CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 559

"Sanremo The Story", ultimi giorni

C’è tempo fino al 24 Marzo  per visitarla

 

Al Centro Commerciale ‘Parco Dora’, a Torino in Via Livorno angolo via Treviso prosegue con successo ‘Sanremo The Story’, la straordinaria e ricca mostra itinerante interamente dedicata al Festival della Canzone Italiana.

Il percorso emozionale che caratterizza ‘Sanremo The Story’ vanta la presenza di cimeli originali (dischi in vinile, documenti, abiti di scena) del Festival di Sanremo, accompagnati da monitor che proiettano video documentari, su di un’area di 80 metri quadrati con un’ampia varietà di teche con 45 e 33 giri originali del Festival di Sanremo e strumenti musicali originali dell’epoca impiegati durante la kermesse. La mostra è visitabile dal lunedì al venerdì dalle 09.30 alle 12.30, e dalle 16.30 alle 19.30. Sabato e domenica dalle 11.00 alle 20.00. Ingresso libero con offerta minima pari a 1 Euro che verrà interamente devoluta per sostenere il progetto ‘Alternanza Scuola Lavoro’ del Liceo Classico Musicale ‘Camillo Benso Conte di Cavour’ di Torino, i cui allievi forniranno il servizio di guida durante gli orari di apertura della mostra.

Tutte le informazioni sul sito www.parcocommercialedora.it e sulla relativa pagina FB del Centro Commerciale ‘Parco Dora’.

 

L'isola del libro

La rubrica settimanale delle novità in libreria

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Søren Sveistrup “L’uomo delle castagne” –Rizzoli- euro 20,00

E’ uno dei thriller più belli tra quelli letti di recente ed è all’inseguimento di un killer particolarmente spietato che arriva direttamente dalla Danimarca e dalla penna di Søren Sveistrup. Potremmo dire che, sul solco tracciato da Stieg Larsson (lo scrittore svedese che ci aveva catturati con la sua trilogia Millenium, morto nel 2004) oggi c’è un altro scrittore nordico abilissimo nell’imbastire trame sanguinarie che non lasciano scampo e tengono il lettore avvinghiato fino all’ultima pagina. Sveistrup è nato a Copenaghen nel 1968, adottato da piccolo, ha trascorso l’infanzia sull’ isola di Thurø, a sud della Danimarca. E’ autore della serie tv “The killing” che ha conquistato milioni di telespettatori, ed ha scritto la sceneggiatura de “L’uomo di neve” tratto dal thriller di uno scrittore cult come Jo Nesbø. Ritmo incalzante e colpi di scena che sarebbero perfetti per lo schermo li troviamo anche in questo suo primo romanzo “L’uomo delle castagne” che ha riscosso grande successo in patria ed è tradotto in 25 paesi. E’ un thriller ad alta tensione. La trafila di morte – in cui l’assassino seriale firma i suoi omicidi lasciando sulla scena del crimine degli inquietanti omini fatti di castagne e fiammiferi- si annuncia con il massacro di un’intera famiglia nella fattoria di Ørum, nell’ottobre 1989. Anni dopo -oggi- a Copenaghen vengono prima torturate e mutilate, poi brutalmente uccise, delle giovani madri. Scene dell’orrore su cui indagano Naia Thulin, poliziotta della Omicidi (prossima all’agognato trasferimento) e il nuovo arrivato Hess, agente di collegamento allontanato dall’Europol, che ancora non ha metabolizzato la tragica morte, 5 anni prima, della giovane moglie incinta di 7 mesi. I due devono lavorare fianco a fianco ma l’intesa non sarà facile da trovare: lei ferma nelle sue   posizioni e risoluta, lui uomo complesso ma di grande intuizione. Eppure finiranno per fare squadra ed avanzare come dei panzer nelle indagini. Scoprono che dietro le madri uccise ci sono vicende sottese di abusi e violenze sui minori, incuria nei confronti dei figli, denunce anonime e affidi familiari. E sullo sfondo, a complicare la già avvincente trama, c’è anche il rapimento della figlia dodicenne del ministro degli Affari Sociali Rosa Hartung, avvenuto un anno prima. Capro espiatorio della vicenda è un giovane hacker che si pensa abbia ucciso la ragazzina, l’abbia fatta a pezzi e poi nascosta chissà dove. Insomma, preparatevi a stanare il vero colpevole.

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Kurt Vonnegut “Il grande tiratore” – Feltrinelli- euro 17,00

Kurt Vonnegut, morto nel 2007, è stato un grande scrittore e saggista americano: considerato uno dei massimi autori di fantascienza che poi ha virato su un mix di elementi fantastici, satira politica, sociale e di costume. E aveva pubblicato questo romanzo nel 1982. “Il grande tiratore” è Rudy (voce narrante) che a 50 anni si guarda indietro e racconta le strampalate vicende della sua famiglia. Una storia di destini che iniziano e finiscono con l’apertura e la chiusura di (quelli che l’autore definisce) spiragli della vita.. un modo bellissimo di circoscrivere le avventure terrene comprese tra nascita e morte. Nell’incipit Rudy esordisce «…Ero anch’io un batuffolo di indifferenziata nientità, poi, piff, s’è aperto all’improvviso uno spiraglio, uno spioncino. Luce e rumore si sono riversati dentro il nulla …». Ed ecco la venuta al mondo. Rudy racconta di suo padre Otto Walz, erede di una ricca famiglia di Midland City, nell’Ohio, il cui patrimonio era stato accumulato vendendo un intruglio al limite del ciarlatano. Il suo spiraglio si era aperto nel 1892, e la sua vita era stata degna di un romanzo. Convinto di avere talento artistico aveva ottenuto dai genitori di iscriversi all’Accademia di Belle Arti a Vienna, dove aveva incontrato un giovane poverissimo che di nome faceva Adolf Hitler. I lavori di entrambi non avevano convinto gli insegnanti ma Otto aveva simpatizzato con l’austriaco e comprato un suo acquerello. Una pessima idea perché –come scrive Vonnegut – forse se non l’avesse fatto Hitler sarebbe morto di stenti già nel 1910. Dopo la parentesi viennese, Otto torna a Midland City e costruisce una casa grandiosa e bizzarra in cui custodisce una preziosa collezione di armi da fuoco. Ancora non può saperlo, ma questo, anni dopo, segnerà il destino di suo figlio Rudy. Intanto Otto gongola quando in Germania il suo amico Adolf diventa Primo Ministro e per celebrarne il successo espone una bandiera con svastica. Ma la 2° Guerra Mondiale sta per deflagrare e il vanto diventa pura vergogna. A complicare la vicenda sarà il giovane rampollo Rudy che si mette a sparare a vanvera e colpisce a morte una casalinga incinta. La disgrazia è solo l’inizio della catastrofe che finirà per travolgere tutta la famiglia.

