CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 533

Viano e quella sua idea di laicità

Di Pier Franco Quaglieni
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Carlo Augusto Viano meritava molto più delle poche righe che gli ha dedicato “ La Stampa” nel momento della sua scomparsa
Insieme al “fratello gemello “ Pietro Rossi rappresentava il meglio dell’Università’ torinese dopo il pensionamento di Nicola Abbagnano (di cui fu allievo non pedissequo) e dopo la morte immatura di Pietro Chiodi,il genio filosofico che non poté esprimere il meglio di se’. Vattimo ,solo apparentemente, con il suo” pensiero debole” e successivamente con il suo vetero marxismo , ha rappresentato un elemento sicuramente importante che si è però rivelato una meteora passeggera . Più importante di lui fu sicuramente il suo maestro Luigi Pareyson.
Solo Maurizio Ferraris rappresenta oggi il maestro insuperato ,di fama davvero internazionale, che da ‘ prestigio all’Univesita’ di Torino in Italia e all’estero,oscurando totalmente la figura di Vattimo. Tra chi scrive e Viano c’ è stata una lunga collaborazione e una lunga amicizia che subì un ‘improvvisa e definitiva interruzione. Viano aveva colto ,da Vico in poi, la fine di ogni originalità della filosofia italiana, ormai a rimorchio delle filosofie straniere . Lo ricordo in una splendida lezione nei primi Anni Ottanta al Centro “Pannunzio” dove nacque il nostro rapporto.
Pur allievo di Abbagnano, aveva visto i limiti dell’ Esistenzialismo positivo del grande Divulgatore della storia della filosofia che ebbe in Giovanni Fornero il suo prosecutore . Egli era molto interessato ai temi della laicità ,ma quando finì per confondere il più arcigno laicismo con la laicità le nostre strade si allontanarono irreparabilmente . Viano era ateo e contrario ad ogni fede religiosa che vedeva come il frutto di superstizioni che la ragione doveva rifiutare con assoluta fermezza . Su di lui finivano di pesare pregiudizi antireligiosi molto forti che gli impedivano di cogliere appieno il tema della laicità così come Bobbio ( di cui pure fu allievo ) lo aveva impostato.
Io stesso ho teorizzato per tanti anni la laicità liberale intesa come rispetto di tutte le idee e di tutte le fedi e ho considerato laico il credente Manzoni e il credente Jemolo.Anche Marco Pannella considerava laici i credenti e i non credenti. Viano tendeva ad irridere queste posizioni che considerava di fatto filoclericali,forse dimenticando il magistero del Croce del “Perché non possiamo non dirci cristiani “. Con lui intavolai tante discussioni che non si rivelarono proficue .La sua adesione al gruppuscolo giacobino di “Libertà e giustizia “ ,tanto caro al quotidiano “Repubblica “,ruppe il nostro rapporto . Eppure egli non è solo un maestro dell’ Università di Torino,ma anche una delle figure più importanti della filosofia italiana della seconda metà del secolo scorso.
Certo un minore,ma un minore non privo di originalità che merita attenzione almeno come Giulio Gioriello e come Gennaro Sasso. A Torino la figura più interessante,a mio parere, resta quella dell’eretico Costanzo Preve che inutilmente cercai di mettere in contatto con lui. Preve era un professore di liceo che non ebbe mai la cattedra universitaria che gli sarebbe spettata per i suoi libri . Il suo pensiero resta il più originale e presto o tardi gli verrà riconosciuto questo merito. Comunque anche Viano ha contribuito agli studi filosofici e quelli relativi alla bioetica.
La sua morte a novant’anni mi rattrista profondamente perché la sua fervida intelligenza e la sua indipendenza di giudizio restano degli esempi importanti. Fu uno studioso  che non si lasciò invischiare nelle spire del marxismo come buona parte della filosofia italiana della seconda parte del ‘900. Il comune amico Nicola Matteucci mi parlava molto bene di lui e della sua opera,pur essendo  Matteucci un liberale duro e puro che non però non si lasciava condizionare nei suoi giudizi da valutazioni politiche contingenti.

Addio a Marisa Merz, unica donna dell’arte povera

Marisa Merz, artista torinese di fama internazionale ed unica donna esponente della corrente dell’arte povera è morta a 93 anni

Era moglie di Mario Merz, e madre di Beatrice, presidente della Fondazione Merz. Esordì negli anni Sessanta esponendo a Torino  opere che anticipano l’Arte Povera. Ha esposto  in numerose personali e collettive in Italia ed Europa. Tra il 2017 e il 2018 ha proposto una mostra itinerante inaugurata al Metropolitan Museum di New York. Nel 2013 la Biennale di Venezia le ha conferito il Leone d’Oro alla carriera.

