CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 5

Per la stagione di Fertili Terreni Teatro è di scena Tiger Dad

Per la stagione Iperspazi 2025-2026 di Fertili Terreni Teatro, in  San Pietro in Vincoli andrà in scena da giovedì 23 a sabato 25 ottobre prossimi, alle 21, la pièce teatrale ‘Tiger Dad’, produzione A.M.A. Factory  e Cattivi Maestri Teatro, con il contributo del Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale e Europeo, interpreti Salvatore Nocera su testo e regia di Rosario Palazzolo.

Come un moderno Giano bifronte, Tiger Dad rappresenta una creatura a due facce segnata da tratti lievemente ossessivi e da una pacatezza fuori del comune, un poco sorniona e un poco angustiata, simbolo vivente di una contraddizions atavica. Padre Tigre è  una sintesi perfetta in un solo individuo di una duplice natura dell’anima umana incarnata da altrettante icone pop, la trascendenza di San Pio di Pietralcina e l’irruenza dell’uomo Tigre. E se il primo è da considerarsi immagine concreta ed immodificabile, intangibile solo per chi non ci crede, il secondo incarna alla perfezione il combattente rivoluzionario, icona vivente della lotta contro ogni forma di ingiustizia. Sono fronte e retro di una stessa medaglia. Le opposte anime rivivono in uno spettacolo dai tratti ora crudi e feroci, ora più lievi e leggeri, sempre indirizzato verso un ideale di bontà.  Poco importa se alla fine Padre Tigre, o meglio Tiger Dad, come lo ha trasfigurato il popolo della rete, si troverà  a combattere una guerra destinata a vederlo soccombere.
La battaglia quotidiana contro il qualunquismo dei social, contro l’idiozia dell’intelligenza artificiale  e contro il successo ricercato a tutti i costi potrà soltanto prendere forma in un luogo immaginato per la disfatta, epilogo su cui aleggiano i fantasmi di una morte, che costituirà l’approdo finale del protagonista.
La pièce risulta impreziosita da una lingua ricca di musicalità e di vita, che diventa una vera e propria seconda pelle per l’interprete, lontana dai canoni ordinari e della quotidianità, segnata da sgrammaticate acrobazie di senso. Siamo di fronte a una ricchezza di mezzi espressivi pronta a risolversi in improvvisi non sense, all’interno di un originale, quanto inaspettato gramelot.

Il costo intero del biglietto è di 13 euro, per il biglietto ridotto 11 euro se acquistato online, 13 euro la sera dell’evento.
Resta la possibilità di lasciare il biglietto sospeso tramite donazione online o con satispay e di entrare gratuitamente per alcuni under 35, grazie ai biglietti messi a disposizione attraverso la collaborazione con Torino Giovani.

Mara Martellotta

Moncalieri si candida: Capitale Italiana della Cultura 2028

Moncalieri, 21 ottobre 2025 – Oggi  è stato presentato ufficialmente il Dossier “Moncalieri
2028. La periferia al centro”, progetto di candidatura a Capitale Italiana della Cultura
2028. Un documento che racconta la visione di una città che ha scelto di fare della
rigenerazione culturale dei margini urbani il proprio orizzonte di sviluppo, capace di
tenere insieme produzione, educazione e cittadinanza attiva.
Non un “grande evento” ma un cantiere aperto, un percorso di lungo periodo in cui la
comunità si riconosce e si rinnova.
La città si presenta forte di una doppia identità. Da un lato il passato illustre: il Castello
sabaudo patrimonio UNESCO, le Fonderie Limone rinascimentate a polo di produzione e
ospitalità creativa, un tessuto di istituzioni e imprese culturali che dialoga con Torino e con
l’area metropolitana. Dall’altro un presente che ha imparato a mettere al centro quartieri,
frazioni, borgate e spazi di confine, intesi non come “estremi” ma come riserve di
possibilità. La candidatura nasce esattamente su questa soglia: dove finisce la retorica
della periferia e comincia il progetto condiviso.

