Dall Italia e dal Mondo- Pagina 49

Prva plata, roulette russa in salsa balcanica

L’Obala Meeting Point è  un cinema di Skenderija. Lì, in una serata di fine ottobre di parecchi anni fa, ho assistito alla proiezione di otto cortometraggi realizzati da giovani cineasti bosniaci selezionati nel progetto “Conflitto/Risoluzione”. Le opere erano già state ospitate, un mese prima,  sugli schermi di Torino. Ma vederle a Sarajevo vi giuro che  è stata tutta un’altra cosa. L’evento era promosso nell’ambito delle iniziative collegate alla Tregua olimpica, in previsione dei giochi invernali di Torino 2006. Vi chiederete che cosa sia la “tregua olimpica”. Quello che in greco si dice “ekecheiria” (cioè “le mani ferme”), è un concetto che risale a un’antica tradizione ellenica che prevedeva la cessazione di tutte le ostilità e delle inimicizie durante i Giochi Olimpici. Dunque, tra le tante iniziative, c’era anche questa, mirata a sostenere l’arte e il talento dei giovani bosniaci. In un paese come questo, dove pesano un passato doloroso, un presente difficile e un futuro imprevedibile, è noto a molti che un moto d’orgoglio (motivato) viene offerto proprio dal cinema. Un amico mi ha detto che in Bosnia-Erzegovina sono stati prodotti solo 120 lungometraggi in più di un secolo di cinema ma nonostante questo, ha aggiunto, “siamo in una terra che può vantare registi conosciuti in tutto il mondo come il pluripremiato Emir Kusturica, autore di Underground, il vincitore dell’Oscar 2002 Danis Tanović con No man’s land o la vincitrice dell’Orso d’Oro a Berlino Jasmila Žbanić con il drammatico Grbavica”. .Sembra un paradosso ma non lo è se si prestava un po’ d’occhio e una certa attenzione al lavoro di quei giovanissimi registi, ricchi di fantasia e veramente capaci di comunicare con le immagini. Ragazzi all’epoca poco più che ventenni, formatisi alla scuola di scenografia, cinema e teatro di Sarajevo o in quella di arte cinematografica di Banja Luka. I loro “corti” esprimevano con efficacia straordinaria il racconto del difficile passaggio alla normalità nel lacerato e tribolatissimo dopoguerra balcanico. Che età potevano avere, nei primi anni novanta? Dieci, dodici, quindici anni? L’età degli adolescenti,strappati ai loro giochi e alle fantasie per essere costretti a diventare adulti in fretta e furia. Nelle loro opere s’avvertiva una miscela di eccessi, un amaro sarcasmo e i cenni che non lasciavano nulla all’immaginazione nei confronti della triste realtà che si viveva – e spesso ancora oggi si vive – ogni giorno da quelle parti. In alcuni casi sembrava accantonato, se non addirittura cancellato, ogni riferimento alla speranza. Ma non c’è nulla di cinico in quanto comunicavano. Semmai, questo sì, traspariva un forte disincanto. Non che a colori la crudezza dei fotogrammi sia  più lieve ma è indubbio che in quelli girati con la pellicola in bianco e nero le scenografie sono rese ancor  più livide e angoscianti. Mi colpì, in modo particolare, la prima proiezione. Il titolo, “Prva plata”,equivale, tradotto, a  “Il primo stipendio”. Ilregista , Alen Drljevic , molto giovane e decisamente magro, occhialetti e un accenno di barba sul volto da bravo ragazzo, era un  esordiente con delle ottime idee. Oggi è un affermato regista, già assistente di Jasmila Žbanić , fattosi notare nel 2006 conKarneval, documentario dedicato ai profughi bosniaci e Premio del pubblico alla 18° edizione del Trieste Film Festival, mentre è  uscito “Men Don’t Cry”, una potente e originale pellicola sulle vicende legate a quella che venne definita “la terribile pace” nella terra “del sangue e del miele”. Quelfilmato,che si può trovare anche su YouTube,  dura una quindicina di minuti ed è di una efficacia tremenda. La scena si svolge, com’è ovvio, in Bosnia-Erzegovina, circa otto anni dopo la guerra. In un giro di scommesse illegali è stato organizzato un nuovo modo per far puntare i soldi alla gente: delle gare motociclistiche da disputare su un campo minato, in una specie di roulette russa in salsa balcanica. C’è chi scommette sull’esplosione e sulla morte e chi invece confida nella sua fortuna, perché – in questo caso – l’abilità è un fatto relativo,residuale. Del resto, in un paese dove la maggior parte della gente viveva al di sotto della soglia di povertà, non era cosa difficile trovare dei piloti pronti a gareggiare con la morte per portarsi a casa ” il primo stipendio“. Ricordo di essere uscito dal cinema a sera tarda, dopo le premiazioni, i saluti finali e il cocktail. C’era la  luna a Sarajevo. Una bella luna piena per la gioia degli innamorati lungo la passeggiata che costeggia la riva della Miljacka. A me, forse perché avevo ancora negli occhi i fotogrammi che avevo appena visto, ricordava un passaggio del testo di “Cupe Vampe”… “piena la luna, nessuna fortuna”, rammentando le immagini delle disperate corse notturne di chi era costretto ad uscire di casa,  cercando di non finire nel mirino dei cecchini. Questi ultimi , per il loro tragico tiro al bersaglio, cercavano la complicità dell’astro più cantato dai poeti. Non per declamare versi ma per vomitare addosso a persone ignare e inermi la loro giornaliera razione di odio, terrore e morte.