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Margherita Belgiojoso “Là dove s’inventano i sogni” –Guanda- euro 19,00

Il libro ripercorre le vite di 16 donne russe, raccontate in altrettanti capitoli collegati tra loro da una sorta di staffetta ideale in cui si passano il testimone. Risultato: un grande affresco al femminile della storia degli ultimi due secoli dell’ex Unione Sovietica. L’autrice, che ha studiato storia dell’arte ed economia, ha vissuto più di 10 anni in Russia, l’ha attraversata in lungo e in largo scrivendone per le maggiori testate italiane. Ora ritrae scrittrici, attrici, poetesse, ballerine, rivoluzionarie e dissidenti le cui vite si sono intersecate in alcuni casi, facendole incontrare, convivere e lottare per ideali comuni. Tutte donne e vite straordinarie. Ci sono nomi altisonanti, come quello di Svetlana, figlia prediletta di Stalin, che dopo anni in adorazione del padre, dovrà fare i conti con la sua crudeltà, finirà per allontanarsene e lasciarsi alle spalle la Russia. Aleksandra Kollontaj, prima ministro donna della storia russa -unica tra i 15 ministri del governo di Lenin- che adottò misure draconiane per l’emancipazione femminile, compresa una dura battaglia per la legalizzazione dell’aborto. C’è la poetessa Anna Achmatova inorridita per gli orrori perpetrati da Stalin – in un mese aveva fatto   fucilare 6500 persone- disperata quando furono arrestati il suo compagno e suo figlio. E c’è la scrittrice Nina Berberova che riesce a scappare in America e sbarca il lunario passando da un lavoro a un altro, fino ad insegnare letteratura a Yale e Princeton, abilissima nell’osservare l’atteggiamento dei russi emigrati negli States. Ci sono le rivoluzionarie come Marija Volkonskaya e molta Siberia; ma anche danzatrici ed attrici come Ljubov’ Orlova, il sorriso del cinema sovietico. Il libro si chiude con la coraggiosa dissidente Elena Bonner che nel 1975 andò ad Oslo a ritirare il Premio Nobel per la Pace assegnato al marito Andrej Sacharov. Lui lo condivise con le centinaia di prigionieri rinchiusi nelle carceri di Brežnev; ma il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica non perdonò questo smacco e nel 1980 fece prelevare Sacharov e lo mandò al confino. L’epilogo invece è dedicato ad Anna Politkovskaja che l’autrice conobbe personalmente negli anni in cui lavorava come giornalista a Mosca…Queste sono solo brevi anticipazioni, il libro racchiude molto di più e si legge piacevolmente come un grande romanzo corale.

Il poliedrico Yann Tiersen e il rock di Joe Jackson

Gli appuntamenti musicali della settimana
Lunedì. Al Pala Alpitour si esibisce Florence+ The Machine. Al Teatro Concordia di Venaria, sono di scena i Maneskin. Al Teatro Colosseo arriva Yann Tiersen.
Martedì. Al Jazz Club suonano gli Elephant Claps. Al Circolo della Musica di Rivoli si esibisce William Basinski preceduto dagli Ozmotic. Al teatro Colosseo suona la Glenn Miller Orchestra.
Mercoledì. Al Blah Blah si esibisce Bob Malone. All’Auditorium del Lingotto suona Ludovico Einaudi.
Giovedì. Al Magazzino di Gilgamesh si esibisce l’armonicista blues Giles Robson. Al teatro Colosseo canta Roberto Vecchioni. All’Hiroshima Mon Amour è di scena Giovanni Lindo Ferretti mentre allo Spazio 211 suonano Lemandorle. Al Milk si esibisce il trio del vibrafonista Andrea Dulbecco.
Venerdì. Al Jazz Club è di scena il trio del pianista Dado Moroni. Al Pala Alpitour canta Antonello Venditti. All’Hiroshima Mon Amour suonano i Persiana Jones. All’OffTopic si esibisce Pacifico. Al Folk Club suona il quartetto del contrabbassista Luca Curcio con Gavino Murgia. Allo Spazio Hydro di Biella si esibisce il sassofonista Nubya Garcia mentre Fred Wesley in trio è di scena al Fassino di Avigliana. All’Espresso Italia di Pinerolo suonano gli Haunted Summer.
Sabato. Al Phenomenon di Fontaneto d’Agogna si esibisce il chitarrista Al Di Meola. Al teatro Colosseo arriva Joe Jackson. Al Circolo della Musica di Rivoli si esibisce Laraaji con il duo Petrella-Tomat. Al Magazzino di Gilgamesh il blues della vocalist Cara Lippman. Al Bunker si esibisce The Horrorist.
Domenica. Al Teatro Colosseo è di scena Ermal Meta con Gnu Quartet mentre al Pala Alpitour si esibisce Shawn Mendes.
 