Il dossier
La strada verso il dossier non è spuntata dal nulla. Dal 2022 Moncalieri ha avviato un lavoro
di city branding per dare una voce riconoscibile alla città, ma soprattutto per dotarsi di uno
strumento di coprogettazione, sotto un cappello che porta il nome di “Visit Moncalieri”: un
invito rivolto non solo ai visitatori, ma anche alla comunità residente e al territorio
circostante. Il brand, in questo senso, ha funzionato come una chiave inglese, sviluppando
un nuovo dialogo tra uffici, associazioni, scuole, operatori culturali, commercianti.
Su questa base si è innestato, dal 2024, il cantiere della candidatura: mappature dei luoghi
e delle pratiche, tavoli di ascolto con comunità e soggetti del terzo settore, incontri con il
sistema educativo e con il mondo produttivo, una stagione di progetti pilota che ha
sperimentato format diffusi (dal centro storico alle borgate), verificando accessibilità,
sostenibilità e impatto. La scrittura del dossier è arrivata dopo – non prima – ed è stata la
traduzione in obiettivi, azioni e governance di ciò che il territorio aveva già messo in moto.
Il documento, consegnato il 25 settembre 2025, racconta una città che ha scelto la
continuità: non un “grande evento” calato dall’alto ma un calendario evolutivo dove festival,
rassegne, residenze artistiche, pratiche di cittadinanza attiva e valorizzazione del commercio
di prossimità dialogano tra loro. È stato dato spazio alla dimensione educativa, alla
produzione (non solo alla programmazione) e alla cura dei beni comuni, con i Patti di
collaborazione come strumento per responsabilizzare chi vive i quartieri. Anche dati come
affluenze, partecipazione, accessi e indotto sono entrati nel racconto come bussola di
monitoraggio, perché la cultura conti anche quando si misura.

La candidatura organizza le proprie energie in cinque aree strategiche, concepite come
cerchi concentrici. Ogni area è necessaria alle altre, e tutte sono convergenti verso
l’obiettivo comune di dimostrare che la periferia può davvero fare centro:

– Design e Trasformazione
– Rigenerazione urbana e dei Beni Comuni
– Empowerment giovanile
– Inclusione e Parità di genere
– Cultura e Innovazione sociale.

Questa architettura concentrica consente a Moncalieri di operare su livelli diversi ma
integrati, generando un effetto moltiplicatore che fa della città un laboratorio di creatività
diffusa, coesione sociale e rigenerazione culturale.
Sul sostegno della Regione intervengono Alberto Cirio, Presidente della Regione
Piemonte, e Marina Chiarelli, Assessore alla Cultura della Regione Piemonte. “La
candidatura di Moncalieri a Capitale Italiana della Cultura 2028 è una splendida notizia e
dimostra, ancora una volta, quanto il Piemonte sia una terra viva, ricca di idee, progetti e
realtà culturali che sanno fare rete e guardare al futuro. Il dossier presentato dalla Città è di
grande qualità e mette al centro due temi fondamentali come l’inclusione e la parità di
genere: valori attuali e necessari, che ben rappresentano una visione della cultura aperta,
accessibile e capace di generare impatto positivo sul territorio. Moncalieri ha una storia
importante, un patrimonio artistico di grande valore e una vitalità culturale che la rende
protagonista, oggi, di un rinnovamento intelligente che unisce tradizione e innovazione. Il
Piemonte si conferma così come un sistema culturale diffuso, dove ogni territorio
contribuisce con le proprie specificità a un progetto comune. Come Regione, seguiremo da
vicino questa candidatura: crediamo che Moncalieri possa avere tutte le carte in regola per
concorrere per un titolo così prestigioso che renderà questo territorio ancora più conosciuto
e attrattivo”.

Perché Moncalieri si è candidata
La candidatura di Moncalieri a Capitale Italiana della Cultura 2028 è un passo naturale di un
percorso già avviato.
Negli ultimi anni la città ha investito in progetti di rigenerazione urbana e culturale che hanno
restituito spazi, risorse e opportunità alle persone. Dalle Fonderie Limone (oggi polo di
produzione e ospitalità creativa) al Castello Reale, patrimonio UNESCO e cuore del sistema
culturale, fino alle borgate e ai quartieri che hanno ritrovato centralità grazie a festival diffusi,
patti di collaborazione e percorsi di cittadinanza attiva.
“Moncalieri ha scelto di candidarsi perché ha imparato che la cultura può cambiare davvero
la geografia di una città” dichiara Paolo Montagna, Sindaco di Moncalieri. “Abbiamo
costruito un modello che mette insieme il centro e i margini, le istituzioni e le persone, la
memoria e l’innovazione. Questa candidatura è la tappa di un percorso collettivo, un invito a
guardare ai nostri luoghi con occhi nuovi.”
Nel 2028 Moncalieri celebrerà anche gli 800 anni dalla propria fondazione, avvenuta nel
1228 quando un gruppo di abitanti trovò rifugio sulla collina per difendersi da incursioni ostili.
Da borgo di confine a città metropolitana, Moncalieri ha costruito nei secoli una vocazione al
dialogo e alla trasformazione: il ponte sul Po, che per secoli fu l’unico accesso a Torino per
chi proveniva da sud, è diventato nel tempo una metafora della sua identità, quella di una
comunità che unisce e attraversa.
L’area metropolitana torinese sta ripensando il proprio modello culturale dopo anni di
innovazioni e crisi; la città di Moncalieri in questo contesto porta in dote una dimensione
“ponte”: sufficientemente grande per incidere, sufficientemente prossima per
sperimentare.

