CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 304

Giuseppe Conte, tra il fanciullino e la giovinezza

 

POESIA  Giuseppe Conte, nato a Imperia nel 1945, è considerato una delle più importanti voci poetiche italiane contemporanee.

Comincia a interessarsi di poesia già ai tempi del liceo,frequentando il Ginnasio e Liceo Classico De Amicis a Oneglia,anni in cui inizia a sperimentare le prime traduzioni dall’inglese(da Whitman, Blake, Shelley e Lawrence) e a comporre i suoi primi versi. Si appassiona inoltre alle opere di Mallarmé, Baudelaire e Henry Miller. Risalgono ai primi anni Settanta i suoi due primi libri di poesia, intitolati “Il processo di comunicazione secondo Sade” ( 1975) e “L’ultimo aprile bianco” (1979), raccolte che riscuotono un ottimo successo di critica, cosiccome i suoi due primi libri di narrativa dal titolo “Primavera incendiata” e “Equinozio d’autunno”, risalenti agli anni Ottanta.

Nel 1994, in ottobre, promuove l’occupazione pacifica della Basilica di Santa Croce a Firenze, con un gruppo di poeti che si definiscono “i capitani del Commando eroico” di cui fanno parte, oltre allo stesso Conte, anche Tomaso Kemeny, Roberto Carifi e Lamberto Garzia.

L’evento precede il sorgere di un nuovo movimento poetico che è chiamato  Mitomodernismo, una corrente provocatoria e di rottura che proclamava come la vera battaglia consistesse nel sognare un mondo rifatto da capo attraverso la bellezza e il mito. Proprio il mito entra a far parte della vita di Giuseppe Conte sin dalla giovinezza e lo impegna durante tutta la sua carriera artistica fino ai giorni nostri, quando pubblica la sua ultima opera a lui dedicatadal titolo “Il mito greco e la manutenzione dell’anima”. È  stato vincitore dei più importanti premi di poesia tra cui il “Premio Viareggio” .

Capita talvolta e, in particolar modo ai poeti, una certa discordanza tra corpo, età e spirito, quel fanciullino tanto caro a Pascoli, che emerge sia in Giuseppe Conte uomo sia nel suo esserepoeta, il primo dall’aspetto saggio e consapevole, il secondo dall’indole più fragile, più delicata e maggiormente dubbiosa riguardo a se stessa e ai propri sentimenti che, con forza e grande intensità, vengono evocati e di cui, contemporaneamente, pare cercare una conferma nel soggetto della sua poesia.

“L’amore vero, tu lo sai, è volere

la gioia di chi non ci appartiene

è questo uscire, traboccare da se stessi, come sangue dalle vene

per un taglio, è l’irrinunciabile, amore energia mutabile eterno bene.”

Poesie (Mondadori, 2015)

 

Colpisce, oltre alle immagini e al ritmo che ben rappresentanol’intensità del sentimento, l’utilizzo dell’espressione “tu lo sai” contenuta nel primo verso, quasi una richiesta inconscia di non rimanere solo di fronte al travolgimento emotivo e alla bellezza stessa del momento ispirato. È forse questo ciò che rende il poetauna sorta di eterno fanciullo: l’ingenuità del voler condividere ciò che realmente l’altro non può sentire o che non può farlo come un poeta vorrebbe.

Quel ‘tu lo sai’ viene percepito come un baluardo di illusione che combatte la solitudine.

Ingenuità, ricordiamo, tipica soltanto della grande poesia.

 

Un’altra poesia degna di nota è quella intitolata “Il poeta”

 

 

“Non sapevo che cosa è un poeta

Quando guidavo alla guerra i carri

E il cavallo Xanto mi parlava.

Ma è passata come una cometa

L’età ragazza di Ettore e di Achille:

non sono diventato altro che un uomo:

la mia anima si cerca ora nelle acque

e nel fuoco, nelle mille

famiglie dei fiori e degli alberi

negli eroi che io non sono

nei giardini dove tutta la pena

di nascere e morire è così leggera.

Forse il poeta è un uomo che ha in sé

La crudele pietà di ogni primavera.”

 

Anche in questa poesia ritorna il tema dell’uomo e del poeta, dei loro rispettivi dubbi se essere l’uno o l’altro, nel tempo in cui Ettore e Achille furono uomini e, a loro volta, portatori della crudele pietà di ogni primavera.

Vi è in questo testo poetico un tema molto caro a Giuseppe Conte che è quello della giovinezza, riscontrabile anche in altre sue opere, e molto diversa dal fanciullino prima citato. Giovinezza che, come uomo, lo porta a essere promotore della poesia giovanile e impegnato, oggi come allora, sul fronte della cultura e della parola poetica.

