Dall Italia e dal Mondo- Pagina 26

I fantasmi di Trieste

Trieste, ricca di storia sul crinale carsico e crocevia di frontiere contese, è la città più settentrionale del Mediterraneo e più meridionale della Mitteleuropea. Una città “luogo dei luoghi”, protagonista dei racconti “I fantasmi di Trieste”(Bottega Errante Edizioni, 2018). L’autore, Dušan Jelinčič, giornalista della RAI e alpinista, uno degli scrittori italiani di lingua slovena più autorevoli e apprezzati, traccia una personale mappa della memoria che si intreccia con vicende misteriose e “fantasmi”. Come ogni città con un passato importante, complesso e sofferto, Trieste si porta addosso i segni di ferite mai rimarginate e di irrisolti conflitti. I luoghi di questo percorso con ampi tratti autobiografici – Jelinčič a Trieste ci è nato e vive in una casa del primo Carso, ai bordi dell’altipiano affacciato sul golfo che si apre davanti al porto e alla piazza Unità d’Italia – s’intrecciano con le persone, i protagonisti di queste storie.

Nei racconti prendono corpo immagini della città vecchia, del tram di Opicina – che sale fino all’omonima frazione sull’altipiano del Carso – e dei rioni di San Giacomo, San Giovanni e San Giusto. Si sente quasi l’odore salmastro del mare e il fischiare della bora, si possono immaginare le onde che s’infrangono sul molo Audace dove nel 1914 ( quando si chiamava ancora molo San Carlo) attraccò la corazzata “Viribus Unitis”,nave ammiraglia della marina Imperiale con a bordo le salme dell’Arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, uccisi nell’attentato di Sarajevo. Sullo stesso molo, quattro anni più tardi, giunse il cacciatorpediniere “Audace” della marina italiana. Era il 3 novembre del 1918, finiva la prima guerra mondiale e la nave che diede il nuovo nome a quella lingua di terrà in mezzo al mare, vi sbarcò un battaglione di bersaglieri. Oltre al paesaggio fisico ci sono i luoghi dell’anima e le storie di personaggi veri, come nel caso di Diego de Henriquez che morì la sera del 2 maggio del 1974 nell’incendio del suo magazzino, dove dormiva solitamente coricato dentro una bara di legno, portando con se i suoi segreti. Un personaggio straordinariamente singolare, triestino erede di una famiglia di ascendenza nobiliare spagnola, raccoglitore di ogni genere di materiale bellico e ideatore del Civico Museo della Guerra per la Pace. La sua morte lasciò molti dubbi e forse, come fa supporre il racconto di Jelinčič. Diego de Henriquez ricopiò in due dei suoi diari, prima che venissero cancellate, le scritte lasciate dai prigionieri nelle celle della Risiera di San Sabba, lo stabilimento per la pilatura del riso che i nazisti trasformarono in lager. Morì a causa di questo,vittima di un incendio doloso? Cercando tra le voci e le scritte dei morti della Risiera venne a conoscenza di verità scomode sull’unico campo di sterminio in Italia?Cosa aveva scoperto?I nomi dei collaborazionisti triestini,qualcuno divenuto poi una figura rispettata della comunità locale? Aveva dato un volto a chi, denunciando i suoi concittadini di religione ebraica, aveva contribuito a toglierli di mezzo, arricchendosi? Volti che riappaiono, come fantasmi, assumendo le sembianze in un altro racconto di un anziano seduto sul tram di Opicina che assomiglia come una goccia d’acqua ad un volto che si intravede in una foto di cinquant’anni prima accanto a Odilo Globocnik,il nazista calato a Trieste per fare della Risiera un luogo di morte. Jelinčič, nei suoi racconti parla anche delle sfide calcistiche allo stadio Grezar, intitolato al mediano triestino che perì con tutto il resto della squadra del Grande Torino nella tragedia di Superga, del vecchio bagno asburgico “La lanterna”, più noto come “El Pedocin” ( il piccolo pidocchio) dove un  muro lungo 74 metri e alto tre divide tra uomini e donne la spiaggia di ciottoli bianchi. E’ lì che l’autore, in gioventù, fece l’amara scoperta di essere considerato con disprezzo uno “sciavo”, in quanto sloveno di Trieste. Ci sono poi le storie dove il protagonista è James Joyce, che visse a lungo in città, completando la raccolta di racconti Gente di Dublino, diverse poesie oltre al dramma Esuli e ai primi tre capitoli de l’Ulisse, il libro che gli diede fama internazionale. In uno dei luoghi più belli della città, il Ponterosso che attraversa il Canal Grande, nel quartiere teresiano, un monumento in bronzo raffigura lo scrittore irlandese mentre cammina, assorto nei suoi pensieri, con un libro sottobraccio e il cappello in testa. La targa, riprendendo la “Lettera a Nora” del 1909, recita: “la mia anima è a Trieste”. Joyce, parafrasando Dušan Jelinčič, fa parte dei “fantasmi gentili”, come lo psichiatra Franco Basaglia che iniziò dal San Giovanni di Trieste la rivoluzione che portò all’abolizione degli ospedali psichiatrici con la legge 180. “La libertà è terapeutica”, venne scritto sui muri bianchi di quella “città dei matti” che rinchiudeva dietro le sbarre, con un “fine pena mai” chi era segnato dalla malattia. Grazie a Basaglia Trieste diventò la città del riscatto di tante persone, come nel caso di Olga, una “ex matta” che racconta la sua storia all’autore. I ricordi vagano e s’imbattono in Julius Kugy, l’alpinista che aveva cercato ovunque sulle alpi Giulie la Scabiosa Trenta, rarissimo fiore delle alpi slovene. Guardando l’immagine della piantina incollata su una pergamena ingiallita, la descrisse così: “..ecco la graziosa creatura di luce, sul calice d’argento finemente merlettato, vestita di bianco splendente, trapunta di tenere antere d’oro! Non era ormai una piantina, era una piccola principessa del paese dei sogni”. Kugy si era fatto costruire un organo che suonava personalmente nella chiesa di via Giustinelli. Una chiesa di proprietà della comunità armena, data in affitto ai cattolici di lingua tedesca e oggi semi abbandonata, esempio di degrado e incuria. In fondo è proprio Trieste,città di grande tradizione europea e crogiuolo di etnie, ricca di contraddizioni e oscuri sensi di colpa che si racconta in questo libro. E Dušan Jelinčič, con la sua scrittura coinvolgente, ne amplifica la voce.

