CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 535

Vitamine Jazz per pubblico e pazienti. I nuovi concerti

Gli appuntamenti della settimana all’Ospedale Sant’Anna per la rassegna“Vitamine Jazz” già arrivata al centocinquantaquattresimo concerto e alla sua terza stagione, organizzata per la “Fondazione Medicina a Misura di Donna” e curata da Raimondo Cesa

I concerti avranno inizio dalle ore 10.00 nella sala Terzo Paradiso in via Ventimiglia 3 aperta al pubblico, dedicata alle pazienti e ai loro cari.

 

Martedì 28 gennaio “Duo Guarino Cambursano”

Giorgio Guarino chitarra
Davide Cambursano contrabbasso

Il progetto nasce dalla volontà dei due musicisti di esplorare il più classico repertorio swing e bebop nella loro personale chiave di lettura.
Da Ellington a Miles Davis, da Hammerstein a Charlie Parker passando per Jobim ed i ritmi brasiliani: i brani più celebri ed immediatamente identificabili del grande songbook americano rivisti e reinterpretati per l’occasione.


Giovedì 30 gennaio “Duo Giulia Damico & Giangiacomo Rosso”

Giulia Damico voce
Giangiacomo Rosso chitarra

Giulia Damico

Nata a Torino nel 1989, da sempre attirata dal mondo dei suoni e della voce. Da ragazzina inizia i primi studi musicali e del canto presso insegnanti privati, successivamente si iscrive alle principali scuole di jazz della città per poi conseguire il diploma di laurea al conservatorio “G.Verdi” di Milano sotto la guida di Tiziana Ghiglioni, Attilio Zanchi, Giovanni Falzone, Antonio Zambrini.
Nel corso degli anni ha avuto modo di partecipare a master e seminari con Sheila Jordan, Jay Clayton, Enrico Pierannunzi, Diana Torto, Andy Sheppard e molti altri.
Giangiacomo Rosso
Inizia il suo percorso artistico musicale al Centro Jazz Torino sotto la guida di Matteo Negrin, Pietro Ballestrero e Pino Russo. Successivamente si appassiona alla musica di Django Reinhardt inziando così un percorso autodidatta alla ricerca delle sonorità del Jazz Gitano, apprezzando lo stile di interpreticontemporanei come Bireli Lagrene, Adrien Moignard, Rocky Gresset e Sebastien Giniaux. Seminari e Workshop: Bireli Lagrene, Angelo Debarre, Adrien Moignard, V VI e VII ediazione del Perinaldo Festival. Suona la chitarra Manouche nel quartetto Gipsy Jazz dei Blue Moustache con il quale ha partecipato alle ultime due edizioni del Torino Jazz Festival. Fa parte del progetto Electroswing “The Sweet Life Society” con cui si è esibito in molti festival europei: tra cui Glastombury, Boomtown Fair, Peninsula FelZiget, Jiva Zik. Nel 2014 ha suonato nei Jazz Festival di Torino, Sorrento, Ragusa e Roma. Insegna chitarra Gipsy Jazz (Manouche), Elettrica, Acustica, Ritmica alla Jazz School Torino

L’isola del libro. Speciale Dorothy Parker

Rubrica settimanale sulle novità librarie. A cura di Laura Goria

Gaia de Beaumont “Scusate le ceneri: biografia romanzata di Dorothy Parker” -Marsilio-   euro 9,50

 

