CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 650

Con Fazio e senza Giletti questa è la Rai Tv

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Il cambiamento non sempre riesce a premiare. Neppure in Tv dove le rendite di posizione sono molto frequenti e il pubblico in parte e’ fidelizzato.  Il  passaggio dalla rete  3 alla 1 di Fabio Fazio che scherzosamente a Savona chiamano il Fazioso ,si sta rivelando un flop,malgrado Fabio costi tantissimo alla Rai. Fabio e’ il tipico personaggio adatto a Rai 3 e al pubblico di quella che fu Telekabul. Sono ex comunisti che nell’intimo sono rimasti tali e sono caratterizzati da un antiberlusconismo epilettico ( uso l’aggettivo di Emilio Lussu adoperato per gli anticomunisti ) e in precedenza da un rifiuto  viscerale di Craxi considerato un social – fascista .Fazio e la sua degnissima compagna di scena Luciana  Littizzetto, reginetta torinese  delle volgarità e delle banalità più stupide, hanno il loro pubblico che li ama e li segue. Sono lo zoccolo duro di cui parlava Occhetto. Oltre non vanno. Il pubblico di Rai 1 che può avere mille altri difetti ,non accetta l’untuosa faziosita ‘ del Savonese e le chiacchierate scurrili e piene di bile della  ineffabile Lucianina piemontarda nell’accento e poco urbana nei modi. Non ci voleva molto a capirlo. Forse adesso sia Fazio che la Littizzetto e la loro compagnia “selvaggia e matta”, anche se molto conformista e legata al cachet come massimo valore, sono diventati renziani e forse non piacciono neppure più  al loro zoccolo duro. Un altro errore di Rai1 e’ aver allontanato Massimo Giletti,un professionista serio,capace,libero,una sorta di antiFazio . Io lo apprezzo dal tempo in cui era studente al liceo d’Azeglio di Torino e  non si fece intruppare nella contestazione . La sua “Arena “era un ‘arena di dibattito libero in cui si ponevano domande coraggiose e per molti ardue .Ne usciva fuori la pochezza della classe politica odierna . A Giletti si doveva imporre la mordacchia . Le due sorelle Parodi sono piacevoli ma sono visibilmente fragili e si comportano come pesci fuor d’acqua. Anche il pomeriggio domenicale di Rai1 e’ un insuccesso. Giletti e’ un uomo coraggioso,un giornalista incredibilmente  bistrattato dall’Ordine dei Giornalisti ,malgrado sia ,come si dice oggi, uno con le palle , cioè con  una sua autonomia di giudizio.La tv di Stato non ha saputo tenerselo, ma il pubblico continuerà a seguirlo come merita. E’ uno dei pochi torinesi che tenga alto con orgoglio il nome di Torino senza scadere nel provincialismo. Anche solo per questo motivo una rarità .

 

quaglieni@gmail.com

Se l’avvocato di successo entra in conflitto con le proprie radici

La cena è una cena. Di solito tra amici. Di solito tranquilla, allegra, un’occasione per lasciare a casa ufficio, problemi, mugugni e affondare una serata nelle risate. Ma non sempre è così. Il teatro e il cinema sembra che di recente facciano a gara nello spremere proprio quelle occasioni per tirarne fuori i succhi più amari. Magari cominciando ad accendere gli ingranaggi con un espediente quasi (o senza quasi) stupido e banale, come la scelta del nome da affibbiare al nascituro (Le prénom, rivoltato poi sotto i cieli di mezzo mondo) o quella di mettere in tavola con le differenti portate anche il proprio cell per vedere davanti a tutti l’effetto che fa (Perfetti sconosciuti). Oppure, partendo da un solo bicchiere di vino, accapigliarsi nella ricerca di mettere una toppa al bisticcio feroce dei due figli delle coppie in questione (Carnage). Magri espedienti che tuttavia negli esempi citati possono dare il via a confessioni e a distruzioni. Ha senza dubbio motivazioni più forti, serie e attualissime la cena che a poco a poco si profila all’orizzonte di Disgraced/Dis-crimini con cui lo Stabile torinese ha aperto la propria stagione al Carignano nei giorni scorsi. Il testo (tradotto da Monica Capuani) appartiene alla penna di Ayad Akhtar, di radici pakistane ma da sempre negli Stati Uniti, vincitore del Pulitzer nel 2013 e di altri premi per questa vicenda a quattro (più il giovane nipote del protagonista colpevole d’accendere la miccia) che vede un avvocato di successo in lotta con le proprie radici e gli insegnamenti che fino a quel punto l’hanno segnato; sua moglie, “bianca, flessuosa e incantevole”, artista newyorkese di quelle che cominciano ad annusare l’aria del successo e innamorata della cultura islamica, un agente/critico/affarista ebreo, che ragiona con rabbia di rapporti israelo/palestiniani e si tranquillizza con le doti artistiche e con il corpo dell’artista, la di lui moglie, afroamericana, che non troverà di meglio che far le scarpe al collega avvocato e sistemarsi come meglio non potrebbe nella buona società. La regia del tedesco Martin Kušej entra perfettamente nelle psicologie dei personaggi, ne scava gli intimi rapporti, divide la vicenda per capitoli intervallati da lunghe zone buie, come tutto il resto inondate da un commento musicale ossessivo, setaccia le parole e i movimenti, tende all’astratto asciugando la scena (di Annette Murschetz, un’immagine certo non uno sviluppo) di ogni elemento per ridurla ad una angolare parete bianca, sporcata di tanto in tanto dalla padrona di casa con insignificanti scarabocchi, e ad uno scricchiolante – per le camminate e gli assaggi sessuali dei protagonisti – pavimento nerastro di carbone. Inevitabilmente ogni cosa muta, come in uno specchio ormai deformato, niente sarà più come prima, gli assurdi convenevoli sulla porta di casa e l’elenco delle portate sanno di estrema assurdità. Ogni cosa inevitabilmente si sporca, nella realtà come nel luogo mentale che si è costruito attorno ai dialoghi, gli attori soprattutto, chiamati a una fatica non da poco, che alla fine si libera con gli applausi, visi e mani e gambe impiastricciati, in questo sconcerto di cambiamenti che nasce dalla lotta, dalle belle maniere in via di distruzione, dalle regole che non possono più essere le stesse. Forse tutto appare volto all’eccesso, ma si può anche essere d’accordo con una simile lettura che raccoglie nell’intimo di ciascuno le parole dell’autore, che universalizza, spingendoci a farle più nostre, a rimodellarle, a ripensarle.  Al centro della scena e della serata si pone un’altra convincente prova di Paolo Pierobon, con lui egualmente provati Fausto Russo Alesi, Anna Della Rosa, Astrid Meloni e il giovane Elia Tapognani.

