’è tutti i giorni: chiamato “ALI SUL LAGO”, è una manifestazione unica nel suo genere, uno spettacolo nel cielo e sul lago, in questo caso il bacino del Lago Maggiore che sta di fronte a Pallanza (Verbania, ricordiamo, è formata da Intra e Pallanza: da quest’ultima frazione saranno meglio visibili le figure e le acrobazie aeree). La presentazione- spiegazione è avvenuta a Verbania, al Teatro Maggiore, venerdì 18. Presenti il Sindaco Silvia Marchionini e i più autorevoli rappresentanti e dirigenti dello spettacolo acrobatico: il Comandante Pilota Alitalia Maurizio Viti e il Ten- Colonnello Mirco Caffelli (seduti al tavolo della presentazione, nella foto, con la Sindaca). “Per me è la prima volta (s’intende che “per la prima volta” Caffelli ha questo importante incarico di comando di tutta la Pattuglia ndr): le Frecce tricolori hanno questo importante compito di rappresentare le Forze Armate. Le prove di sabato si faranno utilizzando fumi bianchi”. Alla presentazione hanno preso parte attiva anche Mauro Piras, pilota istruttore (di Biella) e il “nostro” Comandante della Navigazione Lago Maggiore Ing. Gian Luca Mantegazza. Nel presentare le caratteristiche più importanti del piano per cercare di dare ordine e limitare il traffico, sia lacustre che di terra, Mantegazza ha raccomandato a tutti di non utilizzare l’auto nelle vicinanze di Pallanza. “Per tornare a casa ci saranno i battelli, non usate l’auto!”. Ci sarà persino un servizio di elicottero da Fondotoce. Il Comandante della Polizia Urbana di Verbania, Ignazio Cianciolo, ha poi aggiunto le ultime raccomandazioni, informando anche del servizio–navetta da Intra a Pallanza.
Elio Motella
La Giordania non è solo Petra o Wadi Rum ma anche angoli e scorci di un posto, la capitale, che ci porta magicamente indietro nel tempo, dove le lancette dell’orologio sembrano scorrere con un altro ritmo
Viverci tre anni, immergersi nella cultura, respirare l’aria secca del deserto densa di profumi come quello del knafeh, il dolce tipico giordano, vibrare con il richiamo alla preghiera 5 volte al giorno o destreggiarsi in un traffico indisciplinato ma sorridente è stata una esperienza davvero unica. Ci ero stata in vacanza 4 anni prima, in tempi non sospetti, cioè quando non sapevo di doverci andare a vivere. Tutto era già apparso bello, accogliente e irripetibile come Petra, un luogo magico perso nell’altopiano desertico, vite d’altri tempi, colori incredibili sotto un cielo sempre azzurro. Jerash, un meraviglioso sito archeologico che divenne importante al tempo dei Romani, che con il Tempio di Zeus, l’Arco di Adriano, il Teatro magnifica un intero paese. E ancora i Castelli del deserto, Wadi Rum, il Mar Morto, Um Umquais, Aquaba, Monte Nebo e Madaba, luoghi magnifici intrisi di storia, cultura, arte, una natura invincibile ed originalità.
In Giordania però c’è altro, una vita da spendere ad un ritmo diverso, abitudini che ci catapultano almeno in un secolo fa, rituali pigri e rilassati che non appartengono certamente al nostro modo di vivere occidentale. Ad Amman, la capitale di questa isola nel deserto, si può fare questa esperienza vivendo luoghi fuori dai circuiti turistici, posti che hanno mantenuto una melodia comoda e imperturbabile. Una prova di questa esistenza scandita da un battito lento è tangibile nelle abitudini quotidiane come nei bar per esempio. Non si entra per un cappuccino e si scappa, non esiste il caffè al bancone, si ordina e si aspetta seduti, dieci, quindici, anche venti minuti, nessuno sembra avere fretta, si chiacchera, si lavora, ci si prende il proprio tempo e si onora la bevanda per noi accuratamente preparata, inutile lamentarsi del ritardo perché avremo solo un sorriso come risposta.