Gian Giacomo Della Porta

Mara Martellotta

Filastrocca sul Piemonte

Di Giovanni Mattia


Un giro in Piemonte

Vidi un uomo
e dissi:
“Poirino!”
Lo vidi camminare scappava verso Trino. Le risaie che si fece
in un posto sconsiderato fu così
che andò nel Monferrato. Lì tra balli e feste
e un po’ di vino
gli ricordarono
che il vero Piemonte
non è Torino.
L’anima sta dentro
sotto la sottana
andiamo via
ed eccoti arrivato a Cumiana. Oh, Gabriella
quanto sei bella
ma quanta Strada
vorrei conoscere la Liguria ma no
mi fermo a Ovada.
O vada verso di lì
c’è una splendida Alba annerita dal cioccolato
e se uno è Cocconato
non è detto che stupido sia ma lui reggia reggia
lontano dai guai
si rifugia a Venaria.
Tanti sono i pasti
che durante il tragitto consumò ad Asti
e fu così che fu un po’Mona e po’ calvo.
Mamma che freddo Sir,
Sir Moncalvo.
Di Santi ne nominò tanti
uno di quelli delle zone
San Damiano,
gli disse:
vai ovunque,
ma mai a None
e se vai a Carmagnola
occhio ai taglialegna
e ai tagliagola.

Un sorriso apparve
in un battibaleno
un fungo fresco in mano
ed eccoti a Giaveno.
Ma il finale si sa,
non è prevedibile
e il Poirino finì trascinato
da tramvieri e ferrovieri
che lo lasciano in un tratto di mezzo tra Chieri e Moncalieri.
Non si arrese il babbione
che l’allegria voleva provare
Pensò ad una casa
e vide Casa Martini:
“dopo tanto girovagare
ho trovato la mia Pessione.”

Il caos interiore di Frida Khalo. Mostra alla Cittadella

A Torino, presso il Mastio  è ospitata la mostra dedicata all’ artista messicana diventata di fama mondiale

 

La mostra intitolata “Frida Khalo- Il caos dentro”, ospitata al Mastio della Cittadella di Torino dal 1 ottobre al 26 febbraio prossimo, si concentra su di una figura centrale dell’arte messicana, la pittrice latinoamericana più celebre del Novecento.
Con il marito Diego Rivera, uno tra i più importanti muralisti messicani, ha costituito una delle coppie più significative della storia dell’arte mondiale.
L’esposizione è organizzata in sezioni tematiche, tutte contraddistinte da una particolare scenografia, che rappresentano un viaggio colorato nella caotica esistenza della pittrice messicana. Simbolo dell’avanguardia artistica e culturale grazie alla sua geniale sensibilità e alla sua forza al tempo stesso trasgressiva, Frida Khalo costituisce una delle icone più amate del Novecento.
La sua opera affonda le radici nella tradizione popolare, ma anche nelle esperienze di vita e sofferenze patite, che è stata capace di esprimere con un talento straordinario. Il travaglio esistenziale e il suo caos interiore hanno trovato espressione in una produzione artistica eccezionale, in cui risultano costanti i riferimenti a un Messico che ha conosciuto profonde trasformazioni dal punto di vista sociale, politico e culturale, in grado di condurre alla modernità del ventesimo secolo.
Il percorso espositivo della mostra accompagna il visitatore attraverso una narrazione fatta di film, documentari e lettere che l’hanno vista protagonista.
La mostra ricostruisce perfettamente gli spazi in cui l’artista visse, come il suo studio e la sua camera da letto. Molti i disegni, le pagine di diario e gli oggetti della vita quotidiana, i gioielli e le fotografie scattate all’epoca nella suggestiva Macondo, tanto amata da Gabriel Garcia Marquez, da Leo Matiz, fotografo molto amico di Frida. Presenti nell’esposizione anche alcuni dipinti originali che non sono mai stati esposti prima, quali il “Ritratto di Frida”, disegnato da Rivera nel 1954, o la “Nina de losabanicos”, sempre di Diego Rivera, risalente al 1913.
La mostra dal titolo “Il caos dentro” rappresenta un percorso espositivo di grande impatto sensoriale che riesce a coinvolgere ancora maggiormente il visitatore, facendo uso della multimedialità.

Mara Martellotta

L’esposizione, inaugurata il 1 ottobre 2022, rimarrà aperta fino al 26 febbraio 2023.
Orari dal lunedì al venerdì ore 9.30-20
Sabato e domenica 9.30-21.

Camera subalpina tra storia e diplomazia

E’ recente l’ incontro dei maggiori Ministri degli affari esteri membri del Consiglio d’Europa