Pier Luigi Fuggetta

 

Nel solco di Camillo Cavour

A Palazzo Lascaris, una mostra dedicata allo statista piemontese nell’anniversario dell’Unità d’Italia
Inaugurata il 14 marzo scorso, qualche giorno prima dell’anniversario dell’Unità d’Italia – che ogni anno cade il 17 marzo, giorno in cui nel 1861 venne per l’appunto proclamato il Regno d’Italia – la rassegna dedicata, nella “Galleria Spagnuolo” di Palazzo Lascaris , a Camillo Benso Conte di Cavour (fra i principali artefici di quell’unità nazionale, che in verità lui godette ben poco, morendo a soli 50 anni, il 6 giugno dello stesso 1861) vuole illustrare del grande “tessitore”, ministro del Regno di Sardegna prima e poi primo ministro dal 1852 fino alla morte, il singolare percorso umano, culturale e politico, con particolare riferimento alla sua vicenda famigliare. Che s’intreccia non poco con i destini dello stesso Palazzo di via Alfieri a Torino, oggi sede del Consiglio Regionale del Piemonte, e che fu abitazione del marchese Gustavo Benso Cavour, fratello maggiore di Camillo, fino al 1833, anno di morte della moglie Adele Susanna Lascaris. Fra suggestive “evocazioni storiche e artistiche”, l’iter espositivo si apre con l’ intenso “Ritratto di Camillo Benso di Cavour”, olio su tela del 1868, appartenente a Palazzo Lascaris e realizzato a Pavia da Luigi Fognola, sicuramente ispirato dal celeberrimo “Ritratto” del Conte (dagli “occhi cerulei per non dir bigi” scintillanti sotto gli inconfondibili occhiali, secondo un’acuta descrizione dell’amico, deputato e poi Senatore del Regno di Sardegna, Michelangelo Castelli) eseguito nel 1864 da Francesco Hayez, conservato presso la Pinacoteca di Brera a Milano e di cui in mostra troviamo una perfetta copia. A seguire e a far da contrappunto a questi due iconici “Ritratti” di Cavour, in rassegna ne troviamo altri raffiguranti alcuni fra i più stretti famigliari del Conte (dal bisnonno, eroe della battaglia di Guastalla, al nonno in abiti da caccia e al padre “Michele Antonio”, effigiato in giovanile età) insieme ad altri dedicati a figure, comunque partecipi alle vicende umane e politiche del Conte e della sua famiglia; dipinti molto interessanti sotto il profilo storico ed estetico, come quello raffigurante “Carlo Piossasco” (generale e ambasciatore al servizio dell’Elettore di Baviera, appartenente a una delle tante famiglie nobili imparentate con i Cavour), olio su tela del 1747 a firma del pittore danese Johann Georg Ziesenis e quello di “Margherita Pallavicini Mossi” immortalata da adolescente nel 1908 dal ritrattista livornese Vittorio Matteo Corcos e figura importante nella storia ultima dei Benso, poiché (vedova nel 1947 del marchese Giovanni Visconti Venosta che lasciò il complesso cavouriano di Santena alla Città di Torino) fu proprio lei ad istituire la Fondazione Camillo Cavour il 18 aprile 1955. Da segnalare anche un grandioso dipinto che rappresenta “Vittorio Emanuele II in visita a Cremona” nel 1859 accanto ad alcuni capolavori di patriottica memoria come “La strage di Brescia” olio su tela realizzato da Faustino Joli nel 1849. La rassegna, per meglio guidarci sulle orme e “nel solco” del grande statista risorgimentale propone anche un’efficace grafica con la “linea del tempo”, in cui si illustrano le principali fasi della vita pubblica e privata del Conte, nato a Torino nel 1810 in quel Palazzo Benso di Cavour o Casa Cavour (all’angolo fra le odierne via Lagrange e via Cavour), in cui venne anche fondato nel 1847 lo storico giornale “Il Risorgimento”. Non mancano ovviamente, ben esposte in mostra, diverse immagini del Castello e del Parco settecentesco, residenza estiva di tutta la famiglia Benso, a Santena. Progettato il primo, fra il 1712 e il 1722, da Francesco Gallo – già architetto di Vittorio Amedeo II di Savoia – e il secondo dall’architetto paesaggista di corte Xavier Kurten, il complesso architettonico di Santena fu fatto costruire (sulle rovine di un’antica fortificazione munita di torri e circondata da mura e fossati) da Carlo Ottavio Benso, primo nobile della casata, ed è oggi una casa – museo aperta al pubblico che ospita anche la tomba di Camillo Cavour. Il Palazzo è inoltre sede della Fondazione Camillo Cavour, ente morale riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica (patrimonio materiale e immateriale della Nazione) e del Centro Studi Cavouriani “Giovanni e Margherita Visconti Venosta”.

Gianni Milani


“Nel solco di Camillo Cavour”
Palazzo Lascaris – “Galleria Spagnuolo”, via Alfieri 15, Torino; tel. 011/5757378 o www.cr.piemonte.it
Fino all’11 aprile
Orari: dal lun. al ven. 9/17
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Nelle foto:
– Luigi Fognola: “Ritratto di Camillo Benso di Cavour”, olio su tela, 1868, Consiglio Regionale del Piemonte
– Copia da Francesco Hayez: “Ritratto di Camillo Benso di Cavour”, olio su tela, 1864, Fondazione Cavour, Santena

– Johann Georg Ziesenis: “Ritratto di Carlo Piossasco”, olio su tela, 1747, Fondazione Cavour, Santena
– Vittorio Matteo Corcos: “Ritratto di Margherita Pallavicini Mossi”, olio su tela, 1908, Fondazione Cavour, Santena
– Il Castello Cavour di Santena
– Particolare del Castello Cavour

Dove il sogno di volare diventò realtà

Il trasporto merci aereo e le compagnie cargo oggi sono la regola e Boeing, Airbus ed Antonov solcano i cieli in lungo e in largo

