Armano Luigi Gozzano,noto ricercatore dei documenti storici di famiglie nobiliari, in particolare dei Gozzano e dei Gonzaga, essendo anche musicista si interessa di argomenti musicali.



Armano Luigi Gozzano,noto ricercatore dei documenti storici di famiglie nobiliari, in particolare dei Gozzano e dei Gonzaga, essendo anche musicista si interessa di argomenti musicali.
In Valle Cervo, vicino a Biella, in mezzo a una natura selvaggia, si trova il piccolo borgo di Rosazza, ritenuto il paese più misterioso d’Italia.
Il borgo prende il nome di Federico Rosazza che, verso la fine dell’800, portò l’intera comunità a un grande sviluppo economico.
Durante la sua lunga vita, Federico subì due avvenimenti negativi, la morte prematura della moglie e della sua unica figlia.
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A cura di Piemonteitalia.eu
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Martedì 14 ottobre, in occasione della Giornata Nazionale del Barocco Italiano, i Musei Reali e l’associazione di Promozione Sociale Accademia del Santo Spirito, nell’ambito del Turin Baroque Music Festival 2025, dedicheranno un’intera serata al compositore veneziano Benedetto Marcello (1686-1739).
Dalle 19.45, fino alle 23.30, con ultimo ingresso alle 22.45, sarà possibile visitare gratuitamente la Cappella della Sindone e la Cappella Regia. L’iniziativa, nuovo appuntamento della rassegna “Estate Reale 2025-Notti Reali”, propone alle ore 21, nel Salone delle Guardie Svizzere di Palazzo Reale il concerto dell’ensemble strumentale dell’Accademia Santo Spirito di Torino, composto da Giovanni Miszczyszyn al flauto traverso, Massimo Barrera al violoncello, Luca Ronzetti al cembalo. Il programma ruota attorno alle Sonate 1 e 2 dedicate al violoncello e al flauto, con accompagnamento del basso continuo. In questa occasione verrà anche presentata una nuova produzione discografica dell’Accademia del Santo Spirito di Torino: sei concerti per flauto, archi e basso continuo, op.19 di Tommaso Giordani, in prima registrazione mondiale.
Benedetto Marcello, che soleva firmarsi “Nobile veneto”, fu esponente di un’importante famiglia della nobiltà veneziana e fu educato all’arte e alla poesia, scegliendo poi di approfondire la musica per sua esplicita volontà. Forse, come suggeriscono alcune cronache, come forma di puntiglio a seguito di un confronto con il fratello Alessandro, noto virtuoso del violino. Alla musica dedicò gran l’arte della propria vita, e la sua origine patrizia, unitamente agli studi giuridici, gli aprirono le porte della carriera amministrativa e burocratica, precludendogli tuttavia una vera e propria carriera musicale e artistica, tanto da definirsi “dilettante di musica” e non un vero e proprio musicista.
Biglietto unico: 5 euro – visita libera dalle 19.45 alle 23.30 alla Cappella della Sindone, la Cappella Regia e possibilità di assistere al concerto dell’ensemble dell’Accademia Santo Spirito di Torino nel Salone delle Guardie Svizzere, a Palazzo Reale.
