CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 564

“Transmissions people – to – people”

La trasmissione di millenari “saperi” cristallizzata nelle fotografie di Tiziana e Gianni Baldizzone, in mostra al Museo del Risorgimento di Torino
Fino al 30 agosto 2020


Il loro viaggio (vario armamentario fotografico a spalle) è durato oltre sette anni, dal 2010 al 2018. Instancabili, curiosi e appassionati globetrotters in Asia, in Africa e in Europa. Senza dimenticare l’Italia e lo stesso Piemonte. L’obiettivo, maturato dopo una lunga esperienza fra i popoli nomadi (“in deserti di sabbia, d’erba e di neve”) – per i quali fondamentale diventa la pratica trasmissione, dai vecchi ai giovani, degli strumenti, delle conoscenze e dei valori che permettono di vivere e sopravvivere in ambienti spesso estremi – quello di riflettere, oggi e a diverse latitudini, sul passaggio del testimone, del “sapere” e del “saper fare”, non come atto banale e ripetitivo o imposto dall’alto ma come prodigioso miracolo di avventure esistenziali che si incontrano, si annusano e si amano alla follia, per condividere esperienze che diventano concretezza di sogni e di gesti capaci di portare in volo l’umana quotidianità: di mestiere in mestiere di generazione in generazione di padre in figlio da maestro a discepolo da occhi a cuore. Da Oriente a Occidente. Storie universali. People – to – people.

 

Nasce così la mostra “Transmittions” a firma di Tiziana e Gianni Baldizzone (compagni di vita e di mestiere, da oltre trent’anni impegnati in progetti fotografici pluriennali su temi specifici e al loro attivo 25 libri pubblicati in Italia e all’estero da importanti editori), ospitata – dopo un’anteprima a Milano nella Pinacoteca di Brera e due importanti esposizioni a Tokyo e a Parigi – nel corridoio monumentale della Camera italiana al Museo Nazionale del Risorgimento di Torino, fino al 30 agosto del 2020. Curata da Tiziana Bonomo, l’esposizione torinese mette insieme 60 fotografie (alcune inedite) in grande formato, a colori e in bianco e nero che raccontano per l’appunto la “trasmissione del sapere” in paesi e culture diverse, attraverso scatti di notevole levatura tecnica e poetica, protagonisti circa 200 fra maestri e allievi, maitres d’art francesi, “Tesori Umani Viventi” del Giappone, artisti, artigiani celebri o sconosciuti, depositari di più di 40 discipline. Dicono i Baldizzone: “Quello che ci interessa cogliere è il rapporto umano, il vivere insieme, il dialogo maestro-allievo per maturare la condivisione e i legami generati dall’atto di trasmissione: intergenerazionali, interculturali, interprofessionali”.

Ecco allora in parete, fra le tante (e molte potrebbero diventare incredibili soggetti cinematografici), la storia di Aboubakar Fofana, oggi giovane uomo del Mali che all’età di sette anni sente raccontare da una donna come con le foglie verdi dell’indaco si possa dipingere di blu una stoffa. Ne resta folgorato. Studia in Francia, ma l’ossessione di quel colore gli resta appiccicata al corpo e all’anima; fondamentale, anni dopo, l’incontro in Giappone con l’arte della calligrafia e con il maestro Akiyama che gli disvela tutti i segreti di quell’ideale connubio, vecchio di 5mila anni, fra blu e viola. “Salvaguardare l’indaco, conservare una memoria perduta dell’Africa occidentale – racconta Aboubakar – è diventata la mia ossessione e il mio progetto di vita”. Oggi Fofana è artista e textile designer di fama internazionale. Accanto alla sua, troviamo la bella favola dell’apprendista calderaio diventato maestro orafo per Hermés e quella di Eriko Horiki, ex-impiegata di banca giapponese e oggi artista, notissima a livello mondiale, di carta washi (translucida e fatta a mano) per l’architettura d’interni. Estelle Guénégo è invece la giovane francese con una passione indomabile per l’argilla che la porta a diventare la prima donna tornitrice di porcellana alla manifattura di Sèvres dal 1741. Allievi e bravi maestri. I maestri che sanno “spingere l’allievo a superarli”: parola di Serge Pascal, fabbro d’arte dei “Compagnons du devoir”, anche lui celebrato nel panorama fotografico dei Baldizzone in un corposo toccante “zibaldone” di immagini, pensieri e storie “che vanno in alto – scrive Tiziana Bonomo – come il ventaglio di sciarpe nei diversi colori dell’indaco a guardare il cielo…incantato dalla luce del tramonto. Artigianato? Mondo antico e perduto? No. Modernità che irrompe e crea e si moltiplica”.

Gianni Milani

“Transmissions people – to people”
Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, piazza Carlo Alberto 8, Torino; tel. 011/5621147 o www.museorisorgimentotorino.it
Fino al 30 agosto 2020
Orari: dal mart. alla dom. 10/18; lunedì chiuso

Nelle foto

– “Scuola dell’Acqua SMAT”, 2019, Italia

– “Aboubakar Fofana, artista maestro dell’indaco”, 2011, Mali

– “Comunità di vasai”, 2011, Birmania

– “Eriko Horiki, artista della carta washi”, 2012, Giappone
– “Estelle Guénégo, responsabile atelier smaltatura Sèvres”, 2012, Francia

I tormenti di Joker

Una delle pellicole più note, di successo e discusse di questa prima parte di stagione cinematografica autunnale, è, sicuramente, Joker, diretto da Todd Philips, interpretato da Joaquin Phoenix e con attori del calibro di Robert De Niro nel cast.

Il film, vincitore del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia, parte dal pretesto di raccontare le origini dell’avversario per eccellenza di Batman, impresa giàtentata in passato da altri lungometraggi, discostandosi da qualunque corrispondenza con ottant’anni di fumetti incentrati sul personaggio, per esplorare un ampio spettro di tematiche che conferiscono al film dignità di opera a se stante e sicuramente con finalità di lavoro d’autore e impegnato.

Certamente la prima qualifica che scaturisce alle labbra, dopo averne concluso la visione, due ore di tensione mai sciolta e sempre in crescendo, è di disturbante, una vicenda tormentata, violenta, disperata e disperante, senza alcuna luce che possa accendersi né nel corso della narrazione né al suo fondo dove, invece, l’oscurità sorge e lascia ad intendere tutto ciò che seguirà e che i fan di Batman – cui non mi ascrivo, anzi, sono totalmente ignorante nell’ambito dei supereroi –  conoscono.

Devo fare una premessa: non sono un grande cinefilo e, al termine della visione, mi sono apparsi chiari i due motivi per cui tendo a preferire la narrazione su carta rispetto a quella del grande schermo.

Il primo di essi è il più rilassante rapporto che si può avere con la parola scritta, capace di coinvolgere ma mantenere un sufficiente distacco che, al contrario, l’immagine supera, acquisendo un’intrinseca forza, ma anche invadenza e violenza, in quanto sempre gettata in faccia allo spettatore, colpendolo ad un livello emozionale che si rivela sicuramente più conturbante; il secondo è rappresentato dalla maggior libertà esplorativa e riflessiva che la scrittura possiede rispetto alla narrazione visuale, contingentata spazialmente e temporalmente, costretta a ricorrere molto di più al sottinteso o alla suggestione di una rapida inquadratura, in un certo senso più vicina alla poesia che alla prosa.

