CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 619

Quando la danza dialoga con arti visive e musica

“Dance me to the end of love”. Il colore rosso dello slogan e la parola love in esso contenuta rappresentano il fil rouge del festival 2018 di TorinoDanza, per la prima volta diretto da Anna Cremonini, in programma dal 10 settembre al 1 dicembre prossimo a Torino, luogo privilegiato di incontro di stili coreografici ed artisti capaci di interpretare al meglio una rassegna dal respiro internazionale. La programmazione comprenderà 18 spettacoli, 34 rappresentazioni, 10 prime nazionali, 6 coproduzioni, 16 compagnie ospitate provenienti da otto nazioni diverse, tra cui Canada, Grecia, Belgio, Burkina Faso, Israele e Svezia, oltre all’Italia. TorinoDanza quest’anno vanta una significativa anteprima dal titolo “Betroffenheit”, in scena, nelle uniche date italiane, il 17 e 18 maggio alle Fonderie Limone di Moncalieri. Realizzato in collaborazione con il Teatro Stabile di Torino ed il Teatro Nazionale, è stato creato dalla coreografa Crystal Pyte e dal drammaturgo ed attore Jonathon Young, entrambi canadesi. Perfetto esempio della fusione di danza e teatro, rappresenta il trait d’union tra la stagione teatrale dello Stabile di Torino e il festival TorinoDanza. L’inaugurazione del Festival sarà il 10 settembre prossimo al teatro Regio di Torino con una serata in cui verranno presentati due diversi spettacoli a firma Sidi Larbi Cherkaoui, dal titolo “Neotic” ed “Icon”, entrambi prodotti dal Corpo di Ballo dell’Opera della Città svedese di Goteborg, da anni protagonista nella realizzazione di uno dei repertori più interessanti a livello europeo. Neotic, come Icon realizzato con le scenografie dell’artista visivo inglese Antony Gormley, fonda il proprio disegno creativo su elementi aerei supportati da elementi scenici capaci di costruire affascinanti geometrie e forme. In Icon elementi di argilla costituiscono la scenografia e gli oggetti derivanti ancorano pesantemente al suolo forme e movimenti. Nei due spettacoli Sidi Larbi Cherkaoui si pone domande universali: in Icon l’interrigativo verte su come la società contemporanea avverta la necessità di crearsi miti sempre nuovi, vere e proprie ” icone”, per poi distruggerle e sostituirle; in Noetic ci si interroga sul rapporto tra scienza e coscienza, tra forme fisiche e forme mentali. I due spettacoli sono inseriti anche nel programma di Mito SettembreMusica.

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Uno spettacolo nato dalla collaborazione tra TorinoDanza, Mito SettembreMusica e Aterballetto, sarà quello intitolato “Bach Project”, in programma al teatro Carignano il 14 e 15 settembre prossimi, in cui la danza dialoga con la musica di Bach, proposta anche in versione elettronica. Il 17 settembre al teatro Carignano verrà rappresentato, per l’ideazione e la direzione artistica di Marinella Guatterini, “Erodiade-Fame di vento (1993-2017)”, ricostruzione di un’opera del ’93 nata dalla collaborazione tra Julie Ann Anzillotti e l’artista Alighiero Boetti. Il tema della contaminazione delle arti visive sarà al centro del pluripremiato lavoro ” The Great Tamer” di Dimitris Papaioannou, in programma alle Fonderie Limone a Moncalieri dal 20 al 22 settembre, cui si aggiungerà la video installazione “Inside”, che sarà presentata al pubblico nei nuovi spazi delle Ogr dal 20 al 30 settmbre prossimi. Il linguaggio di questo artista greco si pone all’intersezione tra teatro, danza ed arti visive, i suoi spettacoli propongonoi quadri visionari e rievocazioni capaci di trasportare lo spettatore in esperienze emotive e sensoriali uniche. Sempre alle Fonderie Limone a Moncalieri, dal 12 al 14 ottobre prossimi, approderà “Vertigine”, risultato di un anno di lavoro sui territori di montagna a Torino e Chambers, per dar vita al progetto Corpo Links Cluster, sostenuto dal programma europeo Alpi Latine Cooperazione Transfrontaliera, cui sono stati invitati artisti di diverse generazioni a raccontare il tema della montagna. Sarà Alain Platel a chiudere il Festival, alle Fonderie Limone a Moncalieri, il 30 novembre e 1 dicembre prossimo, con una coproduzione del Teatro Stabile di Torino, Teatro Nazionale, TorinoDanza e Aperto Festival/Fondazione i Teatri di Reggio Emilia. Si tratta dello spettacolo intitolato “Requiem pour L.”, realizzato in collaborazione con il compositore Fabrizio Cassol, una nuova riscrittura del Requiem di Mozart.

Mara Martellotta

ph Andrea Guermani

Il TorinoFilmLab vince il Grand Prix Nespresso

Festeggia 10 anni   con l’affermazione di “Diamantino”
 
 
Proprio nell’occasione del decimo anniversario del TorinoFilmLab, la Semaine de la Critique di Cannes ha regalato alla comunità TFL il miglior compleanno in cui potesse sperare: la Giuria presieduta dal regista norvegese Joachim Trier ha infatti deciso di onorare DIAMANTINO di Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt con il premio principale, il Grand Prix Nespresso.
 
Il lungometraggio d’esordio della coppia di filmmaker nati negli Stati Uniti ha ottenuto un ottimo riscontro durante la première dello scorso venerdì. Il duo ha spiegato: “Volevamo fare una commedia romantica demenziale che giocasse con i conflitti della contemporaneità come il culto delle celebrità, l’ascesa dell’estrema destra e la crisi dei rifugiati.” 
 
Il film è stato sviluppato all’interno di FeatureLab 2013, il programma TFL per primi e secondi progetti di lungometraggi a un avanzato stadio di sviluppo. È il risultato di una coproduzione tra Les Films du Bélier (Francia), Maria & Mayer (Portogallo) e Syndrome Films (Brasile), ed è venduto internazionalmente da Charades.
 
Si tratta della terza volta in cinque anni in cui un film TFL ha ottenuto tale traguardo: Fabio Grassadonia & Antonio Piazza avevano già convinto la Giuria nel 2013 con il loro SALVO, mentre MIMOSAS di Oliver Laxe è stato premiato nel 2016. L’alumna TFL Jacqueline Lentzou ha inoltre ricevuto il premio per il Miglior Cortometraggio alla Settimana della Critica di quest’anno con il suo HECTOR MALOT – THE LAST DAY OF THE YEAR.
 
In questa stessa edizione del Festival di Cannes “Birds of Passage” – diretto dal duo colombiano composto da Ciro Guerra e Cristina Gallego – era stato scelto per aprire la Quinzaine des Réalisateurs
 
Il TorinoFilmLab è promosso dal Museo Nazionale del Cinema con il supporto del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Regione Piemonte, Città di Torino e il programma Creative Europe – MEDIA dell’Unione Europea, in collaborazione con Film Commission Torino Piemonte.