 

Elio Rabbione

 

Daniel Trifonov apre la stagione dell’Unione Musicale

Alle ore 21, l’Unione Musicale di Torino inaugura la Stagione concertistica 2017-2018 con il recital del pianista russo

È una bella storia quella di Trifonov e dell’Unione Musicale: nel 2011, a soli vent’anni, appena distintosi con un terzo premio al Concorso Chopin di Varsavia, Trifonov viene invitato a Torino per un concerto della serie Fuori i secondi! che l’Unione Musicale dedica ai non-vincitori di concorsi internazionali. Nell’arco di tempo tra il contratto di scrittura e la data del concerto, però, Trifonov si aggiudica il primo premio sia al Čajkovskij di Mosca sia al Rubinstein di Tel Aviv, due fra i più importanti concorsi pianistici al mondo, trovandosi così improvvisamente proiettato sulla scena internazionale. Da allora il giovane pianista originario di Nižnij Novgorod, nel cuore della Russia europea, non si è più fermato, stregando con la sua arte le platee di tutto il mondo. Di lui Martha Argerich ha detto: «Non ho mai sentito nulla di simile: la sua tecnica è scintillante e il suo tocco riesce a essere dolce e demoniaco allo stesso tempo» mentre il “Financial Times” ha osservato che «Non c’è da stupirsi se ogni capitale europea è alla sua mercé: ciò che lo rende un tal fenomeno è la qualità estatica che dà alle sue esibizioni». Un talento, una sensibilità musicale fuori dal comune, che rapisce l’ascoltatore per l’impressionante virtuosismo tecnico e per il totale controllo della tastiera, così come per l’estrema varietà del suono, ricco di infinite sfumature. Il programma del recital di ottobre è un omaggio al genio romantico di Chopin e segue l’uscita del doppio album di Trifonov intitolato Chopin Evocations (Deutsche Grammophon, ottobre 2017): una vera e propria immersione nella musica del compositore polacco e nelle suggestioni che essa ha generato in altri autori. La prima parte si apre e si chiude con brani che nascono da temi chopiniani tratti dai Preludi n. 7 e n. 20 op. 28: dapprima le Variazioni su un tema di Chopin, che rivelano l’universo sonoro del compositore catalano Federico Mompou e per finire le monumentali Variazioni op. 22 di Rachmaninov che, come afferma lo stesso Trifonov, «rappresentano una sintesi del Romanticismo: l’incontro tra l’eleganza di Chopin e la passionalità di Rachmaninov». Tra queste due opere, alcuni brevi brani dedicati a Chopin tratti da alcune raccolte di Schumann, Grieg, Barber e Čajkovskij. Nella seconda parte il tributo a Chopin prosegue con uno dei brani emblematici dello stesso compositore polacco: la Sonata in si bemolle minore op. 35. È una sorta di «poema della morte», composta intorno al 1839, a seguito di un’idea musicale che Chopin aveva concepito ben due anni prima, all’epoca del soggiorno a Nohant nel castello della compagna George Sand e al culmine di un periodo terribile per il compositore, sopraffatto dal timore per il peggiorare delle sue condizioni di salute. Questa idea tematica originaria è la celebre Marcia funebre che precede quindi gli altri tempi in senso cronologico e funziona da punto di equilibrio nell’organizzazione e nello sviluppo di tutta la Sonata.