Marco Travaglini

CASTENEDOLO (BS), PER NATALE ARRIVA LA ‘CAMPANA DELLA NUOVA VITA’

Fusa in Molise dalla ‘Pontificia Fonderia Marinelli’ di Agnone, è dono generoso del bresciano Serafino Di Loreto e del giornalista torinese Maurizio Scandurra. Completa il concerto parrocchiale di cinque sacri bronzi recentemente restaurato. Suonerà per i nuovi nati e in ricordo delle vittime di banche e fisco ingiusti

Era esattamente il 14 dicembre del 2017 quando i media bresciani lanciavano l’appello del parroco di Castenedolo, Don Tino Decca, per raccogliere fondi destinati alla fusione di una sesta campana fuori concerto per il campanile della Chiesa di San Bartolomeo Apostolo. Le cinque campane preesistenti e altrettanto preziose, realizzate nel 1864 nella storica fonderia Giorgio Pruneri di Grosio sono state oggetto di un complesso e lungo restauro compiuto dai valenti artigiani bresciani della Ditta ‘Festoni Campane’ conclusosi proprio durante la festa patronale nell’agosto 2018 con una grande festa. Quel sogno tanto ambito e sentito, dopo un anno esatto, è diventato realtà. Il prossimo 15 dicembre, infatti, nel corso della celebrazione eucaristica delle ore 19, verrà inaugurata e benedetta la ‘Campana della Nuova Vita’. L’occasione è la festa di Santa Lucia, che porta ai bambini i doni nel bresciano. Intonata in ‘sol’ per un diametro di 47 cm e un peso complessivo di 70 chili, il sacro bronzo, come tutti i più pregiati al mondo da oltre mille anni a oggi, è stato realizzato dai Fratelli Armando e Pasquale della omonima e rinomata ‘Pontificia Fonderia di Campane Marinelli’ di Agnone, in Molise, da sempre la più antica e stimata fabbrica di sacri bronzi e arte sacra esistente sul pianeta.

 

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A commissionarlo, l’avvocato, accademico e imprenditore Serafino Di Loreto, famoso per essere stato il primo, in Italia, a battersi in prima linea contro le iniquità del fisco e del sistema creditizio italiano fondando otto anni fa orsono proprio a Brescia la ‘SDL Centrostudi Spa’. E, con lui, il giornalista cattolico e campanologo Maurizio Scandurra, già benefattore di altri luoghi sacri quali, in primis, la Basilica di Maria Ausiliatrice fatta edificare da San Giovanni Bosco, cui ha donato, insieme all’ingegner Cristiano Bilucaglia (il primo ad aver azzerato le bollette di luce e gas, canone Rai e accise incluse), il prezioso candelabro artistico liturgico per il presbiterio in occasione del 150° anno dalla sua Fondazione. “La ‘Campana della Nuova Vita’ nasce per celebrare le nascite. Suonerà ogni qualvolta appenderemo in chiesa un nuovo fiocco rosa o azzurro, ed è dedicata a tutti i piccoli della nostra parrocchia precocemente scomparsi: Francesco Benigni, Diego Grasselli, Giorgio Trombadore, Celeste Frassanito, Fabio Gatta, Bryan Liloni, Pietro e Emanuele Ferrari, Federico Peri, Oladipupo Mubarack. Ringrazio vivamente i donatori: il giornalista Maurizio Scandurra per avere permesso di tagliare questo ambito traguardo. E in special modo il Professor e Avvocato Serafino Di Loreto, quale uomo di territorio genuino, attento e sensibile alle esigenze della propria comunità, conoscendo e apprezzando anche il suo impegno calcistico a favore dei giovani del bresciano”, dichiara Don Tino Decca, anche instancabile promotore del restauro del concerto di sacri bronzi. Aggiunge: “Per realizzare la sesta campana e relativa incastellatura, era stata avviata anche una sottoscrizione, il cui importo sinora raccolto, grazie alla generosità dei due donatori e dei parrocchiani, verrà invece interamente devoluto al Reparto di Oncoematologia dell’Ospedale Civile dei Bambini di Brescia”.  