Un viaggio che continua
Il Dossier non è solo un progetto, ma la sintesi di una pratica già in corso.
Dal 2024 Moncalieri ha sperimentato nuovi format diffusi – festival, residenze artistiche,
laboratori, percorsi formativi e progetti di rigenerazione – che hanno unito produzione
culturale e partecipazione civica.
Le esperienze avviate hanno mostrato che la cultura può diventare motore di sviluppo
economico, sociale e territoriale, creando occupazione qualificata, valorizzando i saperi
artigiani e favorendo nuove alleanze tra pubblico e privato.
Il 2028 per Moncalieri non è un traguardo ma un orizzonte: un’occasione per consolidare
politiche, coordinare risorse e offrire alla città un’identità culturale riconoscibile e condivisa.
La candidatura rappresenta quindi un patto che la città intende rinnovare, con o senza titolo,
perché la credibilità di una candidatura si misura nella sua capacità di migliorare la vita
delle persone.

“La leva è la rigenerazione culturale delle periferie, intese non come estremi, ma come
soglie porose tra funzioni, generazioni e comunità” aggiunge Antonella Parigi, Assessora
alla Cultura. “Demarginalizzare significa rendere la cultura accessibile e generativa, creare
spazi di scambio dove la vita quotidiana incontra l’arte, l’impresa, la scuola, il volontariato.
Moncalieri è pronta a diventare un laboratorio nazionale di questa nuova idea di capitale.”
La candidatura di Moncalieri a Capitale Italiana della Cultura 2028 è dunque un progetto
corale, che nasce dall’amore per la città e dalla convinzione che i margini possano diventare
il centro rinnovato e ritrovato di una nuova geografia culturale italiana.

Ludovico Bellucci in concerto sonorizza i capolavori del cinema muto

La stagione concertistica di Santa Pelagia prosegue all’insegna del dialogo tra la musica e gli altri linguaggi artistici, confrontandosi in questa occasione con la Settima arte.

La rassegna Intrecci musicali presenta, il 22 ottobre, alle ore 21, la “Musica del Mito”, un evento in cui le prime pellicole dell’epoca mitica del cinema muto si incontrano con le partiture sonore di periodi musicali altrettanto leggendari, grazie al pianoforte del giovane compositore torinese Ludovico Bellucci, da tempo impegnato in una rilettura in chiave moderna delle opere del passato.
Film muti d’epoca musicati dal vivo daranno vita ad un vero e proprio reenactment delle pratiche di proiezione e sonorizzazione originali, un cinema concerto che immerge il pubblico nel contesto storico e sociale degli anni Dieci, offrendo la proiezione integrale del film accompagnata da musiche inedite, eseguite dal vivo e concepite per valorizzarne lo sviluppo narrativo, i vissuti interiori dei protagonisti, gli eventi e il carattere storico delle vicende rappresentate.
Sul grande schermo scorrono le immagini di due capolavori del cinema muto italiano: “ Didone abbandonata” di Luigi Maggi del 1910, ispirato al celebre mito virgiliano, racconta con sorprendente sensibilità visiva il dramma amoroso della regina di Cartagine, restituendo in pochi minuti tutta la forza tragica dell’epopea classica. Le musiche, eseguite in prima assoluta, dialogano con le immagini per amplificare il pathos e la tensione emotiva del racconto.
Il secondo capolavoro è rappresentato da ”La caduta di Troia” di Giovanni Pastrone, che risale al 1911 ed è considerata una delle prime grandi produzioni del cinema muto italiano  e mette in scena con ambizione epica la guerra e la distruzione della città omerica, anticipando lo stile spettacolare che renderà celebre il regista di Cabiria.
La serata è realizzata in collaborazione  con il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino e la Cineteca Nazionale del Museo del Cinema.
“La Musica del Mito” è un’occasione unica per riscoprire il fascino originario del cinema muto nella suggestiva cornice settecentesca del Coro di Santa Pelagia, dove farsi trasportare all’interno di un  viaggio tra mito, immagini e suono, in cui la musica restituisce vita e voce alla memoria visiva del passato.
L’ingresso è libero su prenotazione. L’introduzione è affidata a Maria Adorno.