Costruita nel 1683 sul progetto di Guarino Guarini, era il salone d’onore al piano nobile del palazzo dei principi di Carignano. 50 giorni dopo la promulgazione dello Statuto Albertino fu riadattata per scopi parlamentari, divenendo sede della Camera, progettata da Carlo Sada. Fu trasformata in un anfiteatro, con i seggi dei deputati messi a semicerchio davanti al banco del presidente e dei segretari. Inaugurata ufficialmente l’8 maggio 1848, permettendo l’acceso anche al pubblico. Successivamente, nel 1860 ci fu un ampliamento, tale lavoro venne affidato all’architetto Peyron, gli fu chiesto di creare un’aula provvisoria nel cortile. L’aula della Camera Ellittica progettata da Peyron fu chiusa, ma non smantellata. Dopo il restauro del 1988, la Camera non è più accessibile, ma solo in occasione della “Giornata dell’Unità Nazionale e della Costituzione” ad un ristretto numero di persone. Ma durante l’incontro conclusivo del semestre di Presidenza italiana, il quale avvenne a Torino il 19 e 20 maggio, giorni in cui il capoluogo pimontese ospitò la riunione dei Ministri degli Affari Esteri dei 46 Stati membri del Consiglio d’Europa. Ai Ministri fu offerta una visita straordinaria nell’aula della Camera dei deputati del Parlamento subalpino. La Camera, inoltre, venne riconosciuta come monumento nazionale dal 1898 e tutelata dall’Unesco dal 1997 come “Patrimonio dell’Umanità”.

L’evento oltre ad aver rappresentato un’occasione per ricordare i valori del Consiglio d’Europa: cooperazione multilaterale, democrazia, diritti fondamentali, stato di diritto, pace. Diede anche l’opportunità per ricordare la lunga tradizione diplomatica di Torino e del Piemonte, nata fin dall’800.

Sofia Scodino

Confini/Sconfinamenti, ovvero un contemporaneo percorso di riflessione

Dall’11 ottobre al 6 novembre ritorna il “Festival delle Colline”

 

Un ritorno in palcoscenico, l’organizzazione di TPE – Teatro Astra, un calendario fitto di impegni dall’11 ottobre al 6 novembre, un panorama costruito attraverso 7 prime, 8 produzioni, 20 spettacoli, 27 giorni e 37 recite: il Festival delle Colline si ripresenta al pubblico torinese e non soltanto, nella sua 27ma edizione. L’appuntamento teatrale – sottolineano le storiche guide, Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla – “prosegue il suo nuovo cammino di festival d’autunno ribadendo il rapporto con la creazione contemporanea anche grazie alla partnership progettuale con la Fondazione Merz, nei cui spazi, durante la settimana di Contemporary Art, avranno luogo gli appuntamenti di teatro performativo.” Come con altrettanta forza i responsabili guidano lo spettatore all’interno del tema generale del Festival che “viene sintetizzato ancora da ‘confini/sconfinamenti’, ovvero da un percorso di riflessione che accompagna al superamento dei molti steccati posti tra i linguaggi artistico-espressivi e che ipotizza un affrancamento – per spettacoli e performance, ove possibile – dai luoghi che tradizionalmente li ospitano. Si tratta di un tema a più declinazioni se si pensa anche agli sconfinamenti generati dalle guerre, di drammatica attualità, dalle migrazioni di ogni genere; senza dimenticare le diaspore di artisti minacciati e perseguitati.”

L’inaugurazione (al teatro Astra, 11 ottobre, replica il 12) è affidata a “Una imagen interior” con la Compagnia El Conde de Torrefiel, un ritorno al festival del gruppo spagnolo che coniuga teatro e arte dalle pitture rupestri all’action painting di Pollock, il tentativo di portare in primo piano la propria personale immaginazione nel tentativo di contrastare la padronanza della parola. Una scommessa è lo spettacolo ideato e raccontato attraverso i linguaggi del digitale dalla regista Irene Dionisio e dalla drammaturga Francesca Puopolo, “Queer Picture Show”, interprete Giovanni Anzaldo recente Premio Ubu, tracciando un percorso cinematografico che va da Gus Van Sant a Todd Haynes, da Derek Jarman a Bruce LaBruce (Off Topic, 13/15 ottobre); al Teatro BellArte, il 15 e il 16 ottobre, “Funerale all’italiana”, un monologo di Benedetta Parisi (in scena) e Alice Senigaglia (regista) che tra passato e futuro ci parla di famiglia e di tradizione, di quelli che sono stati e di discendenze; all’Astra, con il teatro della Tosse, la serata del 18, il copione più censurato di Fassbinder, scritto nel 1975 e rappresentato soltanto nel 2009, “I rifiuti, la città e la morte”, ovvero le ferite aperte della guerra e del dopoguerra, dal nazismo all’antisemitismo, dalla corruzione capitalistica alla violenza metropolitana.

Ancora, tra le altre proposte, la danza di Virgilio Sieni con una nuova creazione condivisa e proposta con un danzatore non vedente (“Danza cieca”, 20 e 21), “Manfred” tra le parole di Byron e la musica di Schumann (Fondazione Merz, 28/29), “The dancing public” nei giorni 28 e 29, al teatro Astra, che è un invito a tutti gli spettatori da parte della coreografa e danzatrice danese Mette Ingvartsen a godere del ballo, “un concerto di parole e una manifestazione di follia fisica fino allo sfinimento.” Tra il 30 ottobre e il 6 novembre una trilogia dedicata ai Motus e suddivisa tra gli spazi dell’Astra e della Fondazione Merz.

 

e.rb.