 Eppure tutto ciò è possibile grazie alla temerarietà di qualcuno che, nel lontano 7 novembre 1910, riuscì per la prima volta a trasportare un imballaggio con 88 chili di seta per 105 chilometri da Dayton a Columbus (Ohio) in un’ora di tempo circa. Era Philip Orin Parmelee (1887-1912), detto “Skyman”, a bordo del biplano Wright Model B, pioniere di tante sfide nei cieli americani (grazie ai fratelli Wright) e dunque protagonista del primo viaggio cargo della storia. Chiunque guardi qualsiasi modello di biplano di quell’epoca, noterà senz’altro la quantità di ingranaggi e ruote dentate che consentivano il funzionamento di quei velivoli; erano anche i “gears” in movimento a realizzare l’antico sogno umano del volo. “The gears were on the move” si sarebbe detto… e lo si sarebbe ripetuto più di 50 anni dopo, quando nella primavera del 1965, sulle ceneri dei The Del Tones, si formò a Columbus la band The Gears, composta da Tom Radowski (V, chit), Bob Alwood (chit), Wes Richards (V, b), Joe Gargani (V, batt). Nell’estate 1966 si sarebbero aggiunti Joe Daniels (V, org) e Jim Lynch (chit, in sostituzione di Radowski), con la definizione di un repertorio stabile fondato sulle comuni influenze di Beatles, Rolling Stones, Rascals, Standells, Paul Revere & The Raiders. La gestione manageriale fu dapprima “home made” (affidata a Hillard Ebrom, zio del bassista Richards) poi alla DJ Productions di Johnny Garber e Dick Pickett, che ampliarono il territorio di azione dei The Gears a tutto l’Ohio e fino a Parkersburg, Ravenswood, Lesage e Huntington (West Virginia). La band prediligeva i clubs (adult o teen) in tutta l’area di Columbus e dintorni e toccava locali come “The Sugar Shack” di Chillicothe, “The Inferno” di Mansfield, “The Gators Hut” di Mt. Vernon e ovviamente il frequentato “Valley Dale Ballroom” di Columbus; svariate furono anche le partecipazioni a Battle of the Bands, soprattutto presso gli Ohio State Fairgrounds. Tra 1967 e 1968 The Gears modificarono nuovamente formazione, con l’ingresso di Randy Armstrong (chit, subentrante a Lynch) e Mike Shoaf (b, al posto di Richards) e affrontarono l’esperienza della sala di registrazione. Ne scaturirono due 45 giri, usciti probabilmente a breve distanza nell’arco del 1968: “Feel Right” [B. Alwood – J. Daniels] (1001; side B: “Explanation”), inciso presso i McKenzie Studios di Larry McKenzie a Columbus, con etichetta Hillside; “Come Back To Me [B. Alwood – J. Daniels] (813L-2546; side B: “Sooner Or Later”), prodotto da Ray Allen a Cincinnati con etichetta Counterpart records. E’ da rilevare il passaggio dal carattere garage crudo del primo singolo alla natura ibrida del secondo, che presenta fattezze psych pop/rock con arrangiamenti con fiati e alternanza di breaks di organo e chitarra. Dopo l’autunno 1968, usciti i due singoli sopra citati, la vita della band trascorse senza particolari sussulti, ma anche priva di nuovi stimoli; il raggio d’azione delle esibizioni stentava ad allargarsi oltre i confini dell’Ohio e il sound stesso faticava a trovare una propria direzione chiara e definita. Il repertorio non si arricchì più di brani originali e tendeva a languire sulle cover già più che note di Lovin’ Spoonful, Outsiders, Rascals e Paul Revere & The Raiders; inoltre i continui cambi di formazione finirono per indebolire ulteriormente la coesione interna del gruppo e portò The Gears a sciogliersi in data imprecisata, probabilmente entro il 1970.
 

Gian Marchisio


 

Quando i matti escono fuori

C’erano una volta i matti

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Non tutte le storie vengono raccontate, anche se così non dovrebbe essere. Ci sono vicende che fanno paura agli autori stessi, che sono talmente brutte da non distinguersi dagli incubi notturni, eppure sono storie che vanno narrate, perché i protagonisti meritano di essere ricordati. I personaggi che popolano queste strane vicende sono “matti”,” matti veri”, c’è chi ha paura della guerra nucleare, chi si crede un Dio elettrico, chi impazzisce dalla troppa tristezza e chi, invece, perde il senno per un improvviso amore. Sono marionette grottesche di cartapesta che recitano in un piccolo teatrino chiuso al mondo, vivono bizzarre avventure rinchiusi nei manicomi che impediscono loro di osservare come la vita intanto vada avanti, lasciandoli spaventosamente indietro. I matti sono le nostre paure terrene, i nostri peccati capitali, i nostri peggiori difetti, li incolpiamo delle nostre sciagure e ci rifugiamo nel loro eccessivo gridare a squarcia gola, per non sentirci in colpa, per non averli capiti e nemmeno ascoltati. (ac)

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10. Quando i matti escono fuori
Negli ultimi anni al manicomio di Collegno c’erano solo pazienti anziani, quelli che erano arrivati lì giovanissimi e lì avevano vissuto per cinquant’anni, quelli che erano più spaventati da quella inaspettata e pesante libertà, nettamente in contrasto  con la prospettiva di spirare tra le mura di Collegno, luoghi che ormai avevano imparato a conoscere bene. C’erano invece pazienti che non ebbero troppa paura di uscire all’aria aperta, come Oreste, il classico matto buono del villaggio, che viveva sotto il ponte di via XXV aprile a Cavoretto, insieme al cane Gary Cooper. L’uomo si rivolgeva alle suore per un rasoio e qualche abito pulito, e il problema dei soldi lo risolveva andando a chiedere l’elemosina nei negozi della zona, alcuni commercianti gli offrivano volentieri un po’ di cibo e un bicchierino. Oreste era arrivato a Cavoretto quando chiusero il manicomio di Collegno, si presentò alla cittadinanza con un sacchetto dorato di caffè messo in testa come la mitria di un vescovo, vestito con colori sgargianti: gli abitanti del posto lo accettarono con un misto di pena e di affetto. Quando si ammalava c’era sempre qualche donna che gli portava delle medicine, altri gli regalavano dei vestiti vecchi, un po’ tutti lo aiutavano a tirare avanti. Coloro che gli lasciavano dei soldi gli raccomandavano di non berseli subito, perché faceva male bere tanto, ma Oreste non era poi così convinto, e subito andava a spendere l’elemosina in un bar. Per sdebitarsi, in inverno spazzava la neve dai marciapiedi e durante l’autunno le foglie secche e in generale cercava di tenere pulito quanto poteva. Ogni tanto gridava e improvvisava dei discorsi complicati in cui bofonchiava di ponti da costruire, denari da elargire e in mezzo ci metteva delle parole inventate. C’erano dei momenti in cui si arrabbiava nei confronti di non si sa che cosa e imprecava contro il niente, forse verso un destino che non era stato poi tanto buono con lui. Gli venne regalata una bicicletta e lui subito la gettò nel fiume, perché ci teneva davvero tanto a quel gentile pensiero e così nessuno avrebbe mai potuto rubargliela. Un Natale aveva deciso di rendere grazie a qualcuno in particolare e così iniziò a strimpellare una vecchia chitarra, rivolto verso un angolo buio della chiesa in cui non c’era nulla: il dio dei matti forse non si mostra facilmente come il dio dei normali. Oreste morì nel 2009, vecchio e stanco, in ospedale, aveva lasciato tutto nel suo giaciglio sotto il ponte, in modo che Gary Cooper potesse farci la guardia.