Marco Travaglini

Un goccio d’assenzio per brindare alle tombe dei poeti

noteboomNooteboom racconta, prima di tutto,  la storia di una comunità, mettendo in fila 83 omaggi a altrettanti autori, 83 pensieri raccolti di fronte alla loro ultima dimora. Lo scrittore ha così visitato le tombe dei grandi scrittori e filosofi che lo hanno segnato, raccogliendo quello che, dietro una lapide di marmo, un monumento bizzarro, un’epigrafe toccante o l’incanto di un’atmosfera, hanno ancora da raccontare

La maggior parte dei morti tace. Per i poeti non è così. I poeti continuano a parlare“. Per questo Cees Nooteboom, scrittore e giornalista olandese, nel corso di trent’anni di viaggi per il mondo “raccontando” fatti e vicende (come cronista, ha seguito come testimone tre momenti cruciali del secondo Novecento: l’invasione di Budapest nel 1956, la contestazione del Maggio francese nel 1968 e la caduta del muro di Berlino nel 1989), ha raccolto le storie contenute in un libro anomalo, intitolato “Tumbas. Tombe di poeti e pensatori “, edito da Iperborea.  Nooteboom racconta, prima di tutto,  la storia di una comunità, mettendo in fila 83 omaggi a altrettanti autori, 83 pensieri raccolti di fronte alla loro ultima dimora. Lo scrittore ha così visitato le tombe dei grandi scrittori e filosofi che lo hanno segnato, raccogliendo quello che, dietro una lapide di marmo, un monumento bizzarro, un’epigrafe toccante o l’incanto di un’atmosfera, hanno ancora da raccontare. Perché, come scrive “ comunicano a ognuno qualcosa di personale e accompagnano diversi momenti della nostra vita, innescando con noi un dialogo intimo al di sopra dello spazio e del tempo”.