Se il primo termine di questo confronto è qualcosa di soggettivo che dipende dalla capacità “digestiva” di ciascuno, dunque insignificante per qualunque critica costruttiva, sul secondo punto si vogliono invece fondare le osservazioni e le riflessioni svolte nel presente articolo.

Partiamo dall’interpretazione “politica”: Joker  come film di “denuncia”, attributo che si potrebbe dare al film appena letta la trama o viste le prime scene, cosiccome a partire dall’intero ambiente relazionale e sociale che la Gotham City grigia, piovosa, degradata e spaventosamente diseguale descrive.

Questo primo aspetto, per quanto possa apparire controintuitivo, è quello che rimane meno articolato e meno chiarito nel film; forse ciò cui la sceneggiatura punta è proprio il caos, facendo chiari riferimenti alla contemporaneità, senza però necessariamente avere una tesi da dimostrare, bensì mostrare una condizione di tumulto crescente, di confusione sempre più imperante.

Il film narra, di fatto, l’esplosione di una serie di bombe ad orologeria che emergono sia dal singolo, la frustrazione crescente di Arthur Fleck, il futuro Jocker, abbandonato a se stesso e alla malattia mentale, privato dall’amministrazione del supporto clinico e psicologico, del lavoro e del rispetto che merita come essere umano in lotta per un’esistenza difficile, gravata dalla madre da curare, sia dalla collettività, che interseca in più punti l’evoluzione, in realtà sempre in solitaria, del protagonista, lo erge a simbolo, senza che a lui questo possa minimamente interessare – al più, da criminale e malvagio come diverrà, potrà cinicamente approfittarne o sfruttarlo per solleticare il proprio ego – risolta nella rivolta finale, un sabba di fuoco, violenza, sangue, e nell’assassinio dei genitori di Bruce Wayne, un giorno, molti anni più avanti, Batman, paradossalmente unico gesto non compiuto da Jocker — che pure durante il film contro la famiglia Wayne catalizza e sviluppa motivi veri e presunti di rancore –  bensì da un personaggio anonimo, ladro e al più associabile alla categoria del mitomane, del solitario autore del gesto eclatante, colui che colpisce il simbolo in un modo più simile all’assassinio di John Lennon che al delitto politico contro il nemico di classe o di ideologia.

Non è chiaro se il film abbia una finalità di analisi socio-politica con una tesi precisa e, se questa voleva essere inserita, è trattata con una certa fretta, e in questo senso l’opera cinematografica perde rispetto agli spazi riflessivi che la narrazione scritta avrebbe potuto avere, ed è ulteriormente limitata anche nello svolgere ciò che pure potrebbe compiere con efficacia.

In particolare, Joker  non fornisce una risposta néche questa sia, detto molto grossolanamente, “a sinistra”, “marxisticamente” in quanto, pur ponendo alcuni problemi, manifestando la difficoltà e la disparità etica, morale, sociale, politica (la sospensione del supporto psicologico e farmacologico, l’abbandono dei derelitti, la violenza gratuita e la sopraffazione, il fatto che “sono io o gli altri sono tutti pazzi?” cioè la perdita da parte degli esseri umani di qualunque forma di empatia, disponibilità, quei valori qualificati spicciamente da certuni con lo sprezzante “buonismo”) non li sviluppa, li scioglie in una rivolta disorganizzata e violenta che diventa una regressione alla devastazione ed alla legge della giungla, una protesta che non ha argomento né richieste, ma soltanto l’attacco all’élite, vera o presunta; non è sicuramente una rivoluzione come quella francese o quella bolscevica, quella di cui siamo spettatori, ma neppure una sollevazione connotata come quella venezuelana, di Hong Kong, o quella cilena di questi giorni; ricorda, tutt’al più, la degenerazione che il movimento dei gilet gialli ha avuto, settimana dopo settimana, da protesta della Francia provinciale e rurale contro i rincari del carburante a vandalismo generalizzato e rivolta viscerale contro il governo Macron, o il movimento dei forconi che qualche anno fa aveva paralizzato per un paio di giorni l’Italia intera.

Ma, d’altra parte, è evidente che il film non è neppure reazionario, non sposa le tesi che potremmo considerare “conservatrici”, quelle racchiuse nell’argomento dell’invidia che le persone, incapaci di adattarsi al nostro modello di società, provano verso chi ce l’ha fatta ambendo piuttosto al parassitismo dello stato sociale; il film non propone una risposta “ a destra” alla condizione di Gotham City, perché gli uomini d’ordine sono chiaramente descritti come negativi e antipatici, a partire da Thomas Wayne, élite facile al giudizio, al paternalismo e del tutto priva di empatia, prepotente e spietata, come i tre ragazzotti uccisi dal protagonista in una circostanza che specialmente la mentalità americana potrebbe configurare come ai limiti della legittima difesa e che a noi ricordano le vicende del delitto del Circeo.

Le uniche forze dell’ordine neutre o, in questa situazione così esasperata, poco più che buonuomini impotenti, desiderosi di fare il proprio lavoro, ma di fatto privi di mezzi, sono i due poliziotti che indagano sui misfatti e arrivano ad Arthur Fleck, invano, finendo nel più classico degli equivoci del poliziotto che spara all’innocente, anch’esso però liquidato con una facilità che non rende giustizia alle note questioni poste dalla facilità della polizia americana al ricorso alle armi, e ancor più insoddisfacenti per il pubblico italiano che da quarant’anni almeno, senza mai venir meno all’attualità, è abituato a vicende di cronaca relative ad abusi accertati o sospettati delle forze dell’ordine.

Jocker, da questo punto di vista, è un progetto incompleto, forzato anche dalla necessità di costruire un supercattivo, ma non può ambire agli scopi del cinema neorealista italiano – si pensi a quale esito potrebbe avere lo sviluppo del tema del malato privato, diciamolo brevemente e seccamente, delle cure passate dalla mutua, una tragedia a suo modo vicinissima alla condizione del protagonista di “Ladri di biciclette”, film che tutt’oggi potrebbe essere riproposto a partire dalla vicenda, ad esempio di un rider privato di un mezzo che, assieme al cellulare, entrambi spesso di proprietà, è veramente la chiave del proprio sostentamento – , o agli sforzi letterari di autori come Hugo nei Miserabili, dove di nuovo tutto ruota attorno al criminale, o di tanti romanzi dostoevskiani.

Dostoevskij può consentirci, forse, di trovare una chiave di lettura per Joker, ma certamente non andandolo a confrontare con l’assassino per eccellenza della sua produzione, il Raskol’nikov di Delitto e Castigo: Joker, invece, rappresenta uno degli archetipi di quei personaggi dalle vocazioni superomistiche, amorali e, in definitiva, criminose, prive di qualunque valore, tantomeno quello della vita umana, che popolano i Demoni.

Questa interpretazione di Joker può essere avvicinata al glaciale, spaventoso ed affascinante Stavrogin, la condensazione di tutti i terrori dostoevskiani spogliata da qualunque vocazione politica o filosofica, i Demoni non sono certamente né i filosofi atei con una personale statura morale (Ivan Karamazov, Svidrigailov), né i giovani portati all’anarchia o al socialismo da ideali progressisti rigettati dall’ultimo Dostoevskij, imbevuto ormai del mito conservatore e assieme esistenzialistico della Santa Madre Russia. Joker potrebbe figurare in mezzo a quei “nichilisti”, termine cui sono adusi i lettori dei grandi romanzi russi dell’Ottocento; ha una dimensione superomistica e negatrice che, però, distorce, primo di una lunga serie di travisatori, l’ideale nietzschiano che, invece, pone sempre in grande valore l’uomo, ha un suo sentimento e umanità e, certamente, non può concepire il matricidio (e in questo non c’è nulla di freudiano, né nel rapporto con la madre né con il presunto padre Wayne) di cui Arthur Fleck si macchia.