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 Lucia era un’artista, scriveva poesie e dipingeva, sosteneva di essere la Madonna e di essere la fidanzata di Dio. Adorava irrompere in chiesa e disturbare le funzioni, soprattutto i matrimoni. Una volta aveva spiegato che le pareva di essere circondata da diavoli e che le volessero tutti male, perciò dipingeva, perché non sapeva parlare. Diceva che l’arte l’aveva salvata, che le bastava quello e l’affetto di poche persone per vivere e stare in piedi. Vito indossava un cappello scuro a tesa larga e suonava la tromba sotto i portici della Certosa di Collegno, in genere si cimentava nell’Aida di Verdi e per quello era impazzito, perché non riusciva a fare gli acuti con la tromba. Vito era anche un grafomane, scriveva frasi e aforismi sui muri, tra i tanti uno aveva colpito nel segno: “Elettricità, no”.  Anche Jimmy, un vecchio marinaio, aveva conosciuto l’ebrezza dell’elettroshock, ma lui preferiva non parlarne. A Torino, tra i matti più conosciuti, c’era Zeus, acronimo di Zanetti Edoardo Unico Signore. Zeus si aggirava per le vie della città avvolto in una lunga tunica e con dei sandali ai piedi, aveva una fascetta di cotone legata in testa, la barba incolta e i capelli lunghi fin sulle spalle. Non era cattivo, né un violento, entrava nei negozi tentando di provare giacche che non avrebbe mai comprato, mangiava goloso coni gelato al gusto pistacchio, si impegnava a vendere sciarpe della Juventus davanti allo Stadio Comunale, o al Balôn, la gente lo scansava perché in effetti la tunica emanava un odore difficile da sopportare per più di qualche minuto. Al suo fianco c’era Maria, una donna più anziana di lui, con i capelli dal colore indefinito, che gli camminava davanti illuminandogli la strada con un cero acceso, e intanto che andava avanti gridava: “Zeus ti vede!” Ecco l’autore di quelle innumerevoli scritte affiancate ai disegni del triangolo con l’occhio disegnato all’interno. Zeus veniva da Collegno, sosteneva che, dopo l’elettroshock, il suo cervello fosse diventato elettrico e lui, di conseguenza, un Dio elettrico. Era molto dispiaciuto di non poter fare più miracoli, perché era stanco, non più giovane e un po’ acciaccato, ma soprattutto non poteva più fare affidamento sul nettare che gli permetteva le azioni miracolose e divine: sosteneva infatti che dal proprio liquido seminale scaturivano i suoi divini poteri, ma, con il tempo, anche quell’umore così potente si era indebolito. Un giorno si fece stampare dei bigliettini con scritto sopra: 

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DIO
PER QUALSIASI PROBLEMA TELEFONATEMI
ALLO 011.00.00.00

(In caso d’assenza vi risponderà la segreteria elettromeccanica del Paradiso).
Quando si sentì prossimo alla dipartita, Zeus disse di essere favorevole alla cremazione, poiché chi viene seppellito viene mangiato dai vermi e dà loro la propria anima, “così i vermi diventano sempre più intelligenti”.

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L’ultimo paziente dimesso da Collegno fu un operaio di sessantadue anni, l’uomo oltrepassò i cancelli il 4 giugno 1998 e dopo di lui la struttura venne ufficialmente chiusa. Qualcuno, però era rimasto dentro, e proprio non voleva andar via. Era Roberto Contartese, ex insegnante genovese di lettere e filosofia al liceo, ultimo di cinque figli, ricoverato lì da vent’anni. Roberto era stato rinchiuso a Collegno perché viveva in attesa della fine del mondo e di una guerra atomica che avrebbe distrutto tutto. Lo avevano trovato in una casa di campagna, nascosto tra il materasso e la rete, per evitare le radiazioni. Era rimasto lì immobile per giorni, senza bere né mangiare, in attesa dell’inevitabile Apocalisse. Roberto venne internato, il dottor Annibale Crosignani lo curò e parve guarito. Con il dottore, Roberto aveva instaurato un rapporto di fiducia e perfino di “rispetto intellettuale”; dal canto suo il medico gli permetteva anche di tenere delle lezioni all’interno della struttura e lo aveva in gran conto. Quando gli dissero che poteva tornare a casa, Roberto andò in crisi nuovamente, questa volta il delirio riguardava la paura dell’avvelenamento.  Quando Collegno chiuse, gli proposero un bell’appartamentino a Grugliasco, ma lui rifiutò categoricamente, così l’unica soluzione trovata dal dottor Giorgio Tribbioli fu quella di riadattargli l’ex appartamento di don Gilardi, il cappellano, all’interno dello stesso manicomio. Contartese si trasferì nel suo nuovo piccolo antro con i suoi libri e i suoi autori preferiti: San Tommaso, Kant, Shopenauer, Campanella, Moro, Bacone, Freud e Jung. Si portò dietro anche alcuni volumi di poesia e narrativa, che leggeva ogni tanto tra una sigaretta e l’altra, (ne fumava ottanta al giorno). Non ci fu storia, non uscì vivo da Collegno, lo trovarono morto lì, per un male del corpo e non della mente, a sessantanove anni. L’ultima anima di Collegno se n’era andata via in sordina, come tantissime altre che nel tempo erano spirate silenziose tra le mura del manicomio. Chissà quanti di quei fantasmi sono ancora lì, come i tristi spettri di via Giulio, che ancora non si capacitano di aver sofferto tanto. Chissà se noi normali potremmo mai comprendere la folle tragedia che i matti hanno vissuto, per colpa nostra, per la nostra paura del diverso e di essere scoperti noi stessi come diversi. Chissà quando avremo il coraggio di guardarci così da vicino per scoprire che a una certa distanza, nessuno è normale.