La caffetteria Reale rimarrà aperta con proposte dedicate a “Estate Reale 2025-Notti Reali”. Aperitivo al costo di 15 euro, e sarà possibile gustare due cocktail speciali: il “Blu Lagoon” e il “Dama”. Prenotazione per l’aperitivo consigliata a eventi@caffetteriareale.it
Mara Martellotta
Non è certo uscito il botto – un pampampam reiterato e sonorissimo – qualche sera fa l’anniversario dei trent’anni dal cilindro del Festival delle Colline, in cui tutti speravamo. Un bel gruppo, non indifferente, di candeline spente con tante soffiate che sapevano di fiato corto e di malinconia, di un qualcosa inserito a forza, troppo. Ma ci rifaremo. Perché questo Festival dacché lo conosciamo è sempre stato un bravo ragazzo, come da canzoncina, per questo – sempre poche sere fa – siamo entrati nella platea dell’Astra con la migliore delle speranze – o delle certezze addirittura – che ci saremmo stretti intorno a quella torta con un finale e un sorriso ben diversi. Il gruppo d’apertura era Agrupaciòn Senor Serrano, la regia e la drammaturgia affidate a Àlex Serrano in coppia con Pau Palacios, il testo ad una volenterosa Anna Pérez Moyan che se ne arriva, in canottiera e pantaloni, su un palcoscenico che sta “a metà strada tra un laboratorio e una discarica” (ci era stato detto), un paio di mucchi di sacchi d’immondizia belli gonfi da cui sempre la volenterosa “trova oggetti, resti e rifiuti generati dalla Storia dell’amore che la aiutano ad attivare la trama.”
Già, la trama, gran bella parola, di uno spettacolo che – dimenticavo: e lo scoprirà il publico? – ha per titolo “Historia del amor”. E che la trama sua vai a cercare con il lanternino, sfiduciati come quel vecchione di Diogene. Impossibile quel “compito di cercare di capire cosa sia l’amore” da parte della volenterosa – pronta a camuffarsi dopo un po’ con corpino e gonnone azzurroverdastri d’altra epoca – e noi con lei. Domande, tante, di quella filosofia puntata con gli spilli, lassù nel cielo, cercare di amare perché amiamo e perché amiamo come amiamo, e risposte, nessuna, in un’ottantina di minuti, per uscire con un certo amaro in bocca. Un excursus che non trova nessuna strada e immediatamente va a sbriciolarsi, tra epoche trascorse e l’esperienza personale della sempre volenterosa – scusatemi, ma non riesco a chiamarla attrice! non qui almeno -, frantumandosi pure quell’intenzione della drammaturgia di far trans-ferire in noi che guardiamo quel guazzabuglio di lingue di sopratitoli frettolosi ed emozioni spente, di sforzi anche comici, ma brillantemente superati, di far fronte a qualche incidente tecnico. Di espedienti che hanno tutta l’aria di raffazzonare sul momento. Si narra di antri e spelonche e tesori e giungle che nascondono, le immagini vengono allontanate da noi sino a essere un puntino lontano nel deserto del nulla, irraggiungibili. Come quell’amore? Si va su e giù per il palcoscenico, si procede a fatica, si cerca di riempire spazi e tempi che restano irrimediabilmente e deficitariamente vuoti. Tutto ha un sapore di irrisolto, di pretesto vano per una serata, di quell’”uno dei principali motori della nostra esistenza”, l’amore, che non s’è semplicemente avviato: cercavansi tracce di carburante. Resta, nella memoria, di emozionante, quella lunga sequenza di baci cinematografici messi a scorrere davanti a noi, dalla Bergman e Bogarth a DiCaprio e Winslet sul ponte estremo del Titanic, ricordi spicci per chi ama il cinema, romanzo lungo che nemmeno il maturo Totò di “Nuovo Cinema Paradiso” avrebbe guardato con occhi tanto lucidi.
Elio Rabbione
Nelle immagini, alcuni momenti dello spettacolo
Una leggenda narra che quando il barone de La Brède giunse a Torino nel 1728 disse che i “muri della città parlavano”…
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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA
Martedì. Al Blah Blah si esibiscono i The Morlocks. All’Hiroshima Mon Amour è di scena Simba.
Martedì. Al Pala Gianni Asti di Torino, serata “Una Notte per Gaza”. Concerto a sostegno di Medici Senza Frontiere con tante band fra cui:Fratelli di Soledad, Persiana Jones, The Originals (Africa Unite + The Bluebeaters), Medusa, Statuto, Loscxhi Dezi, Fiori, Oh Die!, Lotta e tanti altri.
Mercoledì. Al teatro Colosseo arriva Niccolò Fabi.