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Dal cimitero parigino del  Père-Lachaise dove “dimorano” Marcel Proust e Oscar Wilde alla pittoresca collina napoletana  di Piedigrotta che ospita Leopardi, dalla cima del monte Vaea, nelle isole Samoa, dove è sepolto Robert Louis Stevenson, a Joyce ed Elias Canetti al camposanto zurighese di Fluntern in Svizzera. Sempre nella patria di Gugliemo Tell cìè la “dimora eterna” di Vladimir Nabokov, al Clarens di Montreux, sulla “riviera Svizzera” del lago di Ginevra mentre quella di Calvino si trova a Castiglione della Pescaia, Melville in un angolo sperduto del Bronx, e Kawabata nel suo Giappone; Keats e Shelley accanto a Gregory Corso nel romantico cimitero Acattolico di Roma; Brecht a due passi da Hegel a Berlino est; Brodskij insieme a Ezra Pound nell’immobile incanto dell’isola veneziana di San Michele, e il Montparnasse di Baudelaire, Beckett e Sartre, a cui ha scelto di unirsi anche Susan Sontag. Un libro bello, dalla copertina stupenda ( la più bella del 2015, secondo Tuttolibri) che riporta una foto scattata da Simone Sassen, compagna delo scrittore olandese: una bottiglia d’assenzio sulla tomba di Cortàzar. Ogni tomba è un lampo sul mondo dello scrittore che la occupa, rievocando una poesia, un frammento di vita o di libro, ispirando folgoranti riflessioni e inattesi collegamenti, in un appassionante pellegrinaggio indietro e avanti nella storia della letteratura e del pensiero, che con Nooteboom diventa una meditazione poetica sull’uomo, il tempo e l’arte. Mentre a ogni pagina cresce il desiderio di andare a leggere e rileggere le opere dei suoi cari immortali. Magari sorseggiando un goccio di  “fata verde”, quell’assenzio che è stato cantato come il liquore dei poeti maledetti.

 

Marco Travaglini

 

La tragedia dei greci del Ponto

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re
Non solo gli armeni ma anche i greci che vivevano nei territori dell’Impero ottomano finirono molto male durante la Prima guerra mondiale. Sono i cristiani del Ponto, circa 350.000 greci ortodossi, che vennero sterminati sulle rive del Mar Nero tra il 1914 e il 1923 nel nome della nuova Turchia laica, quella di Ataturk e del famigerato triumvirato formato da Enver Pascià, Talaat Pascià e Djemal Pascià che stava nascendo sulle ceneri dell’Impero ma che voleva essere etnicamente e devotamente pura, compatta e soprattutto libera da cristiani e da altre fedi non islamiche. Per lo stesso criminale obiettivo era già in corso lo sterminio degli armeni e dei siriaci, oltre un milione e mezzo, massacrati nei territori dell’Impero turco tra la fine dell’Ottocento e il 1924. Ma mentre il genocidio turco degli armeni è diventato un evento ormai ben noto a tutti, della tragedia greca si conosce ancora troppo poco oltre i confini della stessa nazione. A cent’anni di distanza la Grecia commemora l’eccidio con libri, convegni e manifestazioni mentre la Turchia, esattamente come nel caso del genocidio degli armeni, nega ogni accusa. Fu l’apostolo Andrea a evangelizzare la comunità del Ponto che si era insediata lungo le sponde del Mar Nero, da Trebisonda a Ordu, fino a Sinope, mille anni prima dell’era cristiana. Gli abitanti del Ponto divennero cristiani e bizantini