 

 

Nelle immagini, scene tratte da “Una imagen interior”, “Danza cieca” e “”The dancing public”

Le visionarie “psichedeliche” realtà di Gianluca Capozzi

“Il giardino reciso / The severed garden”

In mostra alla “galleria metroquadro” di Torino

Fino al 12 novembre

Se si dovesse accompagnare la personale di  Gianluca Capozzi  – allestita alla torinese “metroquadro” di Marco Sassone, fino al 12 novembre –  con una specifica colonna sonora capace di interpretare ad hoc le immaginifiche realtà narrate e poste in parete dall’artista avellinese, penso si potrebbe scegliere qualche pagina (fra le più famose, misteriche e mistiche e sensuali) del “rock psichedelico” di Jim Morrison, “profeta della libertà” per antonomasia, fra le figure “di maggior potere seduttivo” nella storia della musica e una delle massime icone, nel mondo dello spettacolo, dell’inquietudine giovanile. Perché questa mia affermazione? Per due ragioni.

La prima è che lo stesso Capozzi ci porta su questa strada, fin da subito e volutamente (ritengo) attraverso il titolo della stessa rassegna, quel “The severed garden” letteralmente “rubato” al titolo di una tarda poesia del cantautore e “poeta maledetto” di Melbourne, suo “addio annunciato”  a una vita quotidianamente e brutalmente sfidata e che tristemente si spegnerà il 3 luglio del 1971 a Parigi, quando Jim aveva solo 27 anni. “Sai quanto pallida e sfrenatamente eccitante  – scriveva Jim Morrison – viene la morte a una strana ora / inattesa, imprevista / come uno spaventoso ospite più che amichevole che ti / sei portato a letto”: parole dure, profetiche. Fortemente visionarie.

Scritte in una sorta di nirvana psichedelico in cui s’agitano forme, memorie, pensieri, squarci di vita srotolati in una discesa senza fine e senz’ombre di paura. Un intreccio di emozioni, parvenze tattili o impalpabili apparentemente fra loro inconciliabili, che abitano anche i lavori di Capozzi. E questa è allora la seconda ragione. Anche se indubbiamente s’ha da credere ad Andris Brinkmanis (critico d’arte di origine lettone) curatore della mostra, quando asserisce che “se per Morrison il giardino con i fiori recisi era quello simile a un cimitero, per Capozzi forse significa esattamente l’opposto, poiché resta pregno di una possibile rifioritura. Anche se attualmente reciso seguendo i canoni estetici, sociali e politici dominanti, questo Giardino può rifiorire selvaggiamente, appena lasciato intatto o incondizionato per un certo periodo di tempo”.

Sono d’accordo. Ma, sia chiaro, non è facile entrare e appropriarsi degli stranissimi universi dell’artista di Avellino. Puoi trovarci di tutto. Girotondi di figure libere e in pieno volo circondate – in una sorta di decomposizione del reale – da “coriandoli” o informi pianeti di colore,  stanze (quasi sempre la stessa) dove al soffitto o appese a testa in giù sbucano sagome figurali – fantasmi, memorie, un lontano passato? – entrate a curiosare chissà chi chissà da dove, forse la giovane “addivanata” con il telefono alla mano sinistra e la sigaretta alla destra o ancora, in un sussulto di piena astrazione, girandole di colore, gialli, bianchi, verdi o turchesi o grigi, come frammenti meteoritici inarrestabili nel loro confuso orbitare. “L’arte – afferma lo stesso Capozzi – è la possibilità di rendere visibile agli occhi tutto quello che non è visibile”. Affermazione che uno come lui può tranquillamente permettersi di fare, senza destare sospetti. Dietro a queste sue personalissime opere, ci sta infatti un mestiere indubitabile. Inizialmente artista iper-iper-realista, Capozzi è sempre, ancora oggi, grande maestro di segno e colore. I colori lo esaltano, diventano grumo e materia capace di dare corpo ed espressionistico spessore al racconto. Tanto più a un racconto di straordinaria spaesante surreale e onirica visionarietà. E allora puoi permettergli di tutto. “Luce e colore– dice –sono l’anima dell’arte e della vita”. Sono strumenti di pura magia nelle mani, negli occhi e nel cuore di un artista che, negli ultimi anni, è anche particolarmente attratto – ricorda ancora il curatore della mostra, Brinkmanis – da temi e teorie di singolare impronta filosofica: dalla psichedelia, al pensiero magico sudamericano e a quello orientale. “Lo sgretolarsi della percezione del reale, che vediamo in alcune opere esposte – afferma Brinkmanis –  deriva quindi non soltanto dalle sue riflessioni teoriche, ma anche da stati di coscienza espansa attraverso profonda meditazione e altre pratiche, seguendo le quali è possibile accedere a più sottili piani della realtà, per vedere come la nostra vita quotidiana in fondo non è altro che una sorta di teatro d’ombre cinesi”.