All’Osteria Rabezzana si esibisce il quartetto di Lowell Levinger.
Giovedì. Allo Ziggy sono di scena i Lomsk + Duir. Il quartetto Smallable Ensemble suona alla Piazza dei Mestieri. Al Blah Blah si esibiscono i Plastic Drop +Dag. All’ Hiroshima suonano gli L’Entourloop. Al Cap 10100 è di scena Mark William Lewis. All’Off Topic si esibiscono i Frenesi.
Venerdì. Al Blah Blah è di scena Suzi Sabotage + Newdress. All’Hiroshima Mon Amour suonano i Modena City Ramblers + Mistral Kizz. Al Cap 10100 si esibiscono i Machinedrum. Al Circolino suonano i Cavour Country Boys.
Sabato. Allo Ziggy sono di scena i Decrow +Scaglia + Emokills. Al Blah Blah si esibiscono i Klasse Kriminale. Al Folk Club suonano i Willos’.
Domenica. Allo Ziggy sono di scena Wyatt E. /Ainu.
Pier Luigi Fuggetta
La 13ª edizione di Falshback Art Fair, che ritorna negli spazi di Flashback Habitat, il centro artistico indipendente di corso G.Lanza 75, dal 30 ottobre al 2 novembre prossimo, quest’anno ha scelto di non avere un titolo. La direzione, con Ginevra Pucci, Stefania Poddighe e il direttore artistico di Flashback Habitat Alessandro Bulgini, hanno deciso di non dare un titolo perché vogliono farne un centro di accoglienza e confronto finalizzato ad accogliere la diversità.
Dal suo esordio Flashbak non è mai stata solo una fiera, ma un progetto in divenire, che ogni anno si trasforma per consolidare il proprio legame con il presente in un racconto che restituisce all’arte, anche quella storicizzata, un legame forte e attuale con la contemporaneità e la vita familiare e quotidiana. Non dare un titolo è un atto deliberato di resistenza, equivale a rifiutare qualsiasi narrazione, unica o imposta. Significa creare un Habitat fertile, uno spazio denso, in continuo movimento, dove le diversità si incontrano e si confrontano. In questa zona “franca” dell’arte, l’accoglienza delle differenze, delle molteplici identità e delle voci fuori dal coro diventano principi fondanti. Con questa scelta Flashback non celebra solo la libertà dell’arte, ma afferma con chiarezza la volontà di abbattere le barriere fisiche e temporali per restituire visibilità all’invisibile. L’immagine guida di questa edizione è duplice, dicotomica, refrattaria a ogni tentativo di catalogazione, e porta la firma di Antonello Bulgini, fratello del direttore artistico scomparso prematuramente nel 2011.
“Le immagini guida di quest’anno appartengono a mio fratello Antonello, ‘Iafet’ e ‘Mister Marshmallow’ – dichiara Alessandro Bulgini – non è solo un omaggio affettivo, ma una scelta in perfetta sintonia con lo spirito di Flashback, che è un habitat di relazioni umane oltre che artistiche. ‘Iafet’ nasce da un episodio familiare e rimanda al famoso ritratto di Antonello da Messina, con un segno infantile che diventa parola biblica, trasformando la tela in un enigma stratificato. ‘Mister Marshmallow’ al contrario rivela in modo immediato la sua natura mostruosa, due facce della stessa medaglia che rispecchiano il tema di una edizione senza titolo, rifiuto delle etichette e apertura a molteplici interpretazioni.
Dal 30 ottobre al 2 novembre prossimi, a Flashback Habitat Ecosistema per le culture contemporanee, di 20 mila mq immersi nel verde di Borgo Crimea a Torino, luogo denso di storia e di storie, prestigiose gallerie internazionali daranno vita a un racconto corale all’interno di un percorso che si snoda nella familiarità delle stanze del padiglione B, attraversando epoche e linguaggi senza soluzione di continuità e restituendo al pubblico un paesaggio fertile e in continuo movimento. Un mosaico di visioni attraverso cui Flashback Art Fair ribadisce la sua scelta, quella di lasciare spazio al molteplice, accogliere le differenze e dar voce a ciò che sfugge alle narrazioni dominanti.