e sotto l’Impero ottomano godettero per secoli di una relativa tolleranza così come accadde per altre minoranze non musulmane. Ma all’inizio del Novecento la situazione cambiò drasticamente. Con il ritorno di nazionalismi esasperati e con lo scoppio della Grande Guerra le persecuzioni turche e le violenze contro i cristiani, accusati di essere al servizio delle potenze straniere interessate e coinvolte nello smembramento dell’Impero, si fecero sistematiche e brutali. I cristiani erano diventati, da un giorno all’altro, nemici interni da abbattere. E così iniziò lo sterminio di oltre 350.000 cristiani greci su circa 700.000 che vivevano sul Mar Nero. I sopravvissuti, meno della metà, riuscirono a fuggire in Grecia. Uomini, donne, bambini, autorità locali, poveri e ricchi, furono giustiziati o morirono durante lunghe ed estenuanti marce forzate da città e villaggi. Centinaia di case furono incendiate o rase al suolo per cancellare ogni traccia della presenza cristiana. Qualcuno scampò con molta fortuna alle stragi e grazie ai racconti dei superstiti è stato possibile ricostruire le tragiche vicende dei profughi greci del Ponto. Film, documentari, libri e altre iniziative per ricordare l’antica cultura pontica sono fiorite in tutta la Grecia per testimoniare quanto accadde cento anni fa. Non mancano interviste a storici e ricercatori, programmi televisivi che rispolverano le antiche tradizioni della comunità greco-ortodossa e testimonianze dei discendenti dei sopravvissuti che narrano la storia della propria famiglia. Come la giornalista e scrittrice Maria Tatsos che, dopo un’accurata ricerca storica, ha scoperto che sua nonna era una profuga e che la sua famiglia paterna fu costretta con la forza ad abbandonare la regione del Ponto dove era nata, la terra del filosofo Diogene e del re Mitridate. Lo racconta nel libro “La ragazza del Mar Nero” (Paoline editrice) ricordando che solo da adulta scoprì di discendere da un popolo vittima di una delle prime “pulizie etniche” del Novecento. Quando negli anni Venti le nuove autorità repubblicane decisero che la Turchia doveva essere totalmente musulmana, la sua famiglia cristiana dovette abbandonare tutto e fuggire immediatamente. “La storia di mia nonna, sarta di professione, scrive Maria Tatsos, è una goccia nel mare di un’immane tragedia. Questo libro vuole essere un tributo alla memoria, per non dimenticare e per capire quanto siano simili le tragedie di ieri a quelle di oggi. Ma è anche un inno alla speranza, perchè anche i nostri nonni o bisnonni, in altri momenti della storia, sono stati profughi, immigrati e stranieri e, se hanno fatto fortuna in terre lontane, è perchè qualcuno ha offerto loro un’opportunità”. Se già dagli anni Novanta la Repubblica greca ricorda a maggio questi terribili eventi, la Turchia del super presidente Erdogan si ostina a negare tali fatti storici e a considerare il maggio del 1919 come l’inizio della guerra di liberazione del territorio turco dalle potenze straniere intervenute per porre fine all’Impero dei sultani. L’atteggiamento di Ankara su questo argomento non fa altro che inasprire i rapporti, già molto tesi per tante altre questioni, tra turchi e greci che a volte arrivano perfino a sfiorare uno scontro armato.

