CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 564

Cenerentola il Musical, la riscoperta di una fiaba tanto amata

Cenerentola il Musical va in scena al Teatro Alfieri. La premiata Compagnia Le Formiche mette in scena una delle fiabe più belle di sempre, creando così l’occasione perfetto per rivivere la magia dell’infanzia con uno spettacolo all’altezza di grandi e piccini.

Lasciatevi incantare dalla fiaba più bella di sempre. Al Teatri Alfieri torna Cenerentola – il musical, un’opera per riscoprire la celebre storia dei fratelli Grimm con un testo originale, ricco di magia e divertimento. Un cast eccellente ricrea sul palco l’atmosfera di un’epoca passata, con sontuosi costumi settecenteschi, scenografie curate nei minimi dettagli ed effetti scenici. Lo spettacolo prende vita grazie a musiche orchestrali inedite, che accompagnano le vivaci e coinvolgenti coreografie corali,

Chi è La Compagnia delle Formiche

La Compagnia delle Formiche nasce nel 2003 in provincia di Firenze, e unisce il sogno e la passione di un gruppo di amici in una realtà complessa ed articolata attiva nel panorama del musical con produzioni destinate a tutta la famiglia. Ha alle spalle importanti collaborazioni con il mondo dell’opera lirica e con gli istituti scolastici attraverso la realizzazione di numerosi progetti. Nel 2016, con lo spettacolo “La spada nella roccia”, vince il concorso nazionale del musical inedito (Premio Primo). Oggi il marchio Compagnia delle Formiche rappresenta una delle realtà più affermate in Italia nel settore del musical, e produce numerosi spettacoli di successo rappresentati nei maggiori teatri italiani e internazionali.

Dove e quando

Teatro Alfieri Torino

sabato 4 GENNAIO h. 15.30 e h. 18.30

Sito ufficiale: Cenerentola – Il Musical

Biglietti disponibili su: Ticketone

“Sulle sponde del Tigri”. Meraviglie archeologiche al Mao

 Da Seleucia e Coche, in esclusiva esposizione a Torino. Dal 21 settembre 2019 al 12 gennaio 2020

Ceramiche, terrecotte, vetri e oggetti d’uso comune. In tutto 40 piccoli reperti che raccontano la storia quotidiana di antichissime civiltà cariche di fascino e dell’inevitabile, intraducibile mistero che il tempo addebita alla solo apparente banalità delle cose prodotte dall’uomo nello scorrere dei millenni. Esposti al MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino, provengono dagli scavi, svolti a partire dal 1964 e che portarono alla luce strutture abitative e manufatti di varia natura, dal subalpino “Centro Ricerche Archeologiche e Scavi per il Medio Oriente e l’Asia”, nei siti di Seleucia e Coche, due fra le maggiori capitali di importanza e dimensioni ineguagliate, sorte in uno dei punti più nevralgici di quella rete globale – la Mesopotamia centrale – che, nei lunghi secoli intercorsi fra l’impresa di Alessandro Magno e l’avvento dell’Islam, univa il Mediterraneo alla Cina. Fondata in quel luogo alla fine del IV secolo a. C., Seleucia al Tigri, assunse al tempo i caratteri di una metropoli estesa quanto Torino nel Settecento; a seguirla, sull’altra sponda del fiume, la mitica Ctesifonte, poi integrata nel III secolo d. C. con la città di Coche (o Veh Ardashir).

Entrambe rappresentarono due potenti e fra loro rivaleggianti poli d’attrazione sulle sponde opposte del Tigri, alternandosi nel reggere le sorti di imperi che furono nei secoli la controparte di Roma. All’approfondimento della loro storia civile e culturale, messa in dialogo fra la produzione di età ellenistico-partica proveniente dal sito di Seleucia, con quella sasanide (secondo impero persiano) di Coche, contribuisce certamente la rassegna “Sulle sponde del Tigri”, ospitata al MAO e curata da Vito Messina, Alessandra Cellerino ed Enrico Foietta con la collaborazione di Claudia Ramasso.

Fra i pezzi più interessanti presenti in mostra il “Versatoio di kernos (vaso a fontana)” a forma di pesce, ritrovato a Seleucia e risalente all’incirca al II secolo d. C. e – come tutti i vasi a fontana – impiegato presumibilmente in importanti e particolari cerimonie durante le quali si effettuavano offerte di bevande come acqua, latte o vino; curioso e di semplice ingegnosità anche il “Vasetto a cestino”, quasi certamente un incensiere portato alla luce nel sito di Coche e collocabile fra il III e il IV secolo d. C., insieme al “Sacerdote” del II secolo d. C. (con la lunga tunica e l’alto copricapo riferibili al culto di divinità locali o iraniche) di età seleuco – partica e all’essenziale “Figura femminile nuda distesa su un fianco” ( II secolo d. C. ), rinvenuta in un corredo funerario a Seleucia dove simili “figure” erano particolarmente diffuse e paiono riprodurre modelli di origine occidentale, sebbene la “variante nuda” si ispiri, proprio per questa sua caratteristica, anche alla tradizione mesopotamica.