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Poltrone numerate, euro 30

in vendita online su www.unionemusicale.it e presso la biglietteria dell’Unione Musicale

ingressi, euro 20 e riduzioni per i giovani fino a 21 anni in vendita il giorno del concerto presso il Conservatorio dalle ore 20.30

Giansone, sculture da indossare

FINO AL 29 GENNAIO 2018

Si dice fosse uomo e artista “schivo e indipendente”. Lontano anni luce dai codificati parametri delle mode (“le vere opere d’arte – scriveva – restano sempre contemporanee”) e dei linguaggi stilistici più in voga del tempo, Mario Giansone (Torino 1915 – 1997) fu pittore e scultore di singolarissima personalità

Sordo ai richiami e alle lusinghe delle “sirene” che non fossero carne della sua carne e voce del suo istinto, rifiutò perfino di prendere parte alla Biennale di Venezia del ’66 e disse “no” (si racconta) all’invito di Peggy Guggenheim – invito che avrebbe fatto fare tripli salti mortali ad altri suoi colleghi – che gli chiedeva un’opera per la sua collezione lagunare. Certamente fu uno dei più grandi scultori italiani del ‘900. Molto apprezzato in vita – fu anche docente all’Accademia Libera di Belle Arti e all’Istituto Statale d’Arte di Torino, oggi Liceo artistico “Aldo Passoni” – ebbe pure una significativa fortuna collezionistica in particolare nella Torino degli Anni ’60: alcune sue opere fanno oggi parte delle collezioni della GAM (la subalpina Galleria Civica d’Arte Moderna), della sede Rai di Torino (sua la scultura di “Santa Cecilia” realizzata per l’Auditorium) e di alcune prestigiose collezioni private torinesi. Eppure, dopo la morte, inspiegabilmente il filo della notorietà che in vita lo aveva legato ben stretto agli ambienti artistici della sua città sembrò quasi spezzarsi. O quanto meno allentarsi. E anche in questo senso fu artista di stampo assolutamente singolare, Giansone. Celebre in vita, quasi dimenticato dopo la scomparsa. La bellissima mostra che in Sala Atelier, Palazzo Madama dedica oggi ai suoi gioielli in oro è dunque un tributo doveroso e intelligente alla memoria di un artista che, in tutta la sua vita, ha scolpito, disegnato e dipinto seguendo emozioni e percorsi spirituali tradotti in forme sospese fra “sintetica figuratività” e “astrazione pura”. Curata da Marco Basso e dall’amico-collezionista Giuseppe Floridia, la rassegna – inserita nell’ambito di “Torino Design of the City”– mette insieme una quarantina di opere (in gran parte di proprietà dell’“Associazione Archivio Storico Mario Giansone”, più alcuni pezzi prestati da collezioni private) datate fra il 1935 e il 1997 in cui spiccano i suoi “gioielli”, veri e propri “gioielli da indossare”: microsculture fuse in oro che, accanto a disegni e sculture in metallo e pietra, mettono spesso in evidenza un altro grande amore di Giansone, quello per il jazz. Che fu tema ispirativo di opere imponenti (mirabili nel rapporto fra “vuoti” e “pieni” e nella definizione di effetti luminosi di magica suggestione), come l’ “Orchestra jazz” in porfido del ’67 o l’incantevole bronzo su pietre di fiume “Ideogramma del jazz” del ’58, stesso anno della tempera su cartone “Pianista e orchestra jazz”. Motivi che troviamo anche incisi o riportati in rilievo in molti dei suoi preziosi monili (collane, anelli, girocolli, bracciali), in cui l’artista si sforza sempre di porre in risalto la componente plastica, più che vezzi e cifre stilistiche dell’arte orafa del tempo. A dirlo sono anche i contenitori lignei degli stessi gioielli – “scatole” intagliate in legni durissimi come il mogano, il palissandro, la radica e soprattutto l’ebano – che diventano a loro volta piccole sculture e capolavori artistici. A tentare Giansone e a metterlo a faticosa prova, armato di scalpello e sgorbia, è infatti soprattutto la “materia dura”, il marmo o la pietra o il ferro o i legni più tenaci, in cui scavare e sottrarre per arrivare a quella che lui definiva “scultura diretta”, capace di “dare forma e vita alle sue emozioni, alla sua visione dell’umanità, dell’universo e dell’ultraterreno”. E perfino alla sonorità e alle improvvisazioni tipiche della musica jazz. Sensazioni. Emozioni forti che sarà possibile sperimentare, in misura ancor più intensa, visitando lo studio di Mario Giansone ( in via Messina 38 a Torino), che, in occasione della mostra a Palazzo Madama, resterà eccezionalmente aperto per visite guidate a prenotazione obbligatoria fino al 20 gennaio del prossimo anno, tutti venerdì e sabato alle 17,30 e alle 18,30 (ad esclusione dei giorni 8, 9, 22, 23, 29 e 30 dicembre); inoltre, in occasione di “Artissima”, lo studio sarà visitabile dal 3 al 5 novembre con orario prolungato, dalle 10 alle 19,30. Info e prenotazione obbligatoria: tel. 011/4436999 oppure didattica@fondazionetorinomusei. It.