L’isola del libro

Rubrica settimanale sulle novità in libreria 

A cura di Laura Goria

Stefania Auci  “I leoni di Sicilia. La saga dei Florio”  -Editrice Nord-  euro 18.00

 

Che amiate o meno le biografie…questa è magnifica: mai una pagina noiosa o una battuta d’arresto. Stefania Auci, insegnante e scrittrice, nata a Trapani (nel 1974), ma palermitana di adozione, ha infuso in oltre 400 pagine il suo amore per Palermo e la sua bravura nell’intrecciare Storia e vicende imprenditoriali e private di una delle famiglie più importanti della Sicilia postunitaria. Ha fatto ricerche, visitato luoghi e palazzi, messo a ferro e fuoco archivi e cronache giornalistiche dell’epoca, ed è così che ha ricostruito la saga dei Florio. Partiti dal nulla, nell’arco di un secolo diventarono ricchissimi… poi persero tutto. Il libro è un primo capitolo dedicato alle due generazioni capostipiti, tra 1799 e 1868, sullo sfondo di: regno Borbonico, guerre napoleoniche, moti popolari, sbarco di Garibaldi in Sicilia e Unità d’Italia. Tutto inizia nel 1799 quando, dopo il terremoto che ha sconquassato Bagnara Calabra, i fratelli Paolo e Ignazio Florio abbandonano il paese natio alla volta di Palermo. La loro è una storia di immigrazione durissima, in una terra che trasuda diffidenza nei confronti di chi arriva da fuori. Ma i Florio hanno coraggio, lungimiranza e tempra da vendere. Aprono una bottega di aromateria in cui vendono spezie e merci coloniali, che col tempo diventa la più rinomata della città. Il segreto del loro successo -oltre alla costante fatica che finirà per consumarli- è nella qualità e quantità delle merci. In particolare del cortice (farmaco derivato dalla corteccia dell’albero di china), salvezza contro le epidemie di malaria che all’epoca portavano alla tomba. Ma non leggerete solo le travagliate tappe della loro affermazione, l’allargarsi delle loro attività al commercio dello zolfo, all’acquisto di case e terreni dai nobili palermitani che vantano illustri blasoni ma sono alla canna del gas quanto a “picciuli”. Scoprirete anche i loro caratteri e il loro modo di imbastire i rapporti affettivi. L’astioso matrimonio tra Paolo e Giuseppina, l’amore inconfessato di Ignazio per la cognata, la durezza della vita di tutti i giorni e le incomprensioni. A dare ulteriore slancio alla dinastia sarà Vincenzo, figlio di Paolo e Giuseppina, che per lui stravede e si è sacrificata ad una vita che non le corrisponde. A 29 anni Vincenzo resta orfano del padre e con lo zio porta sulle spalle tutto il peso delle attività in costante crescita. E’coraggioso, spregiudicato, sicuro di sé ed ha una visione ad ampio spettro del futuro: diversifica gli articoli commercializzati, valorizza i prodotti siciliani ed è attento ai cambiamenti in atto alle soglie della rivoluzione industriale. La sua ambizione ha radici nel bruciante desiderio di un riscatto sociale che faccia balzare i Florio dalla dispregiativa nomea di “facchini” alle sale dei palazzi di chi conta davvero. Il denaro potrebbe essere il grimaldello che apre certe porte e così l’impero si allarga. A poco a poco comprende: tonnare, produzione del Marsala, l’invenzione del tonno sott’olio, l’estrazione dello zolfo (materia prima per le industrie chimiche). Vincenzo punta anche su tessile, credito bancario e assicurativo, settore metallurgico, cantieristica navale e crea una sua flotta mercantile. Lavora come un pazzo e tutto quello che tocca diventa oro. Poi c’è la sua vita affettiva. La passione per Giulia, l’amante che sposerà solo alla nascita del figlio maschio (dopo due femmine che per anni Vincenzo si rifiutò di riconoscere). Ignazio è il suo prediletto ed erede designato; mentre con le femmine manterrà sempre un certo distacco. Colpa del suo maschilismo perfettamente in linea con la mentalità dell’epoca. Eppure Giulia sarà il grande amore e la più importante ricchezza della sua vita….