 

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La campana reca iscrizioni e immagini di alcune fra le figure oggetto di maggior devozione fra i cattolici: a cominciare da Gesù del Sacro Cuore e la Madonna Ausiliatrice, con i Santi Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Bosco, Domenico Savio, San Francesco d’Assisi, San Pio da Pietrelcina e San Pio X, cui è intitolato l’oratorio di Castenedolo. Suonando, essa commemorerà anche le vittime dell’usura bancaria e del Fisco ingiusto, triste piaga dell’Italia moderna e contemporanea, per la cui giustizia mi batto da anni con il mio staff affinché non si ripetano più gesti estremi di autolesionismo”, aggiunge commosso Serafino Di Loreto. La campana -tra i Santi- riporterà anche il logo della SDL Centrostudi SpA, azienda anch’essa donatrice presieduta dal Professor Avvocato Michele Anastasio Pugliese, Presidente anche del Circolo Antico Tiro a Volo di Roma. “Quando un anno fa – ricorda invece Maurizio Scandurra – lessi sui giornali di questa lodevole iniziativa, la esposi subito al Professor Avvocato Di Loreto: che accettò immediatamente, e di buon grado, di condividerla con il sottoscritto, come solo le persone di cuore e vicine al prossimo sanno fare. Fra l’altro, la campana reca in sé un altro grande pregio: suonerà a slancio puro, essendo fuori, fra l’altro pregiato e antico metodo di suono di cui esistono rarissimi esempi in Lombardia, a eccezione della Valtellina ov’é regolarmente in uso”, conclude l’esperto di campane. A imperitura memoria dell’evento, sulla facciata della canonica, accanto a quella che ricorda i restauri del concerto campanario, verrà permanentemente apposta anche una grande targa artistica pregiata, dono generoso nonché opera delle maestranze della ‘Bottega Del Ferro’ di Castenedolo.

Prima edizione di Nervi in Giallo dedicata allo scrittore svizzero Friedrich Glauser

Si è conclusa a Genova Nervi l’8 dicembre, presso l’albergo Ariston, la presentazione di “Nervi in Giallo” dedicata allo scrittore giallista  Friedrich Glauser. Un evento realizzato da Solstizio d’Estate Onlus assieme all’associazione genovese Lameladivetro e alla città di Genova Nervi

 