Gianni Milani

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“Giansone. Sculture da indossare”

Palazzo Madama – Sala Atelier, piazza Castello, Torino, tel. 011/4433501; www.palazzomadamatorino.it Fino al 29 gennaio 2018

Orari: lun. – dom. 10/18; chiuso il martedì

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Nelle immagini

– Mario Giansone: “Orchestra jazz, 5 tempi di sviluppo”, porfido, 1967 

– Mario Giansone: “Bracciale, placca fissa con ideogramma del jazz”, oro, fusione a cera persa, contenitore in ebano intagliato

– Mario Giansone: “Pianista e orchestra jazz”, tempera su carbone, 1958

– Mario Giansone: “Ideogramma del jazz”, bronzo su pietra di fiume, fusione a cera persa, 1958

– Mario Giansone:”Bracciale con ideogramma del jazz”, oro, fusione a cera

 

 

 

 

Il pittore della borghesia e delle bellezze femminili (con un pizzico di scandalo)

Si spense la sera del 14 gennaio 1938 Giacomo Grosso, acclamatissimo cantore della buona borghesia torinese, e non soltanto, il ritrattista per antonomasia delle signore bene, degli industriali come Vittorio Tedeschi, degli scultori come Calandra e dei pittori come Delleani e dei grandi musicisti come Verdi, delle nudità femminili che negli anni addietro avevano fatto scandalo. Aveva lasciato sul cavalletto un nuovo ritratto del generale Badoglio, a cavallo, il bozzetto di una delle eminenze italiane, lui che avrebbe pittoricamente tramandato i visi seri e di circostanza dell’assassinato Umberto, multimedagliato, del regnante e giovanile Vittorio Emanuele e della regina Elena, incoronata, un po’ troppo impettiti, un po’ freddi, seppur scenograficamente perfetti, seppur, lei, invidiabile in quel tripudio di specchi e consolle nella pelliccia e nel suo raso azzurro, vaporizzato a riempire la base della tela. Era nato a Cambiano, nel torinese, quasi settantotto anni prima, in una famiglia di undici figli, da un padre, Guglielmo, falegname e da una madre, Gioanna Vidotti, “setaiola, che però non lavora dovendo badare a una famiglia numerosa”, come ci informa Gian Giorgio Massara nel suo intervento all’interno del bel volume edito da Silvana Editoriale e da Albertina Press che accompagna nel cuore della mostra Giacomo Grosso, una stagione tra pittura e Accademia, curata con caparbia passione da Angelo Mistrangelo e inaugurata nei giorni scorsi in quattro diverse sedi (fino al prossimo 7 gennaio).

Un’esistenza che potrebbe prendere le mosse, anche se per interposta persona, da quel Giacomo adolescente sorpreso dodicenne da Cosola in veste di chierichetto, che attraversa stagioni di assoluta povertà, di “disperante miseria” – come anche ricordava De Amici in una breve biografia del 1906: “Il genio del celebre pittore piemontese germinò e fiorì nella miseria… campavano di stenti e pativano spesso la fame” -, che è accettato in differenti seminari, con tanto di punizioni e di sottrazione di una scatola di colori che gli era utile per i primi esercizi, che entra, grazie all’intercessione di Andrea Gastaldi, nelle sale dell’Accademia Albertina, a sostenerlo la somma di trecentosessanta lire annue che sotto il titolo di pensione gli fa pervenire il sindaco di Cambiano, Michele Rocco, che arrotonda ripassando con il colore ingrandimenti fotografici dovuti a Giuseppe Vanetti, che ha lo studio in piazza Vittorio, compenso cinque lire ciascuno. Poi i primi premi, il primo mecenate che lo ospita addirittura a Roma con tanto di atelier nel palazzo del Quirinale, i primi viaggi all’estero, l’insegnamento (mantenne la cattedra di Pittura per 46 anni) e lo studio presso l’Albertina, Grand’Ufficiale della Corona d’Italia, senatore del Regno, a due anni dalla scomparsa una personale presso il salone de “La Stampa” che in quindici giorni raccoglie oltre 120.000 visitatori.