 

Guillame Musso “La vita segreta degli scrittori”   – La nave di Teseo – euro 19.00

 

Una storia che include più storie collegate tra loro…come una matrioska russa che apri e scopri altri pezzi di dimensioni ridotte, perfettamente inseribili l’uno nell’altro. Lo capirete strada facendo nella lettura, che di pagina in pagina si fa sempre più avvincente. Parte come raffinato intreccio letterario e finisce per precipitare in una vicenda a dir poco sconvolgente, tutto orchestrato in una sorta di gioco di specchi letterario di altissimo livello e bravura. Siamo nel sud della Francia, nella paradisiaca isola di Beaumont (in realtà non esiste e per lei Musso si è ispirato alle Porquerroles e ad altri lidi ameni), dove dal 1999 si è ritirato lo scrittore cult Nathan Fawles, volutamente uscito dalla scena letteraria dopo 3 romanzi di successo interplanetario e Premio Pulitzer. Da allora non ha concesso nessuna intervista e si è arroccato su quel fazzoletto di terra in mezzo al mare, selvaggio, indifferente alla modernità, ostile al turismo. Ma perché di colpo Fawles si è sottratto al mondo, rinchiudendosi in una sorta di casa bunker sul mare, ed ha deciso di non scrivere più nulla (e sarà poi vero)? Nell’autunno del 2018 arriva sull’isola il 24enne Raphaël Bataille, una laurea in economia che non usa, tanti lavoretti precari per sbarcare il lunario e, soprattutto, il sogno di diventare scrittore. In disarmante attesa, nel frattempo si lecca le ferite dei tanti rifiuti del suo manoscritto “La timidezza delle cime”da parte degli editori. Si è messo in testa di rintracciare Fawles per farglielo leggere e ottenere preziosi suggerimenti. E qui si apre il primo filone della storia. A Beaumont sbarca anche una giovane ed affascinante giornalista svizzera, Mathilde Monney, determinata a svelare il mistero che avvolge  il celebre scrittore (che ricorda un po’ la scomparsa dalle scene letterarie di J.D.Salinger, autore del famosissimo “Il giovane Holden, del 1951). Mathilde ha già incontrato Fowles in passato, ed ora non insegue il classico scoop. Piuttosto è spinta da profondi motivi personali, che rimandano ad una vicenda di sangue e morte che ha falciato la sua famiglia. Qui siamo alla seconda storia dentro la tela complessiva del romanzo. Poi l’isola finisce di essere un paradiso… e si trasforma in teatro di morte. Il cadavere di una donna viene ritrovato, disposto in modo agghiacciante e secondo un macabro rituale. Si innesta così nella trama un ulteriore livello di narrazione che vi sorprenderà. Si parla di delitti atroci, amori interrotti dalla morte, teatri di guerra e pulizia etnica….e davvero tanto altro che non vi aspettereste….

 

James Patterson  “La seduzione del male”  – Longanesi – euro 16.90

 

In questo thriller di Patterson -inventore delle storie con protagonisti Alex Cross e le Donne del Club Omicidi- la brillante detective Lindsay Boxer è alle prese con due intricate vicende. Siamo a San Francisco dov’è stata istituita una task force per fronteggiare il pericolo rappresentato da un non meglio precisato gruppo terroristico globale chiamato GAR, acronimo di Great Antiestablishment Reset. E’ sorto dalle ceneri di varie cellule terroristiche mediorientali, i cui leader hanno arruolato sbandati dissidenti in tutto il mondo. Non fa distinzione tra etnie o religioni. Negli ultimi 5 giorni ha rivendicato a gran voce 6 gravissimi attentati che hanno seminato morte e disperazione in affollati luoghi di culto: una moschea, una cattedrale ed una sinagoga. Ma il loro raggio di azione ha colpito anche due università e un aeroporto. Il bilancio letale è di oltre 900 vittime in 6 paesi diversi. Lindsay assiste impotente all’esplosione del Museo delle scienze, lo Sci-Tron, sul Pier 15 nella baia di San Francisco. Lei è al ristorante in compagnia dell’ex marito Joe per festeggiare il loro anniversario di matrimonio perché, anche se sono separati, non si è spezzato il filo più profondo che li lega. Quando il museo di vetro e acciaio salta per aria e una nube a forma di fungo si sprigiona dalle sue macerie, i due corrono sul posto. Alla scena apocalittica assiste con soddisfazione un uomo sui 45 anni che alle domande di Lindsay risponde di essere lui il geniale e incomparabile artista che ha scatenato quel macello, in cui perdono la vita 25 persone, senza contare i feriti. Inizia così uno degli incubi della poliziotta. Intanto Joe resta gravemente ferito da una seconda esplosione che lo sorprende mentre è all’interno del museo per soccorrere eventuali superstiti. L’uomo misterioso e pazzoide si chiama Connor Grant e darà matasse di filo da torcere… fino a mettere seriamente a repentaglio anche la carriera di Lindsay. Seconda grave minaccia alla quale lei sta lavorando è la ricerca del serial killer invisibile che semina morte per le strade dove, in modo assolutamente casuale, uccide iniettando nei glutei delle vittime una fiala di succinilcolina. E’ una sostanza miorilassante usata per le intubazioni in sala operatoria, agisce in una manciata di minuti bloccando il respiro e provoca la morte se non si interviene immediatamente con un ventilatore meccanico. Non lascia tracce nel sangue, solo un microscopico segno di puntura e una morte apparentemente per arresto cardiaco. Ma Lindsay e la sua amica anatomopatologa Claire non si lasciano fuorviare ed ecco partire la caccia all’assassino, fino all’epilogo finale che tiene col fiato sospeso il lettore e fa luce sulla lucida follia dell’assassino. Se  non avete ancora mai letto nulla di James Patterson potrebbe essere l’ occasione per scoprirlo e capire le ragioni del suo grande successo internazionale. Trame ben congeniate e scritte con la dovuta suspense.