 

Alessia Cagnotto

Riapre al pubblico la Camera del Parlamento Subalpino

Venerdì 15, sabato 16 e domenica 17 marzo

L’occasione è data, anche quest’anno, dalla ricorrenza della “Giornata dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera”: così venerdì 15, sabato 16 e domenica 17 marzo prossimi, dalle 10 alle 19, il Museo Nazionale del Risorgimento Italiano (via Accademia delle Scienze 5, a Torino) riaprirà alla visita del pubblico la Camera dei Deputati del Parlamento Subalpino, riconosciuta monumento nazionale dal 1898. Occasione eccezionale, l’iniziativa permetterà ai visitatori di vivere l’emozione unica di entrare nel cuore della storia d’Italia, per cogliere quelle che furono le gloriose radici della nostra odierna identità. E’ infatti in quest’Aula che si svolse l’attività legislativa dell’allora Regno di Sardegna, fra l’8 maggio 1848 e il 28 dicembre 1860. Ed è qui che personaggi come Camillo Benso Conte di Cavour, Giuseppe Garibaldi, Angelo Brofferio, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Vincenzo Gioberti, Quintino Sella e centinaia di altri posero le basi della nostra democrazia per avviare il cantiere dell’Italia unita. Doveroso dunque per il Museo Nazionale del Risorgimento riconsegnare al pubblico anche se solo per pochi giorni questo patrimonio inestimabile, autentico prezioso gioiello della città. L’iniziativa si realizza in collaborazione con il Consiglio Regionale del Piemonte e in occasione della mostra “Nel solco di Camillo Cavour”, aperta a Palazzo Lascaris, nella “Galleria Carla Spagnuolo” dal 14 marzo all’11 aprile. Per venerdì 15 marzo, è anche prevista la visita al Parlamento Subalpino di tutti gli studenti arrivati alla fase finale del concorso “Ragazzi in Aula”, il progetto di open government che il Consiglio Regionale rivolge alle scuole secondarie di secondo grado del Piemonte. Tra gli eventi proposti, da segnalare anche domenica 17 marzo alle 15.30, nell’ambito del progetto “Il Cavour nei luoghi di Cavour”, l’esibizione del coro e dell’orchestra di archi del Liceo Musicale Cavour di Torino che eseguiranno la versione integrale de “Il Canto degli Italiani”. I settanta giovani allievi si esibiranno nell’Aula destinata alla Camera del Parlamento Italiano, un altro dei luoghi estremamente significativi che fanno parte del percorso del Museo Nazionale del Risorgimento.

Pillole di storia

La Camera Subalpina è l’unica Aula parlamentare rimasta integra in Europa tra quelle nate con le rivoluzioni del 1848 ed è riconosciuta monumento nazionale dal 1898. Dal 1938, anno del trasferimento del Museo a Palazzo Carignano divenne parte integrante dell’esposizione. Dopo un importante intervento di restauro realizzato nel 1988, che ne ha garantito la conservazione, non è più stata accessibile. I visitatori normalmente possono ammirarla da un ampio affaccio esterno che ne consente la visione di insieme. In origine era il Salone d’Onore al piano nobile del palazzo dei Principi di Carignano, progettato da Guarino Guarini ed edificato tra il 1679 e il 1683. Qui si svolse l’attività legislativa del regno sardo tra l’8 maggio 1848 e il 28 dicembre 1860. Promulgato lo Statuto Albertino, si pose infatti il problema di dove collocare in tempi strettissimi le due aule parlamentari. Per il Senato fu scelto Palazzo Madama, per la Camera il vasto spazio ellittico del salone di Palazzo Carignano. A due settimane di distanza dalla proclamazione dello Statuto, la stesura del progetto fu affidata, il 18 marzo 1848, a Carlo Sada. In cinquanta giorni fu realizzata la trasformazione dell’antico salone ovale in una sala ad anfiteatro con i seggi dei deputati posti a semicerchio dinanzi al banco del presidente e dei segretari. La prima seduta, con l’inaugurazione della prima legislatura, avvenne l’8 maggio intorno alle 13. Dal giorno seguente le sedute proseguirono regolarmente e furono aperte al pubblico, mentre erano in corso le ultime rifiniture. Rimaneggiamenti dell’aula si resero necessari quando aumentarono i deputati con le annessioni, tra il 1859 e il 1860, prima della Lombardia, poi dell’Emilia e della Toscana, fino a quando col progredire dell’unificazione al Centro e al Sud, il salone divenne troppo piccolo. All’architetto Amedeo Peyron fu affidato quindi l’incarico di realizzare un’Aula provvisoria nel cortile, mentre veniva avviato l’ampliamento del Palazzo verso piazza Carlo Alberto, per collocarvi l’Aula definitiva del Regno d’Italia. L’Aula della Camera ellittica fu chiusa, ma non smantellata; subito le si riconobbe il carattere di monumento nazionale, ratificato poi da un decreto del 4 marzo 1898 in occasione del cinquantenario dello Statuto. Nel 1911 per i cinquant’anni del Regno vi si tenne una seduta straordinaria. Un nuovo restauro venne compiuto nel 2010-2011 in occasione del riallestimento del Museo

Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, via Accademia delle Scienze 5, Torino; tel. 011/5621147 (è anche possibile prenotare, allo stesso numero, visite guidate) o www.museorisorgimentotorino.it

g. m.

Nelle foto
– Aula della Camera del Parlamento Subalpino
– Museo Nazionale del Risorgimento Italiano

 

Steve McCurry. Leggere

Un mondo che legge: a Palazzo Madama, la passione per la lettura raccontata attraverso gli scatti del grande fotografo americano
 