Nel quartiere di Jabal Al Weibdeh, uno dei più antichi di Amman, sono numerosi i bar dove ci si può fermare, fermare davvero intendo. Rumi, per esempio, è un posto delizioso dove caffè, te, torte e persino il cappuccino sono davvero buoni. In questo quartiere, fuori dai giri organizzati, che vale la pena di vedere se si vuole conoscere la vera Giordania, ogni cosa è tipica: negozi di artigianato, residenze in stile arabo, come la villa rosa sul viale principale, gallerie d’arte, negozi di abbigliamento un po’ datati e una bellissima moschea. Mangiare al Beit Sitti, un ristorante locato in una vecchia dimora, è una esperienza sicuramente da fare, le pietanze infatti , arabe ovviamente, come il pane o i fagottini ripieni di riso, si impara a cucinarle e poi a mangiarle con calma, godendo della compagnia, soddisfatti per aver fatto una lezione di cucina locale. Un posto che non dimenticherete è Darat al Funun, una galleria d’arte, una terrazza, una biblioteca, la vista sulla Cittadella: la zona archeologica della città.
Un altro luogo dove passeggiare in piena atmosfera folcloristica è Jabal Amman e precisamente Rainbow Street, una deliziosa strada decorata da ville vecchio stile, negozi di artigianato e antichità, uno splendido negozio di prodotti di bellezza, Trinitae. Il venerdì, da maggio a luglio, c’è un delizioso mercatino dove si possono trovare oggetti nuovi e antichi, vestiario, artigianato, cibo e soprattutto colori e vitalità. La visita in questa zona non può dirsi completa se non ci si ferma al Books@cafe un bar con libreria e una terrazza che si affaccia su una delle valli della città, un posto adorabile e accogliente. Un altro ristorante degno di nota è il Wild Jordan Cafe che all’interno ospita una boutique che vende oggetti ricavati da materiali naturali e un punto dedicato ai viaggiatori con proposte di percorsi cittadini e naturalistici. Ovviamente non si può non citare il centro vecchio, Wasat al Balad o Downtown, un souk a cielo aperto, vie fittissime di negozi, spezie, mercato della frutta, oreficerie, abiti locali, profumi, sapori mediorientali. Il caos, il traffico e il disordine saltano subito all’occhio ma ci si abitua, si entra nella vera Amman, ci si addentra in Giordania, quella reale, con tutte le sue particolarità, il suo carattere forte e tenace, ma anche gentile e possibilista. Un ultimo consiglio è ammirare la città di notte, con le sue 14 colline (Jabal) illuminata da migliaia di luci bianche intervallate da quelle verdi dei minareti, Amman ci offre un paesaggio magico da Mille e una Notte, una vista unica, ipnotica e piena di fascino.
Maria La Barbera
DAL LAZIO
La polizia ha rintracciato e arrestato il 61enne che ieri mattina ha staccato con un morso il lobo dell’orecchio a un uomo nel corso di una lite nell’Ufficio Anagrafe di zona Portonaccio a Roma. E’ accusato di lesioni personali gravissime. Sembra fosse intervenuto per difendere la moglie che stava litigando con quella persona per questioni di fila.
Cinquanta studentesse e studenti, accompagnati dalla storica Elisa Malvestito dell’Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea di Biella-Vercelli e da dieci docenti hanno partecipato, dall’11 al 13 maggio al viaggio studio al campo di concentramento di Mauthausen e al Memoriale di Gusen, in alta Austria. Secondo e penultimo degli appuntamenti finali della 37° edizione del progetto di Storia Contemporanea, il viaggio è stato organizzato dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte.