Il liceo di Morbelli

La Prefettura di Alessandria con nota del 15.07.2019 ha dato parere favorevole alla intitolazione del nuovo Liceo Artistico ad indirizzo audiovisivo Multimediale al pittore Angelo Morbelli

Un grande risultato per l’intera comunità che premia tutti coloro che hanno realizzato le importanti iniziative legate al pittore in occasione di questo centenario dalla sua scomparsa, così come  il grande impegno e professionalità del corpo docenti dell’Istituto Leardi di Casale Monferrato –  primo Istituto tecnico d’Italia- che ha permesso di ottenere l’assegnazione del Liceo artistico.

All’interno del Leardi si è assistito al passaggio dalla scuola tecnica di disegno a nome di Leonardo Bistolfi, dei primi del novecento, all’avvio del nuovo percorso liceale.

Tanti anni sono trascorsi, ma rimane immutata la tradizione e la vocazione artistica e culturale  che oggi unisce storia, tradizione e multimedialità. tutto questo  all’insegna dell’intitolazione all’illustre  pittore che fu pioniere  ieri e oggi potrà rappresentare questo nuovo liceo innovativo.

Per rendere omaggio ed avviare il nuovo indirizzo dal settembre 2019 l’Istituto Leardi sta organizzando un importante evento

A Campello Monti la 27°giornata di studio sulla comunità Walser

Il Gruppo Walser di Campello Monti, in alta valle Strona, ospiterà sabato 27 luglio la 27° giornata di studio su “Campello e i Walser”

L’evento, organizzato da Rolando Balestroni, instancabile Presidente del “Walsergemeinschaft Kampel”, si terrà presso la Chiesa Parrocchiale di Campello Monti e vedrà coinvolti anche il comitato unitario delle isole linguistiche storiche germaniche in Italia, l’Ecomuseo Cusius e il Parco regionale della Valle Sesia. A partire dalle 9,30 del mattino si alterneranno quattro interventi: Rosella Reali (Storia del paese scomparso di Agaro);Paolo Crosa Lenz (Le “Quattro Rosine”,alpinismo risorgimentale nella seconda metà dell’Ottocento);Roberto Fantoni ( Campello 1907,un’assemblea della sezione C.A.I. di Varallo Sesia oltre i confini della valle); Giuseppe Bergamaschi (Le quattro fornaci di calce del territorio di Campello Monti). Il pranzo sarà curato dalla locanda “Alla vetta del Capezzone”. Alle 21, con il patrocinio del Parco Nazionale Val Grande, il dott. Massimo Mattioli, già comandante del Corpo Forestale dello Stato, interverrà su “Il ritorno del lupo nel Vco”. Correlatore della serata, sul progetto Life WolfAlps, sarà la guardia parco della Valsesia Tito Princisvalle.

Come sempre le varie Comunità Walser sono invitate a partecipare con i loro costumi tradizionali. Campello Monti è un piccolo paese situato a 1305 metri sul versante meridionale alpino ‑ zona del Monte Rosa ‑ dove circa seicento anni fa un esiguo gruppo di contadini-pastori vallesani, provenienti da Rimella, in Valsesia, dette vita ad un modello di sviluppo non solo economico ma anche culturale, oggetto di crescente interesse da parte degli studiosi. Attualmente il paese è disabitato in inverno, mentre nella bella stagione riprende la sua vita normale.La Walsergemeinschaft Kampel, il gruppo Walser di Campello, è un’associazione culturale senza fini di lucro costituitasi nel dicembre di ventotto anni fa con lo scopo di promuovere iniziative culturali e ricerche tese a valorizzare e far conoscere questa comunità Walser. Fin dal 1993 organizza un convegno annuale denominato “Campello e i Walser” cui hanno partecipato, in veste di relatori, esponenti di quasi tutte le comunità Walser italiane. È la sola associazione walser della Valle Strona riconosciuta ed iscritta alla Internationale Vereinigung fűr Walsertum con sede in Briga, in Svizzera.