Relatori:  Tommaso Lo Russo, il presidente de Lameladivetro Franco Andreoni, Stefania Lorusso de Lameladivetro, il farmacista Massimo Beviglia Canè che ha illustrato “Sofferenza  spirituale e farmacologia – il caso Glauser” con accenni al libro autobiografico dello scrittore Morphium, la giornalista Majela Barragan, la storica Marcella Rossi Patrone, il presidente del municipio di Nervi Francesco Antonio Carleo, l’architetto Alessandro Casareto che ha trattato “Il Cabaret Voltaire, Friedrich Glauser e la nascita del Dadaismo”, movimento culturale che pone le basi del Surrealismo di cui ad Alba, in Fondazione Ferrero, è in corso la mostra “Dal Nulla al Sogno”.  Qualche notizia per spiegare il perché della scelta di Genova Nervi. La prima è che il giallista svizzero vi morì 80 anni fa ( 8 dicembre 1938), a villa Goggi, la seconda è che il rapporto fra l’Associazione Solstizio d’Estate e Lameladivetro ha compiuto 11 anni di intensa attività. Un legame consolidato, indissolubile, come non lo sono molti matrimoni. Per certi versi, un legame forte come quello fra Il Piemonte e la Liguria, non solo geografico, ma di assonanza di idee e di cultura che ha anche portato allo scambio di prodotti attraverso una delle tante vie del sale che congiungevano le due regioni e ne ha determinato la nascita della ricetta emblema del Piemonte: la Bagna Caöda. Torniamo a Glauser; secondo Leonardo Sciascia  può ricordare il Simenon di Maigret (che gli è vicino nel tempo); ma, come aggiungeva lo scrittore siciliano, ha ispirato molto Friedrich Dürrenmatt. Sappiamo con certezza che è stato un grande narratore di storie poliziesche, lucido, sottile, affascinante, con una vita  disordinata, inquieta, allucinata, che ha adottato un genere poliziesco tutto suo, per certi versi contraddittorio da apparire una incongruenza, ma è una contraddizione che ci riporta a colui che è stato il padre del poliziesco: Edgar Allan Poe. Diceva Friedrich Glauser “Non sottovalutate il racconto poliziesco: oggi è l’unico mezzo per diffondere idee ragionevoli”. Non sappiamo se lui davvero scrivesse racconti polizieschi per diffondere idee ragionevoli, ma di sicuro la passione dei gialli, thriller e noir è particolarmente diffusa in Italia e all’estero, tanto che  le statistiche sui libri letti registrano questo filone fra letture di maggior interesse, posizionandosi prima del romanzo rosa. Friedrich Glauser (1896-1938), ebbe una vita dolorosa, ribelle e travagliata (soggiorni in ospedali e manicomi, la Legione straniera, carcere ) e una  produzione letteraria tuttavia intensa, tra cui i polizieschi “Il tè delle tre vecchie signore” (1985), “Il sergente Studer” (1986), “Krock & Co”. (1987), “Il regno di Matto” (1988), “Il Cinese” (1988), “I primi casi del sergente Studer” (1989) ,e inoltre, “Gourrama” (1990), “Dada, Ascona e altri ricordi” (1991), “Oltre il muro” (1993), “Morfina” (1995) e “La negromante di Endor” (1999). A Genova Nervi anche la presentazione delle attività per il 2019 di Solstizio d’Estate Onlus, assieme all’associazione genovese Lameladivetro, particolarmente intense sia in Italia che all’estero, Usa compresi e la conclusione di un nuovo appuntamento per Nervi in Giallo; un piccolo seme gettato nella terra e nel mare che produrrà tanti frutti. Se il mondo del crimine diventa una chiave di lettura per  rappresentare, in forma narrativa, il nostro presente, talvolta la realtà supera la finzione e Il giallo diventa una finestra sulla realtà.

Falso dentista evade 600 mila euro

DALLA SICILIA

Aveva allestito uno studio dentistico attrezzato di tutto punto, con tanto di sala d’attesa, poltrona, materiali e strumenti medici per un valore stimabile in 100mila euro. Il locale e le attrezzature sono state sequestrate dalla Guardia di finanza a Nicosia (Enna) . E’ stato indagato un uomo che esercitava abusivamente l’attività di dentista, ma non era iscritto all’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri e non aveva i titoli di legge idonei . Il falso dentista è risultato sconosciuto al Fisco dal 2009. Le fiamme hanno segnalato all’Agenzia delle Entrate un reddito per un ammontare di circa 600 mila euro.

Uomo muore travolto dal camion dei rifiuti

DALLA PUGLIA

E’ morto dopo essere stato investito, mentre si trovava  accanto al suo furgone in sosta in una piazzola di servizio, da un mezzo compattatore della società della raccolta dei rifiuti a Brindisi, sulla superstrada  per Bari. Due furgoni erano fermi, forse per un trasbordo di merce, nella piazzola,  quando è arrivato il pesante compattatore di rifiuti che li ha travolti. La vittima è un uomo della provincia di Bari.

Trieste, il monumento poetico di Saba alla città “dall’aria strana e tormentosa”