Immaginata nell’ambito del progetto “Collezioni (in)visibili” promosso dal “Dipartimento di Studi Storici” dell’Università di Torino e finanziato dalla Fondazione CRT, la mostra allestita nelle sale del Museo di via San Domenico, fino al 12 gennaio 2020, è decisamente preziosa (pur nelle sue contenute dimensioni) e meritevole di particolare attenzione, in quanto non esistono in Europa collezioni di reperti archeologici provenienti da Seleucia e Coche, ad eccezione di quella conservata oggi, per l’appunto, al MAO: nel mondo, solo il Kelsey Museum di Ann Arbor (Michigan) e l’Iraq Museum di Baghdad vantano analoghe collezioni.
Durante il periodo di apertura dell’esposizione, sono previste conferenze ed attività didattiche rivolte a scuole e a famiglie, mirate ad avvicinare bambini e ragazzi al mestiere dell’archeologo e alla lavorazione dell’argilla.

Gianni Milani

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“Sulle sponde del Tigri”
MAO – Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11, Torino; tel. 011/4436932 o www.maotorino.it
Dal 21 settembre 2019 al 12 gennaio 2020
Orari: mart. – ven. 10/18; sab. e dom. 11/19

 

 

Nelle foto:

– “Versatoio di kernos (vaso a fontana) a forma di pesce”, Seleucia, età seleuco-partica, ceramica – doppia matrice, ca. II secolo d. C
-“Vasetto a cestino”, Coche, età sasanide, ceramica invetriata, III-IV secolo d. C.
– “Sacerdote”, Seleucia, età seleuco-partica, terracotta-matrice singola, II secolo d. C.
– “Figura femminile nuda”, Seleucia, età seleuco-partica, terracotta-doppia matrice, II secolo d. C.
– “Piccola anfora con collo dipinto a bitume”, Coche, età sasanide, ceramica-fattura al tornio e a mano, V secolo d. C.

“Shoreless”. Guler Ates per il MAO fino all’Epifania

Fino al 6 gennaio 2020

Sono immagini femminili sinuose e misteriose, di cui s’intuisce appena la fisionomia sotto i lunghi veli colorati, spesso realizzati con stoffe preziose, che ne fanno presenza poetica e statuaria senza volto né identità.

Colte dall’obiettivo fotografico, attraversano, con la morbida intrigante leggerezza di performance sospese fra danza e teatro, luoghi di conclamata storicità e di toccante forza evocativa. Presenze metafisiche. “Shorless”, come dire: creature senza limiti e confini. Sono loro le modelle (o la modella?) protagoniste delle venti opere fotografiche al centro del progetto che la fotografa inglese di origini turche, Guler Ates, ha realizzato e collocato lungo il percorso di visita del MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino, all’interno di una proposta didattica formulata dalle Aziende e dagli Enti Soci della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali per gli allievi dell’Accademia Albertina, con la Royal Academy of Schools di Londra, dove l’artista è Tutor. La mostra, quest’anno alla sua quinta edizione, é curata da Domenico Maria Papa ed è parte di Art Site Fest 2019, festival dedicato alle arti contemporanee in dialogo con alcune delle più belle residenze del Piemonte.

Nel corso della sua permanenza torinese, Guler Ates ha prodotto alcune immagini tratte da shooting fotografici all’interno delle sale del MAO, dove ha allestito un vero e proprio set, per proporre e raccontare con il suo linguaggio una personale visione del Museo. Durante il suo lavoro l’artista è stata seguita da 25 selezionati studenti dell’Accademia Albertina, che hanno potuto partecipare alle diverse fasi del lavoro e seguire un workshop sulla creatività e i contenuti del progetto che ha portato a “Shoreless”, evento espositivo in cui troviamo – accanto alle foto scattate al MAO – anche altre immagini riprese in più Paesi del mondo e in particolare in India, sull’onda di un costante interesse al dialogo fra Occidente e Oriente. “Nell’approfondire i molti rapporti, intessuti nel corso dei secoli, rimango affascinata – dice l’artista – da come la cultura occidentale sia debitrice di forme e immagini verso l’Oriente, prossimo o lontano. E da come l’Oriente guardi da sempre all’arte europea come ad una fonte di ispirazione. La nostra epoca spesso dimentica questa millenaria storia di scambi, finendo paradossalmente per allungare le distanze, proprio in un momento storico che ci permette di accorciarle.”