Tutto ciò, però, vuol dire postulare, dal punto di vista dell’analisi politica e sociale, una totale assenza di risposte che non sia appunto il caos e un individualismo sfrenato in cui, però, uno non vale né uno né mille, ma poco più che nulla, l’esistenza umana si può spegnere a piacimento con le armi, i morti non si contano più.

 

È dunque un nichilismo che non ha nulla a che fare neppure con lo Zarathustra che, al contrario, crea dietro di sé un’accolita di reietti e di individui grotteschi e deformi, ma proprio per questo ancor più unici e connotati (non diversi dagli scherzi di natura che tirano a campare nell’azienda di intrattenimento dove Fleck lavora), così come di fatto Jocker non è neppure populista, nel senso che, pur eretto a simbolo, non cavalca di fatto la rivolta, si limita a goderne, ma non se ne fa capo, pur potendone in teoria trarre grande vantaggio.

Il riferimento al comico che fonda un movimento politico, a orecchie italiane, e non solo, particolarmente evidente, non è, comunque, così calzante nel nostro caso; Joker non ha nulla del leader carismatico di una rivolta, non è né un Hitler che magnetizza le folle nelle osterie bavaresi né un Danton, è più un capo ultrà, paradossalmente ha più del Renzo che diventa improvvisamente simbolo della rivolta del pane che del capopopolo: la sua danza sulla volante della polizia accartocciata rappresenta i suoi quindici minuti di celebrità del mito televisivo.

L’interpretazione potrebbe, allora, essere portata sull’aspetto prerazionale, persino premorale, della compassione, della comprensione verso questo personaggio, un uomo costretto ad essere un fallito pur avendo qualche possibilità, che si sforza di essere figlio affettuoso, che affronta a capo chino interminabili rampe di scale: sicuramente, ma ad un certo punto anche questo viene meno, perché la condotta del protagonista diventa sempre più abnorme ed ingiustificabile, sproporzionata ed incline al lato oscuro, e più cresce la sua crudeltà, più noi non possiamo che staccarcene, dichiararci incapaci di giustificare ciò che all’inizio potremmo aver anche tollerato, tutto si discioglie anche qui nel caos e nella semplice manifestazione di una malattia mentale che diventa pericolosa ed inarrestabile.

Quando Fleck non prende più i farmaci, non libera una persona che era tenuta sedata e repressa, e che pure finché era in cura lasciava intuire ciò che di positivo (non si può proprio, in questo film, parlare di buono) poteva nutrire dentro di sé, lascia scatenare semplicemente la follia, tutto si scioglie nell’assurdo, nel paradossale, anzi, per trarre un vocabolo dalla terminologia clinica, molto appropriato in questo contesto, paradosso.

Pertanto, se è vero che il film ambisce ad essere, ed effettivamente lo è, una grande parabola, se non addirittura un ammonimento, sul tema della compassione, della simpatia intesa etimologicamente come capacità di soffrire con l’altro, di comprendere le sue difficoltà e sofferenze, sostare per cercare di condividerne o alleviarne la strada, per quanto il mondo descritto sia un universo di persone e relazioni che domandano o che avrebbero bisogno di pietà ed invece ricevono solo insulti, percosse od insofferenze, il climax finale rende sempre più impossibile da giustificare, e soprattutto investe di un miscuglio fatto di male e follia, il moto di comprensione che pure, sin dall’inizio della narrazione, lo spettatore prova nei confronti del personaggio; ancora una volta, il richiamo è ai tanti fatti di cronaca, anche recenti, quelli che più dividono l’opinione pubblica solitamente tra chi condanna a testa bassa e chi invece, pur cercando di osservare prospetticamente la questione, si trova in tutta a coscienza a dover formulare un giudizio che tenga in giusto conto fattori come le colpe della società, del clima di sempre crescente intolleranza, di estremizzazione, di vicende umane dolorose che, accumulandosi, hanno però avuto come valvola di sfogo gesti in cui da vittima si passa a carnefici, dove è evidente la natura criminale e necessariamente sbagliata dell’azione compiuta.

 

Se però gli aspetti sociali, politici e morali risultano sviluppati o difficoltosamente o con una tesi che preclude qualunque forma di speranza, dove il film veramente la vince è sul tema del riso.

Il tema del pagliaccio triste, che diventa addirittura diabolico, ribaltando quindi quello che dovrebbe essere il suo ruolo, è un topos che va indietro almeno fino all’opera di Ruggero Leoncavallo, la lacerazione tra la parte che si deve recitare e il tormento che si vive conosce infinite declinazioni: l’interpretazione, estremamente contemporanea, che il film dà del tema risiede nel fatto che tutti ridono, ma nessuno sorride.

Meglio ancora, non c’è neppure riso nel film, c’è solo risata, c’è soltanto il vocalizzo, il verso, non dissimile dalla fonazione animale: non è un riso, ma una risata, lo spasmo di Arthur Fleck, inopportuno, patologico, sardonico e tormentato, causato dalla sua malattia, che passa pian piano da gesto incompreso, quint’essenza della sua solitudine, causa di stigma sociale non dissimile dalla pirandelliana esclamazione di condanna “Tu ridi!” alla base della celebre novella che molto ha in comune con i temi trattati dalla pellicola, a simbolo del riso malvagio e agghiacciante del nuovo criminale nemico pubblico numero uno.

Ma sono altrettanto poco più che vocalizzi, spesso guidati da una luce in studio espressione delle direttive di regia, le risate dei tanti spettatori dello show serale condotto da Murray Franklin, unica e totalizzante distrazione nella difficile vita degli abitanti di Gotham, che si riduce però a gesto vuoto, grossolano, insignificante; allo stesso modo è vuoto il divertimento dei maggiorenti di fronte alla maschera sempre triste, e solo superficialmente comica, di Charlie Chaplin in Tempi moderni.

Non c’è vera gioia, se è il conduttore a decidere che cosa faccia ridere e che cosa no, tutto si inquadra in determinazioni semplicistiche: niente humour nero, niente sesso (se non grossolanamente inteso), niente volgarità (a meno che non sia facile e già precotta) ma neanche niente approfondimento, riflessione, satira od umorismo.

E Arthur Fleck, nel suo desiderio di diventare un comico, cerca di conformarsi a tale società, bussa disperatamente perché gli si aprano le porte del mondo dei cabaret, dei piano bar, persino della televisione, ma in modo assolutamente conformista: oltre a non far ridere come comico, perché evidentemente non solo incapace e, comprensibilmente, privo della disposizione d’animo per essere gaio e spensierato, se anche riuscisse nel suo intento, giungerebbe semplicemente all’omologazione, perché la sua comicità è la stessa comicità greve ed approssimativa, conformistica, di tutti gli altri che nel mondo dello spettacolo vivono.

Il punto di rottura, preludio all’assassinio in diretta del conduttore, gesto eclatante e mediatico per eccellenza, si verifica quando Arthur comprende, in un rigurgito di malata dignità, e noi con lui, che tale comicità oltre ad essere vuota e superficiale, distrattrice, è anche spietata, perché è politicamente corretta soltanto verso la gran parte del pubblico, “i normali”, mentre non si fa scrupoli di mettere alla berlina chi a questa normalità non si adegua o non può appartenere: la televisione che si fa trash, un trash “per famiglie”, ancora diverso dalla spettacolarizzazione della rissa, dell’insulto o del dolore, più vicino alla “Corrida” che ai programmi della D’Urso.