Immagine – guida della mostra, una foto scattata a Kunduz, in Afghanistan, nel 2002. Ritrae una giovane fanciulla, un libro tenuto aperto fra le mani, unghie smaltate, due stupendi occhi neri e un velo trasparente a coprire appena appena il capo e a scendere lieve sulle spalle. Totalmente libero é il volto, fermato a fissare con dolce perplessità e un pizzico di sorpresa l’obiettivo della fotocamera che le si para (forse inaspettatamente) davanti. Negli occhi trattiene ancora le ultime parole del libro su cui fino a un attimo prima aveva fermato la sua attenzione. La foto arriva 18 anni dopo quella scattata nel 1984 alla famosa ragazza afgana dai grandi occhi verdi che scavano l’anima, rifugiata a Peshawar, in Pakistan, e diventata per quello scatto indimenticabile simbolo dei conflitti afgani degli anni Ottanta, tanto da guadagnarsi la copertina del “National Geographic Magazine” del giugno 1985. L’autore è sempre lui: Steve McCurry, classe 1950, nato nei sobborghi di Philadelphia e oggi fra i grandi in assoluto del fotogiornalismo mondiale. Viaggiatore curioso e instancabile, coraggio da vendere (camuffato e infiltrato fra i Mujahidin, è stato il primo fotoreporter occidentale a raccontare al mondo per immagini il conflitto in Afghanistan, mostrando il volto cruento e terribile della guerra), un palmarés di impressionante levatura, a lui la Fondazione Torino Musei e Civita dedicano, fino al primo luglio, una nuova ampia rassegna ospitata nella “Corte Medievale” di Palazzo Madama e dedicata a un tema specifico: la passione universale per la lettura. Se vogliamo, un omaggio a McCurry dalla Città della Mole e da McCurry un omaggio a Torino che, in virtù del suo Salone del Libro, può certamente annoverarsi fra le capitali italiane e internazionali della lettura. Ben esplicito il titolo – “Steve McCurry. Leggere” – la rassegna è curata da Biba Giacchetti e, per i contributi letterari, da Roberto Cotroneo; presenta oltre 70 fotografie realizzate in più di quarant’anni di carriera e comprende la serie di immagini che lo stesso McCurry ha riunito in un magnifico volume, pubblicato da “Mondadori” e dedicato al grande fotografo ungherese André Kertész. L’elemento umano è, ancora e sempre, al centro delle immagini scattate dal fotografo in tutto il mondo. “Nella mostra – scrive bene Guido Curto, direttore di Palazzo Madama – il soggetto non è tanto il libro, bensì la persona intenta alla lettura”, che McCurry “spia con noi – aggiunge Biba Giacchettiin una conferma del potere della lettura di astrarre dal presente e di condurre ogni individuo in un mondo a parte, personale e segreto”. Ovunque può esserci lettura. Che non è mai privilegio di pochi eletti. I contesti, narrati dagli scatti assemblati in mostra, ci portano nei luoghi più disparati e imprevedibili, quelli di preghiera in Turchia, fra le rovine prodotte dall’occupazione militare delle forze irachene a Kuwait City nel corso della prima Guerra del Golfo, così come nelle strade dei mercati in Italia, dai rumori dell’India ai silenzi dell’Asia orientale, dall’Afghanistan a Cuba, dall’Africa agli Stati Uniti. E in ogni parte del mondo , McCurry “è capace di farci leggere per un attimo– precisa Roberto Cotroneo lo stesso libro dei suoi soggetti, di lasciarci con loro per un attimo, quello che basta a riempirci di storie e passioni”. Libri, pagine di preghiera, giornali, riviste. Di tutto si legge. E la lettura è voglia e passione di tanti: giovani e anziani, ricchi e poveri, religiosi e laici. E’ solitudine positiva, linfa vitale di contenuti lungo il percorso della vita. E’ curiosità. E’ passione. E’ stimolo di emancipazione. E si legge in piedi. O sdraiati. O seduti. O coricati su un marciapiedi, le gambe in alto lungo il muro di una casa. Tutto è consentito. E tutto è cristallizzato e documentato dall’intuito creativo del grande fotografo che riesce a cogliere momenti anche i più bizzarri e suggestivi di un gesto, in fondo, di quotidiana normalità. Completa la rassegna, una specifica sezione (“Leggere McCurry”) dedicata ai libri pubblicati a partire dal 1985 con le foto dell’artista, molti dei quali tradotti in più lingue: ne sono esposti 15, alcuni ormai introvabili, insieme ai più recenti, fra cui il volume edito da “Mondadori” che ha ispirato la realizzazione della stessa mostra. Tutti sono accompagnati dalle foto utilizzate per le copertine, autentiche icone che hanno reso celebre McCurry in tutto il mondo e che gli sono valse perfino la nomina di “Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere” conferitagli dal Ministero della Cultura Francese e la “Centenary Medal for Liftime Achievement”, tributatagli dalla Royal Photographic Society di Londra.

Gianni Milani

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“Steve McCurry. Leggere”
Palazzo Madama – Corte Medievale, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 o www.palazzomadamatorino.it
Fino al primo luglio
Orari: tutti i giorni 10/18, chiusura il martedì
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Nelle foto

– Kunduz, Afghanistan, 2002
– Kuwait City, Kuwait, 1991
– Roma, Italia, 1984
– Mandalay, Birmania, 2013
– Varanasi, Uttar Pradesh, India, 1984
– Chiang Mai, Tailandia, 2012

 

Qualcuno ha ucciso il signor Marcel nella villa paralizzata dalla neve

Nel 2002 François Ozon raccolse le eccellenze dell’olimpo femminile che è di casa nel cinema francese e diede vita a 8 donne e un mistero