Questo è davvero un libro splendido e vi conduce nei meandri della vita dell’americana Dorothy Parker (1893 – 1967). Un’ icona del XX secolo, emblema di fascino, raffinatezza e snobismo   intellettuale nella New York degli anni 20 e 30. Fu molte cose: giornalista di grido, scrittrice, poetessa, amica di artisti e del bel mondo dell’epoca. Gaia de Beaumont, più che una biografia, intesse “un romanzo liberamente ispirato alla sua vita” ….e che vita!Doroty nasce con l’altisonante cognome Rothschild e, anche se la sua famiglia non ha connessioni con l’omonima banca, conosce e frequenta tutti i posti alla moda. Dottie o Dot (diminutivi con cui è spesso chiamata) è ancora piccola quando la madre muore e lei pensa che la colpa sia sua perché “nascere ultimogenita da una madre 42enne non ha fatto che procurare alla persona che più amava un problema insolubile”. Il padre si risposa e Dottie entra in guerra con la matrigna, poi finisce in un collegio dove ne combina di tutti i colori. Ama follemente New York “soprattutto quando piove e l’asfalto è bagnato”ed è lì che erige la sua indipendenza. A 21 anni è assunta a Vogue come assistente editoriale: ma ha talento, è geniale ed ambiziosa; così da semplice autrice di didascalie fotografiche ben presto diventa firma di punta. Pubblicherà anche su altre riviste blasonate (come “Vanity Fair” e “Il New Yorker”) costruendosi una brillante carriera. Coltiva l’amicizia con scrittori della levatura di Hemingway, Fitzgerald, Dos Passos; mentre con Robert E. Sherwood fonda e diventa l’anima della cosiddetta Tavola Rotonda (nel mitico Hotel Algonquin), celebre anche come “circolo vizioso” dove si incontrano artisti, intellettuali e giornalisti che miscelano lavoro e divertimento. Dottie firma pezzi ferocemente acuti, in cui brillano autoironia, messa in ridicolo dei suoi fallimentari affari di cuore, ma anche la brillante presa in giro dei rapporti umani e del mondo dorato che frequenta. Minor successo ha nella gestione della vita privata: colleziona 2 aborti, 3 mariti e vari amanti bellissimi, vacui e decisamente più giovani di lei. E’ perennemente pervasa da un senso di angoscia che annega nell’alcol o cerca di annullare con ripetuti tentativi di suicidio. La parabola della sua vita è discendente: gli ultimi anni sono intrisi di povertà (risparmiava per lasciare i suoi beni a Martin Luther King), invecchia presto e male, finisce per allontanarsi da tutto e tutti, si rinchiude in un deprimente albergo per anziane signore, dove viene stroncata da un infarto a 73 anni. Le ceneri del titolo sono quello che resta di lei dopo la cremazione. Dispone che sull’urna venga scritto “Scusate le ceneri”… che nessuno reclamò per ben 21 anni.

 

 

Dorothy Parker “Giochi   di società” -Bur- euro 12,00

I racconti di Dorothy Parker sono considerati piccoli capolavori e potete constatarlo leggendo questa raccolta di 20 bozzetti e storie, pubblicati per la prima volta in Italia e tra i suoi pezzi migliori. Regina delle soirée newyorkesi, era in posizione privilegiata per osservare a fondo e poi descrivere l’umanità varia che, tra flute di champagne e tartine, si aggirava in un vortice di mondanità, vizi e virtù. La sua scrittura è corrosiva, la sua penna stilla veleno agrodolce e mette a nudo schizofrenie, contraddizioni, conformismi, assurdità, frivolezze assortite del bel mondo che frequentava. Tanti personaggi immersi in ricchezze, viaggi, lussi e amicizie vere o presunte. Tutti accomunati da una personale solitudine che si schianta contro muri di nonsense, pura parvenza e poca sostanza. Ci sono la coppia di newyorkesi sotto il sole dell’ambita Costa Azzurra che critica tutto e tutti: la moda dello spiritismo e delle tavolette Ouija per comunicare con l’al di là; due amiche squattrinate che fanno il gioco “cosa faresti se avessi un milione di dollari?”; le abitudini di un intero condominio e tante altre spettacolari pagine. Perché la Parker amava scrivere di ciò che la circondava, salvo poi mettere sulla graticola proprio il mondo in cui sguazzava.

 

Dorothy Parker “Dal diario di una signora di New York” -Astoria-   euro14,00

 

Anche in questi 11 racconti scoprirete una Dorothy Parker che osserva e descrive con ironia debolezza umane, vanità inutili, snobismo conformista, relazioni fragilissime e convenzioni sociali.Con il suo sguardo e le sue parole racconta dell’amicizia in “La signora della lampada”, della fine di un amore in “Da New York a Detroit”, o della vacuità della fama in “Alla luce del giorno”. E poi altre pagine che fanno di questo libro un piccolo gioiello.

 

Dorothy Parker “Eccoci qui”   -Astoria-   euro 15,00

 

10 racconti introvabili ormai da anni, altre brevi perle da leggere. A partire dal primo, “Composizione in bianco e nero” in cui mette impietosamente a fuoco il razzismo della buona società, cogliendo a fondo le più nascoste sfumature dell’animo americano dell’epoca. Poi c’è quello che è considerato un piccolo capolavoro “Una bella bionda”. Ovvero la storia della formosa Hazel Morse, veleggiante tra i 30-40 anni. Ha un nostalgico passato da modella, poi diventa la mantenuta di molti uomini, ed infine considera l’opzione del suicidio. Tema particolarmente caro alla Parker che lo accarezzò più volte e scrisse la famosa frase: ”I rasoi fanno male, i fiumi sono freddi, l’acido lascia tracce, le droghe danno i crampi, le pistole sono illegali, i cappi cedono, il gas è nauseabondo…..tanto vale vivere”.