Marco Travaglini

Realismo e volare basso

Caleidoscopio Rock Usa Anni ’60

La storia del rock è piena di aneddoti, alti e bassi, situazioni bizzarre, scenate, litigi, risse, polemiche, riappacificazioni, problemi con la polizia e di ordine pubblico; il percorso (più o meno lungo) di tutte le bands era costellato di insidie, momenti difficili, contrattempi più o meno ardui da superare, ma quasi mai questo percorso era lineare o uniforme, privo di scossoni o shocks. Ci sono tuttavia casi di gruppi (soprattutto di vita breve) la cui esistenza non ebbe punti estremi, da estasi o da depressione; si manteneva una regolarità nelle aree di esibizione, nelle date, nei locali e nelle venues dei concerti. Ciò poteva essere più probabile in Stati “periferici” o caratterizzati da una vita musicale non frenetica o in continua ebollizione; eppure le eccezioni non mancavano ed erano tantopiù vistose quanto più lo Stato era vivace, dinamico, aperto ad influenze multiple e concomitanti, in primis la California.Eppure anche qui si rinvenivano bands dalla vita regolare, quasi metodica, come per esempio The Midnight Snack, originari di Whittier, sud-est di Los Angeles.

 

Il nucleo originario, sorto forse nel 1965, era costituito da Tom Sack (V, batt) e Mark Furtak (chit, poi b), Craig Strahl (chit), cui si unirono Rodney Walton (org), Mark Wicker (chit, per Strahl), Steve McPeek (chit, per Wicker), Willie Schultz (batt). La band non si preoccupava più di tanto di ambizioni da sala di registrazione o di scrittura di brani originali, anzi si muoveva a proprio agio nel vasto mare delle covers, in ambito rock blues o Motown. Il raggio di azione per le esibizioni non superava i confini californiani. Anzi, insisteva nel biennio 1966-1967 in aree lontane dalle avanguardie psichedeliche e si guardava bene dall’incrociare la Sunset Strip e i locali dei nomi di primo piano; la band non pativa in alcun modo la “zona d’ombra” in cui si muoveva e operava, con date regolari ma non pressanti, attività manageriale tranquilla e senza sussulti di sorta, nessuna partecipazione ad eventi televisivi o radiofonici o alle celebri “Battles of the Bands”. Le venues erano quasi sempre teenage dance clubs, feste di liceo o di college, feste di leva; rarissime erano le date in adult clubs o parlors.

 

Si può dire che il “piccolo cabotaggio” fosse la parola d’ordine dei The Midnight Snack, tanto che perfino l’ingresso in sala di registrazione non fu vissuto con l’emozione, l’entusiasmo e a volte la frenesia che caratterizzava moltissime bands coeve; avvenne quasi per inerzia, oserei dire stancamente, su spinta di un amico di un produttore, in studi di Pasadena, in un arco di tempo abbastanza ristretto e forse senza un’adeguata cura nel confezionamento dell’incisione. Avvenne tutto quasi en passant nel 1967, per la Corby Records, con l’unico 45 giri: “Mister Time” [T. Sack] (Corby CR-220; side B: “Jenny Adaire”). Il “piccolo cabotaggio” si mantenne fisso e costante anche riguardo l’esito del disco, che non ebbe picchi di successo, entrò in classifica in alcune radio locali del Sud della California nelle posizioni basse per poi uscirne in meno di un mese, senza aver lasciato significative tracce di sé né in radio né tantomeno nei negozi di dischi…

 

Le aspettative per il 45 giri non erano eccelse fin dall’uscita dalla sale di Pasadena; tuttavia il mediocre seguito che ne derivò minò decisamente l’entusiasmo del gruppo. Le date crollarono di numero e successivamente gli arruolamenti in esercito, gli impegni di college e i pargoli in arrivo portarono The Midnight Snack a sciogliersi con una certa rapidità, senz’altro entro l’estate del 1968.

 

Gian Marchisio

 

Quaglieni presenta Soldati ad Alassio

Domenica 21 luglio,  alle 21,30 ,presso la Biblioteca Civica “R. Deaglio” di Alassio – “Auditorium R. Baldassarre”, sarà presentato il libro “Mario Soldati. La gioia di vivere”. ll Prof. Pier Franco Quaglieni, curatore dell’opera, dialogherà con Don Gabriele Corini, l’On. Enzo Ghigo e il Delegato dell’Accademia italiana di Cucina del Ponente Ligure Dott. Roberto Pirino. Coordinerà la giornalista Luisella Berrino. La lettura di alcuni brani scelta sarà di Milli Conte.