Ludovico Bellucci, 20 anni,  è pianista e compositore di colonne sonore. Studia composizione con Aldo Sardo presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino,  città in cui vive e lavora. La sua carriera artistica è iniziata nel 2015 con la partecipazione alla Festa della Musica di Torino, dove si è esibito per quattro edizioni consecutive con brani originali. Nel 2019 ha vinto il primo premio al concorso Pianofortissimo di Rivoli con un proprio inedito. Dal 2022, anno in cui realizza la musica per il cortometraggio “Dura Lex Sed Lex”, vincitore al Believe Film Festival di Verona, si dedica alla musica per il cinema muto.

Coro di Santa Pelagia, via San Massimo 21, mercoledi 22 ottobre ore 21

Mara Martellotta

Guadagnino e una grande Roberts non raggiungono la verità

/

Sugli schermi “After the Hunt. Dopo la caccia”, presentato fuori concorso a Venezia

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Un tempo, a metà degli anni Sessanta, il mondo universitario, tra le pagine di “Chi ha paura di Virginia Woolf” di Albee, era scarnificato all’unisono con quello della coppia, oggi, con “After the Hunt. Dopo la caccia” Luca Guadagnino – bulimico cinematografico, sia detto per inciso, visti tutti i progetti, quelli bene informati dicono 6/8, che gli rimbalzano tra le mani, primo forse in scadenza, “Artificial” sul licenziamento e il reintegro del CEO di OpenAI, Sam Altman, quello che ha al proprio interno alcune scene girate qui a Torino negli scorsi mesi estivi, alla torre Intesa San Paolo -, dopo aver percorso le ultime tappe tra il tennistico “Challengers” e i dolori e le sfrenatezze di William Burroughs con “Queer”, allarga gli orizzonti all’insegnamento e agli insegnanti che hanno allontanato per sempre la cattedra e siedono intorno a un tavolo con i loro allievi, quelli che alimentano un efficace carisma e che entrando in classe iniziano senza preamboli la lezione, gli studenti attenti come pargoli agli occhi di una mamma; alle rivalse e alle demagogie, agli incontri tra pranzi e confidenze, tra ambiguità e motti di spirito che tendono a colpire, tra cattedre inseguite da una vita con tanto di studi incorporati e colleghi amici/nemici che, dopo tanti allegri chiacchiericci al pub, non vedono l’ora di metterti il classico bastone tra le ruote. E con questi, è da aggiungersi di questi tempi il me too, che come niente ha raggiunto – o invaso? – le aule, nel caso, di Yale. A intervallare l’intreccio – alla cui base è una sceneggiatura, facilmente oscarizzabile, firmata da Nora Garrett (tratta, pare, da una storia vera), piena zeppa di riferimenti, Jung e Freud e Aristotele, e poi Kierkegaard e Schopenhauer e Nietzsche, scritta in dialoghi felicissimi e fitti fitti in punta di penna, parole circostanze luoghi personaggi che non fanno una grinza, ardua difficile tutta calibrata passo dopo passo, a tratti scogliosa per lo spettatore ma estremamente stimolante, vero riferimento per certi scrittori di/per il cinema, parecchi di casa nostra, capaci di partorire tremende insensatezze e ovvietà dal fiato corto – il ticchettio ossessivo di un metronomo, tic tac tic tac tic tac, qua e là, sin dalle prime immagini, via via sdoppiato nelle musiche di Trent Reznor e Atticus Ross, padroni d’assorbire altresì ad un vastissimo repertorio, ogni nota improvvisa e disturbante (anche il padrone di casa invade gli ambienti di una musica altissima).