Bimbo di due anni trovato morto. Si cerca il padre

DALLA LOMBARDIA
Un bimbo di 2 anni è stato trovato privo di vita in un appartamento alla periferia di Milano, con evidenti segni di violenza. I soccorsi sono stati chiamati dal padre, ma all’arrivo della polizia era presente solo la madre, una donna croata di 23 anni. Le indagini si stanno concentrando sull’uomo, un 25enne italiano, al momento non  reperibile.

DA BRESCIA IN DONO A CASCIA LA ‘CAMPANA DELLA RINASCITA’

L’annuncio nel giorno di Santa Rita del sacro bronzo frutto della sensibilità della Parrocchia bresciana di San Bartolomeo di Castenedolo. Sarà fusa dalla rinomata ‘Pontificia Fonderia Marinelli’ di Agnone, in Molise

CASTENEDOLO (BS), Lì 22 Maggio 2019 – Il giorno tradizionalmente dedicato alla memoria liturgica di Santa Rita quest’anno porta con sé un inatteso regalo per gli abitanti di Cascia, paese natale della Santa delle cause impossibili.

‘Una campana fa un popolo’, recita un antico adagio. Un sacro bronzo pregiato e prezioso, del diametro di ben 50 cm, nota Sol Bemolle e 80 chili di peso, finemente decorato e ornato: è questo il dono appassionato e generoso della Parrocchia San Bartolomeo Apostolo di Castenedolo (BS) alla Parrocchia di Cascia, funestata dal sisma del 2016.Un’iniziativa fortemente sentita e voluta dal Parroco, Don Tino Decca, che per le campane nutre un’affezione speciale, e subito sposata con evidente entusiasmo dall’intera comunità bresciana. Quel tragico 24 Agosto, giorno del terremoto, mentre a Cascia dormiente la terra tremava, da noi erano invece in corso i gioiosi festeggiamenti di San Bartolomeo Apostolo, nostro Santo Patrono“, ricorda don Tino. Che aggiunge: “Immediatamente, appresa la notizia del disastro, il pensiero volò al dramma dei cari fratelli del Centro Italia. Così nacque l’idea della campana, come segno di ideale comunione dei cuori dei fedeli cristiani legati tra loro attraverso quei rintocchi antichi che, ogni giorno, ci ricordano di Dio“. Racconta ancora il prelato: “Contattato il Pievano don Renzo Persiani Parroco della Parrocchiale Collegiata di Santa Maria della Visitazione irrimediabilmente colpita dal sisma, lo incontrammo con alcuni giovani del nostro Oratorio ‘San Pio X’ che si prodigarono fin da subito per promuovere iniziative volte a sostenere la popolazione di Cascia, raccogliendo la generosità dei fedeli di Castenedolo. Ne è nato un sodalizio rafforzatosi di giorno in giorno, grazie anche all’interessamento in loco di don Canzio Scarabottini, Pro-Rettore del Santuario di S. Rita in Roccaporena di Cascia, e del consigliere comunale Piero Reali”.Gli fa eco Davide Anselmini, della Parrocchia donatrice e Coordinatore del progetto: “Questa campana è storia della Provvidenza. Quando, insieme al giornalista e designer Maurizio Scandurra – Testimonial della Pontificia Fonderia Marinelli cui ne abbiamo affidato la realizzazione – ci siamo trovati per studiarne il bozzetto grafico, spontaneamente abbiamo deciso di dare evidenza ai Santi Sociali: da San Luigi Guanella, che per la prima volta nella storia troverà posto su una campana, a San Giovanni Bosco, San Giuseppe Benedetto Cottolengo, a San Giuseppe Cafasso”.

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Riprende poi entusiasta Anselmini: “Con in più i Santi Bresciani Paolo VI, Faustino e Giovita, in segno di riconoscenza ai protettori del nostro territorio, il nostro Patrono San Bartolomeo, San Michele Arcangelo, la Divina Provvidenza e la Madonna che scioglie i nodi, in ossequio alla devozione tanto cara al nostro amato Papa Francesco”. Conclude Maurizio Scandurra: “Con gioia mi ritrovo a collaborare nuovamente con gli amici fraterni della Parrocchia di Castenedolo, con i quali realizzammo a Dicembre 2018, grazie anche alla sensibilità del noto avvocato bresciano e benefattore Serafino Di Loreto, la ‘Campana della Nuova Vita’, splendido esemplare di bronzo a firma Fonderia Marinelli che suona per le nuove nascite e in ricordo dei tanti bambini saliti al cielo prematuramente”. Per poi continuare: “La ‘Campana della Rinascita’, così battezzata come inno alla speranza e alla ricostruzione, pensata appositamente per Cascia, si pone in ideale soluzione di continuità con la prima di Castenedolo: un documento di bronzo che ricorda come tutto è possibile all’uomo che confida soltanto nel Signore, come insegna San Paolo Apostolo. Un raffinato monumento sonoro affidato, come per tutte le importanti ricorrenze, alla comprovata e ineguagliabile esperienza della tradizione ultramillenaria della ‘Pontificia Fonderia di Campane Marinelli’ guidata dai cari e stimati Fratelli Armando e Pasquale: artigiani unici, come il resto della loro famiglia, con un cuore pulsante nel segno della fede, dell’arte e della bellezza senza tempo dei loro preziosi manufatti da sempre apprezzati in ogni angolo del mondo”. La ‘Campana della Rinascita’ verrà benedetta e consegnata, nel corso di una solenne celebrazione che sarà presieduta da sua Eccellenza il Vescovo della Diocesi di Spoleto-Norcia Monsignor Renato Boccardo, alla presenza delle autorità locali e religiose, il prossimo 15 Settembre, giorno della ricorrenza di Santa Maria della Visitazione, Patrona della cittadina umbra.

 

Giornata mondiale delle api:  Slow Food lancia la campagna Slow Bees

Il 20 maggio, in occasione della Giornata mondiale delle api, Slow Food lancia la campagna internazionale “Slow Bees”. Obiettivi dell’iniziativa: difendere gli impollinatori e assicurare maggiore eco e visibilità alle minacce che colpiscono le api, gli altri insetti impollinatori, le piante e la biodiversità.