Balcani in musica a Rivoli

Il prossimo concerto previsto per Rivolimusica vedrà esibirsi King Naat Veliov & The Original Kočani Orkestar dalla Macedonia, massimi rappresentanti a livello internazionale, con i Ciocărlia dalla Romania e Boban Marković Orkestar dalla Serbia, della fanfara balcanica.  Una brass band tipica, ma sopra le righe per quanto riguarda gli arrangiamenti originali del leader Naat Veliov che contamina di sonorità pop,  jazz e latine un repertorio tradizionale già ricco di suggestioni turchegitanebulgareromeneserbe. Sabato 19 maggio presso Maison Musique (Ore 21, ingresso 12 euro, ridotto 10) Previsto dopo il concerto (Per il ciclo MaP, apertitivi con l’artista; è l’ultimo degli incontri e prende la forma di un after show) “Balcani in musica”, incontro con Naat Veliov intervista a cura del progetto BalkanRock, conValentina Sileo e Duško Djordjevič  presso il Birra Ceca Pub 82 (Via Alpignano 82, Rivoli), ore 23:00.

 

La dama velata

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce. Castelli diroccati, ville dimenticate, piccole valli nascoste dall’ombra delle montagne, dove lo scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia. Questi luoghi a metà tra il reale e l’immaginario si trovano attorno a noi, appena oltre la frenesia delle nostre vite abitudinarie.Questa piccola raccolta di articoli vuole essere un pretesto per raccontare delle storie, un po’ di fantasia e un po’ reali, senza che venga chiarito il confine tra le due dimensioni; luoghi esistenti, fatti di mattoni, di sassi e di cemento, che, nel tentativo di resistere all’oblio, trasformano la propria fine in una storia che non si può sgretolare.

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10 / L’unico modo di preservare la bellezza è precluderla alla vecchiaia. Questa è la storia di quando il Tempo si innamorò di una principessa, bella come il mare d’inverno, e non accettò di veder decadere quello splendore. Decise così di portarla via con sé, lontano dai luoghi in cui i mortali sono destinati ad avvizzire. La principessa si chiamava Varvara Belosel’skij, apparteneva ad una potente famiglia zarista ed era la moglie dell’allora ambasciatore russo presso la corte sabauda. La giovane donna, madre di tre figli, morì per cause legate alle passate gravidanze, proprio qui a Torino, dove si era recata per stare accanto all’amato marito. Il principe ambasciatore Aleksandr Michajlovic Beloselskij, addoloratissimo per la scomparsa dell’adorata giovane moglie, desiderò per lei il meglio anche nella morte. Aleksandr, uomo colto e amante delle arti, interpellò Innocenzo Spinazzi, celebre scultore romano di stile neoclassico, chiedendogli di eseguire un’opera in marmo per adornare la tomba dell’amata sposa. Spinazzi si era contraddistinto nell’ambito scultoreo grazie al suo particolare approccio tecnico e al suo desiderio di rottura con la sovrabbondanza barocca. A Firenze nel 1784 ebbe l’incarico di Professore di Scultura presso L’Accademia di Belle Arti. Spinazzi accettò l’incarico che il principe russo gli offriva e studiò un complesso gruppo statuario, di cui oggi ci rimane solo una figura, quella centrale, che rappresentava simbolicamente la principessa Varvara. Nell’eseguire tale scultura Spinazzi decise di rielaborare uno dei suoi lavori passati più apprezzati, la statua della Fede del 1781, opera che aveva eseguito per la Chiesa di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi a Firenze. Situata inizialmente nel cimitero di San Lazzaro, ora non più esistente, la tomba venne poi sposta nel piccolo cimitero di San Pietro in Vincoli a Torino. È un giorno qualunque, presa da svariati pensieri seguo meccanicamente gli ordini del navigatore, che mi strattona da una parte all’altra della mia città. D’un tratto mi accorgo di trovarmi proprio nei pressi dell’antico cimitero di San Pietro in Vincoli, in via Torino, ora adibito a tutt’altra tipologia di funzione e completamente circondato da macchine parcheggiate con disordine e prepotenza. Il mesto edificio venne edificato nel lontano 1777, su progetto dell’architetto Francesco Valeriano Dellala, di Beinasco.

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Fu il primo cimitero edificato fuori dalle mura cittadine, dopo il decreto di Vittorio Amedeo III che, per motivi igienici, disponeva l’obbligo di sepoltura dei morti in appositi siti, oltre il perimetro della città. Il cimitero era costituito da un cortile interno, circondato su tre lati da un porticato. La facciata in stile neoclassico, presentava due file di lesene, la prima costituita da ghirlande, l’altra da teschi alati. Dal timpano del pronao incombeva l’angelo della morte. La parte centrale dell’area era adibita a ossario, attorno ad esso vi erano quarantaquattro pozzi destinati a sepoltura comunale per le salme dei più poveri. Ai più abbienti era riservato il porticato, qui si trovavano settanta due salme, divise in tombe private, lapidi e busti. Attorno alle mura del cimitero vi erano due zone, una atta ad ospitare i non battezzati e l’altra per gli impiccati e gli esecutori di giustizia. La struttura però era di piccole dimensioni e il sovraffollamento che non tardò ad arrivare portò con sé altre fastidiose conseguenze, la peggiore delle quali fu il fetore, intollerabile nei mesi estivi, provocato dai cadaveri disposti alla rinfusa e non adeguatamente tumulati. Nel 1829 l’edificazione del Cimitero Monumentale causò il progressivo disuso dell’antico sito sepolcrale. Per alcuni anni successivi San Pietro in Vincoli ospitò ancora i cadaveri dei giustiziati, fino al 1852, quando subì gravi danni strutturali a seguito dello scoppio della polveriera vicino all’arsenale militare, fu questo l’anno del definitivo abbandono. La costruzione seguì lo scontato decorso che si addice ad un cimitero abbandonato: atti vandalici, profanazioni e pare, addirittura, qualche messa nera. Alcuni monumenti che si trovavano all’interno della struttura vennero recuperati, anche se con danni più o meno gravi, tra questi anche la velata statua della principessa, che trovò un primo rifugio all’interno della Mole Antonelliana, dove venne sistemata nel 1976, ma fu la GAM a diventare la sua definitiva e rassicurante dimora. Oggi non c’è più alcuna traccia di quel sepolcrale lontano passato. Risulta di difficile concezione il solo pensiero che lì non fosse già più città. Le macchine sfrecciano rumorose, usano i clacson come rostri sonori, le osservo parcheggiate alla rinfusa e mi ricordano un sorriso di storti denti accavallati. La storia legata a San Pietro in Vincoli è prova del fatto che le parole trovano la forza di vivere, sempre, mentre lo spirito dei luoghi, talvolta, può morire.

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Sono andata a cercarla, la bella dama di marmo, tra le grandi sale della GAM, e quando l’ho vista è stato un po’ come vedere un fantasma. La pietra bianca delinea una figura femminile, che indossa dei semplici calzari, come quelli delle antiche sculture classiche; la donna ha le braccia leggermente distanti dal corpo, con il destro tiene un grande libro aperto, con il sinistro accentua la delicata torsione del busto. È interamente nascosta sotto un velo che la copre con riguardo, come fa la nebbia quando cala sul mondo. Il tessuto, scolpito con minuziosa maestria, segue il movimento del corpo e occulta castamente le sinuose forme del corpo femminile. Ha il viso leggermente sfregiato, a causa delle azioni poco belle che ha dovuto subire nel tempo in cui era sistemata nel piccolo cimitero. Si intravedono le fessure degli occhi al di sotto dell’illusorio tessuto, paiono chiusi come si addice ai defunti, in contrasto con la postura viva e in movimento del corpo. La osservo per un po’, girandole a fianco, ne ammiro i dettagli. È posta al termine del percorso del secondo piano, appare come d’improvviso su uno sfondo grigio, proprio come fanno gli spiriti, senza dare avviso del loro imminente arrivo e restando sfumati, costringendo chi li vede al dubbio di aver davvero visto qualcosa. Dalla sua postazione osserva tutti i visitatori, che sono costretti a contraccambiare il suo sguardo. Essa continua a far innamorare, esattamente come il suo doppio spettrale, che, secondo la leggenda, continua a percorrere le strade che le erano familiari, ammaliando gli ignari che si imbattono in lei. Infine mi allontano e abbandono anch’io la giovane principessa russa condannata alla solitudine della sua eterna velata bellezza.