Opere “site-responsive”, quelle di Guler Ates “si caricano –sottolinea Domenico Maria Papa delle qualità e dei significati dei luoghi in cui sono esposte. A differenza di una parte importante della produzione contemporanea, che spesso si astrae da un contesto per essere osservata nello spazio neutro di una galleria, la ricerca di Ates è da sempre indirizzata a cultura e storia degli ambienti ai quali si rivolge. Ogni sua opera mira, attraverso lo spiazzamento provocato dalle sue misteriose figure, a sollecitare lo spettatore, inducendolo a riconsiderare le sue abitudini percettive”. Al punto – aggiungiamo noi- di divenire parte integrante dell’ambiente che le racchiude. Un tutt’uno che pare, come tale, concepito (e non pretestuosamente annesso) fin dalle origini. Senza limiti né confini. “Shoreless”, per l’appunto.

Gianni Milani

“Shoreless”

MAO – Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11, Torino; tel. 011/4436932 o www.maotorino.it

Fino al 6 gennaio 2020

Orari: da mart. a ven. 10/18 e sab. – dom. 11/19

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Nelle foto

– “Whirled”, 2019
– “The Shoreless Flower (II)”, 2014
– “Song”, 2019
– “Buddha and Woman in Blue ( I )”, 2019

 

 

 

 

 

La volata di Calò

Storie di uomini e biciclette nel 60° anniversario della morte di Fausto Coppi

 

È lui che nel 1926 , lavorando nella sua bottega, s’inventa dalla a alla zeta la prima bicicletta fabbricata nell’isola più grande del mediterraneo. Porta il suo nome come marchio

Quella di Calò Montante è una  storia che sfuma nella leggenda. In Italia, terminata la prima guerra mondiale,  il ciclismo diventa uno degli sport più popolari; sono gli anni di del dualismo tra il piemontese Costante Girardengo e il lombardo Alfredo Binda e sulle strade polverose e sconnesse la bicicletta diventa per molti  una vera passione, a partire dai più giovani. Anche per Calogero Montante, classe 1908, che arriva al punto di costruirsi, da solo, una bici da corsa montandola pezzo per pezzo. Lo fa al suo paese, nel mezzo della campagna  siciliana riarsa dal sole e dalle zolfare: Serradifalco,in provincia di Caltanissetta. È lui che nel 1926 , lavorando nella sua bottega, s’inventa dalla a alla zeta la prima bicicletta fabbricata nell’isola più grande del mediterraneo. Porta il suo nome come marchio. L’amore per le due ruote è tanto forte al punto da spingere Calò a formarsi una squadra di ciclisti, con tanto di divise cucite dalla sarta del paese sulle quali campeggia ricamata la scritta “Montante”. Poi la passione si trasforma in un vero e proprio lavoro: viene aperta una fabbrica e le bici Montante diventano un marchio prestigioso. Si producono biciclette per i carabinieri (modello truppa e modello ufficiali) per i postini e i macellai, bici di tutti i tipi e per tutte le esigenze. La fabbrica resterà attiva sino agli anni Cinquanta quando l’azienda Montante, comincerà a occuparsi di moto e si espanderà poi in altri settori. La storia di quest’impresa è raccontata in un libro del giornalista Gaetano Savatteri, pubblicato da Sellerio con uno scritto di Andrea Camilleri: “La volata di Calò”. Una bella storia , quasi leggendaria, di un artista della meccanica, di un inventore che dal suo paese di zolfatari siciliani lanciò i suoi “Cicli Montante” in tutt’Italia. Anche l’inventore del commissario Salvo Montalbano, nel suo racconto, ricorda quando nel luglio del 1943 pedalava a fatica “senza mai un problema meccanico” da Serradifalco a Porto Empedocle, lungo una strada dissestata dalle bombe e dai carri armati. Un ricordo vivo, quello di Andrea Camilleri, perché grazie a quella bicicletta, imprestatagli dai suoi amici di allora, riuscì a ritrovare il padre che si era salvato dai bombardamenti. Durante lo sbarco degli americani sulla costa Sud dell’isola, Camilleri con la sua famiglia si andò a rifugiare a Serradifalco, per sfuggire ai bombardamenti di Porto Empedocle. Finiti quei terribili giorni era necessario andare a scoprire che fine avesse fatto il padre, di cui non si avevano più notizie. Un viaggio del genere, in quegli anni era come affrontare l’incognita di una lunga e “perigliosa” avventura. E   quella bicicletta che glielo consentì. Così, in un passaggio,  lo descrive Camilleri: “ A un quarto circa del percorso, Alfredo forò per laterza volta. E io decisi di abbandonarlo al suo destino, visto che la mia bicicletta procedeva imperterrita, salda, forte, non subiva forature, la catena rimaneva sempre ben ferma al suo posto, i raggi nelle cadute non si rompevano, il manubrio non si piegava di un millimetro, una vera meraviglia. Ripresi, da solo, il mio viaggio. E ogni tanto le parlavo, alla bicicletta, carezzandole la canna come se fosse la criniera di un cavallo”. Prima e più dell’automobile, la bicicletta è stato il mezzo di trasporto per eccellenza della società di massa. Meccanica sofisticata e leggera, disponibile a tutti, il suo essere simbolo molto umano di modernità e di futuro affascinò subito gli spiriti liberi e industriosi. Come quello di Calò Montante, scomparso ultranovantenne nel 2000, la cui storia è descritta da Gaetano Savatteri con garbo e maestria.  “Nell’anima c’è sempre la passione per la bici, per le corse, per i giri d’Italia che riprendono – scrive Savatteri – nuovi duelli sulle strade d’Italia. Adesso sono quelli tra Coppi e Bartali. L’Italia è divisa, nello sport e nella politica. Democristiani e comunisti. Peppone e don Camillo. Fausto e Gino. Coppi elevato a simbolo del laicismo, Bartali emblema del cattolicesimo tradizionale. Calogero Montante nel 1948 sceglie di stare dalla parte di Bartali”. E lo fa con le sue biciclette, tutte su misura. Ogni esemplare è unico, così come è unica la terra dove Calò le realizza, nella sua Serradifalco, arida zona sulfurea ai margini di una cavità carsica, dove sperimentò la sua industriosa fantasia che lui stesso ribattezzò come il suo “ peccato del fare”.