Un’astronave “d’acciaio e di luce” per la stralunata Loretta

Repliche da martedì 28 nello spazio del teatro Marcidofilm!

 

Copi ricordava spesso con affetto le proprie origini italiane, quel paese di Diano Marina da cui il bisnonno paterno era partito per l’America del Sud negli ultimi decenni dell’Ottocento: del resto quel suo vero nome, Raùl Damonte Botana, era lì a testimoniarle.

Di idee anarchiche i genitori, spirito libero e sfrenata genialità lui, omosessuale, Copi fuggì dalla chiusa Argentina per trovare nella Parigi degli anni Sessanta, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, il luogo più ospitale e protettivo. Autore di testi teatrali (tra gli altri Eva Peron, Loretta Strong – debutto nel 1974, prima proposta italiana dieci anni dopo, a Roma -, Le frigo e Une visite inopportune ovvero un sarcastico dialogo con la Morte di un malato di Aids prossimo alla fine, interprete l’autore), romanziere, fumettista eccelso nelle pagine di Le Nouvel Observateur, sbarcò pure da noi, lo pubblicò Linus e Mario Missiroli, con enorme successo, lo invitò nel 1980 allo Stabile torinese per ricoprire il ruolo di Madame nelle Bonnes di Genet, complici Adriana Asti e Manuela Kustermann.

Proprio di Loretta Strong, come terzo appuntamento della loro stagione, omaggio alla “costruzione di un Repertorio e al suo mantenimento nel tempo, impegno fondamentale per la Compagnia”, i Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa propongono da martedì 28 a venerdì 31, ore 20,45, nel miniaturizzato spazio del loro teatro Marcidofilm! (corso Brescia 4) un nuovo allestimento, la rivisitazione di un successo partito nel 2011 e che oggi, balzando al di là delle mode e della contingenza, ha ben fermi gli aspetti del classico. Al centro dello spettacolo, non soltanto la convinta interpretazione di Paolo Oricco, che s’immerge in tutta l’ironia di cui era capace Copi e ne ricava una folle quanto stralunata Loretta, ma bensì l’apparato scenografico pensato e realizzato da Daniela Dal Cin, che proprio per questo suo lavoro si aggiudicò nove anni fa la nomination al prestigioso Premio Ubu. Una vera astronave, “uno strabiliante oggetto cinetico, abbagliante d’acciaio e di luce, un “disco volante” che in qualche segreto modo, sembrerà venir catapultato effettivamente verso le lontananze dello spazio profondo”, scriveva al debutto nelle note di regia Marco Isidori. A fianco di Oricco, a rivestire i ruoli di “topi, granchi, pappagalli, serpenti ed altro vociante ciarpame celeste”, ci saranno Maria Luisa Abate, Batty La Val, Vittorio Berger e Gabriele Scianka, voci non contemplate nella commedia, ma forgiate dall’inarrestabile fantasia del gruppo, un cumulo di stilettate teatrali che vanno ad aggiungersi all’energia verbale dell’autore nonché presenze che “serviranno a dare alla versione-Marcido di questo gioco della dismisura e del grottesco il suo esatto “passo” ritmico”.

 

Elio Rabbione

Dieci piccoli neuroni per dieci grandi libri

Un approccio investigativo-scientifico per far conoscere i neuroni, con le loro problematiche e i  danneggiamenti dovuti all’invecchiamento. Questo il fil rouge degli incontri promossi dal professor Luca Bonfanti alla libreria Bardotto

 

“Dieci piccoli neuroni per dieci grandi libri” è il titolo emblematico del ciclo di eventi di divulgazione scientifica promossi dal professor Luca Bonfanti, presso la libreria bistrot Bardotto,  in via Giolitti 28 a Torino.

Si tratta incontri strutturati sotto forma di esperimento investigativo -scientifico ideati da Luca Bonfanti, ricercatore presso l’Università degli Studi di Torino e il NICO – Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi di Orbassano. In questo laboratorio vengono studiati i cosiddetti “neuroni immaturi”, cellule nervose giovani che rimarrebbero allo stato di immaturità nella corteccia cerebrale, sin dalla nascita, costituendo una preziosa riserva in attesa di essere utilizzata per prevenire i danni dell’invecchiamento cerebrale.