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Quale secondo appuntamento di quell’itinerario che è “I Maestri dell’Accademia Albertina”, inaugurato l’anno scorso con Gastaldi e destinato a proseguire, oggi Torino dedica a Grosso questa mostra in cui sono raccolte cento opere. Dicevamo in quattro differenti sedi. Con gli inizi di una attività posti nella sala del Consiglio del Palazzo Comunale di Cambiano, dove s’ammira l’impressionistico Favorito, sguardo ravvicinato tra una elegante ragazza e il suo azzurrognolo pavone o gli autoritratti giovanili, la vivacità di quella vetrina realissima di peperoni carnosi nei loro colori rosso e giallo e d’uva piena di riflessi o quel Pater Noster che pecca già oltre misura di finzione, subito riscattato dai ritratti della madre e del padre, umanamente immediato dentro la semplicità dell’abito e della poltrona che lo accoglie, le dite intrecciate di quelle mani che per l’intera vita hanno lavorato il legno, omaggio autentico di un figlio. Nelle sale dell’Albertina, inserendosi quasi a fatica tra le abituali collezioni, inquadrando per se stesse spazi color crema nell’azzurrino che siamo soliti visitare, ritroviamo la concretezza di certi ritratti di amici pittori, certi angoli romani o di Venezia, le nature morte che allineano ciliegie o un tripudio di ostriche e anguille e un grosso pesce ammirato e “fotografato” su un banco di qualche antico mercato. O quei funghi che sono un fornitissimo pantone di tinte marrone, raccolti soltanto ieri in val di Susa. O la naturalezza di una verza, polposissima, gigantesca. O la tranquillità della Sera che avanza in quel borgo che sale su per la montagna, dove dentro stanno tanti nomi di colleghi piemontesi. O quel capolavoro che da solo meriterebbe la visita, quella Figura di monaca, di verghiana memoria o forse manzoniana, senza ricciolo in bella mostra ma con quegli occhi che lasciano intravedere un’ombra di sottile perfidia e di complicità. Ritroviamo – con un bell’avamposto fotografico che sono le immagini delle modelle nella loro completa nudità ad opera di Ferdinando Fino, una vetrina di fotografie autocrome stereoscopiche, ovvero il 3D odierno, che ci riportano all’interno dello studio dell’artista, stanza preziosa curata da Fabio Amerio – La nuda, esempio perfetto di procace bellezza muliebre, immersa a guardare lo spettatore nel bianco immenso di una pelliccia d’orso, capace già di scandalizzare e di scombussolare gli ingessati signori del tempo (mai quanto Il supremo convegno alla Biennale veneziana del 1895, momento altamente funebre ed erotico di cinque donne attorno alla bara dell’antico amante, occasione degli strali di Papa Sarto, vendicato di quel peccato da un incendio che a New York, con la sua stima di 150.000 dollari, lo ridusse in cenere.

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Furoreggiano nelle sale della Fondazione Accorsi-Ometto non soltanto i ritratti di anonime ragazze intente a leggere le ultime indiscrezioni nel giornale arrivato da Parigi (Amusant, vivace, l’allegria di un momento rubato) ma pure quelli delle signore della buona borghesia, delle celebrità dell’epoca, espressioni ormai incastonate, che a volte peccano di una fissità che le rende vittime del déjà vu, del ripetuto esercizio di stile, pronte tuttavia a reclamare maggiore attenzione in quegli abiti di sfrontata eleganza, accurati, risplendenti nella soavità delle stoffe, negli abbinamenti dei colori, nel tatto soffice delle pellicce, nei ricami, nei veli, immediatamente comparabili con due esempi della Sartoria Devalle messi in mostra. È la rappresentazione di un microcosmo, il ritratto di un’epoca, il sospetto di un certo decadentismo, di una perfezione che da qualche parte nasconde un più o meno piccolo tarlo, di un volume di bellezze che ci prepariamo a sfogliare, esempio perfetto di un mondo scomparso (già non pochi contemporanei rimproveravano a Grosso di non voler ricercare nuove strade nella pittura). Freddezza ed esercizio talora, forse: tuttavia non possono escludere una totale ammirazione il Ritratto di signora del ’18 o quello che ci tramanda il viso di Eleonora Guglieminetti Vigliardi Paravia o La pensierosa, quello impertinente di Luisa Chessa (1903) o in ultimo il Ritratto della signora Carriè che ci fa apparire Giacomo Grosso assai “moderno” nel suo modo di interpretare la figura. In ultimo, a conclusione dell’intero percorso della mostra, fate un salto nella Corte medievale di Palazzo Madama (fino al 23 ottobre) e lasciatevi trasportare dalla bellezza della sensuale Ninfea (1907), incastonata in quella barocca Cornice d’alcova che arredava all’Albertina lo studio del Maestro e che possiamo ritrovare come scenografia a parecchie sue opere.

 

Elio Rabbione

 

 

Le immagini:

 

Mio padre, olio su tela, 1887, Accademia Albertina

La nuda, olio su tela, 1896, GAM, Torino

Ritratto di Eleonora Guglielminetti Vigliardi Paravia, olio su tela, 1919. coll. privata