Tale riso diventa la quintessenza dell’inautenticità, per parlare il linguaggio caro agli esistenzialisti, in cui l’individualità si discioglie nel “Si”, per posticipare ed ignorare i veri problemi, nel dimenticare la complessità per riposare in una distraente e confortante superficialità.

Si tratta, in sostanza, dello stesso riso sul quale si fonda la gran parte della comunicazione e della produzione che circola in rete: tutto deve essere divertente, tutto deve essere facile, tutto deve essere gioco; è il caso dei tanti video, divertenti o presunti tali, che infestano i nostri social media, quelli con cui, si vede sovente sui mezzi pubblici, per strada, sulle panchine, i genitori inondano i bambini proprio con lo scopo di distrarli, ai quali tanti adulti anche ritornano, di fatto con una regressione infantile, senza comprendere le potenzialità che la rete ci mette a disposizione, ignorando lo sforzo dei tanti produttori di contenuti ricchi di qualità e sfaccettature che fanno leva sulla facilità di accesso dei nuovi mezzi di comunicazione.

È il riso del fenomeno da baraccone, da scemo del villaggio, ma è anche il riso di tanti meme, le immagini umoristiche il cui nome riprende un concetto elaborato negli anni ‘80 dal biologo Richard Dawkins per indicare un elemento culturale e sociale che si riproduce oltre ogni aspettativa e comincia a vivere di vita propria, come se fosse un gene mutante e talvolta impazzito.

Se si parla di riso, inevitabilmente, non possiamo che tornare ad Umberto Eco, agli strali che Jorge da Burgos getta sul gesto che storce il volto dell’uomo e lo rende simile alla scimmia, alla sua lotta disperata e censoria per nascondere e infine distruggere le parti della Poetica di Aristotele dedicate alla comicità – e, sia detto per inciso, la commedia greca, pur permettendo allo Stagirita la riflessione teorica nel suo dualismo con la tragedia, non è certo un punto particolarmente elevato di humour e acutezza, al contrario condivide molto della volgarità e del conformismo, in fondo conservatore, dell’avanspettacolo –, alimentando l’atmosfera di repressione sociale, intellettuale, sessuale, che campeggia sull’abbazia scardinata dall’intelligenza, dallo spirito critico ed illuminato, e da una buona dose di humour squisitamente inglese, rappresentati da Guglielmo da Baskerville.

Il riso che Jorge vuole reprimere e che, invece, Umberto Eco difende è il riso ironico, distruttore di qualunque verità precostituita, l’ironia maieutica di Socrate (e dello stesso Eco, il cui humour è forse il più gradevole aspetto della sua scrittura) o la risata destinata a seppellire, motto dell’anarchia sin dalla fine dell’Ottocento, la distruzione dei parafernali inutili, che sovraccaricano di forma l’assenza di contenuto o la sua natura retriva.

Se Il nome della rosa difende il riso, Joker  lo distrugge: da che parte si può stare allora?

Dalla parte che comprende che gli argomenti svolti dalle due opere non sono antitetici, ma complementari: Eco tanto difende la forza del ridere e la sua valenza positiva nel suo primo romanzo quanto si spende a lungo ad analizzare e criticare i meccanismi del trash e della comicità facilona televisiva, le gaffe di Mike Bongiorno, le produzioni televisive dai paradigmi conformisti e democristiani della Rai anni ‘60 fino a quelli volgari, ma dirompenti, della Mediaset anni ‘80.

Per mostrare quanto bene questi argomenti si concilino, basta considerare che il tempo in cui vive Joker sono proprio i primi anni ‘80, i mezzi di comunicazione a disposizione sono soltanto i giornali e la televisione onnipresente e imperante, che occupa tutti gli spazi ora erosi e contesi dagli altri social media, con linguaggi diversi – limitazione cronologica che in un certo senso è un’altra debolezza del film, che perde in parte di vista le dinamiche più contemporanee di aggregazione delle persone e diffusione del malcontento, necessariamente mediate dai social network – ; non c’è contrasto, c’è sfaccettatura, una sfaccettatura che, riproiettata sulla nostra contemporaneità, si traduce nella viralità dei video di scherno, sopraffazione, umiliazione o inconsapevole autoumiliazione.

Tuttavia, se la presa in giro, lo scemo del villaggio e la berlina sono dinamiche purtroppo sempre esistite, spesso tanto più forti quanto più la comunità è provinciale e chiusa – e certamente la provincializzazione del villaggio globale, dunque dell’intero mondo, è un rischio concreto –, più squisitamente tipico della nostra epoca è proprio la riduzione di ogni cosa al riso e alla dimensione ludica, per cui tutto è facile, tutto è assimilabile al divertissement pascaliano, ai giochi da cellulare con i quali riempire i tempi morti senza un vero coinvolgimento spirituale o intellettuale, alla produzione invasiva e priva di originalità del meme che schiaccia in una non-prospettiva primitiva e semplifica ogni cosa, non soltanto dissacrante, ma di fatto privo della comprensione e della forza interpretativa che ogni prodotto con un significato dovrebbe possedere, al politico che imita l’imitatore, che svuota di contenuti la sua attività comprendendo che, per rendersi riconoscibile, deve passare dalla semplificazione del linguaggio e, possibilmente, dal gesto che lo renda immediatamente individuabile, e che cosa c’è di più facile che accentuare i propri tic, i propri comportamenti paradossali, le proprie incoerenze, sbeffeggiate dall’imitatore, che fa satira, e indossate dal personaggio reale come una parte da recitare continuamente, alla quale si finisce forse per credere, sapendo che ricade a proprio vantaggio.

Joker avvolge, ammorba, strazia nel cinismo, è cinica persino la colonna sonora, la voce di Frank Sinatra che canta il sogno americano e conclude con un That’s life crudelissimo ma perfettamente adattato al genere di follia incarnato dal protagonista, persino la grafica utilizzata, più simile ad una commedia musicale che ad un film di supereroi e tantomeno ad un thriller psicologico, segna il contrasto: il mondo di Joker è pieno di rumore, di grida e di risa, spari e degrado, sferraglio di vagoni e vociare di folle, ma manca di sorriso, questo sì gesto empatico e cordiale, tranne forse il mezzo sorriso stiracchiato alla base dell’infatuazione del protagonista per la vicina, che non è né una semplice fantasia sessuale né un’opportunità di redenzione, ma un miscuglio, anch’esso, di volontà di potenza e bisogno, presto anch’esso dissolto in pulsioni di morte, di umanità.

Non è certo il caso di stabilire se il film sia destinato ad entrare nell’olimpo dei grandi film, ha le sue forze e le sue debolezze, ma certamente è contemporaneo, è adatto al momento in cui viviamo e come tale, inevitabilmente, fa parlare di sé, suscita discussioni ed interroga; persino, in conclusione, interroga sul motivo per il quale siamo andati a vederlo: passione per il personaggio fumettistico, interesse per la vicenda narrata, semplice desiderio di spettacolo, andiamo a vederlo e poi ci riflettiamo su o è solo un altro film con celebri attori e soprattutto il nuovo inizio di una saga supereroistica?

La risposta che ognuno dà è a sua volta parte dell’interpretazione di questo film, in quanto ci schiera nel mosaico di atteggiamenti che ciascuno ha nei confronti del confine tra realtà, spettacolo e finzione, serietà e intrattenimento, che caratterizza il nostro mondo.