“Il settimo appuntamento di questo ciclo che ha preso avvio lo scorso autunno – spiega il professor Bonfanti – sarà martedì 28 gennaio prossimo alle 18.30 presso la Libreria Bardotto, e avrà come titolo “Il neurone fantasma”, tratto dal celebre romanzo “Sette storie gotiche” di Karen Blixen.

Ogni incontro vede protagonista un neurone morto, uno scienziato, un coroner misterioso ed un romanzo; a capo dell’indagine il noto scrittore di gialli Enrico Pandiani. Con l’aiuto di alcuni romanzi si chiamano a testimoniare i maggiori esperti sulla materia cerebrale per capire cause ed indizi nascosti dentro al romanzo, riferiti alla morte di un piccolo neurone. Il libro diventa, così, spunto e, al tempo stesso, luogo in cui si cela sia l’identità dell’assassino, sia l’invisibile collegamento tra la vita dell’uomo e la scienza”.

Nel corso dell’appuntamento sul “neurone fantasma” sarà testimone Angelo Bifone del Dipartimento di Biotecnologie molecolari e Scienze della Salute dell’Università di Torino. Lo scorso 14 gennaio l’evento proponeva l’esperimento investigativo scientifico dal titolo “Il neurone suicida”, con la partecipazione, in qualità di testimone, di Marina Bodo, del Dipartimento di Neuroscienze dell’ Università degli Studi di Torino e del NICO. Federico Luzzati, del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’ Università degli Studi di Torino e del NICO, è stato il testimone dell’appuntamento del 10 dicembre scorso, dal titolo “Il neurone travestito”, ed il 26 novembre scorso lo è stato il professor Luca Bonfanti, ideatore di questo ciclo, nell’evento dal titolo “Il neurone drugo”.

“Questi appuntamenti – spiega l’ideatore di “Dieci piccoli neuroni per dieci grandi libri “, il professor Luca Bonfanti  – rappresentano dei flash di carattere scientifico-letterario in chiave noir, strutturati in interrogatori ai ricercatori e con la partecipazione attiva del pubblico presente. Si tratta di un format agile, capace di destare interesse in un pubblico eterogeneo nei confronti di una materia, quale quella scientifica che, ancor oggi, spesso, stenta a trovare un’adeguata divulgazione al di fuori delle sedi accademiche o dei circoli di addetti ai lavori. L’aver scelto una libreria come sede degli incontri e, in particolare, l’aver creato una connessione tra scienza e letteratura con il coinvolgimento di un romanzo, vuole dimostrare l’importanza di rafforzare i legami tra il mondo umanista e quello scientifico nella società contemporanea “.

 

Mara Martellotta

Analogia del volo

Poesia / a cura di Alessia Savoini

“Vedi? Ci arricchisce la veglia di un altrove attiguo e lo specchio riflesso dalle nostre ore nel riflesso d’una terra altrimenti immobile.”

Franco Ferrara
D’erranza
e analogia nel volo,
sul crinale instabile del vuoto,
rondini migrano l’amen
di un promiscuo eterno ritorno,
l’eloquio d’un eco
che non s’estingue
nel fatuo ciglio galattico delle ossa.

La Fontana dei Mesi. Febbraio è un soffio

Nella storia delle correnti artistiche l’Impressionismo ha un primato quello di essere iniziato e concluso nell’arco di un solo, seppur abbondante, decennio (1874-1886) e ha più di un record:

guardando dal passato al futuro, quello di essere stato il movimento più atteso, più inaspettato e a tutta prima peggio criticato, mentre se ne aggiudica un altro guardando dai giorni nostri al passato quello di essere la tendenza più significativa e più utile, per raccontare la velocità del cambiamento tipico dell’età contemporanea.

La statua di febbraio della Fontana dei Mesi al Parco del Valentino, mi fa pensare a questa corrente artistica l’Impressionismo. Ritengo che le associazioni di idee non abbiano un solo buon motivo per essere spiegate tuttavia se i miei lettori dopo aver ben guardata la statua in questione, volessero sapere qualcosa di più sull’Impressionismo si trovano nel posto giusto. Sempre che anche il momento sia opportuno vi racconto qualcosa di più sull’Impressionismo e sul perché mi pare che parlare di febbraio e di impressionismo non fa cascare la mela troppo lontana dall’albero, altrimenti segnatevi la pagina web tra i preferiti del telefono e tornate appena potete. Vi ricordo che la rubrica mensile sulla Fontana dei Mesi di Torino è strutturata dieci in uscite e che a dispetto dell’anno in corso iniziato da poco, volge già al termine.