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Il Danubio, le leggi di Keplero e gli anni giovanili di Hitler
Linz è stata la prima meta del viaggio. Tra le tre città più importanti dell’Austria è anche anche una delle località più conosciute e culturalmente affascinanti dell’Europa centrale. Capitale europea della Cultura nel 2009, annovera tra i suoi cittadini illustri l’astronomo e matematico tedesco Keplero che nel 1618 vi scoprì le leggi che regolano il movimento dei pianeti. Ma la città sul Danubio è nota anche per aver ospitato Adolf Hitler – nato a Braunau, in Alta Austria – quando, negli anni della sua giovinezza, aspirava a diventare un pittore.
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Mauthausen,simbolo dei lager nazisti
A venti chilometri da Linz, Mauthausen rappresenta nell’immaginario collettivo uno dei simboli dei lager nazisti, al pari di Auschwitz. La sua istituzione risale all’8 agosto 1938, alcuni mesi dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista mentre la sua liberazione, per opera delle truppe alleate, data al 5 maggio 1945. Mauthausen era il “campo madre” di un gruppo di una quarantina di strutture concentrazionarie, di diverse dimensioni, sparse in buona parte dell’Austria. Edificata con il granito della sottostante cava, l’incombente fortezza di pietra ricorda nel suo profilo architettonico uno stile orientaleggiante, tanto che i prigionieri ne ribattezzarono la porta d’accesso principale con il nome di “porta mongola”.
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Campo di lavoro e prigionia durante la “grande guerra”
A Mauthausen, già durante la Prima guerra mondiale, l’Impero Austro-ungarico aveva individuato un luogo di internamento e prigionia per quei militari degli eserciti nemici catturati durante i combattimenti sul fronte orientale e meridionale. Anche allora i prigionieri venivano obbligati al lavoro nella cava di granito, utilizzato per la pavimentazione delle strade. Tra il 1914 e il 1918 vi confluirono circa 40mila persone, perlopiù di origine russa, serba e italiana. Di esse almeno novemila vi perirono, tra cui 1.759 nostri connazionali, a causa della fame e degli stenti, anche se il campo di prigionia di allora nulla aveva a che fare con quello che vent’anni dopo venne istituito dai nazisti.
Gli oppositori rinchiusi nella “fortezza di pietra”
La quasi totalità di quanti vennero rinchiusi a Mauthausen tra il 1938 e il 1945 lo fu per ragioni politiche o razziali: la parte restante era costituita da delinquenti comuni, i cosiddetti “asociali” e gli appartenenti ai popoli zingari. Complessivamente i prigionieri furono circa 200mila di cui 50mila polacchi, 40mila sovietici, 40mila ebrei (perlopiù ungheresi e polacchi), 6.781 italiani e 127 donne. Tra l’agosto 1938 e il luglio 1945 (calcolando anche chi perse la vita dopo la liberazione a causa degli stenti patiti) le morti furono 100mila, praticamente la metà di quanti furono internati tar quelle mura. Un numero pazzesco, al quale vanno aggiunti quanti furono sterminati con il gas, nel vicino castello di Harteim e nella camera a gas del lager, dove veniva usato il mortale Zyklon B a base di acido cianidrico (o acido prussico). Altri ancora furono uccisi con il ricorso ai Gaswagen, veicoli sigillati dove i malcapitati erano soffocati dai gas provenienti dai tubi di scappamento.