La pubblicazione esce nel ventennale della morte dello scrittore e regista torinese ed è aperta da un ampio saggio di Quaglieni, amico personale di Soldati e direttore del Centro Pannunzio, di cui lo scrittore fu uno dei fondatori e presidente per vent’anni. Il libro è ricco di saggi di autorevoli critici e studiosi, di relazioni a convegni, di semplici ricordi e testimonianze di amici noti e meno noti che permettono al lettore di ricostruire la poliedrica figura di Soldati scrittore, regista cinematografico e televisivo, critico d’arte, giornalista, esperto di enogastronomia. Inoltre una preziosa testimonianza di Chiara Soldati rievoca il lessico famigliare soldatiano.

Annota Quaglieni, nell’introduzione: “Forse Soldati non è piaciuto a certa critica proprio perché sfuggiva agli schematismi semplicistici, alle sintesi generiche e confuse. È stato un anticonformista per natura e per scelta. Uno degli aspetti che da sempre mi colpì in lui era il gusto appassionato per la vita e la volontà, spesso turbata da dubbi e contrasti morali, di godersela avidamente in tutte le sue espressioni”.

E ancora: “Soldati è stato come un destriero che non ha mai sopportato né morso, né briglie. Egli è stato ed ha voluto sempre rimanere un uomo libero, senza condizionamenti di sorta. Come Pannunzio, amante delle comodità di ogni giorno e a volte anche del lusso, Soldati ci ha insegnato la scomodità della dissidenza rispetto a ogni forma di conformismo.

Ingresso libero

Camilleri, indagatore dell’animo umano

Sono uno dei tanti che ha conosciuto, forse colpevolmente, il commissario Montalbano piú dalla tv che dai libri, uno dei tanti che si sente un po’ straniato a pensare al commissariato di Vigata senza la pelata di Luca Zingaretti o i baffetti di Cesare Bocci.

Se c’è un modo per comprendere la particolarità dell’opera di Camilleri, però, è di guardare fuori dall’Italia, andando a cercare su Youtube i teaser delle serie di Montalbano cosí come vengono proposte all’estero: solitamente, in Germania, in Russia, in Gran Bretagna, vengono montate le scene più concitate, si indugia un po’ sullo stereotipo italiano del buon cibo o del poliziotto donnaiolo, ogni tanto tutta la pubblicità si incentra su una scena di sparatoria.


Ora, chiunque abbia visto Montalbano sa che trovare una sparatoria o una sequenza di azione nei suoi sceneggiati è un fatto più unico che raro, e a volte è dura resistere quasi fino a mezzanotte, ogni lunedì sera, per capire come andrà a finire un’indagine solitamente lentissima e costellata di sottintesi.


Perché in questo sta l’unicità di Montalbano: il genere è sicuramente poliziesco, c’è il sangue, c’è la morte, la mafia, il sesso, ma non è questo quello che importa se uno vuole davvero apprezzare le sue indagini.


Quello che importa è l’animo umano, le sue debolezze, gli abissi a volte ripugnanti che è capace di sondare ordendo un crimine, i personaggi grotteschi, talvolta persino ferini, cosí vicini all’autore della letteratura italiana piú vicino a Camilleri, Luigi Pirandello: chi più di Catarella incarna l’umorismo, il sentimento del contrario, lo sdoppiamento della personalità tra l’incapace generoso e il genio del computer?
C’è Pirandello, c’è Sciascia, c’è forse anche di De Roberto e Tomasi di Lampedusa in Camilleri, quel senso di immutabilitá e a volte di rassegnazione spesso denunciato come causa di tanti mali della Sicilia, la mafia non come boss supercattivi cui dare la caccia, ma come qualcosa di sottile, tentacolare, cui si accenna sapendo che tende sempre le fila del crimine a Vigata, da demolire pezzo per pezzo, moralmente, senza scendere a patti o compromessi, prima ancora che penalmente.


Non si può pensare a Camilleri senza pensare all’universo narrativo che ha creato, Vigata, provincia di Montelusa,  è la sua tolkieniana Terra di Mezzo: la sua lingua a cui dare dei personaggi che la parlino, la sua storia che affonda fin nell’Ottocento, la libertà di crearsi un mondo che è il più grande privilegio accordato a uno scrittore e la più grande testimonianza di piacere e gioia che c’è nello scrivere, la sua genealogia, dai romanzi sull’Italia appena unita ai racconti del giovane Montalbano che fanno dell’opera di Camilleri, a pieno titolo, una Saga, una lunga, ininterrotta, sfumata e onnicomprensiva, dunque cosmica, narrazione.