La docente di filosofia Alma Olsson (Julia Roberts, una delle sue più belle interpretazioni, tesissima in ogni attimo) ha chiamato a casa sua, complice l’affettuoso (la sveglia di ogni mattino ha la sua pillolina d’obbligo sul momodino) consorte Frederick, Michael Stuhlbarg, eccellente, comico disturbatore nel confessionale di turno (già con Guadagnino come padre del giovane protagonista in “Chiamami col mio nome”), per una cena colleghi e allievi e medici, per il cibo, il bicchiere di vino, la chiacchiera, la risata. Per discutere, se c’è ancora spazio, del fatto che ogni candidato maschio bianco etero e cisgender di questi tempi parte sfavorito. Con le dispute e le ambiguità di cui sopra, si arriva alla fine, il contendente Hank belloccio e narcisista e l’allieva brillante Maggie, afroamericana, gay, figlia di papà che sovvenziona con soldoni l’istituto, se ne vanno per ultimi, guardandoli Alma dallo spioncino della porta d’ingresso mentre s’allontanano sul pianerottolo, prima di pigiare il tasto dell’ascensore: salvo il giorno dopo Maggie (che, tenete a mente, durante una corsa nel bagno di casa, “si è messa” al corrente di un piccolo segreto che da sempre rimane sepolto nel cuore di Alma) rifarsi viva per narrarle delle molestie subite dall’uomo, la sera precedente durante l’ultimo bicchiere in casa di lei: rifacendosi ad Alma paladina dei diritti femminili e al clima d’empatia sorto tra due esseri umani.

Ha inizio il thriller ma non certo la ricerca di un colpevole da parte di Guadagnino, pronto anzi ad allontanare il calice amaro del finale (a dire il vero un po’ insipido, visto il fervorino che è l’inciampo dell’intero affresco, con quel biglietto da venti dollari posato sul tavolo del bar che ci ricorda quanto di “mercanteggio etico” ci sia nella storia) pur di rimescolare le carte, a dire e a negare, ad analizzare e a ritornare su quelle che sembravano conclusioni, in dialoghi a due ben congegnati dando ampio spazio alle ragioni dell’uno e poco dopo a quelle altrettanto meritevoli dell’altro, ascoltando le ragioni della pretesa innocenza e quelle forse legittime dell’accusa, guardando all’opportunismo della ragazza e agli scatti di machismo del collega, superuomo incallito, senza freni nella casa/rifugio di Alma, lasciando sempre lo spettatore sull’orlo di un enigmatico precipizio. Mentre Alma prende ad accusare dolori al ventre che crescono a denunciare tre ulcere alla fine perforate e un incidente nei confronti della università e di conseguenza della commissione che avrebbe dovuto dare il proprio placet per la agognata cattedra. In una durata di circa due ore e mezzo che si sarebbe dovuto un tantino sforbiciare. Verità nascoste e verità personalissime che Guadagnino ti schiaffa in faccia all’improvviso, con una costruzione perfetta d’ambienti (le scene sono di Stefano Baisi), con gli attori spinti a guardare in macchina (la fotografia fatta di paesaggi innevati, delle luci calde della signorilità e di quelle bianche e gelide che sono nel rifugio di Alma) ad una distanza ravvicinata oppure con questa che li tallona senza mezze misure.

Coraggioso è Guadagnino a scavare nel grande tema della verità e di conseguenza in quel mondo universitario che potrebbe ancora avere parecchi scheletri nell’armadio, argomenti modernissimi e votati alla scomodità, dove i sentimenti sono azzerati (i social aiutando parecchio) e i dubbi al di qua dello schermo permangono. Siamo nel terreno tremulo e pericoloso delle acque melmose e il regista rifiuta di darci risposte: e lo spettatore, se lo vorrà, potrà fare le proprie scelte. “Ed ecco, signori, come parla la Verità”, avrebbe detto nel finale del testo pirandelliano la velata signora Ponza. Ieri, come ogi, si calava il sipario.