Circa il 75% delle coltivazioni alimentari dipende dall’impollinazione animale. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), oggi le colonie di api sono soggette a livelli di estinzione che sono da 100 a 1000 volte più elevati del normale. La responsabilità? Dell’uomo e dall’uso e abuso di pesticidi in agricoltura. Per far fronte a questi dati allarmanti, in occasione della Giornata mondiale delle api, attivisti, comunità e Condotte Slow Food pianteranno arbusti o alberi biologici da fiore per offrire alle api un nutrimento privo di pesticidi. Una mobilitazione lanciata a livello globale tra tutta la rete della Chiocciola e non solo: chiunque può partecipare, piantando fiori e alberi biologici e condividendo il lavoro fatto sui propri canali social usando gli hashtag #onetreeforahive, #plantoneforpollinators e #slowtreesforbees. «Siamo convinti che parlare e far conoscere il mondo di api e impollinatori sia il segreto per osservare, conoscere, misurare e proteggere la biodiversità, mettendo in primo piano le conoscenze tradizionali riguardanti le pratiche agricole sostenibili. Non possono esserci impollinatori sani senza un numero sufficiente di fiori biologici per tutto il periodo vegetativo: ecco perché è fondamentale agire adesso!» commentano gli apicoltori Jennifer Holmes (Florida), Terry Oxford (California) e Guido Cortese (Italia), coordinatori delle attività di Slow Food per la Giornata mondiale delle api. Simbolicamente, il 20 maggio alcuni rappresentanti di Stati membri dell’Unione Europea si incontreranno per discutere l’attuazione degli standard per la valutazione della tossicità, ovvero il Bee Guidance Document elaborato dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) già nel 2013, e che comprende anche la proposta di protocolli più adeguati e cautelativi  in caso di valutazione dell’autorizzazione di nuove molecole. Questi infatti non sono ancora stati adottati in tutta Europa e si persevera con le farse pseudo-precauzionali, per l’ostinata opposizione degli Stati membri dell’Ue e delle filiere agrochimiche. Per completezza di informazioni, aggiungiamo che l’Efsa ha applicato appieno le nuove norme solo nella valutazione dei tre neonicotinoidi (imidacloprid, clothianidin e thiamethoxam), vietati in Unione Europea nel 2018. Finora, i governi nazionali europei non hanno applicato le linee guida dell’Efsa in tutte le altre decisioni riguardanti i pesticidi. Per questo Slow Food chiede che queste linee guide vengano adottate al più presto e fa parte di una coalizione di organizzazioni della società civile che chiedono a chi detiene il potere di salvare le api e una maggiore trasparenza nel processo di valutazione del rischio. Qualche giorno fa si è svolta in diverse città europee un’azione congiunta: apicoltori e organizzazioni ambientaliste hanno consegnato una petizione firmata da più di 230.000 europei ai ministri nazionali dell’Agricoltura in 7 capitali europee, chiedendo di migliorare il modo in cui l’Unione testa i nuovi pesticidi. Il gruppo locale di apicoltori e attivisti Slow Food ha rivolto tali richieste al ministro delle politiche agricole, alimentari, forestali e del turismo Marco Centinaio chiedendo al governo italiano di proteggere davvero le api dai pesticidi tossici. Slow Food teme che, in assenza di regole precise, continuino a essere usati molti pesticidi letali per le api e che altri vengano messi in commercio, rendendo inutili i tanto celebrati divieti europei sui neonicotinoidi dell’anno scorso. Slow Food sa bene che, per salvare le api, l’Unione Europea deve bandire tutti i pesticidi letali per questi insetti, non solo tre oggi vietati.