 

Dallo scorso giugno ad oggi abbiamo parlato dei Caravaggisti dello stile Liberty, del Naturalismo, delle inferenze tra il Bizantino e lo stile italiano del XIV secolo, del Verismo e del Realismo, abbiamo approfondito su storie che si sussurrano intorno alla fontana con il mito di Fetonte e abbiamo davanti il mese di marzo in cui in programma abbiamo il Barocco e infine la decima uscita, dedicata al Neoclassico. Tornando a noi, perché la statua allegoria del mese di febbraio mi ricorda l’Impressionismo? Questi impressionisti in realtà erano dei maledetti, degli sfacciati, delle ruspe a cui pareva dipingere la realtà come gli pareva che piacesse o dispiacesse al gusto dell’epoca. Insomma credo che la correlazione sia nella visione storiografica dell’arte. A me lei ricorda l’Impressionismo perché sembra affacciarsi appena, una che si mostra un attimo e poi si ritrae, butta un occhio e è tutto. Proprio come fa l’Impressionismo nella storia dell’arte.

I quadri degli impressionisti sono stati criticati malamente all’indomani del 15 aprile 1874, data di apertura della mostra indipendente di questo gruppo di amici che frequentava il quartiere parigino delle Batignolle a Parigi e che sul far della sera, chiuso il cavalletto e riposti i colori, si ritovava al caffè Guerbois per discutere sulla realtà e la sua rappresentazione. I critici che pomposi si aggiravano per l’indipendente si ritenevano offesi, come di fronte a qualcosa di osceno; asserivano che le tele sembrassero dipinte a chiazze e che mancassero del tutto di prospettiva, insomma si potrebbe dire, credevano che fossero una carnevalata. A proposito buon carnevale a tutti, giovedì grasso 2020 è fissato all’8 febbraio, e arrivederci con la prossima uscita in cui parleremo del mese di Marzo, del Barocco e naturalmente della bella piccola Parigi.

 

Elettra Nicodemi

 

Elettra Nicodemi è una giornalista italiana esperta d’arte, moda e design; sull’Impressionismo a cui accenna in questa uscita dedicata alla Fontana dei Mesi di Torino, in passato ha scritto https://insidethestaircase.com/2017/02/17/manet-monet-renoir-degas-cezanne-pissarro/

 

Risplende di armi orientali l’Armeria Reale di Torino

Ventisette pezzi originali tra spade, sciabole, coltelli, pugnali, lance e moschetti provenienti da un’area geografica molto ampia compresa tra il Medio Oriente e il sud-est asiatico si aggiungono alla già vastissima collezione dell’Armeria Reale che conserva una delle più ricche collezioni di armi e armature antiche del mondo

Sono pezzi eccezionali, mai esposti prima, custoditi da decenni nei depositi dell’Armeria e finalmente ora venuti alla luce e presentati al pubblico in un allestimento permanente in una delle storiche vetrine della Rotonda di fianco alla Galleria del Beaumont.

Gli oggetti, di grande qualità e bellezza, appartengono a un nucleo di 500 esemplari e le origini della raccolta risalgono al 1839, anno in cui l’Accademia delle Scienze di Torino donò una quarantina di oggetti che l’esploratore piemontese Carlo Vidua aveva raccolto nei Paesi dell’estremo oriente. A questi si aggiunsero in seguito i doni diplomatici offerti a re Carlo Alberto e ai suoi successori. La collezione esposta nella nuova vetrina della Rotonda comprende armi di vario tipo. Troviamo una spada da cerimonia del Cinquecento donata a re Vittorio Emanuele III da una missione diplomatica dello Yemen, la sciabola regalata dal sovrano del Siam a re Umberto I, la cui impugnatura termina con un Naga a tre teste, il mitico serpente che custodiva i tesori del regno e poi c’è la splendida “kilic”, la sciabola che riporta sulla lama iscrizioni in caratteri arabi che esaltano la figura del profeta Maometto e sul fodero il nome di Solimano il Magnifico, sultano dell’Impero ottomano dal 1520 al 1566.

