Repliche fino al 31 gennaio negli spazi della Galleria Franco Noero

Gérard Watkins, che ha oggi superato i cinquanta, è nato a Londra ma dal 1974 vive a Parigi. È drammaturgo con una decina di testi teatrali, regista, musicista e attore (al cinema, tra l’altro, ha lavorato con Julian Schnabel ne Lo scafandro e la farfalla), è rappresentato in ogni tipo di spazio scenico, è stato nominato miglior drammaturgo francofono vivente ai premi Molières del 2017.
Lo ascolti e ti viene dritto dritto il desiderio di conoscerlo di più, di vederlo maggiormente messo in scena. Lucido, duro, modernissimo. Sembra un medico che nel chiuso di una camera chirurgica sia pronto a scoprire tutto di quel corpo che gli sta davanti. Usciti da Scene di violenza coniugale. Atto finale, che lo Stabile torinese propone (con il Teatro di Dioniso), sino a venerdì 31 gennaio, con significativo ardore, per la regia di Elena Serra, in una sala della Galleria Franco Noero (piazza Carignano 2) dove ogni sera fanno corona un gruppo di una quarantina di spettatori, hai la esasperata certezza di quanta autenticità, reale, crudele, quotidiana, l’autore metta nella frammentata vicenda, di quanto i suoi dialoghi riescano a coinvolgerti, amaramente, con rabbia addirittura, di come lo svilupparsi di un rapporto a due possa – e le cronache pressoché di ogni giorno sono lì a testimoniarlo – nascere e deteriorarsi, scivolare attimo dopo attimo verso la tragedia.
Due coppie nella Parigi di oggi, un accadimento senza importanza è pronto a farle incontrare, un innamoramento e il desiderio di vivere insieme, la ricerca di un appartamento, un episodio che unico le farà incontrare. Pascal è un fotografo, una rabbia lanciata in faccia al mondo intero, cinico e aggressivo, al culmine di una prepotenza incontrollabile, Annie una ragazza madre di due figli in perenne ricerca di lavoro, segnata dalla debolezza e dalla remissione. Liam è un ragazzo di colore, il vizio della droga e l’abitudine allo spaccio, un passato non certo facile alle spalle ma neppure il desiderio di correggerlo, un altalenante percorso di tranquillità e scatti d’ira, Rachida è musulmana, in fuga da una famiglia chiusa e oppressiva, studia e lavora, avverte a più riprese il buio a cui va incontro ma di quel ragazzo qualcosa la spinge a prendersi cura. Già le loro note iniziali non ci hanno messo a nostro agio, i tanti episodi narrativi (alcuni, cruenti, urlati, “riferiti” nel chiuso di un’altra stanza, nascosti al publico) fanno piombare i due uomini in una discesa di violenza che si riversa sulla fisicità come sulla psicologia già malata o debole delle donne.

Una violenza senza più argini, costante, non più gestibile, che nasce dalle parole, da una risposta non data o da un pensiero frainteso, da un desiderio di paternità allontanato nel tempo o da un attimo d’amore negato: le occasioni nella vita di una coppia che già scricchioli non mancano, di piombo o futili, anche l’incapacità a preparare una mayonese può diventare il pretesto per una scarica di botte. Tutto è maledettamente vero, il luogo non-teatrale (la realtà di una casa, una scrivania, una lampada, qualche sedia e qualche piccolo divano) pur nella propria signorilità ti immerge in uno spazio chiuso e asfissiante, i tratti autentici del testo fuoriescono da ogni azione, da ogni parola. La regia di Elena Serra non fa sconti, agguanta il testo e ne ricava con un ritmo eccellente tutta la violenza verbale e fisica di cui è impregnato, quelle cesure tra scena e scena sono il gong verso le tappe inevitabili di una lotta che ha già previsto con grande anticipo il suo vincitore, con un’esattezza tutta geometrica e raggelante si compongono senza ripensamenti le immagini della vittima e del carnefice; le interpretazioni di Roberto Corradino (Pascal), Clio Cipolletta (Annie), Aron Tewelde (Liam) e Annamaria Troisi (Rachida) testimoniano appieno le sopraffazioni e le debolezze di uomini e di donne del mondo contemporaneo, perfette nell’immergersi nei diversi comportamenti: per tutti una prova di grande maturità.
Elio Rabbione
Le immagini dello spettacolo sono di Luigi De Palma


Questo è davvero un libro splendido e vi conduce nei meandri della vita dell’americana Dorothy Parker (1893 – 1967). Un’ icona del XX secolo, emblema di fascino, raffinatezza e snobismo intellettuale nella New York degli anni 20 e 30. Fu molte cose: giornalista di grido, scrittrice, poetessa, amica di artisti e del bel mondo dell’epoca. Gaia de Beaumont, più che una biografia, intesse “un romanzo liberamente ispirato alla sua vita” ….e che vita!Doroty nasce con l’altisonante cognome Rothschild e, anche se la sua famiglia non ha connessioni con l’omonima banca, conosce e frequenta tutti i posti alla moda. Dottie o Dot (diminutivi con cui è spesso chiamata) è ancora piccola quando la madre muore e lei pensa che la colpa sia sua perché “nascere ultimogenita da una madre 42enne non ha fatto che procurare alla persona che più amava un problema insolubile”. Il padre si risposa e Dottie entra in guerra con la matrigna, poi finisce in un collegio dove ne combina di tutti i colori. Ama follemente New York “soprattutto quando piove e l’asfalto è bagnato”ed è lì che erige la sua indipendenza. A 21 anni è assunta a Vogue come assistente editoriale: ma ha talento, è geniale ed ambiziosa; così da semplice autrice di didascalie fotografiche ben presto diventa firma di punta. Pubblicherà anche su altre riviste blasonate (come “Vanity Fair” e “Il New Yorker”) costruendosi una brillante carriera. Coltiva l’amicizia con scrittori della levatura di Hemingway, Fitzgerald, Dos Passos; mentre con Robert E. Sherwood fonda e diventa l’anima della cosiddetta Tavola Rotonda (nel mitico Hotel Algonquin), celebre anche come “circolo vizioso” dove si incontrano artisti, intellettuali e giornalisti che miscelano lavoro e divertimento. Dottie firma pezzi ferocemente acuti, in cui brillano autoironia, messa in ridicolo dei suoi fallimentari affari di cuore, ma anche la brillante presa in giro dei rapporti umani e del mondo dorato che frequenta. Minor successo ha nella gestione della vita privata: colleziona 2 aborti, 3 mariti e vari amanti bellissimi, vacui e decisamente più giovani di lei. E’ perennemente pervasa da un senso di angoscia che annega nell’alcol o cerca di annullare con ripetuti tentativi di suicidio. La parabola della sua vita è discendente: gli ultimi anni sono intrisi di povertà (risparmiava per lasciare i suoi beni a Martin Luther King), invecchia presto e male, finisce per allontanarsi da tutto e tutti, si rinchiude in un deprimente albergo per anziane signore, dove viene stroncata da un infarto a 73 anni. Le ceneri del titolo sono quello che resta di lei dopo la cremazione. Dispone che sull’urna venga scritto “Scusate le ceneri”… che nessuno reclamò per ben 21 anni.
Dorothy Parker “Dal diario di una signora di New York” -Astoria- euro14,00
Dorothy Parker “Eccoci qui” -Astoria- euro 15,00