“1979. L’inverno più buio”: Torino tra piombo, sogni e disillusioni

/

TORINO TRA LE RIGHE

C’è una domanda che apre le porte alla storia: Qual è il peso specifico del piombo?
La risposta, forse, la conosce Paolo, giovane studente del Politecnico, idealista con l’anima appesantita da una stagione che ha il colore freddo della rassegnazione e l’odore acre della paura. È il 1979 e Torino è stretta nella morsa del terrorismo: un inverno cupo, carico di tensione, in cui i sogni di cambiamento si mescolano al sangue e alle contraddizioni.
Con il romanzo “1979. L’inverno più buio”, edito da Gilgamesh Edizioni, Luigi Schifitto ci conduce in un viaggio tra passato e presente, tra idealismo e giustizia, raccontando una vicenda potente che prende forma da un fatto storico realmente accaduto nella nostra città. Un attentato, una tragedia. E un diario: quello di Paolo, che quarant’anni dopo riemerge misteriosamente tra le mani del commissario Stefano Cavalli.
Il romanzo si sviluppa su due piani temporali intrecciati con grande perizia narrativa: da un lato, il Paolo ventenne, sospeso tra l’impegno politico e la disillusione; dall’altro, il Cavalli maturo, alle prese con le ombre di un passato che ancora brucia. La storia si costruisce attorno a un interrogativo che non riguarda solo la verità processuale, ma anche la responsabilità morale, collettiva e individuale.
La penna di Schifitto è lucida e coinvolgente, mai compiaciuta, capace di restituire il clima di quegli anni senza retorica. A rendere più vivido il quadro ci pensano anche i riferimenti musicali, da De André ai Ramones, che accompagnano la narrazione come una colonna sonora emotiva.
Il risultato è un romanzo malinconico, avvincente, tragico ma necessario, che riesce in un’operazione tanto ambiziosa quanto riuscita: fondere verità storica e finzione narrativa in un intreccio serrato e fluido.
Il personaggio di Paolo, con la sua lotta interiore, le sue fragilità e i suoi tormenti, è il cuore pulsante del libro. Ma è nel contrasto con il presente, e con il percorso del commissario Cavalli, che emerge tutta la potenza del romanzo. Il lettore viene trascinato in un’indagine che è prima di tutto umana, oltre che giudiziaria.
E poi c’è il finale. Un finale che non si dimentica, che sorprende e lascia un velo di malinconia addosso. Un epilogo coerente, emozionante, che dà senso all’intero viaggio.
Luigi Schifitto, siracusano di nascita e torinese d’adozione, insegna matematica e fisica in un liceo della città. Da anni scrive di Torino e per Torino. Tra i suoi lavori precedenti, ricordiamo L’uomo con lo zainettoDelitti di stagione e Una persona scorretta, tutti con protagonista il commissario Cavalli. Con questo nuovo romanzo, lo scrittore conferma la sua capacità di raccontare la città nei suoi chiaroscuri più profondi, mantenendo vivo il dialogo tra memoria e contemporaneità.
“1979. L’inverno più buio” non è solo un noir. È un promemoria. Un invito a non dimenticare. Un libro che ci obbliga a guardare indietro, per capire dove siamo oggi.
E forse anche per chiederci, ancora una volta, quanto pesa davvero il piombo.
Marzia Estini

Luciano Berio, compositore, nel Centenario della nascita 

Nel corso dei secoli la musica ha subito naturali trasformazioni, dal periodo rinascimentale al serialismo integrale del suono nato nel secolo scorso. Felix Mendelssohn, compositore del periodo romantico tedesco, dopo quasi un secolo ha ripescato le grandi opere dimenticate di Johann Sebastian Bach, generando il repertorio musicale. Lo stile contrappuntistico di Bach fu in parte conservato da Carl Philipp Emanuel, il figlio più famoso definito il Bach di Amburgo, ricco di idee e molto ammirato da Haydn. Il genio paterno invece non era affine al figlio più giovane Johann Christian che aveva privilegiato l’elemento armonico e lo stile galante, precursore del classicismo e molto influente su Mozart.

Dopo tanti anni di attesa non si è ripetuto il fenomeno musicale del ’68, lo sciame sismico giunto dall’Inghilterra ormai esaurito ed immerso nel sonno spettrale degli ultimi decenni, splendido miraggio assopito in una società liquida senza valori dove il culto dell’immagine scorre velocemente riducendo l’ascoltatore a semplice pubblico ipnotizzato da false illusioni. L’argomento principale mancante di questo vuoto è stato riempito sapientemente nel 1972 da Luciano Berio (*Oneglia 24-10-1925 +Roma 2003), compositore e pioniere dell’avanguardia europea. La sera del 22 febbraio, una settimana dopo la chiusura del Festival di Sanremo in piena crisi con riduzione della doppia interpretazione introdotta nel 1957, richiesta di sciopero e l’amara prospettiva di sospensione del programma, sul secondo canale Rai andava in onda la prima delle dodici puntate di “C’è musica & musica”.