Lance giavanesi decorate con il caratteristico disegno del “pamor” che appare in seguito al trattamento della superficie dell’acciaio, altre sciabole e pugnali di manifattura ottomana e persiana, moschetti e archibugi di acciaio rivestiti in argento parzialmente dorato, di lavorazione arabo-indiana, completano l’esposizione. In molti casi le lame sono in damasco wootz, un acciaio particolare prodotto dal IV secolo nell’India del nord e in Persia mentre le decorazioni sono spesso realizzate a “koftgari”, un tipo di damaschinatura di origine indiana con cui si applicavano all’acciaio metalli preziosi come l’oro e l’argento. L’Armeria Reale di Torino, fondata da Carlo Alberto nel 1837, conserva numerosi tipi di armature, armi bianche e da fuoco, dalle armi archeologiche a quelle medievali e cinquecentesche, una raccolta di armature e armi dei Savoia, cimeli napoleonici, armi orientali e una collezione di bandiere.

Suggestivo e piacevole il percorso per raggiungere l’Armeria reale: si entra a Palazzo Reale, si sale al primo piano e si attraversano gli appartamenti reali fino a raggiungere la Galleria del Beaumont con cavalieri armati e vetrine stipate di armi. L’orario di visita dell’Armeria Reale: da martedì a domenica ore 9-19, lunedì ore 10-19, la biglietteria è all’ingresso di Palazzo Reale.

Filippo Re

“Chi scriverà la nostra storia”

Per il Giorno della Memoria, la Fondazione Bottari   Lattes presenta la docufiction di Roberta Grossman

Domenica 26 gennaio e martedì 28 gennaio

Monforte d’Alba (Cuneo)

Un omaggio alla determinazione di uomini e donne che hanno permesso di creare la più grande raccolta di testimonianze oculari scampate alla guerra, relative ai crimini nazisti compiuti contro la popolazione ebrea all’interno del Ghetto di Varsavia. Un vero e proprio archivio diventato “Patrimonio dell’Unesco” e raccontato nel film documentario “Chi scriverà la nostra storia”, proposto dalla Fondazione Bottari Lattes per commemorare il Giorno della Memoria (ricorrenza internazionale dedicata, il 27 gennaio di ogni anno, alle vittime dell’Olocausto) e per ricordare i temi fondamentali presenti ne “Il Ghetto di Varsavia” (tesi di laurea e saggio fra i più completi sull’argomento) scritto nel 1960 da Mario Lattes, pittore, scrittore ed editore sfuggito alle leggi razziali, cui è titolata la Fondazione voluta a Monforte d’Alba nel 2009 dalla moglie   Caterina. Basato sul saggio “Who will Write our History?” di Samuel D. Kassow, la docufiction – diretta nel 2018 dalla regista americana Roberta Grossman con le voci narranti della tre volte candidata all’Oscar Joan Allen e del premio Oscar Adrien Brody – è in programma a Monforte d’Alba all’Auditorium della Fondazione Bottari Lattes (via Marconi 16): domenica 26 gennaio per il pubblico, alle ore 17,30, preceduta da una introduzione del professore Valter Boggione (ingresso gratuito fino a esaurimento posti); martedì 28 gennaio alle ore 9,30 per gli studenti delle scuole di Monforte d’Alba, Barolo e La Morra, con un’ introduzione della professoressa Eva Vitali. La proiezione è organizzata con il patrocinio della Comunità Ebraica di Torino in collaborazione con il Comune di Monforte d’Alba, l’Unione di Comuni Colline di Langa e del Barolo, l’Istituto Comprensivo di La Morra.

Il film documentario racconta le vicende dello storico Emanuel Ringelblum che, proprio all’interno del Ghetto di Varsavia (450mila gli ebrei lì rinchiusi nel novembre del 1940 e sottoposti a terribili vessazioni), riuscì a riunire un gruppo segreto, lo “Oyneg Shabes” (la “Gioia del Sabato”, in yiddish), composto da giornalisti, ricercatori e capi della comunità, per combattere le menzogne e la propaganda degli oppressori con carta e penna anziché con le armi e la violenza. Il gruppo commissiona diari, saggi, storie, poesie e canzoni, raccoglie clandestinamente i manoscritti delle vittime della persecuzione polacca e documenta le atrocità con testimonianze oculari durante l’occupazione nazista e fino alla rivolta del Ghetto, riuscendo a far arrivare fino a Londra i resoconti sugli stermini compiuti dai tedeschi. Mentre i treni deportavano ebrei verso le camere a gas di Treblinka e il ghetto veniva distrutto dalle fiamme, il gruppo clandestino riuscì a seppellire 60.000 pagine di scritti e immagini nella speranza che l’archivio sopravvivesse alla guerra e alla loro stessa fine.