Marco Travaglini

Porcellane da re. Un dono per Vittorio Amedeo II

In mostra a Palazzo Madama, parte del “ritrovato” Servizio di Meissen donato al Re di Sardegna da Augusto il Forte, Re di Polonia

Fino al 31 gennaio 2020


Una riscoperta straordinaria nella storia della porcellana europea e un tesoro artistico di inestimabile valore. Che per secoli, fu creduto disperso, fatta eccezione per una tazza da cioccolata con piattino conservata a Palazzo Madama e donata nel 1877 da Ferdinando Arborio Gattinara di Breme, Duca di Sartirana, grande collezionista di porcellane nella sua Villa La Tesoriera di Torino; salvo poi scoprire che quel prestigioso “tesoro” si era invece conservato presso la stessa famiglia, la Casa Reale di Savoia, per quasi trecento anni. La scoperta avviene il 4 luglio scorso, quando la Fondazione Torino Musei si aggiudica a Londra all’asta di Christie’s – per 210mila sterline, più 53mila di diritti, a occhio e croce circa 300mila euro – parte del famoso “Servizio del Re di Sardegna”, donato nel settembre del 1725 a Vittorio Amedeo II, dall’allora Re di Polonia ed Elettore di Sassonia, Augusto il Forte. Fra i più importanti mai prodotti dalla storica manifattura di Meissen, presso Dresda, dove per la prima volta in Europa (grazie all’ingegno del chimico Johann Friedrich Bottger e dello scienziato Walter von Tschirnhaus) fu scoperto il segreto per ottenere la “vera” porcellana utilizzando un’argilla bianca infusibile, il caolino, unita al quarzo e al feldspato, il prezioso cadeau si componeva in origine di ben 300 pezzi, inviati a Torino in 12 casse. E proprio nell’undicesima (“una scatola di cuoio rosso rivestita in panno verde e decorata con un merletto d’oro”), si trovava il sevizio, non completo ma pur sempre manna piovuta dal cielo, acquistato nel luglio scorso dalla Fondazione Torino Musei.

Certo, una minima parte dei 300 pezzi originari, ma la cui “ricomparsa sul mercato è stata considerata – dicono alla Fondazione – come sensazionale , catalizzando l’attenzione degli esperti di tutto il mondo”. Si tratta di sei piattini e tazze da tè raffiguranti armi e stemma del Re di Sardegna e figure giapponesi, in bella compagnia con una ciotola, una teiera, una zuccheriera e sei tazze da cioccolata con piattini: il tutto, fino al 31 gennaio del prossimo anno, esposto in bella mostra nella Veranda Sud del primo piano di Palazzo Madama. Di fronte, i visitatori si troveranno un “insieme” di elevata importanza storico-artistica e di altissima qualità pittorica, opera dello stesso direttore fra il 1723 e il 1731della fabbrica di Meissen, il tedesco di Jena Johann Gregorius Horoldt (1696-1775). Sua fu l’idea di utilizzare per la prima volta i colori a “piccolo fuoco”, innovando così la gamma cromatica delle porcellane e ispirandosi a soggetti di gusto prevalentemente orientale, a quelle “cineserie” che divennero cifra specifica della produzione di Meissen e di molta ceramica europea in genere. Del Servizio, commissionato da Augusto il Forte per Vittorio Amedeo II, erano noti, fino ad oggi, solo alcuni pezzi smembrati (come spesso capita ai servizi stemmati) in più Musei: una tazza da cioccolata con piattino nel Metropolitan Museum of Art di New York, un piattino già nella Arnhold Collection ed ora alla Frick Collection nel cuore di Manhattan sempre a New York, un altro a Palazzo Pitti a Firenze, una zuccheriera nella Collezione Schneider a Monaco di Baviera e la “superstite” tazza da cioccolata con piattino donata, come detto, dal Duca di Sartirana e dal 1877 custodita a Palazzo Madama.