La coraggiosa serie ideata da Berio proponeva al pubblico televisivo l’alternativa di una nuova estetica, utilizzando nuove forme sperimentali di comunicazione musicale e sapere umanistico. Le varie problematiche sulla scrittura e sul pensiero musicale furono esposte tramite oggetti sonori dal barocco di Monteverdi ai contemporanei Beatles, commentati da importanti personaggi internazionali quali Bernstein, Cage, Boulez, Messiaen, Stockhausen, Sanguineti, Donatoni e Dallapiccola. Le puntate furono replicate sulla stessa rete da marzo a giugno e pubblicate da Feltrinelli nel 2013 con commenti di Michele Dall’Ongaro, direttore musicale di Rai Radio Tre. Nel primo Studio di Fonologia Musicale della Rai di Milano, Berio aveva approfondito con Bruno Maderna la ricerca sonora delle interazioni acustiche tra strumenti, suoni elettronici e parola, affermandosi come autorevole esponente di musica sperimentale.
In “Omaggio a Joyce”, le risorse espressive della mezzosoprano americana e prima moglie Cathy Berberian unite alla rielaborazione elettroacustica crearono una dialettica e un nuovo linguaggio parlato onomatopeico. Tra i vari premi ottenuti da Berio ricordiamo il “Leone d’oro alla carriera” alla Biennale di Venezia, diversi ” Honoris Causa” e il “Premium Imperiale” giapponese. Promotore di musica contemporanea, insegnò nelle prestigiose accademie di Europa e Stati Uniti e a Firenze fondò l’istituto “Tempo Reale”, utilizzando nuove tecnologie e applicazioni elettroniche. Tra i suoi allievi figura Giulio Castagnoli, docente del Conservatorio Verdi di Torino aperto ai diversi contesti artistici con la passione per la fisica acustica, autore di saggi sui suoi mentori Berio, Donatoni e Ferneyhough. Compositore di musica espressiva formata da suoni materici, parafrasa i pensieri musicali del passato con la tipica complessità, per certi aspetti, di Olivier Messiaen.

L’interesse di Berio verso la musica di Castagnoli si era concretizzato dopo il loro incontro a Bonn, dirigendo egli stesso nel 1992 al Comunale di Bologna i “Madrigali per Orchestra” di Castagnoli e nel 2002 commissionandogli per l’Accademia di Santa Cecilia il “Concerto per violoncello e doppia orchestra”. Per il centenario della nascita di Berio, Castagnoli e Andrea Basevi del Conservatorio Paganini di Genova sono stati ospiti della terza sessione del Convegno di Rimini del 19 ottobre 2025, una tavola rotonda dal titolo “Abitare la melodia, due compositori tra le architetture di Luciano Berio”, dedicata alla tecnica sapiente e alla vena creativa del maestro. Con i due compositori, Berio aveva completato e orchestrato l’opera di Sergio Liberovici “Maelzel o delle macchinazioni”, pubblicata nel 1995 da Casa Ricordi. In questo inizio di secolo la musica contemporanea è in fase di cambiamento, percorsi sempre più individuali e scritture meditate non condivise, confusione in atto anche nelle arti figurative.
Armano Luigi Gozzano

Il Premio “Ivo Chiesa” a Filippo Fonsatti

DIRETTORE GENERALE DEL TEATRO STABILE DI TORINO

Il Teatro Stabile di Torino arricchisce il suo palmarès con il Premio Ivo Chiesa. Una vita per il teatro – VI edizione 2025 che è stato assegnato al suo Direttore generale Filippo Fonsatti durante la cerimonia organizzata lunedì 20 ottobre alle ore 18.30, nel foyer del teatro Ivo ChiesaIl premio, istituito dal Teatro Nazionale di Genova nel 2020, in occasione del centenario della nascita di Ivo Chiesa e su impulso del direttore Davide Livermore, vede fra i premiati di questa edizione anche l’attrice teatrale e cinematografica Anna Bonaiuto e Maria De Barbieri, anima storica – insieme al compagno di vita Tonino Conte – del Teatro della Tosse, che quest’anno compie 50 anni.
«Filippo Fonsatti – si legge nella motivazione del premio – incarna, un modello di managerialità teatrale estremamente coerente e di alto livello, nutrito dallo studio, dalla ricerca, dal dialogo con gli artisti. Un modo di gestire il teatro pubblico che certo sarebbe piaciuto ad un maestro come Ivo Chiesa».

Nella stessa serata sono stati consegnati i Premi della Critica ANCT 2025 all’attrice Valentina Picello e alla traduttrice Monica Capuani, con le quali lo Stabile di Torino ha collaborato in numerose occasioni. Valentina Picello è stata la protagonista de La gatta sul tetto che scotta, produzione del Teatro Stabile di Torino diretta da Leonardo Lidi che è stata accolta con successo nella scorsa stagione e che sarà replicata in molte città italiane tra il 2025 e il 2026. Monica Capuani, traduttrice di testi teatrali e letterari, lavora con lo Stabile torinese da molto tempo: fra le collaborazioni più recenti, ricordiamo la sua traduzione de La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams, quella di Agosto a Osage County di Tracy Letts e quella di Circle, Mirror, Transformation di Annie Baker, che sarà il prossimo spettacolo diretto da Valerio Binasco per il Teatro Stabile di Torino.