Il mito, la metamorfosi eil legame con l’ancestrale emergono nelle “Danzatrici” di Franz Von Stuck (Aleandri Arte Moderna di Roma), visioni ipnotiche di una danza dionisiaca, cosiccome ne “Il cavallo e il cavaliere” di Marino Marin, proveniente dalla galleria romana Antiques Par Force, risulta un archetipo che oltrepassa i secoli fino a lambire l’astrazione. Della stessa galleria il barocco “Giunone e Argo” di Antonio Gherardi, che rievoca la trasformazione del pastore in pavone, mentre i “Lupi” di Domicella Božekowska incarnano la forza primordiale e selvaggia della natura. In questa linea si inserisce la “Madonna con Bambino” quattrocentesca (galleria Flavio Pozzallo), scultura linea che restituisce la potenza del frammento e della materia grezza. I temi dell’identità e del misticismo attraversano i “Tableau vivant” di Luigi Ontani (galleria l’Incontro), che abbattono i confini tra Oriente e Occidente, pittura e fotografia, e si ritrova nei “Dervisci danzanti” di Aldo Mondino (galleria Umberto Benappi), dove il corpo diventa esperienza estatica e rito. Qui l’arte rifiuta la classificazione e si apre alla contaminazione di linguaggi. La riflessione sui materiali dell’arte è al centro del dialogo proposto dalla galleria Dello Scudo, che accosta i disegni di Modigliani e Morandi all’opera di Arcangelo Sassolino, e ancora ne “La donna che legge” di Umberto Boccioni, bozzetto in negativo che esalta la vitalità del segno e della carta. Le pietre sonore di Pinuccio Sciola segnano il confine tra scultura, musica e grafica, aprendo a una dimensione sinestetica della materia. Il “senza titolo” di Mario Schifano (galleria Roberto Ducci) diventa manifesto del rifiuto di ogni definizione, spazio potenziale in cui l’interpretazione rimane sempre aperta. L’episodio pittorico di “Muzio Scevola davanti a Porsenna” di Luigi Miradori, detto il Genovesino (galleria Canesso) rievoca il coraggio e l’integrità come segni di resistenza, mentre la Frascione Gallery ci conduce nel mondo di Bernardo Strozzi, artista accusato di disonorare l’abito religioso con la pittura profana, e proprio per questo figura di rottura e libertà. Non mancano i maestri stranieri come Adriaen Van Overbeke, artista indipendente che testimonia un‘arte capace di sottrarsi all’unicità del genio celebrato per restituire valore alla pluralità dei linguaggi e delle esperienze, e il maestro rinascimentale Albrecht Dürer con una ricca raccolta di incisioni (Il Cartiglio), che offre un esempio della capacità dell’artista di trasformare l’immagine in archetipo universale, un’occasione per riscoprire la forza del segno e l’attualità del suo linguaggio.
In occasione di Flashback Art Fair 2025 prende forma un public program di laboratori, visite guidate, talk e performance. Si segnalano “Butterfky”, rassegna di videoarte a cura di Rebecca Russo, che inaugurerà il 25 settembre, un percorso visivo dedicato alla trasformazione, alla memoria e alla rinascita, dove gli artisti coinvolti riflettono sulla fragilità e la forza interiore dell’essere umano, e “Compassione”, intervento site specific di Mustafà Fazari, che inaugurerà giovedì 16 ottobre e che propone una riflessione intensa sul tema dell’empatia come strumento per costruire connessioni tra individui e comunità. I Flashback Lab saranno aperti a ogni fascia d’età, e il Flashback Storytelling costituirà un ciclo di visite guidate in dislogo con opere, artisti e gallerie.