I nuovi “pezzi” acquisiti all’asta di Christie’s vanno dunque non solo ad “integrarsi con coerenza – sottolinea Maurizio Cibrario, presidente della Fondazione Torino Musei – nella ricca collezione di porcellane europee conservate in Palazzo Madama, ma rappresentano un’operazione di ricongiungimento che restituisce alla cittadinanza un pezzo importante di storia torinese, rinvigorendo inoltre l’immagine dei nostri Musei in campo internazionale”.

Gianni Milani

“Porcellane da re. Un dono per Vittorio Amedeo II”
Palazzo Madama, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it
Fino al 31 gennaio 2020
Orari: tutti i giorni 10/18, chiuso il martedì

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Nelle foto

– Immagini del “Servizio del Re di Sardegna”, Manifattura di Meissen, 1725

“Il mio diario di Gesù di Nazareth”

La vita di Gesù narrata attraverso le parole dello stesso protagonista. Questo il fulcro del libro dello scrittore Gianluigi De Marchi

 

Nel corso dei secoli, soprattutto i più recenti, numerosi autori si sono cimentati nella scrittura di una “vita di Gesù” ed hanno sentito il fascino di questo avvenimento che ha cambiato la storia dell’umanità, raccontandolo in prosa o in poesia.

 

Lo ha fatto anche lo scrittore genovese, ma ora da decenni di adozione torinese, Gianluigi De Marchi, che ha scritto della vita di Gesù dalla prospettiva del protagonista, attraverso la sua stessa narrazione. Ne è risultato un testo affascinante e chiaro, capace di penetrare fino al cuore del mistero cristiano, quello dell’amore. Questo il fulcro dell’opera intitolata “Il mio diario di Gesù di Nazareth”.

Emerge in questo libro, quindi, il racconto dell’esistenza di Cristo raccontata da lui stesso, ricca di episodi tratti dai Vangeli canonici e da quelli apocrifi, accanto a situazioni nate dall’immaginazione dello stesso autore, inserite allo scopo di delineare con maggiore efficacia il volto di un “Gesù” umano,  on le sue emozioni, riflessioni e sentimenti. Significativo l’incipit del libro: “Oggi ho compiuto dieci anni e finalmente so scrivere bene e posso cominciare a mettere sul papiro i miei pensieri, le mie memorie, i miei sentimenti “. Questi i tre cardini intorno ai quali ruota la narrazione di una vita che, all’inizio, si dipana nella assoluta normalità, con accanto un padre che Gesù ama e che insegna al figlio non soltanto i segreti del mestiere di falegname, ma anche e soprattutto i valori fondamentali della vita, ed una madre che ama, riamata, e che lo segue con trepidazione passo passo, per giungere alla svolta, rappresentata dal battesimo sulle sponde del fiume Giordano, ricevuto da Giovanni. La vita di Gesù, da quel momento, muta profondamente e con lei anche lo stile del narrazione, che approfondisce gli aspetti più importanti della missione del Cristo, in particolar modo quelli più intimi e personali.

 

Mara Martellotta

 

Il mio diario di Gesù di Nazareth. Gianluigi De Marchi (2012).

Stylos

editricestylos@virgilio.it

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria. Le novità in libreria

Amy Bloom   “Due donne alla Casa Bianca”   -Fazi-  euro 18,00

 

E’ il delicato racconto della storia d’amore trentennale tra la First Lady Eleanor Roosevelt e la giornalista Lorena Hickok, incaricata di seguire la campagna elettorale di Roosevelt, che le permise di insediarsi alla Casa Bianca. Lì le due donne abitarono, un passo una dall’altra, in camere contigue, invischiate in incontri amorosi notturni. A raccontare il loro legame, tra alti e bassi, lontananza e condivisione, sfaccettature caratteriali diverse ma che si completano, è Lorena.

Lo fa partendo dalle ferite del suo passato: a 13 violentata dal padre, uomo brutale che malmenava tutta la famiglia. Alla morte della madre la butta fuori casa e di lì in poi se la deve cavare da sola nel mondo. Dapprima si arrabatta per sopravvivere con umili mestieri, poi approda al giornalismo. Nel libro c’è anche il racconto della scoperta, consapevolezza e accettazione della sua omosessualità. All’epoca non era certo facile amare un’altra donna, impossibile farlo alla luce del sole, tanto più se era la moglie del Presidente degli Stati Uniti d’America. Il suo legame con la First Lady non è pubblicamente ammissibile e devono tenerlo nascosto. Ben diverso il discorso per le scappatelle di Franklin Delano Roosevelt che, nonostante la menomazione della polio, attirava le donne, a partire dalla sua fedele e intima segretaria Missy LeHand e l’amica Lucy Mercer Rutherfurd. Dalle pagine di Lorena Hickok emerge anche il ritratto del Presidente dietro le quinte; uomo spregiudicato, fine stratega politico, affascinante, ma decisamente insensibile nel privato. E sullo sfondo ci sono le date salienti del periodo storico, i fasti e l’aria che si respirava alla Casa Bianca, per arrivare alla morte di Franklin Delano Roosevelt e alla scia di cordoglio, nonché al seguito della loro liaison fino alla morte di Eleanor ultrasettantenne.