Amusant, olio su tela. 1881, coll. privata

Colombo e Fo tra giganti storici e guitti da palcoscenico

IL COMMENTO 

di Pier Franco Quaglieni

La festa torinese per Dario Fo meritava di essere ignorata: un’apologia acritica condita in salsa grillina, anche se Grillo ha dato forfait . La vera Torino non c’entra nulla con Fo che semmai simpatizzò con le frange estreme della contestazione e del terrorismo a cui predispose un “Soccorso rosso” insieme a Franca Rame che invece venne eletta senatrice a Torino nella lista di Di Pietro. La Messa cantata celebrata al “Carignano” dal figlio Jacopo e da Carlin Petrini e’ uno sperpero di soldi pubblici, se si considera il taglio di 80 milioni ai bilanci comunali. E’ prezzo pagato al grillino Fo che, dopo esser stato fascista repubblichino e comunista sovversivo, diventò seguace di Grillo. Ovviamente della sua militanza repubblichina ne’ Jacopo ne’ Carlin hanno parlato perché ,malgrado una sentenza dica il contrario, Dario Fo sarebbe stato un infiltrato antifascista tra i militi della Rsi, come sostenne falsamente il diretto interessato. Ovviamente il fatto che gli venne, senza meriti sufficienti e adeguati , conferito il Premio Nobel ha posto la sordina sul vero Fo che magari fu anche un guitto divertente, ma non ebbe mai la statura minima per poter aspirare al Nobel. A un anno dalla sua morte, Torino non aveva comunque motivo e giustificazione per celebrarlo , mentre ignora grandi torinesi vivi come Piero Angela e Guido Ceronetti che hanno compiuto 90 anni. Fo , Jacopo e Carlin meritavano il silenzio stampa, mentre gli articoli si sono sprecati.

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Ma il processo a cui ha partecipato Jacopo Fo che ha comminato la damnatio memoriae – cioè l’ergastolo della storia – a Cristoforo Colombo ,obbliga a scriverne. Dario Fo nel 1963 scrisse una commedia dal titolo “Isabella, tre caravelle e un cacciaballe” in cui Colombo venne accusato di crimini infami : assassinio, schiavismo, sfruttamento, rapine ecc. Fo padre era un giullare e poteva essere preso non sul serio il figlio invece pretende di sostenere l’accusa in un processo a Colombo con argomentazioni storiche. Avevano già iniziato gli americani, nell’opera di demolizione, accanendosi contro il monumento dello scopritore del loro Continente. Adesso si aggiunge Fo che dimostra di non capire che quando si tenta di fare storia non la si deve leggere con gli occhi di oggi. La storia di fine 1400 va contestualizzata nella sua epoca che certo non fu un’età mitica dell’oro ,ma un periodo storico di ferro ,di sangue e di fuoco, come , in verità , quasi tutte le epoche storiche ,in primis, il ‘900 rivoluzionario comunista così amato dai due Fo e da Petrini. Jacopo Fo ha paragonato Colombo a Totò Riina. Un parallelo demenziale che abbisogna di confutazioni. Insieme a Lutero, Colombo e’ il padre dell’età moderna; egli è andato oltre le Colonne d’Ercole ed ha cambiato la storia del mondo. Ha fatto una rivoluzione decisiva come Galileo. E’ sicuramente comprensibile che Jacopo Fo non riesca a districarsi in un labirinto fatto di giganti e non di guitti. E scriva di Colombo definendolo “cane rognoso”. Una versione che piace ai grillini, soprattutto ai colti Di Maio e Di Battista, che hanno lasciato gli studi, con la scusa di applicarsi alla politica .

quaglieni@gmail.com

Mario Soldati e la camelia rosso ciliegia chiazzata di candido bianco


Mario l’aveva portata da Tellaro a Corconio, dalla frazione più orientale del comune di Lerici, nello spezzino, dove aveva scelto di vivere i suoi ultimi anni, al luogo che, forse, più di altri, aveva lasciato un segno, una traccia indelebile nel suo animo, sulla collina che guarda il lago d’Orta. La “General Coletti” era una camelia bella, forte e rigogliosa, con i suoi grandi fiori doppi, a peonia, rosso ciliegia intenso chiazzato a macchie di un bianco candido, puro. L’aveva curata con le proprie mani, pazientemente, con l’attenzione necessaria che si presta ad una creatura apparentemente fragile e delicata. Così l’aveva portata con sè, sul lago d’Orta. Tornare in quel luogo dove aveva vissuto, con il suo più caro amico, “l’altro Mario”, un lungo momento magico, tra l’autunno del 1934 e la primavera del 1936 “quando il destino ci appaiò, ci assecondò nella scelta di un volontario esilio sul lago d’Orta”, si era rivelata una buona idea. Anche portare in dono la camelia agli eredi delle due sorelle Rigotti, l’Angioletta e la Nitti, che all’epoca gestivano l’alberghetto dove dimorarono, era stata un’ottima e gradita intuizione. La locanda non c’era più e il suo posto era stato preso da un’abitazione privata che, però, aveva mantenuto intatta la fisionomia dello stabile. Lì, entrambi, quasi adottati da quella famiglia, misero radici e vissero intere stagioni alloggiando in “una stanza d’angolo, la più bella e più soleggiata dell’albergo, con una finestra a nord e una a ovest”. I ricordi erano come un fiume in piena. Le lunghe chiacchierate davanti al fuoco del camino, mangiando castagne arrosto o bollite, bevendo il vino nuovo nelle ciotole, si accompagnavano alle pagine che vennero scritte, ai libri che presero forma, agli articoli e ai saggi critici che consentirono loro di racimolare il necessario per poter vivere “da scrittori”. L’ambiente circostante si offriva in tutta la sua bellezza da una sponda del lago all’altra; da Gozzano a Orta, fino ad Omegna e da lì verso  Oira, Ronco, Pella e Lagna. Dal balconcino della casa di Corconio, il panorama era rimasto intatto. Mario guardava, ammirato, la camelia dai fiori color panna e fragola. Poi, chiusi gli occhi, annusando l’aria, immaginava i colori del lago. Mario dubitava di potervi tornare. L’età non consentiva grandi progetti e nemmeno il coltivar illusioni. Lo consolava il pensiero che la più bella delle sue camelie potesse rimaner lì, a dimora. Un gesto d’amore di un uomo che in quei luoghi aveva lasciato un pezzo del suo cuore.