E poi c’è la Sicilia, gli squarci di paesaggio fuori dal tempo, il divenire cronologico sospeso dalla calura, le piste in terra battuta e le automobili vecchie e scassatissime, un eterno meriggiare pallido e assorto in cui il passato può irrompere nel presente (sarà che i gialli in cui si incrociano passato e presente, come Il cane di terracotta o Un’estate del ’43 sono tra i miei preferiti, assieme al malinconico L’età del dubbio) e la verità che domanda di emergere, improvvisa e sovente mai del tutto chiara, – chi conosce un uomo fino in fondo? – da un crimine.

Questa è la grandezza di Montalbano, senza mascella quadrata alla Schwarzenegger ma con una calvizie da palla da biliardo, sensibile al fascino femminile come James Bond ma con i suoi acciacchi e i sensi di colpa, antitecnologico, umano, riflesso dell’impegno civile di Camilleri.
Un commissario cui capita addirittura di arrendersi, di nascondere qualcosa che ha scoperto per il bene di qualche disgraziata umanità, o, al contrario, quando la giustizia domanderebbe prepotentemente di essere fatta, di rimbalzare contro il muro di gomma dei piani alti istituzionali, che però non molla mai e può meritatamente godersi, alla fine, la sua lunga, iconica nuotata e la voluttuosa teglia di maestosi arancini.

 

Andrea Rubiola

Qual Piuma al Vento: al Castello di Susa le opere di Daniela Baldo

Informale, intima e raffinata: sono questi i tre aggettivi che meglio descrivono la pittura degli ultimi anni di Daniela Baldo. A raccontarli è la mostra «Qual Piuma al Vento», dedicata all’affermata artista valsusina e allestita nelle sale del Castello di Adelaide — Museo Civico di Susa.  
Nonostante la lunga carriera, iniziata ufficialmente nel lontano 1980, Daniela Baldo non riesce a nascondere la felicità di tornare ad esporre nella sua Valle di Susa: «Sono sinceramente emozionata; quando si gioca in casa, la pressione si fa maggiormente sentire perché sai che visiteranno la mostra anche persone che ti conoscono davvero».
Forse anche per questa ragione, l’artista ha pensato a ogni minimo dettaglio. L’allestimento semplice non lascia scampo: le opere sono le uniche, assolute protagoniste della mostra. L’ordinamento è chiaramente studiato per accompagnare il visitatore alla scoperta del mondo interiore, delle emozioni dell’artista. I lavori di Daniela Baldo appartengono a quella che viene definita arte informale: «A un occhio disattento le opere paiono come degli scarabocchi colorati — spiega il critico d’arte Paolo Nesta — solo se le si osserva con attenzione, si coglie la loro essenza e ci si rende conto che si tratta di sistemi di segni capaci di trasmettere emozioni». La necessità di prendersi del tempo per scoprire ciascun dipinto è ribadita dalla stessa artista: «Le mie opere non sono di immediata comprensione. Per questo chiedo a chiunque verrà a visitare la mostra di osservarle con calma». Così facendo, ciascun lavoro diventa come la pagina scritta di un diario segreto: rivelatore dello stato d’animo dell’artista e specchio delle emozioni dell’osservatore. 
«Il gesto pittorico sulla tela e i colori sono gli strumenti di dialogo con le mie emozioni interiori più profonde — racconta Daniela Baldo — per questo non amo spiegare i contenuti delle mie opere, ma sono curiosa di sapere se riesco a trasmettere a chi guarda una sensazione simile a quella che ho provato io dipingendo». Certamente, è riuscita a farlo nel dipinto che dà il nome alla mostra. Qual Piuma al Vento è una tela del 2018 in cui le pennellate blu e le reti nere di scarabocchi diventano espressione della precarietà della natura umana. Il senso di incertezza lascia spazio a atmosfere più rilassate in altri lavori come C’è una nuova stella (2019), Calde Emozioni (2018) e Alternanze (2017). 
La varietà di riflessioni offerte dai dipinti consente al visitatore di compiere un vero e proprio viaggio tra le pieghe dell’anima dell’artista valsusina: «Siamo orgogliosi di poter ospitare sino al prossimo 3 Novembre le opere di Daniela Baldo — spiega Stefano Paschero, responsabile della gestione del Castello — perché queste consentono ai visitatori di confrontarsi con il presente». Il Museo Civico di Susa non vuole essere un semplice custode del passato, ma un luogo vivo e attivo: «Mostre come questa, il cui biglietto di ingresso è incluso in quello di visita al museo, sono piccoli grandi passi verso il raggiungimento di un obiettivo decisamente ambizioso. Lavoriamo costantemente affinché il Castello di Adelaide possa diventare un punto di riferimento per la comunità e per i turisti della Valle di Susa». 
Giulia Amedeo 

Creature reali e fantastiche

Ritornano i “Kakemono” al MAO-Museo d’Arte Orientale di Torino. Fino al 4 ottobre