 

 

Amy Bloom  “Beate noi”   -Fazi-  euro 18,00

Ecco l’occasione per leggere un altro romanzo della scrittrice americana che oggi vive in Connecticut e insegna scrittura creativa alla Wesleyan University. In “beate noi” la vicenda si svolge nell’America degli anni 40 e ruota intorno a due sorellastre dai destini incrociati. Eva a 12 anni viene scaricata dalla madre sulla soglia della casa paterna e Edgar, da poco vedovo, ex insegnante squattrinato, si trova improvvisamente a dover gestire sotto lo stesso tetto Eva e la sua sorellastra Iris. Due ragazze che più diverse non potrebbero essere. Iris ha 16 anni ma sembra già una donna piena di fascino, cinica, a tratti spietata, e sogna di fare l’attrice. Gli inizi della convivenza non sono facili, tanto più che il padre si rivela meschino e inadempiente. Tra le due ragazze l’affetto  cresce in fretta e diventa complicità. Fuggono insieme, destinazione Hollywood dove Iris cerca di trovare la sua ribalta. E’ bellissima, il lavoro non le manca e la sorella la supporta dietro le quinte della vita. Poi però tutto frana quando a una festa Iris viene sorpresa a baciare la stella di turno Rose Sawyer, attrice sulla cresta dell’onda. E’ la fine delle aspirazioni di Iris, inseguita dal disonore, mentre tutte le porte del cinema e dintorni le vengono sbattute in faccia. Le due sorelle sempre più unite sono costrette a scappare lontano, a New York, dove altre prove difficili le attendono dietro l’angolo. Tutto sullo sfondo della presidenza Roosevelt, i bagliori del jazz e lo scoppio della seconda Guerra Mondiale. E al centro delle tante peripezie c’è il tenace legame tra sorelle che si salvano vicendevolmente quando il destino si accanisce su di loro.

 

David Lagercrantz  “La ragazza che doveva morire”  -Marsilio-  euro 19,00

E’ il 6° volume della della saga “Millenium”, iniziata con successo clamoroso da Stieg Larsson (nato in Svezia  nel 1954 e morto a Stoccolma  nel 2004) e portata avanti dal giornalista di nera David Lagercrantz, che nel 2013 è stato  messo sotto contratto dall’editore svedese per  scrivere il sequel della trilogia dell’autore scomparso. Non è la stessa cosa, i primi 3 libri di Larsson (“Uomini che odiano le donne” 2007, “La ragazza che giocava col fuoco” 2008, “La regina dei castelli di carta” 2009)  avevano una marcia in più. Lagercrantz imbastisce comunque thriller di tutto rispetto, in cui non mancano clamorosi colpi di  scena.

In questo suo ultimo capitolo ritroviamo protagonisti il 45enne giornalista d’inchiesta Mikael Blomkvist che scrive per la rivista “Millenium” e la giovane hacker, disturbata ma geniale, Lisbeth Salander. La vicenda ha come sfondo Stoccolma piegata da un caldo insolito, e il ritrovamento del cadavere di un misterioso mendicante imbacuccato in un piumino. Prima di morire si aggirava per il quartiere, parlava in modo sconclusionato, emanava comunque il senso di una grandezza ormai perduta e aveva affisso un messaggio delirante. Poi c’è l’enigma che riguarda Lisbeth, scomparsa dai radar di Mikael Blomkvist che, quando va a cercarla perché ha bisogno del suo aiuto per decodificare il crollo delle borse, scopre che ha venduto il suo appartamento senza lasciare traccia. Il lettore invece scopre subito che Lisbeth ha in mente di regolare una volta per tutte i conti con la malvagia gemella Camilla. E tornano alla ribalta tutti gli spettri del passato che Lisbeth non ha ancora metabolizzato, con  l’aggiunta di sorprendenti scoperte genetiche, mafia russa e vette dell’Everest.

 

 

Presepi nel mondo. Natività d’autore

Dal Piemonte / Mostra a Villa Vidua – Conzano

 

Proseguirà fino al 26 gennaio 2020 la mostra di presepi proposta da Emanuele Demaria, sindaco di Conzano, sempre attivo e abile riguardo gli eventi culturali eterogenei di alto livello che si svolgono all’interno di Villa Vidua, settecentesca dimora del conte Carlo Vidua, intellettuale, grande viaggiatore, collezionista di un’infinità di oggetti, libri, dipinti, manoscritti e tutto quanto lo incuriosisse, a cui va il merito di aver contribuito alla realizzazione del Museo Egizio di Torino.