Alessia Cagnotto

 

“Dal dire al fare”, l’autobiografia di Sante Bajardi

S’intitola “Dal dire al fare. Ricordi di un uomo impegnato” ed è l’autobiografia di Sante Bajardi, uno dei protagonisti più rilevanti della vita politica e amministrativa del Piemonte nel secondo dopoguerra. Il libro, edito dalla torinese Impremix, è stato presentato nella sala Viglione di Palazzo Lascaris davanti ad un pubblico attento ad ascoltare le numerose testimonianze di chi ha condiviso con Bajardi passioni e lotte civili negli ultimi decenni. Basata su una lunga intervista a cura di Mirella Calvano e Giovanni Romano, con una prefazione del costituzionalista e parlamentare Andrea Giorgis, la vicenda umana, politica e istituzionale di Bajardi si snoda per 180 pagine ricche di riflessioni, anedotti e ricordi. Una storia appassionante quella del protagonista, dall’antifascismo alla guerra partigiana, alle grandi sfide di solidarietà e uguaglianza del dopoguerra, agli anni della riorganizzazione del Servizio sanitario, alla creazione del CIPES,  il comitato per la promozione e l’dducazione alla salute. “Prima imparare poi mettere in pratica quello che si è capito”: questo è sempre stato il principio ispiratore di Bajardi. Nato a Torino il 1° maggio del 1926, iniziò a lavorare come operaio metalmeccanico in giovanissima età, studiando di sera fino ad ottenere il diploma all’Istituto Amedeo Avogadro. Durante la seconda guerra mondiale Bajardi prese parte alla Resistenza nelle formazioni SAP torinesi della Barriera di Nizza e negli anni dopo la liberazione  collaborò con l’amministrazione cittadina, attraverso le organizzazioni giovanili unitarie. Negli anni ’50 fu tra i più attivi dirigenti del PCI a Torino e Ivrea, nel Canavese e nel Pinerolese, tra i lavoratori  di aziende come l’Olivetti, la Chatillon, la Riv di Villar Perosa e tra i minatori della Talco Grafite in Val Germanasca. Dalla sua esperienza con i lavoratori della tristemente nota IPCA (Industria Piemontese dei Colori di Anilina) di Ciriè, prese spunto  il suo mai interrotto impegno per le politiche per la salute negli enti locali dov’è stato consigliere e assessore – da Grugliasco a Torino –  fino al CIPES di cui è presidente onorario. Dal 1975 al 1980 ricoprì gli incarichi di vicepresidente della Giunta regionale del Piemonte e di assessore regionale ai trasporti e alle opere pubbliche, e nei cinque anni successivi venne nominato assessore alla Sanità. E’ difficile riassumere la storia di quest’uomo che ha attraversato da protagonista le vicende piemontesi di oltre mezzo secolo e l’unico modo per averne la piena consapevolezza è leggere quest’intervista-racconto che si presenta come una delle più belle e intense testimonianze di chi ha fatto della passione civile la bussola della sua vita e del suo impegno.

Marco Travaglini

Oggi al cinema

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO

A cura di Elio Rabbione

 

A beautiful day – Drammatico. Regia di Lynne Ramsay, con Joaquin Phoenix e Judith Roberts. Un uomo nella cui mente trovano posto ricordi dolorosi, un passato di guerra, una infanzia di abusi, un figlio che si prende cura della madre anziana. Anche un sicario che entra nella vicenda sporca e infelice della figlioletta di un senatore, portata via per essere fatta sprofondare nel buio della prostituzione minorile. Con il viso dolente e con la robusta interpretazione di Phoenix premiato a Cannes quale migliore attore. Il film s’è anche aggiudicato il Palmarès per la migliore sceneggiatura. Durata 95 minuti. (Ambrosio sala 3)

 

Abracadabra – Commedia. Regia di Pablo Berger, con Maribel Verdù, Antonio De La Torre e José Mota. Carmen vive alla periferia di Madrid con suo marito Carlos. È una casalinga devota alla famiglia, mentre lui è un operaio edile e tifoso di calcio, che vive per il Real Madrid. Un giorno, a un matrimonio, il cugino di Carmen, ipnotizzatore amatoriale, dà una dimostrazione. A Carlos. La mattina dopo l’uomo comincia a comportarsi in modo strano, qualcosa è andato storto e adesso è posseduto da uno spirito. Mentre i due cugini cercano di riportarlo alla normalità, Carmen si sente attratta dal suo “nuovo” marito. Durata 96 minuti. (Centrale V.O., Classico)

 

Arrivano i prof – Commedia. Regia di Ivan Silvestrini, con Claudio Bisio, Maurizio Nichetti e Lino Guanciale. Il liceo si può gloriare di essere il peggiore liceo della nazione: ecco che allora il preside accetta la proposta del provveditore e assume i peggiori insegnanti, nella sfida che dove i migliori hanno fallito, siano i peggiori a ottenere dei risultati. Arrivano sette insegnanti, uno peggio dell’altro, con i loro metodi precisi ma sgangherati, con il loro modo di insegnare bel oltre le righe. Ma per i ragazzi cambierà qualcosa. Durata 100 minuti. (Massaua, Reposi, The Space, Uci)

 

Avengers: Infinity War – Fantasy. Regia di Anthony e Joe Russo, con Chris Evans, Robert Downing jr, Zoe Saldana e Chris Pratt. Contro gli eroi (buoni) di Marvel nell’ultimo episodio della saga c’è Thanos (cattivissimo), che grazie al potere delle Gemme dell’Infinito vuole impadronirsi e distruggere circa la metà di questa nostra povera terra. Ecco che allora gli Avangers sentono la necessità di riunirsi e di chiedere pure l’aiuto dei Guardiani della Galassia, insomma tutti insieme appassionatamente per far fuori il fellone. Per la gioia di grandi e bambini ci sono proprio tutti nell’affollato pentolone, Capitan America e Spiderman, la Vedova Nera e Thor, Iron Man e Black Panter. Durata 149 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 2,   Reposi, The Space, Uci)

 

Benvenuto in Germania – Commedia. Regia di Simon Verhoeven, con Senta Berger, Heiner Lauterbach e Florian David Fitz. Un’insegnante di tedesco da poco andata in pensione, due figli ormai adulti, un marito chirurgo ortopedico, un gatto. Un giorno decide di ospitare un rifugiato in cerca di una nuova patria e di un po’ di fortuna: nemmeno a dirlo, il nuovo arrivo metterà a dura prova la vita all’interno della casa, la coabitazione, le giornate, il matrimonio dei due padroni di casa. Durata 116 minuti. (F.lli Marx sala Harpo)

 