Emiliano Racca interviene al convegno di Marcon (Venezia) su ‘Identità regionali ed autonomia solidale’

Si è tenuto sabato 18 maggio, all’Antony Palace Hotel di Marcon, comune
della Città Metropolitana di Venezia, il convegno ‘Le identità regionali
protagoniste dell’autonomia solidale’
Ad organizzarlo erano il Patto per
l’autonomia del Veneto e il Patto per l’autonomia friulano. All’iniziativa
hanno preso parte esponenti di partiti e movimenti autonomisti di Veneto,
Alto  Adige,   Lombardia,   Toscana   (in   teleconferenza)   e   Piemonte.   E   il
segretario/tesoriere   del   Comitato  Autonomia   Piemont,   Emiliano   Racca
cuneese (che è componente del coordinamento di presidenza con Carlo
Comoli, torinese e Massimo Iaretti, monferrino) ha preso parte alla tavola
rotonda, moderata da Luigi Bacialli, direttore di rete Veneto ed Antenna 3:
‘Quali   strategie   per   l’autonomia   dei   popoli   ?   Progetti   e   soluzioni   per
riformare l’Europa’, insieme a Roberto Agirmo, presidente del Patto per
l’autonomia   Veneto   ed   Herbert   Dorfmann,   europarlamentare   della
Sudtiroler   Volskpartei.   Racca   ha   spiegato   l’esperienza   piemontese   del
Comitato, nato verso la fine del 2018 dall’incontro di alcuni movimenti
politici e culturali del mondo dell’autonomia (che mantengono comunque
la loro identità) avvenuto in occasione della comune presa di posizione
contraria al passaggio alla Lombardia della Provincia del VCO, sottoposta
alla   consultazione   referendaria.   Racca   ha   evidenziato   che   il   Comitato
Autonomia Piemont intende superare i pregiudizi e le contrapposizioni
esistenti nel mondo autonomista che in passato hanno spesso fatto da freno
all’idea autonomista, guardando invece avanti verso una Europa rinnovata,
dei   popoli   e   delle   regioni.   E   in   questo   senso   intende   promuovere   la
costituzione di una Consulta dei popoli del Piemonte che riconosca al suo
interno le varie culture, piemontese, occitana, franco-provenzale, walser,
esistenti   nel   territorio   subalpino,   peraltro   già   prevista   dallo   statuto   del
Movimento Progetto Piemonte. Il Comitato Autonomia Piemont, inoltre,
sta   attivamente   collaborando   con   alcuni   Comitati   contro   le   fusioni   di
Comuni in Piemonte e ha organizzato sul tema un convegno a Quagliuzzo
nel   torinese.   E   intende   chiedere   al   nuovo   presidente   della   Regione
Piemonte ed al nuovo Consiglio Regionale, non appena sarà insediato, una
modifica della legge regionale sulle fusioni in senso più rispettoso della
volontà dei cittadini.

Precipita nel vano ascensore e muore

DALLA SICILIA
Un pensionato, ingegnere di 72 anni è morto ad Agrigento dopo essere precipitato nel vano ascensore di  un centro commerciale. La procura ha aperto un’indagine per omicidio colposo, al momento contro ignoti,  e ha disposto l’autopsia. Le immagini della  videosorveglianza mostrano l’uomo mentre si avvia verso la porta di servizio dello stabile che conduce all’ascensore. Sono già stati ascoltati i responsabili della società incaricata della manutenzione dell’ascensore. Gli investigatori hanno appurato che l’ascensore verrebbe usato soprattutto come montacarichi, poiché al primo piano dell’edificio si accede dall’esterno, da una rampa dove c’è  un parcheggio.

Autonomisti a Venezia

Sabato 18 maggio, all’Antony Palace Hotel di Marcon, comune della Città Metropolitana di Venezia, si tiene un convegno sul tema de ‘Le identità regionali protagoniste dell’autonomia solidale’, organizzato dal Patto per l’autonomia del Veneto e dal Patto per l’autonomia friulano. All’importante convegno prende parte anche una delegazione del Comitato Autonomia Piemont, guidata dal segretario/tesoriere, Emiliano Racca (che è componente del coordinamento di presidenza con Carlo Comoli e Massimo Iaretti), il quale prenderà parte, nel pomeriggio alla tavola rotonda ‘Quali strategie per l’autonomia dei popoli ? Progetti e soluzioni per riformare l’Europa’, insieme a Roberto Agirmo, presidente del Patto per l’autonomia Veneto, Erik Lavelaz, presidente dell’Union Valdotaine, ed Herbert Dorfamann, europarlamentare della Sudtiroler Volskpartei. A moderare sarà il direttore di Rete Veneto e Antenna 3, Luigi Bacialli. Seguirà un’altra tavola rotonda su ‘Autonomia estesa a tutte le regioni: i vantaggi economici e giuridici’ con il consigliere regionale del Patto per l’autonomia Friuli, Massimo Moretuzzo, il costituzionalista Daniele Trabucco, l’economista Gian Angelo Bellati e l’avvocato Luca Azzano Cantarutti.
 