Delle sessanta originarie del gruppo “Oyneg Shabes” sono rimaste in vita dopo la guerra solo tre persone, fra cui Rachel Auerbach, figura centrale del film, sopravvissuta alla caduta del Ghetto, dove si dedicava non solo all’esercizio della critica in campo artistico ma anche a una mensa per i poveri e che ha dedicato la propria vita alla conservazione del ricordo.

“Chi scriverà la nostra storia” intreccia immagini dei testi d’archivio e materiali d’epoca con nuove interviste e rari filmati arricchiti da ricostruzioni storiche, che permettono allo spettatore di essere trasportato all’interno del Ghetto e delle vite dei coraggiosi combattenti della Resistenza.

 

Info: 0173.789282 – organizzazizone@fondazionebottarilattes.it

WEB fondazionebottarilattes.it | FB Fondazione Bottari Lattes | TW @BottariLattes | YT FondazioneBottariLattes

g. m.

 

Nelle foto

– “Lewin Family”, Photo Credit Anna Wloch
– “Warsaw Ghetto Market scene”, Photo Credit Anna Wloch
– “Andrew Bering portrays Israel-Lichtenstein Preparing First Cache”, Photo Credit Anna Wloch

 

 

Ghiaccio Spettacolo festeggia 10 anni di magia

Sono trascorsi dieci anni dall’esordio della Compagnia di Ghiaccio Spettacolo sulla pista del Palasesto di Sesto San Giovanni e, anno dopo anno, il gruppo di ex pattinatori guidati da Andrea Vaturi ha emozionato l’Italia con le sue esibizioni, raccogliendo l’importante eredità di Alessandro De Leonardis, tragicamente scomparso nel 2011, che era stato l’ideatore di “Stars on Ice”, spettacolo estivo di pattinaggio itinerante

Ghiaccio spettacolo celebrerà il decimo compleanno proprio dove tutto è iniziato, sul ghiaccio del Palasesto sabato 1° febbraio con uno show che porterà in scena il meglio di dieci anni di spettacoli.

In “10 Years Celebration Show” si esibiranno le coppie di campioni di danza sul ghiaccio formate da Federica Faiella e Massimo Scali e da Charléne Guignard e Marco Fabbri, la coppia di artistico Nicole Della Monica e Matteo Guarise, i pattinatori Daniel Grassl e Matteo Rizzo, la coppia di pattinaggio acrobatico Alice Velati e Davide Pastore, l’inedita coppia formata dalla campionessa del mondo di danza sul ghiaccio Anna Cappellini e da Ondrej Hotarek, campione di pattinaggio artistico. Scenderà sul ghiaccio del Palasesto la torinese due volte campionessa italiana Giada Russo. Gli atleti saranno accompagnati dalla Band On The Rocks e dalla straordinaria voce Rhythm&Blues di Eric Turner e da tutti i pattinatori che, nel corso degli anni, hanno fatto parte della compagnia.

Una parte del ricavato dello spettacolo sarà devoluta all’Associazione “Il Sogno di Iaia” e destinata al reparto di Oncologia Infantile dell’Ospedale Buzzi di Milano.

“10 Years Celebration Show”, Sabato 1° Febbraio 2020, ore 21 – Palasesto – Piazza 1 Maggio – Sesto San Giovanni (MI) – Biglietti acquistabili su VIVATICKET – www.vivaticket.it.

 

Barbara Castellaro

Sugli schermi “Hammamet” di Gianni Amelio

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

La superba immedesimazione di Favino nella debolezza di una storia

C’è un’unica, immutabile scena all’inizio e al termine dell’arco narrativo di Hammamet di Gianni Amelio, l’immagine di ribellione di un ragazzino che con un colpo di fionda sfonda un vetro di un istituto scolastico. Tra i due punti, la decadenza politica e soprattutto fisica di Bettino Craxi, gli ultimi sei mesi di un’esistenza controversa, la narrazione di una fuga e di un esilio (qualcuno, anche pubblicamente, ha osato usare il termine latitanza, con grande orrore della figlia Stefania, “latitanza un corno!” – nel film, Anita, forse un omaggio dell’autore all’amore per l’Eroe dei due Mondi), la sua volontà a far fronte ad una situazione che continua ad accusarlo – anche l’arrivo di un gruppo di rabbiosi turisti sulla spiaggia di Tunisi lo spinge a difendersi dall’accusa di aver sottratto all’Italia un cospicuo tesoro e a ricordare quelle monetine buttategli addosso davanti all’ingresso del Raphaël -, le giornate trascorse a formulare pensieri e a scrivere, a ricevere politici o l’amante che vuole rivivere intatte le emozioni di un tempo, come il dover fare i conti giorno dopo giorno con il diabete che lo ferisce (e certo le strutture ospedaliere del paese che lo ospita non sono le più adatte ad una cura e forse ad una guarigione, si potrebbe salire su un aereo per Milano ma c’è il rifiuto netto perché già s’immagina ad attenderlo i tribunali dello Stato), gli scatti d’ira verso la figlia che lo consiglia e tenta in tutti i modi di difenderlo dalla malattia, la sua arroganza e i suoi segni d’affetto (Amelio s’è immaginato un vecchio Lear alle prese con la saggia affettuosità di Cordelia) e di rincrescimento, il rapporto opaco con un figlio mai considerato all’altezza o con una moglie che trascorre il suo tempo davanti al televisore che trasmette vecchi film americani, il suo immancabile e lento soccombere.