La casa sul mare – Drammatico. Regia di Robert Guédiguian, con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darrousin, Anaïs Demoustier e Jacques Boudet. Una casa affacciata sul mare, poco fuori Marsiglia, due fratelli con la sorella vi si ritrovano all’indomani dell’ictus che ha colpito il padre anziano. Uno è un ex sindacalista, aspirante scrittore, con una fidanzata al seguito che ha la metà dei suoi anni, l’altro è rimasto ad abitare nella casa per far andare avanti la trattoria di famiglia, lei è un attrice, trasferita a Parigi per inseguire la sua carriera e lasciarsi alle spalle la perdita della figlia. Altre persone circolano attorno a loro, tutti a fare i conti, un bilancio tra ideali ed emozioni, tra aspirazioni e nostalgie, con un passato più o meno recente, a guardare il piccolo paese che ormai si è svuotato, lasciando le vecchie case agli speculatori, a parlare di politica, tra Macron e Le Pen, a guardare ai figli, anch’essi confusi. Un piccolo gruppo di giovanissimi profughi, senza genitori, obbligherà con il loro arrivo quelle scelte che tutti quanti gli abitanti della “villa” (questo il titolo originale del film), dovranno affrontare. Un film che per buona parte segue un filo di ricordi e di eventuali costruzioni, che comincia inspiegabilmente a sfilacciarsi con un doppio suicidio, che nel finale s’inventa il ritrovamento dei ragazzini venuti dal mare per cogliere senza necessità un racconto dell’oggi che viviamo. Senz’altro ci si aspettava di più. Durata 107 minuti. (Nazionale 2)

 

Cosa dirà la gente – Drammatico. Regia di Iram Haq, con Maria Mozhdah. La sedicenne Nisha vive una doppia vita. A casa, in famiglia, è la perfetta figlia pachistana, ma quando esce con gli amici è una normale adolescente norvegese. Quando però il padre sorprende Nisha in intimità con il suo ragazzo, i due mondi della ragazza entrano violentemente in collisione: i suoi stessi genitori la rapiscono per portarla in casa di alcuni parenti in Pachistan. Lì, in un paese in cui non è mai stata prima, Nisha è costretta ad adattarsi alla cultura di suo padre e di sua madre. Durata 106 minuti. (Romano sala 3)

 

Deadpool 2 – Fantasy. Regia di David Leitch, con Ryan Reynolds e Josh Brolin. Ancora i campioni della Marvel, eroismi divertimento e ritmo arrivati al secondo capitolo e successo assicurato. L’ex mercenario Wade si batte contro il cattivo che ha il viso di Brolin, prendendo le difese di Russell, giovane mutante, ribelle alle autorità. Lotte, cattura, prigionia e nuova libertà in un percorso obbligato che dà il via ad un finale da fuochi d’artificio e con una nuova storia già in preparazione. Durata 111 minuti. (Massaua, Greenwich sala 2, Ideal, Reposi, The Space, Uci anche V.O.)

 

Dogman – Drammatico. Regia di Matteo Garrone, con Marcello Fonte e Edoardo Pesce. Il regista dell”Imbalsamatore” riscrive a modo suo la vicenda del “canaro”, fatto e fattaccio di cronaca nella Roma degli anni Ottanta, reinventando la figura di Marcello, separato dalla moglie, con una bambina, vive le sue giornate con il suo mestiere di toelettatore e le angherie del bullo del quartiere. In concorso al festival di Cannes. Durata 102 minuti. (Ambrosio sala 2, Eliseo Rosso, Lux sala 1, Romano sala 2, The Space, Uci)

 

Escobar – Il fascino del male – Drammatico. Regia di Fernando Leon de Aranoa, con Penelope Cruz e Javier Bardem. Tratto dal libro che Virginia Vallejo, volto un tempo noto della tivù colombiana

e oggi donna sotto protezione negli Stati Uniti, ha scritto intorno alla sua relazione con il gran capo della droga tra il 1981 e il 1987, è il resoconto di quegli anni, da un lato l’amante gentile e affascinante, dall’altro il mandante delle uccisioni di magistrati e poliziotti, di politici e di avversari, al fine di una scalata sempre più completa. Durata 105 minuti. (Greenwich sala 2, The Space, Uci)

 

Il giovane Karl Marx – Drammatico. Regia di Raoul Peck, con August Diehl, Stephan Konarske e Vicky Krieps. Gli anni Quaranta del XIX secolo, l’esilio da Berlino e le fughe attraverso l’Europa, la povertà e gli stenti, la polizia sempre incalzante, le idee in crescita contro una classe dirigente e un capitalismo volti allo sfruttamento e alle ingiustizie, l’amicizia con Engels, figlio ribelle di un ricco industriale, la stesura del “Manifesto del partito comunista”. Durata 112 minuti. (Centrale)

 

Famiglia allargata – Commedia. Regia di Emmanuel Gillibert, con Louise Bourgoin e Arnaud Ducret. Due vite, due mondi lontanissimi tra loro, che un giorno s’incontrano. Da un lato Antoine, arrivato ormai ai quaranta, tuttora single, eterno ragazzo senza alcuna voglia di crescere e dall’altro Jeanne, i figli al culmine dei suoi pensieri, un’esistenza a crescerli tutta sola: ma lei ha ancora voglia di tanto amore. Durata 105 minuti. (Massaua, Ideal, The Space, Uci)

 

Game Night: indovina chi muore stasera? – Commedia drammatica. Regia di John Francis Daley e Jonathan Goldstein, con Rachel McAdams e Jason Bateman. Ogni settimana Annie e Max amano inventare giochi di vario genere per divertire se stessi e gli amici. Il fratello di Max inventa un inaspettato gioco con un rapito, che è il padrone di casa, chi dovrebbe trovarlo e liberarlo: è una finzione o non piuttosto una ingombrante realtà? Durata 100 minuti. (The Space, Uci)

 

Giù le mani dalle nostre figlie – Commedia. Regia di Kay Cannon, con Leslie Mann e John Cena. Le figlie crescono, progettano il ballo di fine anno e con questo l’avverarsi di quella “prima volta” che sognano chissà da quando. La più intraprendente, Julie, dà l’out out alle sue migliori amiche: mettendo in grandissima agitazione i rispettivi genitori che con qualche piccolo dramma di ingegnosità scoprono quelle decisioni attraverso il web, assai modernamente. La scommessa è dare un taglio netto a quelle decisioni. Ci riusciranno? Durata 102 minuti. (The Space, Uci)

 

L’isola dei cani – Animazione. Regia di Wes Anderson. In un Giappone di epoca futura, il sindaco di una città denominata Megasaki ha ordinato di rinchiudere in un isola deserta e adibita a discarica ogni cane esistente, causa un mistorioso virus che li colpirebbe tutti. Il motivo vero è poter fare affari alla faccia dei simpatici amici dell’uomo. Dovranno intervenire un bambino e la giovane giornalista in erba Tracy a svelare le reali mire del primo cittadino e di tutto quanto il governo. Orso d’argento a Berlino per la miglior regia. Durata 101 minuti. (Massimo sala 1 anche V.O., Reposi, Uci)

 