La villa, erta sull’altura del paese, già di per sé degna di essere conosciuta per l’elegante facciata a caratteristiche logge e gli interni interamente affrescati tra cui il delizioso salotto cinese decorato a scene orientali, in questo periodo è particolarmente allettante grazie alla straordinaria esposizione di presepi di rara bellezza.


Lo spettacolare presepe Escoffier di Auban, popolato dai famosi Santons in terracotta policroma, fanno rivivere gli usi e costumi contadini nella quotidianità del villaggio provenzale mentre veri capolavori, pezzi unici di altissimo pregio, sono esposti a firma di Emanuele Luzzati, Enrico Colombotto Rosso, Eugenio Guglielminetti, Renzo Igne, Riccardo Biavati, Natale Panaro, Guido Fiorato e altri artisti.


In una sezione a parte, artisti contemporanei interpretano il tema con ampia libertà poetica poiché, come sottolinea acutamente il curatore Carlo Pesce… Ciò che festeggiamo è frutto di una costruzione umana, lenta, costante, una fantasiosa tradizione, un testo già scritto che però può essere continuamente mutato e contaminato….
Un’intera sala è riservata ai Bambinelli in terracotta, legno, cera, molti sotto trasparenti campane di vetro o preziosamente incorniciati, altri adagiati in culle, fasciati in bende ricamate in oro, con addobbi dai vari significati religiosi simbolici.


Incantevole e ammiratissimo il Bambino ligneo da ritenere vera e propria opera d’arte scultorea settecentesca.
Commuove lo spazio dedicato ai bambini delle scuole elementari che hanno dato prova di fantasia nel creare piccoli presepi con lego, stoffa, carta, legno che potrebbero essere definiti, paradossalmente, arte povera degli anni 60.
A corollario il Circolo Filatelico Numismatico di Casale Monferrato, con i collezionisti Mario Cravino, Carlo Arlenghi e Ezio Oliaro, ha presentato la sezione “Un mondo di auguri” composta da una emozionante raccolta di cartoline e letterine di Natale a partire da cento anni fa.
Nel complesso una mostra indimenticabile che meriterebbe di essere permanente.

Giuliana Romano Bussola

 

Orario della mostra
Domenica e festivi ore 10-12 15-18,30
O su appuntamento Comune di Conzano 0142 925132

Ebano

Poesia / Di Alessia Savoini

 

Ricordi
la polvere delle indie mescolarsi
all’anelito della fenicie
e cuciti, nel nocciolo di bacche,
infiniti giorni.

EBANO

Ricordi
la terra su cui avevamo – [coltivato] – le nostre drammaturgie
e vanificato l’assedio delle imputazioni,
quando annotando le estorsioni dei plenilunii su un quaderno
osservavamo, al di là di una cruna,
gli antiqui eloqui del sogno
sepolti
nel volo pindarico di una falena.

Ricordi
la polvere delle indie mescolarsi
all’anelito della fenicie
e cuciti, nel nocciolo di bacche,
infiniti giorni.

Ricordi
parlarsi sulla carta,
il treno a Rovasenda,
la casa sul lago.

Forse più avanti avremmo compreso l’analogia della ferita,
forse il ciclo della piuma e quello della pietra
il vuoto e il pieno
l’amalgama e la disgregazione
la perdita e il ritrovamento
sono equivoci nella carne di una sola ferita.

Una radice dell’ebano
nutre
dai luoghi nascosti del ricordo,
uno di quei posti che raccontavamo senza averci (forse) vissuto.
Il prestigio di resistere alle sollecitazioni,
la volontà di resistere all’impervio,
per quello che già fummo
sugli alti silenzi della memoria e del sogno
dove il viaggio ebbe inizio
per quello che già conoscemmo oltre le reti del tempo.

Graffite
spogliava il foglio del suo vuoto,
non c’è nostalgia più grande
di quella che attrae due ferite
l’una verso l’altra,
– così ripenso a quei giorni, tra le righe di Bataille, le narici di tabacco e le linee orizzontali d’Oriente -,

ci incontrammo  nel proscenio del simbolo,
ove imparammo a smussare le insenature degli angoli,

e oltre noi

s’estingueva il cielo.

Konrad Mägi. La luce del Nord

In mostra a Torino, nelle Sale di Palazzo Chiablese, le irrequiete e luminose opere del “padre” della pittura estone moderna