Gianni Milani

“Il giardino reciso / The severed garden”

Galleria “metro quadro”, corso San Maurizio 73/F, Torino; tel. 328/4820897 o www.metroquadroarte.com

Fino al 12 novembre

Orari: dal giov. al sab. ore 16/19

Nelle foto:

–       “Sky”, acrilici su lino, 2021

–       “Interior”, acrilici su lino, 2021

–       “Untitled”, acrily on canvas, 2021

–       “Mushroom”

Joan Mirò in mostra a Cherasco

A Palazzo Salmatoris a Cherasco sono in mostra quaranta opere di Joan Mirò che dialogano con opere di artisti a lui contemporanei

 

Joan Mirò approda a Cherasco a Palazzo Salmatoris a partire dal 15 ottobre fino al 22 gennaio prossimo, nella personale dal titolo “Joan Mirò. Genius loci. L’alfabeto del segno e della materia”.

“Joan Mirò, genio e maestrie catalane. La sua terra, matrice, punto di partenza e di ritorno continuo, baricentro spirituale della sua originalissima ricerca –  spiega Cinzia Tesio, nella presentazione della mostra di cui è curatrice insieme a Riccardo Gattolin.

Palazzo Salmatoris, grazie all’impegno delle amministrazioni comunali, ha, da sempre, rivolto un’attenzione particolare all’arte moderna e contemporanea, promuovendo esposizioni delle opere di Massimo Campigli, Ligabue, Lucio Fontana e Picasso.

Le opere ora in mostra del maestro catalano, circa una quarantina, dialogano con i suoi contemporanei Dalí  De Chirico, Capogrossi, Mathieu, Matta, Hans Hartung, Burri, Fontana, Vedova e Scarpitta. Questo accostamento consente di tratteggiare un panorama della ricerca artistica molto variegato. Ciascun artista, infatti, presenta una propria cifra stilistica e un segno unico.

L’esposizione unisce sale dedicate alla presentazione cronologica dei vari movimenti, dal surrealismo e espressionismo, fino all’arte trasgressiva, e sale monotematiche.

Sono anche esposte opere di grafica, una forma di espressione che Mirò riteneva molto originale, come dimostra il ciclo “Ubu roi”.

“La mostra su Mirò propone, nella sua costruzione – precisa Cinzia Tesio – una chiave di lettura particolare e interessante, proprio come avvenuto nelle esposizioni precedenti dedicate a Fontana e Picasso. Desideriamo incuriosire lo spettatore con un alto grado di confronto dialettico tra le opere del maestro catalano e quelle di artisti con i quali ha collaborato e si è confrontato nella sua lunga vita artistica”.

Questa esposizione parla di sogno, libertà e presenta un respiro profondamente internazionale. Costituisce la conferma della volontà da parte del Comune di Cherasco di proseguire un percorso, intrapreso da anni, di ricerca e proposta di mostre di alto livello.

Il celebre poeta e scrittore francese Raymond Queneau, nel saggio scritto nel 1949 dal titolo “Joan Mirò  ou le poete prehistorique”,coniò un nuovo termine, “miroglifico”, per riferirsi  alle opere dell’artista catalano, nato a Barcellona a fine Ottocento e spentosi a Palma di Maiorca nel 1983.

Nella produzione di Mirò, secondo Queneau, ricorrevano segni e elementi costanti, tanto da affermare che Mirò “fosse una lingua che bisogna imparare a leggere e di cui è possibile fabbricare un dizionario”. I miroglifici, quali caratteri di una scrittura ideografica, avevano la possibilità di essere associati a idee o oggetti, traducibili attraverso un alfabeto o un dizionario di riferimento.

Queneau, in realtà, ignorava l’esistenza di un ampio repertorio di disegni che l’artista consegnò alla Fundació di Barcellona, da lui stesso creata. Si tratta di cinquemila schizzi, prove frammentarie, bozzetti di approfondimento, studi e bozzetti preparatori di opere in cui ha espresso una scrittura enunciativa.

Avvicinatosi al movimento surrealista a partire dal 1924, anno del Primo manifesto del Surrealismo, Mirò risentì anche dell’automatismo, rendendo la sua arte libera e spontanea. La libertà psichica creativa, che faceva dire a André Breton che la personalità dell’artista si fosse fermata allo stadio infantile, rappresenta il carattere primario del surrealismo. Le sue forme rimandano alla bizzarria e all’innocenza, a mondi e personaggi che appartengono a un universo costante, immerso nella grazia e nell’armonia.

Il mondo di Mirò può essere considerato ai limiti della magia. L’osservatore, davanti ai suoi quadri, si catapulta in scene fantasiose, venendo a passeggiare all’interno delle scene raffigurate. Il mondo raffigurato da Mirò è colorato e i vari toni brillanti, dai gialli ai blu, dai verdi ai rossi, con la presenza anche di bianco e nero, sono in grado di creare composizioni armoniose e geometriche. Nei suoi  quadri si riconoscono rombi, quadrati, cerchi, capaci di trasformarsi in parti del corpo umano, in animali, elementi naturali oppure oggetti. La sua capacità creativa si esprime attraverso un alfabeto giocoso e in una “pittura-scrittura” mai negativa.