Loro 1 – Commedia. Regia di Paolo Sorrentino, con Toni Servillo, Elena Sofia Ricci, Anna Bonaiuto, Riccardo Scamarcio, Fabrizio Bentivoglio e Kasia Smutniak. “Loro” sono quelli che in forma di gran baraccone con reminiscenze felliniane gravitano nell’universo berlusconiano, vero? tutto falso? opportunamente e malvagiamente esagerato?, uomini e donne in cerca di affermazione, non importa come, importa il quando, subito!, il ragazzo del sud (leggi Tarantini) che recluta ragazze e droga, gli affari poco puliti, gli amici e i nemici, il potere a ogni costo, la politica e i contratti con gli Italiani, le ville e le feste, la volgarità, il rapporto con Veronica: questo e molto altro nel primo capitolo di una vicenda che tutti abbiamo attraversato e che stiamo ancora attraversando. Comunque: primo, un film di cui non si sentiva assolutamente la necessità; secondo, piuttosto deludente, con quella prima parte dove impera il pur bravo Scamarcio, con le sue festicciole e le sue assatanate. Poi Servillo truccatissimo (ma si poteva fare di meglio), che ammaestra il nipotino e fa gli occhi dolci a Veronica, e allora il film ha qualche tocco d’ala. Ma sono davvero pochi. Durata 106 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, F.lli Marx sala Chico,   Greenwich sala 1, Ideal, Reposi, Uci)

 

Loro 2 – Commedia. Regia di Paolo Sorrentino. Il lato umano, a tratti godereccio, a tratti disperato, del ex premier, tutti i riferimenti agli inverni del nostro scontento e alle cronache quotidiane, il matrimonio andato a pezzi, le olgiattine e i festini, le biondine più che appetitose e disponibili, l’entourage in cerchia di soldi e di celebrità, le piscine, la gran folla. E poi l’ambiguità, il potere. Tutto con gli occhi dell’autore della “Grande bellezza”. Con la scusa che la seconda parte del film era in uscita in Italia, niente concorso a Cannes, così decretò Thierry Frémaux: ma visto che l’accoppiata – in numero uno e il numero due – ci guadagnerebbe, e Dio solo sa quanto!, non si sarebbe potuto sfrondare e farlo in qualche modo sulla Croisette? Durata 100 minuti. (Ambrosio sala 1, Massaua, Due Giardini sala Nirvana e Ombrerosse, Eliseo Blu, F.lli Marx sala Groucho, Ideal, Lux sala 3, Reposi, Romano sala 1, The Space, Uci)

 

La mélodie – Drammatico. Regia di Rachid Hami, con Kad Merad, Jean-Luc Vincent e Samir Guesmi. Simon è un famoso musicista ormai disilluso, arriva in una scuola alle porte di Parigi per dare lezioni di violino. I suoi metodi d’insegnamento piuttosto rigidi non facilitano i rapporti con gli allievi problematici. Tra di loro c’è Arnold, un timido studente affascinato dal violino che scopre di avere una forte predisposizione per lo strumento. Grazie al talento di Arnold, Simon riscopre a poco a poco le gioie della musica. Riuscirà a ritrovare l’energia necessaria per superare gli ostacoli e mantenere la promessa di portare i bambini a suonare alla Filarmonica di Parigi?Durata 102 minuti. (Eliseo)

 

Parigi a piedi nudi – Commedia. Diretto e interpretato da Fiona Gordon e Dominique Abel, con Emmanuelle Riva. Attori e autori pressoché sconosciuti da noi, lei canadese e lui belga, descrivono per lo scherma l’avventura di lei, bibliotecaria in un piccolo e sperduto paesino del suo grande e a tratti “inospitale” paese, “scesa giù” a Parigi alla ricerca della vecchia zia Marta. Che non si trova, è scomparsa!, con tutto quel che ne può derivare ad una sprovvedutissima straniera nella tentacolare ville lumière. Quando non cade nella Senna, incontra Dom, un fior fiore di clochard, gentile e ammodo, che è anche capace di innamorarsi di lei e di inseguirla per i boulevards e per le piccole stradine. Divertimento e gag a volontà. Durata 84 minuti. (Nazionale sala 1)

 

Show Dogs – Avventura. Regia di Raja Gosnell. C’è un umano, Frank, e c’è un rottweiler, Max (cui dà voce Giampaolo Morelli), agenti Fbi, entrambi decisi a far luce sul rapimento di un cucciolo panda. Una squadra di doppiatori all’opera, da Barbara D’Urso a Cristiano MalGioglio, da Lino Guanciale a Nino Frassica, da Marco Bocci a Francesca Neri ad Ale e Franz. Durata 92 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Si muore tutti democristiani – Commedia. Regia di Marco Ripoldi, Davide Rossi, Andrea Mazzarella, Davide Bonacina e Andrea Fadenti, con Massimiliano Loizzi. Stefano con Fabrizio ed Enrico, stessi ideali e stessi sogni. Insieme gestiscono una piccola casa di produzione nella speranza di realizzare documentari a tema sociale. Forse un progetto ci sarebbe, con un considerevole guadagno economico: ma c’è un “ma”. E allora meglio fare cose pulite con i soldi sporchi o cose sporche con soldi puliti? Una riflessione ironica e impietosa sul compromesso. Durata 89 minuti. (Greenwich sala 3, Uci)

 

Tonno spiaggiato – Commedia. Regia di Matteo Martinez, con Frank Matano. Opera prima. La storia di Francesco, vorrebbe fare il comico ma alle sue esibizioni non ride mai nessuno. Fino a quando non infila una battuta dietro l’altra sulla sua ragazza grassa: il pubblico ride, lei lo lascia. Per riconquistarla, dal momento che al funerale della nonna di lei, s’è guadagnato un bell’abbraccio, provvederà a far fuori qualche altro parente e così gli affetti saranno ristabiliti. Ma le cose non si mettono al meglio, come Francesco spererebbe. Durata 91 minuti. (Reposi, The Space, Uci)

Ecco i finalisti del Premio Calvino

Cerimonia di Premiazione martedì 22 maggio 2018 ore 17.30 al Circolo dei lettori, via Bogino 9, Torino

Il Comitato di Lettura del Premio Italo Calvino ha scelto, tra i 720 manoscritti partecipanti al bando, le opere finaliste da sottoporre al giudizio della Giuria della XXXI edizione, composta da Teresa Ciabatti, Luca Doninelli, Maria Teresa Giaveri, Vanni Santoni e Mariapia Veladiano.  I nove testi inediti e di autori esordienti tra i quali i Giurati decreteranno il vincitore e le menzioni speciali sono: Elena di Sparta di Loreta Minutilli; Il faraone di Riccardo Luraschi; Il grande vuoto di Adil Bellafqih; L’inverno di Giona di Filippo Tapparelli; Omeocrazia di Maurizio Bonino e Valentina Drago; La sartoria di via Chiatamone di Marinella Savino; Sinfonia delle nuvole di Giulio Nardo; Talib, ovvero la curiosità di Bruno Tosatti; Trovami un modo semplice per uscirne di Nicola Nucci. A partire da questa edizione, verrà inoltre assegnata una “speciale menzione Treccani” all’opera che si distingua per originalità linguistica e creatività espressiva. Il Premio Italo Calvino e l’Istituto Treccani hanno infatti stipulato una convenzione triennale che, oltre al conferimento della menzione, prevede l’organizzazione di un incontro – che si terrà nel mese di settembre, a Roma, nella sede di Treccani – intorno ai temi emergenti della narrativa italiana contemporanea nel suo rapporto con la lingua.La cerimonia di premiazione si svolgerà, alla presenza dei Giurati e di Massimo Bray, Direttore generale dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, martedì 22 maggio al Circolo dei lettori di Torino, a partire dalle ore 17.30.

 

 

I testi finalisti e i loro autori

 

Per individuare i finalisti si è deciso di puntare a una scelta che fosse insieme rigorosa e rappresentativa di tendenze in atto, pur cercando di ampliare al massimo il ventaglio delle proposte.