Ci sono libri che vale la pena comprare, e ovviamente leggere, nel luogo esatto dove sono nati. Uno di questi è “Trieste”, la perla poetica che Umberto Saba dedicò alla sua città. E il luogo che è giusto e necessario frequentare per acquistare il libro è la Libreria Antiquaria Umberto Saba in via San Niccolò, il “nero antro sofferto” del poeta del Canzoniere nel cuore di  Trieste, città “che in ogni parte è viva”, elegante e mitteleuropea,ricca di una pluralità di  culture e lingue. Lì accanto alla libreria c’è la statua del poeta che pare stia incamminandosi verso la sua porta a vetri. Tra i libri antichi e le storie e gli aneddoti che si possono ascoltare dalla voce di Mario Cerne, che ne ereditò la conduzione dal padre “Carletto”,  storico collaboratore e amico di Saba – se si ha la fortuna di fare la sua conoscenza e farsi una “babada”, che in triestino sta per chiacchierata – c’è davvero da perdere la testa dal tanto ben di Dio che circonda il visitatore. I ricordi del signor Cerne rappresentano un patrimonio culturale a cui è impossibile dare un valore. E se esiste un paradiso per i bibliofili, in questa antica libreria triestina se ne trova senz’altro una parte. Tra volumi e antichi documenti c’è anche la vecchia  macchina da scrivere Olivetti usata da Saba .Tornando al libro, dove la poesia scritta tra il 1910 e il 1912 è stata tradotta in sedici lingue diverse, accompagnate da una serie di bellissime foto storiche, si comprende come Trieste fu per Saba una specie di “ombelico del mondo”, un luogo unico e plurimo, fatto di vie, strade, case, piazze, “ tutte ferite da intensi squarci di cielo e segnate da fenditure di mare”. Ha scritto, tra l’altro, Alessandro Mezzena Lona su Il Piccolo: “Dall’inglese al russo, dallo sloveno al portoghese, dall’olandese al croato, al cinese, al giapponese, senza dimenticare la lingua madre dell’autore, cioè il triestino, questo libro diventa monumento indistruttibile alla Trieste di Saba. Dove ancora si respira quell’aria strana e tormentosa che lo ha nutrito e inquietato per tutta la vita. L’aria di un luogo dell’anima, dove il dolore si lascia illuminare da una scontrosa grazia”. Un atto d’amore dunque, per una città che, scriveva Saba, “se piace,è come un ragazzaccio aspro e vorace,con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore;come un amore con gelosia”.

 

Marco Travaglini

Panico al liceo per lo spray al peperoncino spruzzato da due studenti

DALLA SICILIA

Spray urticante al peperoncino è stato spruzzato stamane da due studenti   in classe durante le lezioni nella prima liceo Classico Garibaldi di Palermo. Insegnante e allievi sono usciti di corsa spaventati. Poi, dopo avere spalancato le finestre, la situazione è tornata alla normalità. La polizia  ha identificato i due alunni. La preside è riuscita a riportare sotto controllo la situazione senza dover chiamare il 118. Presto verranno organizzati  incontri con i ragazzi e i genitori per spiegare i  danni che possono provocare questi gesti irresponsabili.

L’Europa “al contrario” del Medioevo

FOCUS INTERNAZIONALE / STORIA

di Filippo Re

L’Europa nel Medioevo? La sponda ricca del Mediterraneo non era la nostra, quella europea, ma quella meridionale, quella africana. Dalle coste libiche e tunisine non partivano barconi di disperati, di profughi e di migranti economici alla ricerca di fortuna, lavoro e denaro. Il sud non era povero e arretrato e il nord non era sviluppato e prospero come ai tempi nostri. Tutt’altro, i viaggiatori musulmani che sbarcavano nell’Europa cristiana mille anni fa si trovarono di fronte capanne, tende e allevamenti di bestiame, gente povera e incivile che viveva più o meno come i barbari. La civiltà era altrove, la “modernità”, la cultura e l’arte erano a sud in mezzo alle popolazioni arabe, in quel Maghreb oggi alle prese con guerre, povertà, terrorismo e perenne instabilità politica da cui si cerca di fuggire con ogni mezzo. L’Europa di quel tempo era così. Sembrava che gli arabi provenissero perfino da un altro mondo e fossero portatori di sapienza e insegnamento. Per loro il nostro caro continente era solo una terra da conquistare e saccheggiare come accadde con la dominazione musulmana della Spagna e della Sicilia. Un’Europa cattolica incapace di riprendersi, di rimettersi in cammino, prigioniera di sé stessa, come scrive lo storico inglese Chris Wickham, docente di storia medievale a Oxford, nel libro fresco di stampa, “L’Europa nel Medioevo” (Carocci editore), quasi schiacciata a ovest dalla Spagna musulmana e a est dall’Impero bizantino e dal califfato abbaside in Medio Oriente. L’Europa sottosviluppata non piaceva affatto al mondo arabo-islamico, allora più evoluto e potente, che invece aveva un’ammirazione particolare per la Cina imperiale dove tutto era perfetto e in ordine. E che dire delle città europee? A Parigi e a Londra si camminava nel fango ma Damasco, Il Cairo, Tunisi, Palermo e Samarcanda potevano contare su centri urbani già sviluppati e all’avanguardia per quei tempi. Se nella Spagna moresca Cordova contava almeno 300.000 abitanti e figurava come l’ornamento del mondo con sorgenti, terme, canali, palme, aranci, facendo volare il pensiero allo splendore dell’Alhambra, tra arabeschi, fontane, colonne e archi, Palermo era la città magnifica per eccellenza, ricca di palazzi, chiese e moschee, giardini e mercati, una delle più belle del Mare Nostrum. Con un milione di abitanti Baghdad era la metropoli più importante del mondo ed erano i tempi in cui Federico II, l’imperatore siculo-germanico, era un mediatore di sapienza tra mondo islamico e mondo europeo. Cordova primeggiava nella cultura. La biblioteca del califfo al Hakam II conteneva 400 mila volumi mentre la più grande biblioteca europea si doveva accontentare di poche centinaia di libri. Il califfo la abbellì con opere scientifiche e filosofiche della Grecia antica tradotte in arabo e con numerosi scritti di Aristotele, Galeno, Tolomeo e Avicenna. Poi, più avanti nel tempo, dal XII secolo in avanti, le cose mutarono profondamente e l’Occidente prese il sopravvento come viene descritto nel volume di Wickham che fornisce al lettore un’ampia ricostruzione delle relazioni tra il nostro continente e la civiltà musulmana.