Marco Travaglini

“Al di qua”: Clochard da Oscar nel docufilm girato a Torino

Sono quaranta i clochard torinesi protagonisti del docu-film ”Al di qua” di Corrado Franco. Il film girato dal regista torinese potrebbe arrivare a vincere l’Oscar 2018 per la  categoria documentari, alla quale è stato ammesso. Il docufilm è girato in bianco e nero con un budget di 200.000 euro e propone le testimonianze sulla vita dei barboni torinesi.

A Laurent Mauvignier il Bottari Lattes Grinzane

È Laurent Mauvignier con “Intorno al mondo” (Feltrinelli) il vincitore del Premio Bottari Lattes Grinzane 2017 per la sezione Il Germoglio, dedicata ai migliori libri di narrativa italiana o straniera pubblicati nell’ultimo anno

Gli altri finalisti al Premio erano: Gianfranco Calligarich con “La malinconia dei Crusich” (Bompiani), Olivier Rolin con “Il meteorologo” (Bompiani) e Juan Gabriel Vásquez con “La forma delle rovine” (Feltrinelli). 

La cerimonia di premiazione si è svolta sabato 14 ottobre presso il Castello di Grinzane Cavour (Cn), condotta dallo scrittore Alessandro Mari.

Protagonisti della giornata sono stati gli studenti rappresentanti delle 24 giurie scolastiche italiane, che hanno incontrato gli scrittori finalisti. Ospite d’onore, il libraio Rosario Esposito La Rossa, “lo spacciatore di cultura”, come è stato definito, che ha appena aperto la libreria “Scugnizzeria” a Scampia e Melito (Napoli), dove da oltre quarant’anni mancava uno spazio dedicato ai libri.

Lo scrittore e sceneggiatore inglese Ian McEwan è stato premiato venerdì 13 ottobre per la sezione La Quercia, dedicata a Mario Lattes e riservata a un autore internazionale che abbia saputo raccogliere nel corso del tempo condivisi apprezzamenti di critica e di pubblico.

I quattro romanzi finalisti del Premio, organizzato dalla Fondazione Bottari Lattes, erano stati designati e annunciati ad aprile a Cuneo, alla sede della Fondazione CRC (che collabora e sostiene il Premio), dalla Giuria Tecnica presieduta da Gian Luigi Beccaria.

Tra aprile e giugno i quattro libri sono stati letti e discussi dai 384 studenti delle 24 Giurie Scolastiche: una a Bruxelles, presso l'”Ecole Européenne Bruxelles”, e ventitré in Italia. Le giurie italiane sono state scelte in modo da coprire tutto il territorio della Penisola, almeno una per ogni regione. 

Il Premio ha avuto il sostegno di: Mibact, Regione Piemonte, Fondazione CRC (main sponsor per il triennio 2017-2019), Cantina Giacomo Conterno (main sponsor), Banca d’Alba, Città di Cuneo, Comune di Alba, Comune di Grinzane Cavour, Comune di Monforte d’Alba, Cantina Terre del Barolo, Enoteca Regionale Piemontese Cavour, Banor, Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, Antico Borgo Monchiero.

Info al pubblico: 0173.789282 – eventi@fondazionebottarilattes – @BottariLattes

g. m.

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Foto:
– Laurent Mauvignier: “Intorno al mondo” (Feltrinelli)
Lo scrittore e sceneggiatore inglese Ian McEwan 

 

Tarocchi. Dal Rinascimento a oggi

IN RASSEGNA ANCHE OPERE A TEMA DI NIKI DE SAINT PHALLE. FINO AL 14 GENNAIO 2018

“Immagine psicologiche”, figure archetipe nell’inconscio collettivo: così definiva le carte dei Tarocchi – 22 Arcani Maggiori e 56 Arcani Minori – nientemeno che Carl Gustav Jung (1875 – 1961), fondatore della psicologia analitica. Concetti poi ripresi dal saggista Joseph Campbell (1904-1987) e approfonditi dallo sceneggiatore Christopher Vogler, in moltissimi film e saghe hollywoodiane. Molti anni prima, fra il 1469 e il 1478, il poeta Matteo Maria Boiardo realizzava, per diletto della corte estense, una collana di 78 terzine e due sonetti con lo scopo preciso di accompagnare il gioco delle carte dei Tarocchi. E che dire del nostro grande Italo Calvino (1923-1985) e del suo celebre “Castello dei destini incrociati”, libro in cui lo scrittore di origini cubane utilizza proprio le carte dei Tarocchi per raccontare le storie di un gruppo di viaggiatori radunati dal destino in un castello.