 

«Tutte le opere finaliste – commenta il presidente del Premio – sono caratterizzate da una forte tendenza degli autori a cercare vie oblique per narrare ed esprimersi, ed esprimere la loro visione del mondo. Passano attraverso i generi, soprattutto il distopico, che permette di radicalizzare lo sguardo senza apparire forzati, oppure attingono al fantastico, filone che in Italia ha un padre nobile proprio in Calvino. O, ancora, riprendono l’inesauribile mito greco per parlare dell’oggi, o creano paesaggi mentali allucinati con la medesima funzione. Oppure, ancora, operano attraverso un uso spiazzante del linguaggio con un effetto di straniamento, o, infine, introducendo un granello di irrealtà in un oliato congegno realistico. La descrizione dei meccanismi sociali con i suoi personaggi indagati psicologicamente, tipica del grande romanzo borghese otto-novecentesco, appare, in questi romanzi, fuori tempo massimo ed affrontabile, in alcuni casi, solo con i mezzi della docufiction. Ultimo tratto che colpisce delle opere finaliste è, infine, la produzione di testi tramite altri testi, che siano letterari, filmici, serial televisivi, manga o graphic novel.»Anche quest’anno i dati sociologici non fanno che confermare il carattere nazionale del Premio, la sua capacità attrattiva diffusa sul territorio e tra le varie generazioni.

 

La storia del Premio

 

Il Premio è stato fondato a Torino nel 1985, poco dopo la morte di Italo Calvino, per iniziativa di un gruppo di estimatori e di amici dello scrittore, tra cui Norberto Bobbio, Cesare Cases, Anna Chiarloni, Natalia Ginzburg, Massimo Mila, Lalla Romano, Cesare Segre. Ideatrice del Premio e sua animatrice e Presidente fino al 2010 è stata Delia Frigessi, studiosa della cultura italiana tra Ottocento e Novecento.Calvino, com’è noto, ha svolto un intenso e significativo lavoro editoriale per l’Einaudi; l’intenzione è stata, quindi, quella di riprenderne e raccoglierne il ruolo di talent scout di nuovi autori: di qui, l’idea di rivolgersi agli scrittori esordienti e inediti, per i quali non è facile trovare il contatto con il pubblico e con le case editrici. Il Premio ha impostato la propria attività seguendo gli stessi criteri che hanno guidato Calvino: attenzione e equilibrio, gusto della scoperta e funzione critica. Attuale Presidente del Premio è Mario Marchetti.

 

 

Come funziona il Premio

 

Il Premio Italo Calvino segnala e premia opere prime inedite di narrativa. Il Premio non ha mai voluto – consapevolmente – definire una propria linea critica, né privilegiare stili, forme e contenuti. L’interesse è unicamente per la qualità della scrittura e per l’emergere di nuove tendenze.Ogni anno, alla scadenza del bando, i manoscritti pervenuti vengono ripartiti all’interno del Comitato di Lettura, composto da cinquanta persone, per metà uomini e per metà donne. I Lettori cominciano la lettura in solitaria, testo per testo, e redigono una scheda di lettura sulla base di criteri di valutazione oggettivi e condivisi.Al termine del primo giro di letture, si svolgono una serie di riunioni, durante le quali si procede alla discussione e allo scambio dei manoscritti.Con il procedere delle riunioni e delle letture si arriva a emettere un giudizio unanime su ogni testo e a individuare una decina di opere finaliste che sono così pronte per essere inviate alla Giuria, composta da cinque personalità del mondo letterario (scrittori, critici, letterati). È questa Giuria a definire il vincitore e a segnalare eventualmente altre opere degne di interesse.Nelle settimane successive alla premiazione, infine, il Premio invia un giudizio dell’opera presentata a tutti gli autori che hanno partecipato. In questo modo, l’accesso al Premio assume un carattere non soltanto di competizione ma anche di valutazione, grazie alle indicazioni tecniche e stilistiche fornite dalla scheda di lettura.

 

I vincitori e le Giurie delle passate edizioni

 

Le Giurie del Premio, ogni anno diverse, sono sempre state costituite da critici letterari, storici della letteratura, scrittori e operatori culturali tra i più rappresentativi della scena culturale italiana dagli anni ‘70 ad oggi: Natalia Ginzburg, Cesare Segre, Ginevra Bompiani, Vincenzo Consolo, Edoardo Sanguineti, Ernesto Ferrero, Gianluigi Beccaria,   Dacia Maraini, Angelo Guglielmi, Marino Sinibaldi, Michele Mari, Tiziano Scarpa, Nicola Lagioia, Carlo Lucarelli, Antonio Scurati, Valeria Parrella, Michela Murgia, Fabio Geda, Mario Desiati, Marco Missiroli, solo per citarne alcuni.

 

Il Premio Calvino può ormai contare un notevole numero di autori affermati, che hanno iniziato il loro percorso editoriale proprio partendo dalla partecipazione al concorso. Tra gli altri: Marcello Fois (Picta, Marcos y Marcos), Francesco Piccolo (Diario di uno scrittore senza talento), Paola Mastrocola (La gallina volante, Guanda), Fulvio Ervas (La lotteria, Marcos y Marcos, con Luisa Carnielli), Flavio Soriga (Diavoli di Nuraiò, Il Maestrale), Peppe Fiore (L’attesa di un figlio nella vita di un giovane padre, oggi, Coniglio), Errico Buonanno (Piccola serenata notturna, Marsilio), Paolo Di Paolo (Nuovi cieli, nuove carte, Empirìa), Rossella Milone (Prendetevi cura delle bambine, Avagliano), Giusi Marchetta (Dai un bacio a chi vuoi tu, Terre di Mezzo), Mariapia Veladiano (La vita accanto, Einaudi Stile Libero) Letizia Pezzali (L’età lirica, Baldini Castoldi Dalai), Simona Baldelli (Evelina e le fate, Giunti), Francesco Maino (Cartongesso, Einaudi), Domenico Dara (Breve trattato sulle coincidenze, Nutrimenti).

 

Tra gli ultimi vincitori pubblicati: Cesare Sinatti (La Splendente, Feltrinelli), Emanuela Canepa (L’animale femmina, Einaudi Stile Libero).

 

Le case editrici

 

Le case editrici che hanno pubblicato le opere vincitrici o segnalate vanno dai grandi marchi storici alle tante e pionieristiche case editrici che caratterizzano ormai da tempo il panorama culturale italiano. Ogni anno, alla cerimonia di premiazione si incontrano i più importanti editor, talent scout e responsabili delle collane di narrativa italiana.