 

 

 

Vrbanja, il ponte triste di Sarajevo

Quello di Vrbanja è il ponte più triste della storia recente di Sarajevo. Noto anche come “ponte della morte”, attraversa la Miljacka e  collega il quartiere di Grbavica con quello di Marijin-Dvor. Nel tempo ha cambiato nome e ora è il ponte Dilberović Sučić , dai cognomi delle due donne che vi persero la vita, prime vittime dell’assedio di Sarajevo: una studentessa e una pacifista che vennero uccise da un cecchino proprio lì. La prima aveva genitori bosgnacchi (i bosniaci musulmani), la seconda era croata. Suada Dilberović era nata a Dubrovnik, la Ragusa di Dalmazia, e non aveva ancora ventiquattro anni. Si trovava a Sarajevo per studiare medicina all’università e frequentava il sesto anno quando iniziò il conflitto, nei primi giorni di aprile. Il 5 aprile del 1992 è la data in cui ufficialmente iniziò l’assedio della città di Sarajevo. Quel giorno si svolse un’imponente manifestazione a favore della pace e dell’indipendenza della Bosnia, che era stata appena dichiarata. Radovan Karadžić, lo psichiatra leader dei serbo bosniaci, intervenne in Parlamento e disse che se la Bosnia si fosse resa indipendente dalla Serbia, i serbo bosniaci avrebbero reagito con le armi. Il presidente della Bosnia, Alija Izetbegovic´, gli rispose rivolgendosi a tutti i bosniaci e dicendo loro di stare tranquilli perché non ci sarebbe stata nessuna guerra. Gli studenti, comunque, si radunarono e manifestarono (la memoria di ciò che era accaduto da poco in Croazia era ben viva e il fragore della guerra s’annunciava).

In piazza non c’erano solo bosniaci. Molti avevano raggiunto Sarajevo dalla Serbia e dalla Croazia. Erano tanti e insieme a loro c’era la gente comune. Pare fossero centomila. I cecchini serbi, rintanati all’Holiday Inn (allora sede del Partito Democratico Serbo) aprirono il fuoco causando sei morti e ferendo altre persone. Le prime a essere colpite a morte, sul ponte Vrbanja, furono loro: Suada Dilberović e la trentaquattrenne OlgaSučić. Oggi sul ponte c’è una targa in ricordo di queste vittime innocenti che recita “Kap moje krvi potecˇe i Bosna ne presuši”, cioè ”una goccia del mio sangue scorre e la Bosnia non diventerà arida. In un primo momento il ponte venne nominato Most Suade Dilberović(Ponte Suada Dilberović) per essere successivamente rinominato come Most Suade i Olge (Ponte Suada e Olga). Il 15 novembre 2007 l’Università di Sarajevo ha assegnato a Suada Dilberović la laurea in Medicina alla memoria. Storie di vite offese e storie di amori spezzati, come quella di Admira Ismić e Boško Brkić , due ragazzi come tanti, nati entrambi nel 1968 a Sarajevo. Lei era bosniaca di fede musulmana e lui era serbo bosniaco di fede cristiano ortodossa. Erano fidanzati, si amavano e volevano fuggire dalla città. Il 19 maggio 1993, percorrendo il Ponte Vrbanja, un cecchino aprì il fuoco su di loro. Bosko morì subito, mentre Admira, ferita gravemente, non tentò di fuggire: abbracciò Bosko e attese la morte. I loro corpi restarono sul selciato per cinque giorni, come due moderni e tragici Romeo e Giulietta. Admira e Bosko furono ritratti nell’immobilità della loro morte e divennero il simbolo di quella guerra fratricida. La coppia, in un primo tempo sepolta a Lukavica, un comune della Republika Srpska, è stata portata nell’aprile del 1996 al cimitero del Leone, una collina di Sarajevo, ricoperta interamente di croci dove ora riposano l’uno vicino all’altra. Proprio di fronte alle loro tombe, al di là del muro di cinta del cimitero, c’è il caffè dove i giovani fidanzati si incontravano e s’innamorarono; ai tavolini di quel locale, concordarono il loro piano di fuga per vivere il loro sogno di un amore lontano dalle bombe e dall’odio.