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E l’elenco potrebbe continuare. Perché saranno pure “Arcani” finché si vuole, a volte guardati anche (per la loro più o meno acclarata funzione divinatoria) con un certo imbarazzante sospetto, ma una cosa è certa: dalla filosofia alla psicoanalisi, dalle scienze storiche alla letteratura alla poesia e all’arte, non esiste campo dell’espressività e dello “scibile” umano che non sia stato tentato e toccato dalla magia innegabile di queste antiche 78 carte. Che hanno storia lunga, storia che dura da sei secoli. A farne un suggestivo e dettagliato resoconto, attraverso un evento espositivo unico nel suo genere e a cura di Anna Maria Morsucci, sono il MEF (Museo Ettore Fico) e la Casa editrice “Lo Scarabeo” di Torino che, su oltre mille metri quadri dello spazio museale di via Cigna, presentano un ricchissimo repertorio di mazzi antichi e moderni, carte miniate in oro, libri, documenti provenienti da importanti collezioni private, editti, matrici di stampa e bozzetti inediti di celebri artisti contemporanei.

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Il tutto accompagnato da materiale audiovisivo e applicazioni multimediali, capaci di personalizzare e “virtualizzare” come meglio aggrada la visita alla rassegna. Un vero e proprio viaggio “iniziatico” che parte dalla metà del Quattrocento nel Nord Italia, dove i Tarocchi nascono per essere usati nelle taverne come gioco d’azzardo e nelle corti principesche come gioco di società; via via, fino al ‘700 quando in Francia e in Inghilterra per la prima volta vengono usati in chiave esoterica e cartomantica, per arrivare attraverso le più molteplici declinazioni d’uso ai giorni nostri. Fra le opere più significative esposte, alcune carte del “mazzo Visconti” (1451) miniate in oro da Bonifacio Bembo, i seicenteschi “Tarocchini bolognesi” realizzati dall’incisore Giuseppe Maria Mitelli, insieme alle edizioni antiche dei “Tarocchi marsigliesi”, ai Tarocchi austriaci” della Secessione Viennese e ad altri rarissimi mazzi di produzione italiana, francese e tedesca.

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Da segnalare ancora la prima edizione (1909) dei “Tarocchi Rider Waite” – il mazzo più conosciuto nel mondo anglosassone – e quelli dell’esoterista Oswald Wirth (1860 – 1943), più numerosi mazzi contemporanei che ne testimoniano la costante evoluzione. Anche sul piano di una “resa” artistica in linea con i linguaggi maggiormente innovativi del tempo (come quelli della Pop Art o della Street Art), bene accompagnati a prove preziose di alcuni “grandi” della storia dell’arte novecentesca: da Renato Guttuso (in mostra, l’inquietante “Appeso”), a Franco Gentilini, a Emanuele Luzzati (con i suoi solari e giocosi “Bambini amanti”) fino a Ferenc Pintér a Sergio Toppi e a molti altri. Curiosa anche la sezione a “luci rosse”, dedicata ai “Tarocchi erotici” con opere di Paolo Eleuteri Serpieri, di Giacinto Gaudenzi e Mauro De Luca. Così come quella volta a documentare l’influenza dei Tarocchi nel fumetto (da Dylan Dog ai Supereroi, da Diabolyk a Corto Maltese), nel cinema, nella musica e nella letteratura.

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Contemporaneamente alla mostra sui Tarocchi, il MEF ospita anche una fantasiosa rassegna su opere e progetti legati al “Giardino dei Tarocchi” di Niki de Saint Phalle (1930 – 2002). Fra le più importanti esponenti del “Nouveau Réalisme” francese, l’artista ha infatti dedicato gli ultimi anni della sua vita alla realizzazione del parco artistico di Garavicchio (Grosseto) abitato da magiche monumentali sculture in ceramica variopinta, raffiguranti i 22 Arcani Maggiori. A lei è anche dedicata, presso la nuova sede del MEF Out-side ( aperto di recente in via Filippo Juvarra 15, a Torino), in collaborazione con la Fondazione Niki de Saint Phalle e il Mamac di Nizza, un’Antologica che raggruppa opere dell’artista – di singolare giocosità ma anche di acceso impegno sociale – datate dagli Anni ’50 ai ’90.

Gianni Milani

“Tarocchi. Dal Rinascimento a oggi”

MEF- Museo Ettore Fico, via Francesco Cigna 114, Torino, tel. 011/852510; www.museofico.it

Fino al 14 gennaio. Orari: da merc. a ven. 14-19/ sab. e dom. 11-19

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Nelle foto:

– Anonimo della Scuola di Bonifacio Bembo: “Mazzo Visconti – 5 Spade”, 1451

– Franco Gentilini: “La Forza”

– Renato Guttuso: “Appeso”

– Emanuele Luzzati: “Bambini Amanti”

– Niki de Saint Phalle: “Temperance”, litografia, 1997

– Niki de Saint Phalle: “L’arbre de la vie”, serigrafia, 1987