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www.premiocalvino.it

Cerimonia di premiazione: martedì 22 maggio 2018, ore 17.30

il Circolo dei lettori, Via Bogino, 9 – Torino

 

 

 

 

Il libro sulle mongolfiere

Nella penombra della soffitta, accanto ad un grande armadio tarlato, un vecchio e impolverato baule da viaggio era colmo di vecchie riviste del Touring, cartoline illustrate e libri che parlavano di viaggi, esplorazioni, avventure. Tra i tanti documenti facevano bella mostra di sé alcune annate della “Domenica del Corriere”, con le copertine di Walter Molino e Achille Beltrame. Il permesso di frequentare questo luogo misterioso l’avevo ottenuto dal proprietario della soffitta,l’avvocato Attilio Rosini. Da giovane, quello che nel tempo era diventato uno dei principi del foro di Varese per poi ritirarsi in pensione sul lago Maggiore, aveva collaborato con il Touring Club Italiano. In quegli anni spensierati, prima di darsi all’avvocatura, aveva viaggiato molto, accumulando materiali e documenti. Seduto sulla sua vecchia poltrona, rovistando tra le carte, mi è capitato tra le mani un vecchio libro rilegato: “La storia dei primi voli in mongolfiera“. Presi a sfogliarne le pagine, incuriosito. Volare era stato il sogno degli uomini dalla notte dei tempi. La leggenda di Icaro e la sua triste fine dimostravano che l’ambizione di librarsi nell’aria come uccelli era pressoché irresistibile, nonostante la paura. Già Leonardo da Vinci, con il suo straordinario estro, aveva compiuto studi  sulle leggi dell’aerodinamica, tracciando disegni e modelli di macchine volanti. Ma solo da poco più di due secoli la sfida, perfezionandosi di volta in volta, era entrata nel vivo. “I primi esperimenti di volo in mongolfiera furono fatti il 19 settembre 1783 dai fratelli Mongolfier usando come passeggeri una pecora, un gallo e un’anitra. Riuscirono a volare dentro ad un canestro legato ad un pallone ad aria calda per circa tre chilometri“. I due fratelli, Joseph Michel  e Jacques Étienne nati da  una famiglia di ricchi fabbricanti di carta ad Annonay, un paese  della Francia a sud di Lione,  erano convinti che accendendo un fuoco sotto la bocca del pallone si sarebbe prodotto un gas molto speciale, più leggero dell’aria, che loro ribattezzarono il ”gas dei Mongolfier”. Il loro gas – che Joseph, il più anziano dei due, credeva dotato di una specifica proprietà che definì “lievità” – salendo verso l’alto,  gonfiava l’aerostato e così il rudimentale pallone  s’ alzava in volo tra stupori e incredulità. In realtà, “questo gas non aveva nessuna proprietà magica, ma era solamente aria che al calor del fuoco diminuiva il suo peso specifico e saliva all’interno dell’involucro portando con sé in alto il pallone aerostatico“. Il 4 giugno del 1783 la loro invenzione venne fatta volare nella prima dimostrazione pubblica ad Annonay, di fronte a un gruppo di notabili degli “etats particulars“. Il volo coprì la distanza di un paio di chilometri, durò una decina di minuti e raggiunse un’altitudine stimata poco al di sotto di duemila metri.” E così“, riflettevo sfogliando le pagine del vecchio libro, “si era avviata la conquista del cielo“. Anche se, a dire il vero, pure gli italiani ci misero lo zampino. Pare infatti che un toscano di Lucca, Vincenzo Lunari nello stesso periodo delle imprese dei due fratelli francesi,  compì un’ascensione in Inghilterra su un pallone gonfio di idrogeno.

 

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Per il primo vero viaggio in aerostato della storia fu necessario pazientare altri cinque mesi e mezzo, quando a Parigi  – il 21 novembre 1783 – Jean-Francois Pilature de Rozier ed il Marchese d’Arlandes, si cimentarono nell’impresa. Il primo manovrava il velivolo mentre al secondo era toccato il delicatissimo compito di alimentare il fuoco e tenere a bada con una spugna imbevuta d’acqua i carboni ardenti che minacciavano di incendiare la tela dell’involucro. Quando il pallone transitò nel cielo sopra la capitale la folla era in delirio. La palla volante del diametro di circa quattro metri, salì fino a 900 metri di quota e andò dolcemente ad atterrare a venti chilometri di distanza, più o meno là dove oggi sorge l’aeroporto Charles de Gaulle. Un mese dopo, nel dicembre di quell’anno straordinario, toccò all’inglese Cavendish provare il volo con il pallone a gas. Coprì la distanza di 43 chilometri e nell’occasione raggiunse la ragguardevole altezza di 2700 metri, dimostrando così che l’atmosfera si estendeva fino a grandi altezze. Dopo la Francia, l’Italia fu sicuramente il paese che dette il maggior impulso all’aerostatica, e un passeggero romano, salito in volo per la prima volta, disse che“Roma sembrava un campo seminato di pezze bianche come calcinaccio e il Tevere un filo sottilissimo”. Ben presto, l’eco e la tecnologia dilagarono in tutta Europa, “al punto che l’interesse nei meccanismi cinetici dell’atmosfera per la prima volta in quei tempi raggiunse le masse fino a trasformarsi in fattore di moda. La mongolfiera non era soltanto un insolito modo di spostarsi, ma anche un simbolo dei tempi, magari da indossare sotto forma di cappellino o da sfoggiare all’ora del tè stampato su porcellana”. Incredibile. Questo libro mi stava solleticando una certa idea che avrei senz’altro sottoposto al mio amico Roland Duprè, un ingegnere nautico svizzero. Giravo le pagine voluttuosamente, come se in ogni riga si nascondessero fantastiche scoperte. Non avrei mai pensato che uno come me, dotato di buona fantasia ma al tempo stesso abituato a esser realista, subisse con tanta forza il fascino del volo. “Nell’800 l’aerostatica ebbe il suo punto di svolta consolidandosi in poco tempo si diffuse in tutto il mondo. Scienziati e studiosi si misero al lavoro, compiendo ascensioni per migliorare i propri progetti e verificare le loro teorie . Il volo che in assoluto fece più scalpore fu quello di Charles Green che nel Novembre 1836 volò per 18 ore coprendo una distanza di 768 chilometri da Londra a Weilburg, nel ducato di Nassau. Questo aerostato fu costruito utilizzando 1800 metri di seta bianca e rossa e l’involucro conteneva 1981 metri cubi di gas illuminante“. Riposi il libro nel baule e mi allungai sulla vecchia poltrona di cuoio, chiudendo gli occhi. Sì, dovevo proprio parlarne con Roland. Forse lui avrebbe saputo dare una risposta alle mie fantasie.   1° puntata (continua)

Marco Travaglini

L’eredità culturale e civile di Pannunzio

All’Auditorium “Vivaldi” della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (p. Carlo Alberto 5A)

 

Il Centro “Pannunzio” organizza una tavola rotonda su: “MARIO PANNUNZIO, IL SIGNIFICATO DELLE SUE SCELTE LIBERALI, LA SUA EREDITA’ CULTURALE E CIVILE” a cui parteciperanno Dino Cofrancesco (Università di Genova),Gerardo Nicolosi (Università di Siena), Mirella Serri (Università di Roma). La tavola rotonda, moderata da Anna Ricotti, verrà conclusa dal Direttore del Centro Pier Franco Quaglieni che illustrerà il significato della Mostra “Dal ‘Mondo’ di Pannunzio al Centro ‘Pannunzio'” che viene inaugurata subito dopo alla Biblioteca Nazionale dal Presidente del Consiglio regionale Nino Boeti e dal Presidente del Centro “Pannunzio” Alan Friedman, insieme ai Sindaci presenti. La Mostra, curata dagli architetti Maria Grazia Imarisio e Diego Surace, ripercorre con immagini, documenti e testimonianze il lungo cammino, dal 1968 ad oggi, e la storia del Centro “Pannunzio” e del

Torino 22-05-2017 Foto Daniele Solavaggione CONCERTO DEL PIANISTA SANDRETTO PER I 50 ANNI DEL CENTRO PANNUNZIO NELL’AULA MAGNA DEL RETTORATO

giornalista a cui esso è intitolato. Verrà anche presentata la piastrella del Cinquantenario realizzata dall’artista ligure Anais Tiozzo. Agli intervenuti verrà data in omaggio la spilla del Cinquantenario del Centro. Il “Pannunzio”, in collaborazione con Poste Italiane, ha realizzato uno speciale annullo filatelico per il Cinquantenario che sarà possibile ottenere durante l’evento su una cartolina di Ugo Nespolo con il francobollo di Mario Pannunzio uscito nel 2010 per il centenario della nascita. 