Opere estremamente delicate, in quanto realizzate in tempi remoti su carta o seta o cotone, per mantenersi inalterate nel tempo devono obbligatoriamente sottoporsi a periodiche soste di riposo ben custodite in appositi contenitori, al riparo delle luci della ribalta, per poi ripresentarsi al pubblico in perfetta “forma” con le loro misteriose immagini, evocatrici di simbologie e leggende le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Sono i “Kakemono” o “Kakejiku”, classici dipinti – o calligrafie – giapponesi eseguiti su rotolo verticale per essere appesi a parete ( a differenza degli “Emakimono”, rotoli pittorici che vengono invece aperti in senso orizzontale su una superficie piatta) e che ritornano in mostra, più fascinosi che mai, nelle sale del MAO-Museo d’Arte Orientale, dopo il forzato e saggio periodo di “letargo”, in rotazione con altre opere appartenenti alla Collezione del Museo di via San Domenico a Torino. Fil rouge che lega i dipinti presenti in mostra la rappresentazione, rispetto alla quale fin dal XII secolo gli artisti giapponesi hanno dato prova di straordinaria abilità compositiva e interpretativa, di soggetti animali: “creature reali e fantastiche” (come recita il titolo della rassegna), che fin dai tempi più antichi popolano l’arcipelago, così come l’immaginario del suo popolo e dei racconti tradizionali passati nel tempo di generazione in generazione e di artista in artista. La nuova rotazione di “Kakemono” trae dunque spunto da questa ricca produzione artistica, presentando, fino al prossimo 4 ottobre, una selezione di creature della terra, dell’acqua e dell’aria che sono immagini rappresentative di un mondo naturale dove allegoria, leggenda e mito si fondono in un unicum carico di sottile mistero e magica poesia. Così nel dittico di Scuola Kano, la più importante e longeva dell’arte giapponese (attiva dal XV al XIX secolo), il drago, protettore dell’Est e della primavera, dialoga con la tigre, emblema dell’Ovest e dell’autunno: l’abile gioco di pennellate a inchiostro concretizza l’abbinamento propizio di forze complementari, dominatrici di cielo e terra. A volgere lo sguardo al cielo verso la tonda luna è invece la rasserenante “Coppia di conigli” protagonista del dipinto di Maruyama Oshin (1791-1839): sono i conigli lunari, associati alla festa di metà autunno, quando, secondo la leggenda, è possibile scorgere sulla faccia lunare la forma di un coniglio intento a preparare il dolce tradizionale, il mochi. L’associazione del coniglio con la luna rinvia anche alla figura della principessa lunare, da cui la trasposizione moderna di “Sailor Moon”, protagonista di un cartone animato popolare in Italia. Proseguendo nell’iter espositivo, troviamo poi la bellissima “Coppia di carpe” del celebre Maruyama Okyo (1733-1795; attivo alla corte imperiale e fondatore della “Maruyama-Shijo”, fra le scuole naturaliste più prestigiose dell’epoca) che pare prendere vita, tanto è dettagliata la resa delle squame. E non è solo una questione di stile: “La carpa, in giapponese ‘koi’, rinvia – dicono al MAO – alla parola omofona che significa ‘amore’, e l’associazione simbolica è rafforzata proprio dalla scelta di presentare l’animale in coppia”. Altrettanto fine è ancora il dettaglio delle zampe della “Coppia di gru” di Kawamura Bunpo (1779-1821), artista di Kyoto, nelle cui opere la tradizione tematica giapponese si allarga a influenze realistiche occidentali. “L’augurio di longevità convogliato tradizionalmente da questa creatura si unisce all’auspicio di pace e speranza, di cui la gru è divenuta simbolo dopo la seconda guerra mondiale”. Nel corridoio che al Museo ospita le stampe policrome è anche presentata una selezione di “Ukiyo-e” ( genere di stampa artistica su carta, fiorita nel cosiddetto periodo Edo fra il XVII ed il XX secolo)il cui nucleo centrale è costituito da ritratti di famosi attori di teatro kabuki ad opera di Utagawa Kunisada ( noto anche come Utagawa Toyokuni III), fra i più importanti e celebri artisti del Giappone dell’Ottocento.

Gianni Milani

“Creature reali e fantastiche”

MAO-Museo d’Arte Orientale, via San Domenico 11, Torino; tel. 011/4436927 o www.maotorino.it

Fino al 4 ottobre

Orari: dal mart. al ven. 10/18, sab. e dom. 11/19; chiuso il lunedì

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Nelle foto
– Opera di Scuola Kano
– Maruyama Okyo: “Coppia di carpe”
– Maruyama Oshin: “Coppia di conigli”