C’è però un’altra targa sul ponte. Vi si legge: “Sarajevo, 2000. Caro Moreno, il tuo sangue e entrato nelle crepe di questa Storia. Sei arrivato in questa umanità sofferente e sei partito beato. E ora dal tuo martirio nascono storie nuove, storie che si concretizzano nella pace.. fino agli estremi confini del mondo..”.  È firmata “Mir (Pace) – Marco F”. La targa ricorda un italiano di 34 anni, Gabriele Moreno Locatelli, originario di Canzo, nei pressi di Como, volontario del movimento Beati i costruttori di pace, ucciso dai cecchini proprio sul ponte di Vrbanja, un anno e mezzo dopo Suada e Olga. Era il 3 ottobre 1993, a Sarajevo. Gabriele Moreno, con altri quattro amici del movimento, era impegnato nella realizzazione del progetto “Si vive una sola pace”. Iniziarono l’attraversamento di quel ponte, si fermarono a metà, inginocchiandosi in preghiera. In un attimo furono investiti dai proiettili dei cecchini. Avrebbero dovuto posare lì un mazzo di fiori, sul luogo del primo morto di quella città ferita dalla guerra dell’odio. Poi sarebbero dovuti andare dai soldati serbi e da quelli bosniaci, offrendo agli uni e agli altri un pane di pace. Lo portarono in ospedale, venne operato due volte e con l’ultimo fiato, prima di morire, chiese agli altri: “Stanno tutti bene?”. Hanno scritto di lui all’Azione Cattolica: “Gabriele Moreno Locatelli è un vagabondo del Vangelo che parte dalla Lombardia e non pianta la sua tenda da nessuna parte, passando per tante esperienze e obbedendo a due sole regole: seguire Gesù e servire tutti coloro che ci passano accanto in questa breve vita”. È una vita straordinaria la sua. Milita nell’Azione Cattolica, studia teologia a Napoli e Friburgo, prova per cinque anni a fare il francescano tra Assisi, Napoli e la Sicilia. Bussa anche alla porta dei Piccoli Fratelli di Gesù, a Spello. Vive tre anni a Parigi, per assistere un prete infermo. All’ingresso della sua casa di Canzo aveva messo una targa con queste parole tratte dal Cantico dei Cantici: “Forte come la morte e lamore”. Pensando di diventare frate francescano – in una comunità particolare che predica il ritorno al rigore delle origini – aveva sperimentato la questua a piedi nudi. Moreno aveva una fede sconfinata ed era mosso da principi saldissimi. Quaranta giorni prima di morire, dalla capitale bosniaca assediata, lanciò un grido in forma di poesia che era una testimonianza con cui cercava di scuotere le coscienze di tutti. Eccola: ”Vi prego, gridate che qui la gente muore di granate, di snajper (cecchini), di malattie ma anche di paura, angoscia, disperazione perché non c’è pace, non c’é pane e l’inverno arriva e nessuno crede che non li abbiamo dimenticati. Vi prego, gridate”. Scrissero ancora di lui, all’Azione Cattolica: “Cosi se ne va questo cristiano vagabondo, che a forza di cercare il Signore in ogni terra ha finito con lincontrarlo a metà di un ponte proibito”. Ho percorso molte volte quel “ponte proibito” che ora non è più tale. La prima volta non avevo fiori freschi ma volevo comunque lasciare qualcosa, in segno di rispetto, sulle lapidi e sulla targa del ponte: ho sistemato dei rametti di rosmarino e foglie di menta che ho trovato in un orto lì vicino. Il profumo e l’azzurro-violetto del fiore del ricordo e tutte le virtù di una pianta che ricresce e fiorisce anche nelle condizioni più avverse.