La rassegna ha ricevuto il prestigioso Patrocinio del Ministero della Cultura e del Ministero della Cultura Spagnola presso l’Ambasciata di Spagna.

La mostra, che inaugura il prossimo 15 ottobre a Cherasco, è ospitata nella splendida cornice di Palazzo Salmatoris e sarà visitabile fino al 22 gennaio prossimo.

MARA MARTELLOTTA

 

 

Orari

Da mercoledì a sabato ore 9.30- 12.30; 14.30-18.30

Festivi ore 9.30/19

Ufficio Turistico-Cherasco Eventi

Tel 0172.427050

Mail info@chaerascosalmatoris.it

4 Artists 2022

Inaugurata il 9 ottobre nel Salone Marescalchi del Castello di Casale Monferrato, proseguirà fino al 30 ottobre la bella mostra di quattro interessanti artisti.

Ad Antonio Barbato, Pio Carlo Barola e Gianpaolo Cavalli legati da un lungo percorso contrassegnato da sincera amicizia e solidale condivisione di intenti, iniziato negli anni 80 con la creazione del “Gruppo Arte Casale”, si è aggiunta Roberta Omodei Zorini, poliedrica pittrice, scultrice, disegnatrice di gioielli che si avvale di suggestivi rimandi al Liberty, al Surrealismo e alla Pop Art attraverso composizione in resina polimerica e plexigas.

Antonio Barbato con le sue essenziali e raffinatissime scritture figurate, frutto di una libera appropriazione di moduli segnici, sollecitazioni alchemiche visionarie e simboli primordiali di estrema purezza, annulla la distinzione tra figurativo e astrazione in un percorso sottilmente intellettuale da cui traspare il prestigioso trascorso di paleografo e archivista.

Le opere di Pio Carlo Barola, instancabile organizzatore della biennale internazionale “Grafica ed ex libris” insieme a Cavalli e Barbato, sono di forte impatto visivo grazie al prorompente colorismo e alle pennellate svettanti come lingue infuocate che danno forma ad un gioco tra il serio e l’ironico dove si intrecciano allegorie di facile comprensione e simbolismi più oscuri ed enigmatici.

Sognanti e delicati i ritratti femminili di Gianpaolo Cavalli che si innalzano ad una sfera superiore al di sopra della realtà contingente mentre il silente autoritratto ci introduce nel profondo della sua anima rivelandone l’indole meditativa.

Molto indicativa la similitudine di Carlo Pesce, curatore della mostra, riguardo ai tre pittori casalesi paragonati per il loro programma artistico “ …Ad un trifoglio dal gambo unico e tre foglioline separate che corrispondono ai singoli linguaggi…”

Giuliana Romano Bussola

Orari feriali   16-19

Orari festivi  10-12,30  16-19

Chiusura lunedì.

Alla ricerca di una verità irraggiungibile

Sugli schermi “La notte del 12” di Dominik Moll

Pianeta Cinema a cura di Elio Rabbione

Grande il numero degli omicidi commessi su suolo francese, il venti per cento circa rimane insoluto, diventano ossessioni per il commissario che se ne occupa. “La notte del 12” – basato sul libro inchiesta firmato da Pauline Guéna, “18.3 Une année à la PJ” – è la trascrizione cinematografica di uno di quei delitti, di una storia vera, la soppressione brutale di Clara dopo una serata felice con le amiche, il ritorno a casa, i sorrisi e la gioia di vivere, l’ultimo messaggio, la libertà a tratti senza freni di una ragazza di ventun anni, l’incontro con il proprio assassino: un accendino che scatta ed è buttato su di lei, orrendamente devastata, tremendamente sfigurata. Una notte nel panorama di Grénoble, nel chiuso delle sue montagne, come nel chiuso della piccola comunità.

Il giovane capitano della Polizia Giudiziaria Yohan (un Bastien Bouillon pieno di scatti d’ira e di arrendevolezza, il suo senso di inadeguatezza, nella costruzione perfetta del personaggio), di fresca nomina, si butta nell’inchiesta, mentre in un allegro spirito di virile cameratismo, tra verbali e fotocopiatrici che non funzionano, i suoi colleghi scivolano in battute e atteggiamenti tutti al maschile, le tante tracce che portano ai fermati – drogati, solitari, piccoli delinquenti, disadattati, violenti e gelosi capaci soltanto a sfogarsi a suon di botte – tratteggiano un allarmante quadro dell’universo maschile. Una traccia, un particolare, un interrogatorio che scava più nel profondo, un momento di fortuna che sembra definitivamente buttar giù una porta da sempre sbarrata, un indizio che subito si sbriciola, Yohan s’imbatte contro voglia in una umanità da raccapriccio, l’unica boccata d’aria la trova in quei tanti giri su bicicletta che riempiono le sue serate sotto le luci del velodromo. L’inchiesta certo, ma attorno – o a ben vedere, al centro – c’è quell’aria di sospetto e di inquisizione nei confronti della vittima, Clara che è dagli occhi maschili inquisita, sezionata, ricordata in ogni sua debolezza, il collega Marceau, burbero e irascibile (un grandioso Bouli Lanners) che intravede in quell’incessante cercare una propria rivalsa nei confronti della moglie che ha trovato in un altro uomo la felicità che lui non è stato capace di darle, Clara che aveva una certa dimestichezza con i ragazzi e quindi un po’ se la è cercata…, la sua vita passata al setaccio, gli incontri per brevi passioni o per noia, le libertà di una sera, senza inibizioni.