Fino all’8 marzo 2020


Ad accogliere il visitatore all’ingresso della mostra, c’è un piccolo “Paesaggio” del suo Nord. Datato 1908 – 1910, è un olio su cartone dove i pochi colori utilizzati e le modeste dimensioni dell’opera (perfettamente in linea con le modestissime condizioni economiche del pittore) contrastano con i segni vigorosi di una qualità pittorica che appare subito in tutta la sua debordante straordinarietà. Nel quadretto, le forme del paesaggio si intuiscono appena, totalmente assenti i dettagli realistici, al loro posto vibra un dialogo intenso, di ossessivo e tormentato vigore materico, fra colori scavati alle radici e forme lasciate libere di vagare per i sentieri imprevedibili dell’anima. Nell’opera, appartenente agli esordi dell’artista, c’è già tutta la stupefacente forza espressiva presente nel complesso e breve percorso artistico – durato neanche vent’anni, dal 1906 al 1925 – di Konrad Mägi (1878 – 1925), considerato il capostipite della pittura estone moderna, vita irrequieta, anarchica e magicamente stravagante, spesso assimilato ad artisti come Van Gogh e Sisley, per l’uso singolarmente audace della materia pittorica e degli effetti luminosi, attenuato negli anni Venti dal gusto di geometrie formali di cézanniana memoria. A lui è dedicata la retrospettiva (fra le più grandi mai realizzate in Europa), ospitata nelle Sale Chiablese ai Musei Reali di Torino fino all’8 marzo del 2020, in prossimità dei cento anni trascorsi dalla visita dell’artista in Italia.

Curata dallo storico dell’arte Eero Epner in collaborazione con la direzione dei Musei Reali, la mostra (che, dopo Torino, sarà nell’autunno del 2021 al Museo EMMA di Espoo, in Finlandia) assembla una cinquantina di opere, provenienti dal Museo Nazionale d’Arte dell’Estonia e da quello di Tartu, oltre che da collezioni private e da quelle della Società degli studenti estoni. Oli, acquerelli e disegni, paesaggi e ritratti, sono opere che ben documentano l’inquieto e inquietante cammino esistenziale ed artistico di Mägi: dalla Scuola di Arti Industriali di San Pietroburgo, ai soggiorni in Finlandia (dove nel 1906 realizza i suoi primi dipinti) e a Parigi, fino al 1908 quando in Norvegia pone le basi per le prime esposizioni di Tartu e di Tallin, che gli daranno grande visibilità. Ma nel 1912, ritorna definitivamente in Estonia, che lascia solo nel 1921 per un viaggio in Italia dove realizza luminose piacevolissime vedute di Roma, di Capri e Venezia. Nel Bel Paese, l’artista pare ritemprare corpo e anima e perfino la sua pittura che nel paesaggio riscopre il valore della figura umana e dei più caratteristici e rasserenanti scorci urbani. Scriveva bene Epner, in occasione di una mostra dedicatagli due anni fa dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma: “ Mägi rimase fino alla fine della propria vita un uomo del Nord che avrebbe voluto vivere al Sud”.

Uomo e artista profondamente e inesorabilmente legato, scriveva lo stesso pittore, alla “natura aspra e malinconica del Nord” ai suoi “vividi lampi di luce”, a quei grandi cieli solcati e squassati da nuvole apocalittiche accese dai bagliori del tramonto, dai laghi, dalla natura selvaggia e dalle ripide scogliere a picco sul mare. Questi i temi che troviamo raccontati con accesa passione nella rassegna torinese, in un intreccio di correnti – fra Fauves e Nabis, Art Nouveau, Impressionismo ed Espressionismo – che sembrano averlo appena sfiorato, senza mai scalfirne la ferma volontà di parlare a sé e agli altri sempre ed assolutamente a modo suo. Totalmente suo. Con quella violenza di colori e di luci che frantuma la realtà per toccare le soglie dell’immaginifico e dell’onirico. Natura come atto di fede. Come spazio “metafisico e sacro”. Accanto, ai particolarissimi ritratti. Giovani donne soprattutto, come la “ragazza norvegese” dalla labirintica capigliatura e dallo sguardo ipnotico e assente. Occhi che non vedono. Figure indifferenti e lontane da chi le osserva. Molto simili ai ritratti, presenti in mostra, che dello stesso Mägi fanno, in tempi diversi, gli amici artisti Eduard Wiiralt (busto in bronzo del ’22) e Nikolai Triik (olio su tela realizzato nel 1908). Volti inabili al volo leggero dei pensieri. Inquieti pur nella compostezza dei gesti. Sempre tesi alla distruttiva ricerca dell’anima. Anche se “l’anima – annotava lo stesso pittore – è un raro giorno di festa che né la coscienza né la logica possono spiegare. E’ la lode e la rivolta dell’umanità”.

Gianni Milani

“Konrad Mägi. La luce del Nord”
Musei Reali – Sale Chiablese, piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5362038 o www.museireali.beniculturali.it
Fino all’8 marzo 2020
Orari: dal mart. alla dom. 9/19, lun. 10/19

Nelle foto

– “Cavoli marini”, olio su tela, 1913-1914
– “Paesaggio con nuvola rossa”, olio su tela, 1913-1914
– “Andando da Viljandi a Tartu”, olio su tela, 1915-1916
– “Ritratto di ragazza norvegese”, olio  su tela, 1909
– Eduard Wiiralt: “Busto di Konrad Magi”, bronzo, 1922