Radici: il festival che interroga le nostre identità

Si terrà domani, alle ore 10 al Circolo dei lettori e delle Lettrici di Torino la conferenza stampa di presentazione di Radici, il festival che quest’anno invita grandi artisti e voci autorevoli a interrogarsi – in chiave pirandelliana – sul tema delle identità: una, nessuna e centomila.
Un percorso che attraversa l’individuale e il collettivo, la nazione e il popolo, fino all’immagine che ciascuno costruisce di sé in una società sempre più complessa ma al tempo stesso omologata. Un’omologazione che Pier Paolo Pasolini denunciò già negli anni del boom, osservando come il consumismo avesse trasformato stili di vita e modelli culturali.
Accanto a questo filone, Radici esplora anche le esperienze di chi ha scelto di espatriare, vivendo in bilico tra due mondi e due identità.
E oggi, mentre i social media amplificano, distorcono e condizionano la percezione di sé, e l’intelligenza artificiale mette in discussione la stessa nozione di identità, il festival rilancia il dibattito aprendolo a prospettive e contenuti diversi, con l’obiettivo di risvegliare nuove consapevolezze.
Valeria Rombolá

L’aquila di Cicogna

 

Cicogna è la piccola capitale della Val Grande, l’area wilderness più grande delle alpi e d’Italia all’estremo nord del Piemonte, parco nazionale più di trent’anni. Corte maggengale delle comunità verbanesi di Cossogno, Unchio e Ungiasca già dal XIII secolo, diventò un centro permanente solo a partire dal XVI secolo.

Cicogna, posta sul declivio che scende dalla Cima Sasso e separa l’imbocco della Val Pogallo dalla Val Grande, segna il limes, il confine tra la civiltà degli esseri umani e quella della natura. E’ lì che Fabio Copiatti ha ambientato i suoi ultimi libri, compreso L’Aquila di Cicogna, edito recentemente da Youcanprint. Verbanese di nascita (con genitori originari di Cossogno) per 24 anni – dal 1996 al 2019 – ha lavorato per il Parco Nazionale Val Grande per poi trasferirsi all’ombra delle Dolomiti Bellunesi dove si occupa di politiche per la sostenibilità. Ricercatore storico, biologo e guida escursionistica ambientale, con i suoi libri ha contribuito a far conoscere la cultura e le tradizioni alpine. Nel suo L’aquila di Cicogna Copiatti ha raccolto numerosi racconti partendo da uno sguardo che spazia su due prospettive: da un lato la rievocazione di vicende realmente accadute nel secolo scorso, testimonianze di guerra, di lotta e di sopravvivenza, fatti tramandati da chi c’era, da documenti d’archivio, da giornali locali; dall’altro, il filo più intimo dei ricordi personali dell’autore, maturati in quell’area selvaggia. Tra le pagine rivivono personaggi come Don Antonio Fiora, il combattivo “prete di Cicogna”, quasi si trattasse di una sorta di Don Camillo della Val Pogallo, le vicende di abili cacciatori e di animali leggendari come la grande aquila e la vipera con le zampe, storie di lotta e di dolore al tempi della Resistenza come il tragico rastrellamento del 1944, ricordi di balme perdute, alberi straordinari e animali come il fagiano di monte e il saettone. Con uno stile sobrio e coinvolgente i racconti restituiscono l’essenza della storia valgrandina. Un mondo arcaico, retto da pratiche e valori ancestrali, per certi versi poco moderni, secondo i canoni odierni, ma quanto mai importanti, necessari, utili per l’oggi e il domani. Un mondo che ci insegna ad essere umili, a riconoscere che una parte importante della cultura accumulata da generazioni di montanari risiede in quei luoghi aspri, spesso percorsi su sentieri ripidi sotto il peso di una gerla. Posti dove le frontiere dei crinali sono stati più un punto d’incontro che una linea di demarcazione e separazione. Copiatti ha rilevato nei fatti il testimone della ricerca di Nino Chiovini e questo gli fa onore. Ecco perché quest’ultimo suo libro – come i precedenti Cicogna ultima Thule, A passo di vacca, E’ questa casa mia. Storie e racconti di Valgrande – è davvero molto importante.

Marco Travaglini