Marco Travaglini

 

“UNA CAMPANA PER LE VITTIME DI BANCHE E FISCO INGIUSTI”

Si chiama ‘Campana della Nuova Vita’, suona nota Sol, ha un diametro di 47 cm e pesa 70 kg. Fusa dalla ‘Pontificia Fonderia Marinelli’ di Agnone, in Molise (dall’anno 1000 la prima e più antica fabbrica di campane al mondo), è stata donata per celebrare le vittime di banche e fisco ingiusti, ma anche tutti i bimbi precocemente scomparsi. Suonerà, a partire dal 15 Dicembre 2018, dall’alto del campanile della Chiesa Parrocchiale di Castenedolo (BS).

Un dono prezioso, desiderato, appassionato e generoso dei fedeli devoti Maurizio Scandurra (giornalista, critico musicale e benefattore) e Serafino Di Loreto. Quest’ultimo, stimato Avvocato, Accademico e imprenditore, Fondatore di SDL CENTROSTUDI SPA, primaria realtà italiana nella lotta alle iniquità dell’erario e delle banche, è autore anche di una profonda riflessione sul rapporto di autenticità che lega campane e vita. Le parole toccanti e sentite di Di Loreto: “È innegabile che la campana rappresenti un simbolo: una sorta di vessillo, come può esserlo una bandiera. Emerge subito però la considerazione che la campana è qualcosa di più. E non solo perché non è unicamente una stoffa variopinta ed è fatta di materiale pregiato (il bronzo) fuso in uno stampo preventivamente lavorato per fare emergere la rappresentazione artistica (immagini e scritte) a futura, imperitura memoria. Ma una campana rappresenta qualcosa di più, anche perché oltre a farsi vedere e notare come farebbe una bandiera, si fa anche sentire con i suoi rintocchi che sono un forte richiamo, non solo per le orecchie: ma anche per il cuore, la mente e lo spirito. La campana ci dà protezione, e infatti ci chiama a “coorte” con i suoi rintocchi a martello quando vi è un’emergenza. Così come ci avvisa che un caro amico se n’è andato quando lancia i suoi lenti e ritmati rintocchi, ma ci dice anche che è festa e che dobbiamo gioire quando lo scampanio è brillante nel ritmo. Una campana oltre a evocare il punto di raccolta e di difesa ci parla: e noi siamo tutti figli suoi. La campana è un simbolo, ma anche una portatrice di emozioni e di informazioni: e ricorda a tutti che abbiamo un’unica radice cristiana che ci accomuna, e se non sempre nel fatto di essere praticanti quanto meno dal punto di vista storico e culturale…e quindi per ricordare a tutti noi da dove venivamo. Ecco perché una campana: una comunità non può non avere una campana: una comunità ha bisogno di una campana! La campana come simbolo: fusione di religiosità, umanità, arte e aspirazioni. Ma questa campana possiede una cosa in più perché contiene il ricordo per i piccoli fratelli prematuramente scomparsi che non vogliamo dimenticare e che affidiamo alle braccia del Signore; questa campana è nata anche per dare speranza per tutti coloro che hanno dovuto subire ingiustizie e prevaricazioni personali nonché finanziarie (quali l’usura) per rimettere i propri debiti ai poteri forti e senza scrupoli. Questa campana è la testimonianza che la libertà dalla prevaricazione è un diritto umano e divino. L’usura infatti è l’applicazione di interessi illeciti: nessuno dovrebbe chiedere ad un altro essere umano interessi per il solo fatto che passi il tempo (e tanto meno esorbitanti ed usurari): solo Dio creatore immutabile di ogni cosa avrebbe il diritto di chiedere a noi umani e cristiani il dovuto per il tempo che passa…e non lo fa! E se ciò non lo chiede l’Altissimo, certi comportamenti non possono essere una prerogativa di qualche usuraio che si traveste da spacciatore legalizzato di crediti. È questa una campana speciale; una campana che rappresenta il momento di incontro di una comunità che lancia nel cielo un grido di speranza“, conclude commosso Serafino Di Loreto.