Fatti, riletture, momenti che non generano certo troppe emozioni, che a molti (il pubblico di giovani) non potranno dire nulla mentre a quanti li hanno vissuti cercheranno di rinfrescare una memoria affievolita e il resoconto di un becero voltafaccia, di rimettere in piedi un uomo che per un decennio è stato il padrone indiscusso dell’Italia, l’esempio incrollabile di egocentrismo, il burattinaio di nani e ballerine come di quella politica passata poi, nel bene e nel male chi può ancora dirlo?, sotto le forche di Mani Pulite. Tutto questo tuttavia Hammamet lo ricostruisce in un eccesso di debolezza, attraverso un accumularsi di quotidiani episodi senza una vera robustezza – che non ci aspetteremmo dal forte autore di Così ridevano e Le chiavi di casa – ed un accattivante fascino, inserendo Amelio e il suo cosceneneggiatore Alberto Taraglio la figura del giovane Fausto, il figlio di un compagno di partito già pronto in uno degli osannanti congressi a base di sventolii di garofani a scoperchiare tutto quanto vi sia di falso e malato (finirà suicida), un giovane che armato di una piccola telecamera inquadra Craxi e ne cattura i pensieri e le confessioni e le recriminazioni, se ne fa memoria e portavoce. Quel rimpicciolire lo schermo in un nuovo formato è l’espediente di Amelio per staccare quelle parole dal contesto, per prendere le distanze dai fatti, per sottolineare ancora una volta “non ho mai votato socialista e non sono mai stato craxiano”: sarà, ma, con quel suo non esprimere giudizi definitivi, dal suo disegno il personaggio ne esce quasi in termini affettuosi e di comprensione, non s’è certo fatto ricorso ad un bisturi che abbia la rabbiosa consapevolezza di andare fino in fondo, geometricamente, a scoprire il marcio (e a non offendere il salvabile), non s’è certo compiuto un’azione mirabile come quella di Sorrentino, addentratosi nell’arcipelago Andreotti.

Hammamet soffre di personalissima debolezza, di un ritratto schizzato male e non chiarisce né la memoria né le idee a nessuno. Quella schermatura di anonimato – nessuno ha nome, eccetto la figlia, ma s’è detto storpiato – denuncia la mancanza di una storica robustezza che avrebbe senz’altro accresciuto il documento e la sua chiarezza: si fanno addirittura dei passi indietro nel finale, tra sogni di bassa lega, con l’incontro del protagonista a piedi scalzi sui tetti del duomo di Milano con la figura paterna (l’ultima prova di quel grande attore di cinema e di teatro – le sue interpretazioni allo Stabile di Genova! – che è stato Omero Antonutti) o con i due guitti, lui esile marionetta scomposta. Se ancora ce ne fosse bisogno, ti accorgi quanto il film si regga – “sia” – sulla impareggiabile e imperdibile interpretazione di Pierfrancesco Favino (quanti premi gli andranno a fine stagione?), che non soltanto con l’aiuto del trucco prostetico di Andrea Leanza si è appropriato appieno dei tratti visivi di Bettino Craxi: ma lascia sbalorditi quanto l’attore abbia lavorato in piena autonomia ed in grande saggezza sulla voce, sulle pause, sulle intonazioni, sul testone sghembo, su certe posizioni del corpo, delle mani che le immagini, ancora in occasione dei vent’anni dalla morte del politico in questi giorni sugli schermi televisivi, ci ridanno. Una immedesimazione superbia e singolare, che ha il potere di “guastare”, di allontanare, di far passare in secondo piano l’intera struttura drammaturgica del film.