Mara Martellotta
Inaugurare la stagione con Francesca da Rimini non è cosa da poco. Al Teatro Regio di Torino ci prova Andrea Battistoni, nuovo direttore musicale, e lo fa con un titolo che più suo non si può: l’opera italiana del tardo Ottocento-primo Novecento, quella in bilico tra il sudore verista e i profumi decadenti. Ed eccola, la Francesca di Zandonai, una delle poche riscoperte del periodo che non finiscono dritte nel reparto “opere da archeologia”. Dopo Parigi, Strasburgo, Milano e Berlino, tocca di nuovo a Torino – dove, nel 1914, tutto era cominciato.
Zandonai non partiva da zero: la coppia più celebre della letteratura adulterina, immortalata da Dante, aveva già ispirato Paisiello, Mercadante, Thomas, Rachmaninov e pure Čajkovskij, ma lui volle la versione dannunziana, quella della Duse, tutta intrisa di veli, sangue e profumi d’ambra. Tito Ricordi, uomo pratico, sfrondò il “poema di sangue e lussuria” del Vate, ma non abbastanza da risparmiare agli spettatori “arboscelli verzicanti” e “vivande cadenti in gualdana”. Per una volta, i sopratitoli inglesi servono anche agli italiani.
Nel 1914 la Francesca rompeva col verismo per inseguire la moda floreale e preraffaellita: la passione diventa languore, la tragedia si veste di seta liberty. Eppure la musica è tutto fuorché leziosa: Zandonai fonde Wagner, Debussy e un pizzico di Janáček, con una libertà armonica che non sfigurerebbe a Parigi o a Lipsia. La sua orchestra sa farsi mare, onda, luce: la Francesca da Rimini, più che l’ultimo spasmo del verismo, è forse la prima vera opera moderna italiana.
A raccogliere l’eredità visiva tocca ad Andrea Bernard, regista bolzanino premiato con l’Abbiati nel 2024. Con l’aiuto di Alberto Beltrame (scene), Marco Alba (luci) ed Elena Beccaro (costumi), costruisce un mondo che è stanza, mente, memoria e abisso. Le scarpe rosse abbandonate davanti al letto bastano a dire tutto: l’amore come rovina, la rovina come libertà.
La sua Francesca non è più la martire dannunziana, ma una donna viva, capace di desiderare e decidere. Bernard la libera dal languore estetizzante per restituirle un’anima moderna. Il risultato è un teatro che respira, che non teme il silenzio, che lascia alla musica il compito di completare il gesto.
Battistoni, dal canto suo, dirige come se avesse aspettato questo momento tutta la vita. In buca è focoso, meticoloso, lirico e teatrale insieme: sa quando far brillare e quando far respirare, quando spingere e quando sospendere. L’Orchestra del Regio risponde con smalto e precisione, il Coro istruito da Ulisse Trabacchin fa miracoli di chiarezza e dinamica. Il primo atto si chiude con un’esplosione di colori che pare dipinta da Klimt.
Nel cast, Barno Ismatullaeva domina la scena con voce ambrata e acuti taglienti come pugnali, più regina che vittima. Roberto Alagna, Paolo “bello e dannato”, conserva il carisma di sempre, anche se la scrittura lo mette a dura prova. George Gagnidze è un Gianciotto torvo e autorevole, Matteo Mezzaro un Malatestino di ottimo veleno, Devid Cecconi un Ostasio giustamente cinico e crudele. Le dame di Francesca, guidate da Valentina Mastrangelo e Albina Tonkikh, formano un quartetto di voci incantevoli; Valentina Boi tocca corde di vera grazia nella sua Samaritana.
Alla fine resta l’impressione di un lavoro vivo, intelligente, forse un po’ troppo “lucido” per chi ama la polvere del verismo, ma proprio per questo necessario. Francesca da Rimini torna a essere ciò che D’Annunzio, in fondo, non avrebbe mai voluto: un’opera vera, teatrale, commovente – e, finalmente, moderna.