 

Andrea Rubiola

Carlo Gloria ritorna a Palazzo Bricherasio

Il prossimo 30 ottobre 

 

Si inaugura mercoledì 30 ottobre alle 17,30 nell’androne di Palazzo Bricherasio in Via Lagrange 20, una installazione di Carlo Gloria, Vado e Vengo, che crea un nuovo collegamento tra il passato e il presente dell’edificio.

Carlo Gloria inaugurò, infatti, nel 2002 – nell’allora sede della Fondazione Palazzo Bricherasio -, la rassegna “Outside: interventi site specific di arte contemporanea”, curata da Guido Curto. Oggi l’artista ritorna con una installazione che richiama la precedente e riapre di fatto il dialogo tra l’arte contemporanea e lo stesso Palazzo, sede istituzionale di Banca Patrimoni Sella & C.

Per ritrovare il giusto fil rouge tra ciò che è stato e ciò che è attualmente, Daniela Magnetti, già direttrice della Fondazione Palazzo Bricherasio e ora direttrice artistica di Banca Patrimoni Sella & C., riscopre quel che è rimasto dell’opera di Carlo Gloria Dodici milionesimi e chiede all’artista di rivederla in chiave attuale. Infatti, dei 12 affreschi digitali realizzati nel 2002 nelle esedre e lungo le pareti dell’ingresso, solo 3 sono ancora esistenti, parti integranti dell’edificio: le due grandi figure nelle nicchie e l’opera nella piccola cupola sopra lo scalone d’onore.

Da qui riparte il lavoro di Carlo Gloria con Vado e Vengo, una riflessione spazio-temporale che coinvolge sia il luogo sia coloro che lo frequentano e l’hanno frequentato. Le figure che animano gli spazi affrescati 15 anni fa, sono visibilmente “diverse” da quelle riprodotte allora: cambiano gli abiti e gli atteggiamenti, così come è cambiata la destinazione d’uso del Palazzo. Differente è anche lo sguardo dell’artista, che rende più “fluidi” i soggetti, trasformandoli in immagini che, seppure anonime, comunicano ancora familiarità. Realizzate partendo da fotografie scattate nei pressi del palazzo, rielaborate al computer con una post produzione che sfuoca le figure rendendole “forme cromatiche”, le immagini vengono poi stampate con il plotter a getto d’inchiostro e applicate al muro.

Dal 2017 Banca Patrimoni Sella & C. ha iniziato a partecipare attivamente ad alcune iniziative culturali sia sul territorio torinese che nazionale, per restare fedele all’identità storica e artistica che sin dalla sua istituzione – con il cenacolo della contessa Sofia di Bricherasio – si respira nelle sale del Palazzo.  “Una sorta di DNA innato – dice Federico Sella, Amministratore Delegato e Direttore generale di Banca Patrimoni Sella & C. – proteso all’arte e al mecenatismo che il nostro Istituto condivide profondamente e intende fare suo”. Sostiene ancora Daniela Magnetti: “Non esistendo più la possibilità di dedicare esclusivamente all’arte le sale interne dell’edificio, Banca Patrimoni Sella & C. esce dagli spazi canonici, allestendo la mostra di Carlo Gloria nel lungo corridoio di accesso del Palazzo, trasformandolo in un luogo espositivo fruibile da tutta la cittadinanza”. Sabato 2 novembre, in occasione della notte bianca dell’arte contemporanea, l’accesso alla mostra rimarrà eccezionalmente aperto dalle 15 alle 23. Per informazioni 347 7365180.

Nell’immagine, Carlo Gloria, bozzetto per l’installazione “Vado e vengo”, 2019.

“Primo Levi. Figure” Le fantasiose, bizzarre “creazioni metalliche” dello scrittore torinese

In mostra alla GAM di Torino
Fino al 26 gennaio 2020
In mostra troviamo il volto, o meglio uno dei volti meno noti al grande pubblico, di Primo Levi. Non solo accorato testimone con la parola scritta (fra le più alte e toccanti nel panorama letterario internazionale) degli orrori di Auschwitz e della Shoah, ma anche personaggio complesso, ricco di molteplici interessi e infinite bizzarre fanciullesche curiosità che si traducevano in svariate elaborazioni della mano e della mente, accompagnandosi ai quotidiani impegni professionali di chimico delle vernici, nonché direttore della “Siva” di Settimo Torinese.

Fra queste, l’originale creazione di lavori tridimensionali in filo di rame smaltato (metallo“sangue del mio sangue”, poiché già nell’infanzia suo compagno di giochi nel laboratorio del padre Cesare, ingegnere dirigente dell’ungherese Ganz, e anni dopo suo primo materiale di lavoro alla “Siva”) attraverso cui si divertiva a creare figure stupefacenti per la certosina pazienza della composizione e per l’esaltante carica di fantasia che a ruota libera Levi lasciava correre nella definizione di sagome di animali – dai più comuni agli improbabili vilmy o agli atoula con le loro femmine nacunu – ma anche di creature fantastiche e di soggetti umani. O umanoidi. Si tratta di lavori risalenti probabilmente al periodo 1955/’75, con un forte carattere intimo e domestico, destinati agli scaffali dello studio nell’alloggio dello scrittore in corso Re Umberto a Torino, oppure ad essere regalati agli amici più cari: mai considerati (ci mancherebbe! E men che meno dallo stesso Levi) come opere d’arte, ma come “gioco” esaltante, allegro, ironico, istrionico e visionario, senza nulla togliere alla grazia e alla squisita armonia di manufatti che rivelano la grande abilità manuale dello scrittore (“imparare a fare una cosa – diceva – è ben diverso dall’imparare una cosa”) tradotta nella precisione scientifica di particolari in cui mai è negato l’estro “impressionista”, a volte casuale, dell’esecuzione.

 

Orbene, un piccolo suggestivo nucleo di queste “figure metalliche” le troviamo esposte, per la prima volta in Italia, fino al 26 gennaio del 2020, negli spazi della Wunderkammer della GAM di Torino, in collaborazione con il Centro Internazionale di Studi Primo Levi e in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita dello scrittore, nato a Torino il 31 luglio del 1919 e a Torino tragicamente scomparso l’11 aprile dell’ ‘87. Curata da Fabio Levi e Guido Vaglio, con il progetto di allestimento di Gianfranco Cavaglià in collaborazione con Anna Rita Bertorello, la rassegna accosta 17 opere, che sono esaltazione del lavoro libero e del confronto ludico “alla Bruno Munari” (autore, fra l’altro, nel ’58 della sovracoperta di “Se questo è un uomo”, in edizione Einaudi) con la materia, che, se compresa, rivela per davvero i segreti più profondi atti a interpretare il mondo. A commento delle “figure”, sono state scelte dai curatori citazioni letterarie – tratte per lo più dall’opera di Levi e, in alcuni casi, da alcuni dei suoi autori prediletti – anziché puntuali didascalie. Scelta che lo stesso scrittore avrebbe condiviso.

 

Lui che affermava: “Non conosco noia maggiore di un curriculum di letture ordinato e credo invece negli accostamenti impossibili”. Così accanto alla figura del “ragno”, leggiamo “meraviglia, meditazioni, stimoli e brividi”; a quella del “gufo”, “ho sentito il gufo ripetere la sua concava nota presaga” e a quella del “guerriero”, “Noi propaggine ribelle Di molto ingegno e poco senno”. Citazioni che pure aiutano a scoprire tratti inediti di una personalità così sfaccettata e complessa come quella di Levi, aprendoci un piccolo varco in quell’“ecosistema – asseriva arguto lo stesso scrittore – che alberga insospettato nelle mie viscere, saprofiti, uccelli diurni e notturni, rampicanti, farfalle, grilli e muffe”.