Un persiano olandese al Salone del Libro

La Sala Blu ha ospitato la presentazione del libro dell’autore iraniano di lingua olandese Kader Abdollah 

 

È arduo credere che sotto gli occhialoni e i folti baffoni a spazzola, un viso un po’ da Groucho Marx, il carattere istrionico, il vocione che scandisce un inglese dove si mescolano accenti levantini e olandesi, si celi una storia difficile di esilio, fuga dall’Iran khomeinista, la morte dei fratelli a causa della repressione politica, la lontananza dall’anziana madre cui manda via Whatsapp le foto di tutti i posti in cui va come conferenziere, ma questo è il riassunto dell’esistenza dello scrittore Khader Abdollah, uno degli invitati al Salone del Libro 2018, di sicuro tra i più appropriati ad affrontare i temi e le famose “cinque domande” che hanno fatto da fil rouge all’edizione. Ora, giochiamo subito a carte scoperte: chi scrive non aveva la minima idea di chi costui fosse, tutto ciò che sa lo ha intuito dal candore e l’intensità con cui il personaggio ha parlato di sé alla conferenza e da una rapida scorribanda su Wikipedia, né aveva mai letto alcunché, come persevera a fare pur facendosi la blanda ed accidiosa promessa di colmare quella che all’improvviso gli è sembrata una, se non imperdonabile, certamente fastidiosa lacuna. Quello che si offre ai lettura è quindi semplicemente il resoconto di un’oretta di dialogo tra lo scrittore e i suoi intervistatori, seguito comodamente sprofondato in una delle poltrone della Sala Blu, tra i sonni tentatori del dopopranzo. Tutto è figlio del caso, o quasi: la scelta era tra questo intervento e quello sulla Transiberiana allo stand “Romania” e solo all’ultimo l’orientalismo giovanile di chi scrive ha preferito il più caldo e vicino Medio Oriente alle visioni dell’estremo est d’oltre Urali; ad ogni modo, non può dirsi pentito della decisione.

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L’incontro presenta l’ultima fatica di uno scrittore molto celebre nei Paesi Bassi: esule da una trentina d’anni in Olanda, ha ormai da tempo deciso di scrivere in neerlandese “ Per ringraziare il paese che mi ha ospitato, perché ormai in persiano potrei scrivere un libro di settecento pagine, ma senza metterci l’anima come faccio con l’olandese. A parte il mio diario, che mi ostino a redigere nella mia lingua madre, l’unica cosa che forse i miei parenti potranno mai leggere”. E la sua anima si è così impastata della cultura olandese, anzi, come sottolinea Abdollah, europea, da aver ottenuto nella sua nuova patria diversi premi e il riconoscimento di aver scritto uno dei più bei libri di sempre nella lingua di Rembrandt, nonché il Premio Grinzane Cavour 2009. La sua ultima fatica si intitola “Uno scià alla corte d’Europa” (Iperborea, 488 pp. 19.50 euro) e narra in forma romanzata il viaggio dello scià di Persia alla fine dell’800 in Europa, un’Europa, nelle parole dell’autore, che era in via di formazione e stava cercando di darsi un’identità, quella della Belle Epoque, che ha dominato e influenzato il mondo, ci fa capire Abdollah, praticamente fino ad oggi, un oggi in cui l’Europa si trova nuovamente nella necessità di capire dove andare e che cosa fare. È un libro che nasce dall’invidia, l’invidia dell’autore – i cui antenati hanno incrociato davvero l’esistenza del sovrano – nei confronti di un uomo che non amava essere re, che ha lasciato un pessimo ricordo in patria ma affascinato dalla cultura europea dell’epoca, ribollente di invenzioni, scrittori e pensatori, che poté attraversare il continente in treno in lungo e in largo, incontrando i maggiorenti dell’epoca, la Regina Vittoria, Bismarck, la Russia, dove lo scià, appassionato lettore di Tolstoj, passa a dieci chilometri dalla dacia dell’autore di “Guerra e Pace” senza saperlo e tirando dritto fino a Mosca.

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Una disavventura, osserva l’autore, che dimostra come il sovrano, nonostante la sua buona volontà e il fascino di cui risentiva verso la nostra Europa, spesso guardasse senza vedere, senza capire fino in fondo, lasciandoci sfuggire le occasioni uniche: Abdollah pone rimedio alla vicenda immaginando che Tolstoj venga effettivamente chiamato ad incontrare il Re dei Re e, sfruttando il personaggio della principessa Banu, si infila nelle corti e nelle vicende dell’Europa dell’epoca con più libertà di quelle che l’aderenza alla storia ufficiale gli permettono.Un atto questo, scherza l’autore, che diventa catartico: “ora mi sento più potente del re, ora la mia invidia è sopita, perché lo scrittore può inventare il modo in cui i fatti sono andati”. Ma il romanzo non si inerpica soltanto per i mille sentieri della fantasia letteraria, o sulla libertà di fingere ed ingannare: torna, e altrettanto fanno intervistato ed intervistatori, all’attualità, all’incontro scontro tra oriente e occidente, all’integrazione di culture e di uomini.Il confronto tra la nobile e antica cultura persiana e l’occidente è una vicenda antica, il regno degli scià era già una metafora del relativismo e degli orizzonti diversi di genti lontane nei lavori di Montesquieu e di altri illuministi, e Kader Abdollah lo sfrutta sapientemente per parlare di culture che si mescolano, non solo nella dimensione “alta” dello scambio intellettuale, ma anche in quella quotidiano dei flussi migratori.

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Una delle ragioni principali per cui si è messo a scrivere il romanzo, racconta, è stata la terribile immagine del piccolo Aylan morto sulla battigia, ma a questo si mescola un punto di vista sicuramente originale, e molto intelligente, sulle questioni all’ordine del giorno sui nostri giornali. Tra il serio e il faceto, ricorda come l’anno scorso, durante una sommossa degli abitanti di un paesino olandese che non volevano sentirne di ospitare alcuni rifugiati, lui si sia recato per capire le ragioni di tanto odio, per ispirarsi a scrivere e prendere il polso della realtà: dopo aver sentito i cori, le ingiurie, i lanci di pietre, anche lui, a un certo punto, si è sentito trascinato nella folla, e ha provato il piacere indescrivibile di poter gridare anche lui con gli altri “ Refugees go home”, sentendosi “un vero maschio olandese bianco”; è questo quello che vogliamo, è questo quello che noi stiamo difendendo, il nostro privilegio di essere occidentali? “Siete liberi di amare e odiare gli altri, capisco le vostre paure, anche se non giustificate, ma fatelo a viso aperto, non lasciate che il vostro odio covi in silenzio” conclude “ perché dovete sempre ricordarvi che questo è il vostro tempo, tra venti o trent’anni chissà dove sarete, probabilmente sostituiti da una generazione che avrà idee completamente diverse dalle vostre. Anzi, fate la prova, invitate un immigrato, un rifugiato, un profugo siriano a casa vostra, offritegli pane e formaggio e sussurrategli sette volte nell’orecchio ‘ ti odio, ti odio, ti odio!’. È probabile che il giorno dopo vi sveglierete pensando ‘ehi, questi migranti non sono poi così male!’”.

 

Andrea Rubiola