Il regista Dominik Moll ha approntato una eccellente sceneggiatura, dove ogni parola e ogni frase hanno un peso sempre calibrato e non indifferente, dove il quadro si fa completo con i dolori matrimoniali del vecchio poliziotto, con la rassegnazione di qualcuno, con le aspirazioni e con il desiderio di matrimonio che spensieratamente s’impadroniscono di altri, e con l’apporto di attori e di facce quanto mai reali e veri, autentici, lontane anni luce da quei poliziotti che pieni di luoghi comuni, “da cinema”, vediamo spesso sullo schermo, stringe una regia che mette a fuoco in tutta la propria tensione il lungo percorso dell’inchiesta, gli insuccessi, la spinta che vorrebbe dare la nuova giudice, la resa. La rinuncia ad una risposta che chiuda definitivamente il caso. Restano soltanto i genitori della ragazza, a portare un lumino acceso sul luogo del delitto, mentre tutt’intorno è il buio della notte a farla da padrone e i gatti continuano a correre per le strade di Grénoble. Un film da vedere, da consigliare, da amare.

L’isola del libro

Rubrica settimanale di Laura Goria

Marie Hélène Lafon “Storia del figlio” -Fazi Editore- euro 17,00
E’ la prima volta che uno dei romanzi di questa prolifica professoressa di lettere classiche a Parigi viene tradotto in italiano. Ha scritto una dozzina di romanzi e questo è forse il suo libro più importante, best seller in Francia.
12 capitoli sparsi senza un ordine cronologico (che spetta al lettore ricomporre) in cui racconta le vicende di due famiglie nell’arco di cinque generazioni. Una saga familiare lungo tutto il 900, dal 1908 al 2008, ed un rompicapo intorno alle origini di Andrè; figlio di padre sconosciuto e di “una madre a doppio fondo”.
La genitrice biologica è l’inafferrabile Gabrielle, che per lui è semplicemente “mia madre”; misteriosa signora “fuggitiva” che ha scelto di vivere a Parigi senza il figlio e si presenta solo per brevi vacanze.
L’ha affidato alla sorella Helene e a suo marito Léon che l’hanno cresciuto come fosse figlio loro. La zia è “mamma”, ed è con la coppia degli zii -che diventano la sua famiglia- che cresce a Figeac.

Andrè è bello, coraggioso, affidabile e solido; unico maschio cresciuto coccolatissimo in mezzo alle cugine.
Diventa partigiano, poi marito e padre ammirevole; ma per quanto faccia, resta sempre il figlio di un padre introvabile.
Nell’arco di 12 capitoli seguiamo le tappe della vita di André; il matrimonio con Juliette, alla quale toccherà fargli la rivelazione taciuta da sempre in famiglia.
E sarà il loro figlio Antoine Léoty che nel 2008 ritroviamo al cospetto della tomba del piccolo Armand Lachalme morto un secolo prima.

Il romanzo collega le due famiglie: i Lachalme di Chanterelle e i Léoty di Figeac, nel cuore della Francia. Le loro genealogie si intersecano quando nel 1924 nasce André dalla relazione clandestina ed impossibile tra il 21enne Paul e la 36enne Gabrielle.
Lui è un giovane assetato di vita e si porta dentro il dramma del fratello gemello Armand morto a 5 anni.
Questa saga familiare scava con sensibilità nei misteri dei suoi personaggi e nei complessi rapporti tra loro.

 