Gianni Milani

“Primo Levi. Figure”
GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, via Magenta 31, Torino; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it
Fino al 26 gennaio 2020
Orari: dal mart. alla dom. 10/18; lunedì chiuso

– Foto: Pino Dell’Aquila

– La foto di Primo Levi con la scultura del gufo é di Mario Monge

Fontana dei mesi: l’Allegoria dei fiumi e la corrente di Novembre

La statua di novembre al parco del Valentino è stante; la donna resta in piedi in una posizione di riposo, un ginocchio leggermente flesso, le punte dei piedi divaricate, con una mano regge la veste, con l’altra -aperta all’altezza del petto scoperto- fa atto di porgere qualcosa o di indicare una chiara evidenza, chissà. Sul volto l’accenno di un sorriso e una espressione di dolce pacatezza.

Alla Fontana dei Mesi la statua di novembre è la più serena, ha la caratteristica comune alle altre di esprimere con il volto e con il corpo la stessa emozione.

 

Ogni statua delle quattro stagioni è a pieno titolo armoniosa perché dalla testa ai piedi è allegoria di un sentimento tipico di un mese dell’anno, di pacatezza in questo caso, in altri di gioia, di tripudio, di attesa, di felicità, festosità, curiosità, timidezza, scoperta, volontà di condivisione, protezione, fermezza, etc. Ognuno a Torino quando ha tempo, passeggiando alla Fontana, provi ad indovinare quale sentimento si addice meglio ad ognuna di loro indovinandolo dall’atteggiamento del corpo oltreché dall’espressione del viso. Abbiamo visto alcune delle altre statue durante le precedenti uscite e ogni volta abbiamo introdotto in modo più o meno approfondito un movimento artistico su cui riflettere; per questa uscita ho promesso di parlarvi delle quattro statue al centro della Fontana datata 1898 quindi anche in questo caso accennerò soltanto alla corrente che ho pensato per il mese di novembre pescando dalla mia conoscenza della storia dell’arte che si basa sul pensiero di altri che prima e meglio di me hanno ragionato su piccole differenze estetiche nell’arte cogliendo l’inizio e lo sviluppo di una nuova tendenza e di una nuova sensibilità fino a vedere il pieno compimento e il termine di alcune caratteristiche e poi talvolta facendo collegamenti per descrivere altre opere di altri artisti in altri tempi creando una tradizione nel racconto dei beni culturali ossia creando la storia dell’arte, dunque dicevo parleremo solo brevemente del Verismo e del Naturalismo a cui ho pensato guardando la statua di Novembre. Si tratta di due correnti di cui la differenza è grande come la cruna di un ago insomma sintetizzando molto spesso se ne fa un fascio solo e senza nemmeno troppo pensiero, e mescolando tutto insieme con il Realismo persino, infatti queste correnti sono per esprimere la realtà con la massima fedeltà, senza interpretazioni romantiche né idealizzazione alcuna; il verismo dice: bisogna guardare la verità in faccia in modo crudo, qualsiasi esso sia siano riprodotti i fatti stanti seppur nella loro miseria e crudeltà, così da poterne trarre la vera essenza, da poterne conoscere l’allegria e il riso dell’umanità e della realtà riprodotta, mentre il naturalismo di solito invece considera la natura nella sua interezza.

Ha la tendenza a riprodurla in modo veritiero, ma facendo capo a un modello a un pensiero generale intorno alla natura, seppur vago e in qualche modo inconscia espressione della visione personale del singolo artista. Insomma guardando per esempio un quadro naturalista possiamo vedere la natura proprio così come appare in realtà ad un primo sguardo. Possiamo vedere un paesaggio, un bosco ad esempio, come appena arrivati al suo limitare. Quello ci mette a nostro agio immediatamente, ma alla lunga stufa. Un quadro verista invece a tutta prima è onestamente orribile, vero al cento per cento, mostra l’intimità di un personaggio immediatamente senza dare lui tempo di nascondersi come fanno tutti per pudore di mostrare questo o quel difetto, né di presentare la sua profondità psicologica, complessa o semplice che sia, e quindi anche di farsi accettare dall’altro. Toglie il nascondimento, il fascino della conquista. Mostra quel momento di fulgida lucidità a cui si arriva solo al culmine di un lungo discorso e non mostra altro. Solo abituandoci nel guardarlo, riconoscendo particolari veritieri permette di riprendersi dalla forte impressione che un quadro naturalista o per la precisione verista talvolta provoca. Ho scritto abbastanza, tanto che per il momento delle quattro statue al centro della Fontana del Ceppi non posso dire altro se non che tradizionalmente sono espressione di una allegoria: quattro fiumi piemontesi.

Ovviamente vediamo il Po e la Dora che gli abitanti di Torino ben conoscono, uno è l’uomo barbuto assiso, mentre la Dora è la fanciulla con una corona di margherite sul capo affiancata da una capra, poi vediamo il fiume Stura di Demonte rappresentato da tre figure femminili nude avviluppate in stoffe, infine l’affluente di sinistra del Po, il Sengone, raffigurato come un genio acquatico vicino a due giovani amanti. La leggenda di Fetonte e la storia del suo carro sarà per una prossima uscita, Aurevoir!

 

Elettra-ellie-Nicodemi

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

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Michael Dobbs “Attacco dalla Cina”   – Fazi Editore- euro 16,00

Michael Dobbs continua a mettere a frutto la sua esperienza di uomo politico (membro del Parlamento Conservatore inglese, ha guidato lo staff del partito durante il governo della Tatcher) e in più ha il dono di saper imbastire trame accattivanti e sciorinarle con un ritmo cinematografico…Non per nulla è l’autore e sceneggiatore di “House of Cards”, serie tv di strepitoso successo con Robin Wright e Kevin Spacey (poi miseramente naufragata per il vizietto dell’attore).

Dobbs scrive di ciò che conosce benissimo e prosegue sulla linea dei suoi thriller politici (“Il giorno dei Lord”). In “Attacco dalla Cina” ritroviamo il suo protagonista Harry Jones, integerrimo ex militare pluridecorato e sorta di 007 del nuovo millennio. La trama è mozzafiato, e neanche poi tanto lontana da qualcosa che potrebbe davvero accadere. All’orizzonte si profila un “cyber attack” scatenato da geniali hacker cinesi che sta per mettere in ginocchio le principali potenze del globo e scatenare la terza guerra mondiale, senza che venga sparato neanche un colpo. Il primo ministro inglese, Mark D’Arby, convoca, in grandissimo segreto, i principali leader: la presidente americana Blythe Elisabeth Harrison (alle prese anche con i tradimenti del marito) e il presidente russo Sunin (uomo spietato che non esita a uccidere a sangue freddo i dissidenti). Luogo dell’incontro di questi pezzi da 90 è un suggestivo castello scozzese abitato da una nobildonna e suo nipote. Nelle stanze della magione D’Arby cerca di convincere gli altri a reagire immediatamente contro la minaccia. Dietro questo nuovo incubo ci sarebbe il presidente cinese Mao Yanming. Starebbe progettando di mettere in ginocchio il pianeta con un mortale click che prenda di mira centrali nucleari, linee energetiche, mercati finanziari e tutto quello che ormai si regge sui sistemi informatici. Insomma una guerra cibernetica che riscriverebbe i ruoli di potere e supremazia delle nazioni. Godetevi i numerosi colpi di scena e aspettatevi molte sorprese…