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La cava e i 186 gradini della “scala della morte”
L’orario di lavoro nel lager era di undici ore.La razione di cibo quotidiana non superava le 1.500 calorie (ma spesso era inferiore), corrispondente a meno della metà di quella necessaria. Le conseguenze erano la fame cronica e la malnutrizione, le malattie e, da ultimo, la morte. Nei primi di anni la durata media della vita degli internati raggiungere i quindici mesi poi, con il passare del tempo, diminuì a sei e, nei periodi più duri e drammatici, a tre. La “scala della morte”collegava con la sottostante cava per l’estrazione del granito. Lungo i centottantasei gradini di questa scala scavata nella roccia della collina, i deportati erano costretti a salire e scendere più volte al giorno, portando a spalla sacchi pieni di massi. Chi cadeva esausto, travolgeva i compagni di sventura con un terribile effetto-domino. Oppure i prigionieri venivano allineati lungo il bordo del precipizio, definito con nero sarcasmo dalle SS come il “muro dei paracadutisti”, costretti a scegliere se ricevere un colpo di pistola o gettare nel vuoto il compagno al proprio fianco. “La cava era là, con i suoi 186 gradini irregolari, sassosi, scivolosi. Gli attuali visitatori della cava di Mauthausen non possono rendersi conto, poiché in seguito i gradini sono stati rifatti – veri scalini cementati, piatti e regolari – mentre allora erano semplicemente tagliati col piccone nell’argilla e nella roccia, tenuti da tondelli di legno, ineguali in altezza e larghezza”. La descrizione resa dal giornalista francese Christian Bernadac, figlio di un deportato, nel suo libro “I 186 gradini o Tra i morti viventi di Mauthausen”, pubblicato nel 1974, rende l’idea di quell’ inferno.
I tre sottocampi di Gusen
I tre sottocampi intorno al villaggio di Gusen, a poca distanza da Mauthausen, denominati Gusen I, Gusen II, Gusen III, costituirono una realtà a sé per l’alto numero di deportati e l’estrema durezza delle condizioni di prigionia e di lavoro. Aperti dal 1939 per lo sfruttamento delle vicine cave di granito, dal 1941 – anno d’installazione del crematorio – vennero avviate le eliminazioni sistematiche di malati, inabili, portatori sospetti di malattie contagiose con bagni di acqua gelida, annegamenti di massa, iniezioni al cuore, gassazioni. Nel marzo del 1944 iniziarono i lavori per la costruzione del campo di Gusen II (St. Georgen). I deportati, oltre a costruire il campo, lavorano allo scavo di un sistema di gallerie entro le quali vengono collocati impianti per la produzione di armi e parti di aerei (Steyr-Daimler, Messerschmitt). In dicembre iniziò la costruzione di Gusen III, destinato alla produzione di laterizi. A Gusen passarono complessivamente 60mila prigionieri, di cui circa tremila italiani. Almeno la metà vi lasciò la vita. Nel tempo il campo di Gusen I ha subito un’alterazione della sua fisionomia, ospitando ora una complesso di abitazioni residenziali. Non vi è più traccia di recinzioni, baracche o altre strutture. Resta riconoscibile, anche se ora è una villetta abitata, l’edificio dell’ingresso e del comando del campo. Il Memoriale venne realizzato grazie alla decisione dell’ANED e di altre organizzazioni di ex deportati – in primo luogo francesi – di acquistare sul finire degli anni ‘50 il lotto di terreno su cui sorge per non disperdere la memoria di quanto accadde. All’interno della costruzione si trova il forno crematorio originale del campo, oggi di proprietà del governo austriaco.
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Cosa resta del viaggio…
Il viaggio, la visita al lager, la condivisione della medesima esperienza in luoghi che hanno segnato tragicamente il ‘900 rappresentano oltre che un occasione per fare memoria uno stimolo per diventare a propria volta testimoni di una delle pagine più orribili della storia moderna, ora che i deportati sopravvissuti sono quasi del tutto scomparsi per ragioni anagrafiche. Il dovere civile di testimoniare serve come antidoto democratico nei confronti di tutte le ideologie malate che tendono a cancellare l’altro, il diverso, negando il pluralismo e qualsiasi forma di rispetto e convivenza. Il principale obiettivo che da oltre quarant’anni impegna il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte nei confronti delle nuove generazioni è quello di contribuire a far sì che non vengano dimenticate le lezioni della storia.
Marco Travaglini