Le attrici si chiamavano Deneuve Ardant Huppert Béart con le giovani Ledoyen e Sagnier e quella che era stata nel ’36 una giovanissima Maria Vetsera nel Mayerling di Anatole Litvak, Danielle Darrieux, un monumento. Un tripudio di visi, tic, caratteri, abiti colorati oltre misura, una leggerezza tutta francese, una lampante spiritosaggine in mezzo al buio di un delitto, la presentazione di ciascun personaggio affidato alle canzoni di Dalida o Françoise Hardy o Georges Brassens, delicate e orecchiabili, un piccolo capolavoro. Al festival di Berlino di quell’anno tutte quante le attrici furono osannate in blocco con un Orso d’argento, l’anno successivo il film ebbe dodici candidature ai César e Ozon vinse il Lumière come miglior regista dell’anno. Con qualche leggerezza in meno e con qualche intrigante suspence in più approda oggi all’Alfieri (repliche sino a domenica 17) la commedia omonima scritta da Robert Thomas, che ha coinvolto nella produzione, con la regia di Guglielmo Ferro, pronto a firmare anche la scena che racchiude a più livelli i vari ambienti, tre realtà come La Pirandelliana, la Compagnia Molière e ABC Produzioni e un nutrito gruppo di attrici nate sui nostri palcoscenici e per nulla disorientate davanti alle colleghe d’oltralpe. Resta intatto il divertimento, l’ironia non delude intrufolandosi a dovere negli ingranaggi della commedia, la trama ed il finale inaspettato corrono spediti grazie alle ottime prove, mantenendo per le due ore il fiato sospeso dello spettatore, senza un attimo d’interruzione. Come in ogni giallo che si rispetti (i maestri sono insuperabili, sarebbe sufficiente l’”Orient Express” della Christie, e Thomas era per l’occasione sulla buona strada), la neve ricopre alla vigilia di Natale le strade che arrivano alla grande villa di campagna, il cadavere del padrone di casa viene ritrovato nel chiuso di una stanza con un coltello conficcato nella schiena, i fili del telefono sono stati tagliati, ogni comunicazione è interrotta. All’interno otto donne, pronte a sbranarsi e a nascondere segreti, a squinternare verità da tempo sepolte, tra graffi e deboli sorrisi, unioni e quattrini, vizi (tanti) e piccole virtù (molte), nel gruppo la giovane Suzon che ha deciso di avviare la propria personale indagine. La consorte del povero defunto coltivava la brutta abitudine di spillare denaro e nasconde una relazione con un giovanotto che però la tradisce con Pierrette; Pierrette, sorella del fu, in quanto a quattrini, ne aveva sempre un gran bisogno e sognava con lui vantaggiose frequentazioni; zia Augustine, sorella della padrona di casa, nevrotica e zitella all’eccesso, legge di nascosto romanzetti rosa e ha spasimato per il cognatino passato a miglior vita; c’è pure una mamma/nonna che tenta in tutti modi di mettere al sicuro i suoi titoli più che redditizi di cui il genero avrebbe avuto un gran bisogno, visto che per lui la strada d’obbligo era quella della bancarotta (ah, a proposito, la vegliarda a suo tempo aveva anche fatto fuori il proprio marito), c’è una governante madame Chanel che stravede per Pierrette e una cameriera senza peli sulla lingua, amante di Marcel e per nulla insensibile al fascino della padrona, ci sono Suzon e Catherine, la prima se la faceva col morto (è incinta) da quando aveva scoperto che non era il suo vero padre, l’altra, scopritelo voi, è l’anima della commedia. Attenzione alle pistolettate, che uccidano o no, tutte al momento giusto. Ci vogliono delle attrici che abbiano grinta, spirito e ritmo, che sappiano “giocare” e ci sono, l’abbiamo detto. Anna Galiena (che ha curato anche l’adattamento), Debora Caprioglio chiusa a riccio nella mentalità e nell’abitino di Augustine ma pronta a sbarazzarsene (un bel ritrattino acido acido, dentro cui l’attrice s’è calata con intelligenza e gusto), Caterina Murino, Paola Gassman, Antonella Piccolo, Claudia Campagnola, Giulia Fiume e Maria Chiara Dimitri, tutte compatte per il successo vivissimo della serata. I costumi, intimi ai personaggi, sono di Françoise Raybaud.
 
 
Elio Rabbione
 

Jump back in the future

Di Fabrizio Bellanca. Inaugurazione Giovedì 14 Marzo 2019 dalle 18 alle 20,30 Fino al 6 Aprile 2019 Presente l’artista

 

Paola Meliga Gallery inaugura la stagione espositiva 2019 con Fabrizio Bellanca e le sue Virtualoid

A volte basta un nome per evocare sensazioni e ricordi: il titolo di questa serie di Bellanca ci riporta agli anni ’70, stagione di sperimentazioni e di rapide trasformazioni e capovolgimenti. La fotografia diventa non solo ricerca e lunghi tempi passati nelle camere oscure per vedere finalmente il risultato di ciò che si era fissato sulla pellicola, ma si fa istante, momento vissuto e subito fermato. È la Polaroid: immagini a portata di tutti, da fruire al momento. Non si parlava di selfie ma di foto di gruppo o paesaggi che subito diventavano realtà sulla carta in piccolo formato. L’artista ci vuole riportare sullo stesso terreno, proiettato nel futuro come indica il sottotitolo della serie “jump back in the future”, un salto indietro nel futuro.  Qui i soggetti di Bellanca sono lavorati in miniatura mediante un intervento diretto con i suoi tipici materiali e le tecniche più sperimentali, dal Dremel, per incidere la cornice, ai colori per vetro, utilizzati per coprire una sezione dello scatto oppure esaltarne un’altra, e gli inchiostri da stampa rullati a mano sulla superficie dell’alluminio.Il formato rimane lo stesso, 11 x 9 cm, e in quella piccola finestra quadrata ritroviamo l’anima urbana di Bellanca: a volte sono i disegni finali di opere realizzate in grande formato, spesso idee e bozzetti di opere future, dall’architettura razionalista di Como, la sua città, a scorci urbani di metropoli, quali New York ,Londra, Milano.

Testo a cura di Elena Isella

In esposizione alla Paola Meliga Gallery ci saranno una quarantina di Virtualoid in rappresentanza di generi diversi: dal ritratto di personaggi famosi a scorci urbani di metropoli quali New York, Londra, Milano, Parigi, e anche un omaggio alla nostra Torino, per proseguire con il tema del paesaggio. Le Virtualoid di Bellanca, secondo la definizione data dall’autore, nascono dall’idea di applicare e adattare la polaroid, intesa come formato e come oggetto unico, e il vintage anni ’70 al mondo virtuale di oggi, in cui la polaroid viene riprodotta abitualmente in tutti i suoi modi e sensazioni nelle cornici dei vari programmi com Instagram.

Tre virtualoid sono inoltre dedicate alle due principali squadre calcistiche subalpine, Torino e Juventus, in una esplosione di tecnica grafica e pittorica.

Durante la serata inaugurale, chi avesse desiderio di una virtualoid personalizzata potrà portare con sè una foto o un’immagine che si desidera riproporre.

Info Mostra:

Paola Meliga Art Gallery

Via Maria Vittoria 46/D | 10123 Torino

Tel. Fax.: 0112079983

Orario apertura al pubblico dal martedì al venerdì dalle 15,30-19,00

 Il sabato dalle 10,30/12,30-15,30/18,30

Lunedì e Festivi chiuso