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Mazo de la Roche “Jalna”   -Fazi editore- euro 18,00

La vita stessa della scrittrice canadese Mazo de la Roche (nata a Newmarket nel 1879, morta a Toronto nel 1961 a 82 anni) vale più di mille romanzi. Un’infanzia solitaria allietata dalla passione per la lettura, una fantasia inarrestabile che la cala in un mondo immaginario. Un rapporto fuori dagli schemi con la compagna di tutta la vita Caroline Clement: la cugina orfana di 8 anni che i genitori di Mazo avevano adottato quando lei ne aveva 7. Da allora sono state inseparabili, in quello che all’epoca era chiamato “Boston Marriage”, e adottarono anche due bambini. Una vita che ha ispirato il film del 2012“The mystery of Mazo de la Roche” in cui vengono ricostruite scene e fasi della sua vita privata, che lei difese sempre tenacemente.

Nell’arco della sua lunga e complessa esistenza ha scritto 23 romanzi, tra i quali la saga di Jalna, nel 1927. Si rivelò un successo internazionale e lei fu la prima donna a vincere i 10.000 dollari del prestigioso Atlantic Monthly Prize.

“Jalna” è il primo romanzo di una saga familiare architettata in 16 volumi che abbracciano l’arco di tempo tra 1854 e 1954. E’ ambientata in Canada e racconta la storia della famiglia Whiteoak, padroni del maniero di Jalna, nell’Ontario. Capostipiti il capitano Philiph e la sua adorata moglie Adeline. Lei sarà la matriarca che nel romanzo sta per bissare la boa dei 100anni, circondata dalle vicende di uno stuolo di figli e nipoti di cui detiene il controllo, tra una bizza e l’altra. La vita a Jalna sembra scorrere tranquilla; poi a sparigliare le carte ecco l’arrivo di due nuore. La giovane figlia illegittima del vicino Pheasanth, che sposa Piers con un colpo di mano, e nessuno in famiglia accetta. Mentre sembra andare un po’ meglio con l’intellettuale newyorkese Alayne, che impalma Eden, convinta che lui abbia un glorioso futuro come poeta, salvo poi   scoprire che è un pigro indolente. Poi Cupido fa il suo lavoro e le coppie saltano in un incrocio di fraterni tradimenti che non vi anticipo. Un romanzo tutto da gustare che racconta mirabilmente sentimenti, passioni, rivalità e odi all’interno di un complesso nucleo familiare.

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Liane Moriarty “Nove perfetti sconosciuti” -Mondadori-   euro 20,00

Liane Moriarty è l’autrice australiana che ha scritto il romanzo bestseller “Piccole grandi bugie” da cui è stata tratta la serie tv interpretata da Nicole Kidman e Reese Whiterspoon. Ora torna in libreria con una storia ambientata in una remota località termale dal nome emblematico, il boutique-resort

benessere “Tranquillum House”. Una villa vittoriana in cui convergono 9 persone diversissime tra loro, spinte da motivazioni differenti. Denominatore comune: cambiare le loro vite. Dall’avvocato divorzista (che rappresenta solo donne) ai coniugi sull’orlo della separazione; dall’ex atleta alla donna abbandonata dal marito (per una più giovane), per arrivare a un’intera famiglia piena zeppa di problemi. Arriva anche la 52enne scrittrice di romanzi rosa Frances Welty, afflitta da mal di schiena, cuore infranto e declino professionale che la vede un po’ in affanno di vendite.

E’ decisamente incuriosita dagli altri ospiti, ma soprattutto dalla direttrice Masha: donna carismatica, che promette remise en forme di più tipi. Nella sua Beauty Farm in soli 10 giorni l’esistenza può virare al meglio. I vari programmi personalizzati sono all’insegna del lusso e spaziano tra diete detox e dimagranti, meditazione, yoga e coccole varie per rimettere a nuovo corpo e anima.

Ma nessuno degli ospiti immagina quanto si riveleranno difficili i 10 giorni che li aspettano sulla via del benessere. Si troveranno catapultati e prigionieri di ritmi incalzanti, percorsi e pratiche insolite e bizzarre, regole rigidissime. La storia corale, tra siparietti divertenti, ma anche suspence e introspezione, finisce per sconfinare nel thriller …E tenetevi pronti a sviluppi inquietanti.

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28 ottobre 1938, l’addio delle Brigate Internazionali a Barcellona

ACCADDE OGGI

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Despedida in spagnolo significa partenza,addio. E’ anche la parola con la quale si ricorda l’omaggio tributato dai barcellonesi ai volontari stranieri delle brigate Internazionali che lasciavano la Spagna in seguito alla scelta unilaterale del governo repubblicano di smobilitare le loro formazioni per indurre la Società delle Nazioni a pretendere il ritiro dei “volontari” italiani, tedeschi e portoghesi che combattevano nella fila dei nazionalisti di Francisco Franco. Settantanove anni fa, il 28 ottobre 1938 i combattenti delle Brigate Internazionali sfilarono per un’ultima volta sulla Diagonale di Barcellona davanti a duecentomila persone e alle massime autorità repubblicane.

Dolores Ibarruri, la Pasionaria, li salutò così: “Compagni delle Brigate Internazionali! Potete partire a testa alta. Voi siete la storia. Voi siete la leggenda, siete l’esempio eroico della solidarietà e dell’universalità della democrazia!”. L’affetto della popolazione si manifestò in mille modi: applausi, lacrime, grida d’incitamento,lanci di fiori al passaggio dei combattenti stranieri provenienti da cinquantadue paesi dei cinque continenti. Gli altoparlanti annunciarono alla città l’inizio della sfilata con poco anticipo.La situazione consigliava la massima prudenza poiché le truppe fasciste e franchiste erano a ridosso della frontiera dell’Ebro e  la loro aviazione bombardava con frequenza i quartieri di Barcellona e le località catalane.Tutto ciò non impedì quell’incredibile commiato durate il quale avvenne anche il trasferimento delle bandiere e delle armi delle Brigate Internazionali all’esercito repubblicano spagnolo. La Despedida fu uno degli atti conclusivi della guerra civile spagnola, preludio e prova generale della Seconda guerra mondiale. Cinque mesi dopo, in primavera, si affermarono i golpisti di Francisco Franco con l’aiuto fondamentale dei nazisti che inviarono la divisione aerea Condor,forte di circa seimila uomini,e dei fascisti italiani che oltre all’aviazione e alla marina impiegarono in totale circa 60mila uomini, dieci volte più degli alleati tedeschi. Tornando a “las brigadas internacionales” va ricordato che tra il ’36 e il ’37,a difesa del governo repubblicano, arrivarono in Spagna circa quarantamila volontari che formarono queste brigate.