Lungo la rotta balcanica

Viaggi compiuti spostandosi solo con mezzi pubblici, per incontrare e dare voce ai vissuti di donne e uomini, protagonisti loro malgrado di una delle più tragiche pagine della storia dell’umanità del nostro tempo
 

Lungo la rotta balcanica” è il racconto di un viaggio sulla principale porta d’ingresso all’Europa e per la quale sono transitate oltre un milione di persone. Anna Clementi, operatrice e mediatrice linguistico-culturale presso il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati di Venezia, ha vissuto per alcuni anni in Siria e in Palestina. Diego Saccora opera all’interno del sistema di accoglienza del Comune di Venezia nell’ambito dei minori stranieri non accompagnati e da tempo è impegnato nel promuovere iniziative a favore dei giovani in Bosnia Erzegovina. Insieme hanno scritto questo libro importante, pubblicato da Infinito Edizioni. Due viaggi. Il primo, nel 2015, dall’Italia alla Grecia, da Venezia a Idomeni, in direzione “ostinata e contraria” del flusso dei migranti.L’altro,un anno dopo, attraverso Slovenia,Croazia,Serbia, Macedonia, Grecia, Albania e Kosovo. Viaggi nel fango dei campi profughi, in mezzo a donne e bambini incatenati dalla burocrazia; tra le reti e i muri che hanno reso di nuovo l’Europa un continente diviso e ostile; tra sogni che s’infrangono contro la dura realtà fatta di respingimenti e di campi di raccolta in Grecia e in Turchia e in qualunque altro Paese non faccia parte dell’Unione europea. Viaggi compiuti spostandosi solo con mezzi pubblici, per incontrare e dare voce ai vissuti di donne e uomini, protagonisti loro malgrado di una delle più tragiche pagine della storia dell’umanità del nostro tempo.

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Questo libro, come scrive il giornalista Lorenzo Trombetta, che vive e lavora in Libano dal 2005, dove è uno dei due corrispondenti per l’ANSA dal Medio Oriente,“si inserisce nello sforzo di raccogliere quante più storie possibile perché rimangano oltre la cronaca destinata all’oblio. Perché nessuno merita d’essere dimenticato”. Viaggi lungo la “balkan route”, fuggendo dal dramma del conflitto siriano, da fame e guerra, violenze e assoluta negazione di ogni futuro. Persone che impiegano anni che sembrano secoli in questo doloroso peregrinare. Storie di chi proviene da Bab Amro, uno dei sobborghi che fino al 2011 era tra i più depressi di Homs, terza città del Paese e polo industriale della Siria prima del conflitto. Di chi di dal 2012 è stato costretto a vivere in tende e catapecchie tra Tripoli, in Libano, e il confine siriano. In patria erano imbianchini, artigiani, tassisti, operai. Alcuni avevano possedevano terreni, tutti avevano la casa di proprietà. Avevano una dignità e riuscivano ad arrivare a fine mese. Ora gioiscono, e discutono, perché uno di loro è riuscito ad arrivare vivo all’altro capo del mondo – nei paesi scandinavi come la Svezia che appare quasi come la terra promessa – pagando poco più di cinquemila euro. Ogni storia ne apre altrettante, innumerevoli, infinite.Disperderle, dimenticarle equivarrebbe ad un misfatto insopportabile, intollerabile. Quindi vanno raccontate, oltre alla cronaca che dura lo spazio di un fotogramma, di qualche riga su un quotidiano. Si possono costruire altri muri, raddoppiare il filo spinato ma i confini non possono fermare chi è disperato, trascorre notti e giorni all’addiaccio, nei campi, sotto la pioggia, con poca acqua e scarso cibo. “Lungo la rotta balcanica” racconta, con lucida intensità, la forza e la dignità di questi “esiliati” che esercitano il diritto di attraversare i territori alla ricerca di una speranza, dopo aver voltato le spalle a guerre, rapine e violenze.

Marco Travaglini

 

Le foto sono di Paolo Siccardi, giornalista e fotoreporter free-lance torinese