Un quarto di loro persero la vita in combattimento e altrettanti furono i dispersi e i feriti gravi.Altri cinquemila uomini combatterono inquadrati nelle unità dell’esercito repubblicano e diverse migliaia furono impiegati nei servizi sanitari o ausiliari. I primi contingenti,organizzati dalla Terza Internazionale, entrarono clandestinamente in Spagna attraverso la frontiera francese nell’ottobre 1936 e dopo aver ricevuto un addestramento sommario ad Albacete, raggiunsero Madrid assediata dai nazionalisti. Una vera e propria internazionale antifascista composta da diecimila francesi, cinquemila tedeschi, tremilatrecentocinquanta italiani, duemilaottocento statunitensi, duemila inglesi,mille canadesi e diverse centinaia di jugoslavi, albanesi, ungheresi,belgi,polacchi, bulgari, cecoslovacchi, svizzeri, nordeuropei, messicani e africani. La partecipazione dei volontari italiani, inquadrati nella Brigata Garibaldi, fu tra le più consistenti e venne guidata sul campo da alcuni dei maggiori esponenti dell’antifascismo:i comunisti Togliatti,Longo,Di Vittorio e Vidali, il socialista Nenni, il repubblicano Pacciardi, l’anarchico Camillo Berneri e Carlo Rosselli, dirigente di Giustizia e Libertà. Molti dei più importanti intellettuali del tempo sostennero la causa della Repubblica come George Orwell,che combattè nelle milizie del POUM, Ernest Hemingway e John Dos Passos che scrissero romanzi e reportage, osservarono, raccontarono.

Le Brigate internazionali ebbero un ruolo determinante nella difesa di Madrid, distinguendosi nella battaglia di Guadalajara nel marzo 1937 e nelle grandi offensive repubblicane su Belchite (agosto ’37), Teruel (dicembre ’37 – gennaio ’38) e sull’Ebro (luglio 1938). Una storia importante e coraggiosa.Pablo Neruda, grande poeta cileno amico del poeta spagnolo Garcia Lorca, ucciso dai falangisti nel ’36, dedicò alla terra per cui anche egli aveva combattuto la raccolta di poesie “Spagna nel cuore”. E scrisse questi versi, in “Arrivo a Madrid della Brigata Internazionale” : “quando non avevamo altra speranza che un sogno di munizioni,quando ormai credevamo che il mondo fosse pieno soltanto di mostri divoratori  e di furie,…compagni,allora, allora,vi ho veduti,e i miei occhi sono tuttora pieni di orgoglio”.

Marco Travaglini

Rock Jazz e dintorni. Brian Auger e Club to Club

Gli appuntamenti musicali della settimana

Lunedì. Al Jazz Club suona il quintetto Baklava Klezmer Soul. Al Magazzino sul Po si esibisce il quartetto Malmo Sister Fay.

Martedì. Al Blah Blah e al Massimo, sonorizzazioni di film muti con Propaganda 1904 con il classico “Das Cabinet Des Dr. Caligari e Giorgio Li Calzi con il documentario “Leonardo Da Vinci”.

Mercoledì. Il “re” dell’organo Hammond Brian Auger (foto) con gli Oblivion Express, suona al Folk Club. Al Jazz Club è di scena Sofie Reed. Parte l’edizione numero 19 di “Club to Club” alle OGR con il rapper Slowthai. Al Blah Blah si esibiscono gli Strange Hands e Mandingo. Al Cap 10100 suonano i Chico Trujillo.

Giovedì. Al Jazz Club si esibisce il quintetto della vocalist Alemay Fernandez. All’Opificio Cucina e Bottega per “Novara jazz” è di scena il quintetto di Luca Pissavini. Per “Club to Club” alle OGR si esibisce Holly Herndon mentre allo Ziggy suonano gli Scarlet & The Spooky Spiders. Al Lingotto per “Movement” sono di scena Jamie Jones, Amelie Lens e Joseph Capriati.

Venerdì. Al Blah Blah si esibiscono i Love’n’Joy. Per “Movement” al Milk sono di scena Magit Cacoon e Brina Knauss. Per “Club to Club” al Lingotto arrivano Battles, James Blake, Skee Mask, Flume, Let’s Eat Grandma, Black Midi, in appendice alle OGR sono di scena Visible Cloaks con Satsuki Shibano e Yoshio Ojima. All’OffTopic canta Tish.

Sabato. Al Milk si esibisce il rapper Black Youngsta. Al Lingotto per “Club to Club” sono di scena i Comet is Coming, Chromatics e Sophie, Floating Points, Nihvek. Al Pala CRS di Saluzzo, gemellaggio tra “Uvernada”  e “Matera 2019” con Lou Dalfin e Lou Tapage. All’Audiodrome di Moncalieri per “Movement”, si esibisce Derrick May.

Domenica. Allo Spazio 211 suonano i giapponesi Acid Mothers Temple. Chiusura di “Club to Club” a Porta Palazzo con Napoli Segreta  e il duo Stump Valley.

 

Pier Luigi Fuggetta

 

“Mario Soldati. La gioia di vivere”. Il libro di Quaglieni al Circolo dei lettori

Lunedì 28 ottobre alle ore 18, al Circolo dei lettori, In via Bogino 7 lo storico Gianni Oliva e la gastronoma dell’Accademia italiana della cucina Elisabetta Cocito presenteranno il libro di Pier Franco Quaglieni “Mario Soldati, la gioia di vivere“, Golem Edizioni, a vent’anni dalla scomparsa dello scrittore-gourmet. il libro e ‘ alla terza ristampa e torna in una presentazione torinese dopo oltre trenta presentazioni in un tutta Italia dalla Versilia a Capri. Il libro che ha la copertina di Ugo Nespolo, raccoglie tante testimonianze sulla poliedrica figura di Soldati e un importante saggio di uno degli amici più cari di Soldati, il prof. Pier Franco Quaglieni con cui nel 1968 fondo ‘ il Centro Pannunzio

Il nuovissimo thriller “La notte allo specchio” di Adriana Mazzini

Pubblicato da HarperCollins
Di fronte ad un pubblico attento e partecipe al Caffè Roberto, giovedì scorso, è stato presentato il nuovissimo thriller “La notte allo specchio” di Adriana Mazzini, editore HarperCollins. A introdurre il “padrone di casa” Roberto Tricarico con i giornalisti Umberto La Rocca, già direttore del Corriere Torino e Andrea Malaguti, vice direttore della Stampa.
Adriana Mazzini, in un libro pieno di tensione e colpi di scena,  al suo esordio letterario dopo una carriera in un’organizzazione internazionale, racconta la storia di Alice, una donna forte e fragile al tempo stesso, che riprende in chiave italiana la lezione delle più grandi autrici thriller del mondo, da Patricia Cornwell a Kathy Reichs. Hellen Alice Brown è una profiler. Era una delle migliori, nel suo lavoro, collaborava con successo a un’unità anticrisi della Omicidi. Finché un fatto ha sconvolto la sua vita. È stata rapita da un serial killer, che l’ha tenuta prigioniera assieme alla figlia della sua migliore amica. E poco importa che si siano salvate. Il prezzo pagato è stato comunque troppo alto. Così Hellen ha rinunciato al suo primo nome e alla sua vita. Ora è solo Alice, e vive a Torino, dove lavora come ricercatrice per le Nazioni Unite. Un’esistenza piatta e solitaria. Ma l’uccisione di una ragazza la riporterà in un mondo di morte e pulsioni profonde. Controvoglia Alice accetta di partecipare alle indagini in un susseguirsi di morti misteriose, forse opera di una setta religiosa, legata alla simbologia della Sindone. O di un serial killer.
Sulle strade percorse da un’umanità dimenticata e penetrando i segreti dell’alta società, Alice dovrà rendere conto degli errori commessi in passato e provare a scoprire una terribile verità. Accanto a lei Nunzi, un commissario disilluso e incapace di superare la morte della moglie.
Franco Maria Botta