Melissa Da Costa “Tutto il blu del cielo” -Rizzoli- euro 19,50
Ha fatto di nuovo centro la scrittrice 31enne con il suo secondo romanzo (dopo il successo di “I quaderni botanici di Madame Lucie” dell’anno scorso) che l’ha riconfermata nella classifica dei 10 autori best seller in Francia.
Nessuna paura di fronte alle 622 pagine che si divorano, perché Melissa Da Costa è abilissima nel costruire una scorrevole narrazione intorno al cuore della storia in cui malattia, amore, avventura e morte sono miscelate magistralmente.
Protagonista è il 26enne Emile condannato da una malattia crudele, appena diagnosticata da un medico il cui verdetto mette una pietra tombale sul futuro del paziente. E’ affetto da un male che non perdona, una rara forma di Alzheimer precoce; incurabile e spietato che annullerà dapprima le sue facoltà mentali e poi il corpo. Emile rifiuta il ricovero e le cure sperimentali, convinto di non voler passare l’ultima tranche di vita confinato in una clinica a fare da cavia.
L’incipit è fulminante; Emile pubblica un annuncio in cui dichiara la sua malattia e che «…desidera partire per un ultimo viaggio. Cerca un/una compagno/a d’avventura per condividere quest’ultima esperienza. Itinerario da definire….Durata del viaggio 2 anni al massimo..».
Si allontana da tutto: famiglia, lavoro, un amore finito male. Sceglie la libertà di trascorre il poco tempo che gli resta on the road, a bordo di un piccolo camper, senza una meta precisa, ma semplicemente realizzando il sogno di visitare i Pirenei. Via dalla città, senza telefono e contatti con le persone che lo amano, alle quali intende risparmiare il suo deperimento e la sua agonia.
Più lontano resta dalla famiglia che vorrebbe farlo ricoverare, più ha la possibilità di scegliere come finire i suoi giorni sulla terra. Forse l’ideale sarebbe stato partire con il suo migliore amico, che però è appena diventato padre.
Invece al suo annuncio risponde una giovane donna. E’ Joanna che ha qualche anno più di lui e vive in un’altra città.
Emile inforca il volante del suo camper e parte per far salire a bordo la ragazza. Il meeting è in una stazione di servizio dove lo attende la donna paludata di nero con zaino in spalla e poca voglia di parlare.
Inizia così il tour che li porterà attraverso boschi, corsi d’acqua e sentieri dei Pirenei e alla scoperta dell’Occitania. Due anime ferite che all’inizio interagiscono quasi in silenzio, ma a poco a poco imparano ad aprirsi.

Non resta che lasciarsi condurre da questa sensibile scrittrice nell’avventura che assumerà sempre più spessore.
Scoprirete un affascinante e coinvolgente caleidoscopio in cui si avvicendano emozioni, pensieri, scoperte, sentimenti profondissimi e dolori del passato che si stemperano man mano che Emile e Joanna si conoscono, si avvicinano e……vi sorprenderete man mano che la magia della storia corre verso l’epilogo.

 

Maylis de Kerangal “Canoe” -Feltrinelli- euro 16,00
Possiamo considerare questo ultimo libro della scrittrice francese come una sorta di romanzo, ma diviso in 8 capitoli-racconti. Al centro c’è “Mustang” e intorno il corollario di 7 atti, tutti collegati tra loro, e in ognuno compare una canoa. L’imbarcazione assume il valore di una metafora che ha a che vedere con la complessità del vivere; che sia rappresentata da un ciondolo-amuleto o dal solcare le placide acque di un fiume, o figurativamente come la scia della cometa di Halley comparsa nel 1986.
Protagoniste delle 8 storie sono sempre donne; di ogni età, con caratteri diversissimi tra loro, vite a varie latitudini e contesti sociali. Ad accomunarle c’è la canoa che rimanda allo scorrere liquido dell’acqua, all’attraversamento o alla direzione di un viaggio.
E sono diverse le esperienze qui raccontate; dalla giovane che deve affrontare l’esame di maturità e fare uno scatto per passare all’età adulta, alla paziente allungata sulla poltrona del dentista, per arrivare alla missione di una scienziata che si occupa di fenomeni aerospaziali non identificati.
La protagonista del racconto centrale e più lungo, “Mustang”, sta affrontando un ribaltamento di vita; raggiunge il marito ricercatore universitario in una sperduta cittadina del Colorado. Di nuovo una sorta di smarrimento esistenziale con la fatica di doversi adattare a una nuova realtà, con le sue usanze e differenze, la percezione dell’improvviso cambiamento nella voce del marito e il vuoto che si crea nella coppia spiegato dalla difficile elaborazione di un gravissimo lutto.
E tra le storie più struggenti, quella in cui una figlia cerca di convincere il padre vedovo a smettere di risentire all’infinito il messaggio che la madre aveva registrato sulla segreteria telefonica.
Dopo più di 6 mesi dalla sua morte, la voce le sopravvive con tutto lo strazio che comporta udirla sapendo che nulla potrà mai riportarla in vita.
La voce che forse è la cosa più evocativa di una persona e diventa struggente quando quell’affetto ci è stato strappato dalla morte. Voce che acutizza, e in parte contemporaneamente lenisce, il baratro della perdita, e diventa l’appiglio al quale si aggrappa il padre.

Collen Hoover “It ends with us” -Sperling&Kupfer- euro 15,90
Questa scrittrice, che vive in Texas con marito e 3 figli, è una delle più apprezzate autrici di romance, e i suoi libri svettano sempre in cima alle classifiche del “New York Times”.
In queste pagine trascina il lettore nel vortice di violenza e amore, amore e perdono, debolezza e forza, rapporti tra madre e figlia, in un romanzo che va oltre la storia d’amore. In modo leggero e scorrevole tratta lo spinoso argomento della violenza in famiglia e le sue derive.

Siamo a Boston e Lily Bloom ha appena partecipato al funerale del padre, uomo detestato perché ha rovinato la sua vita e quella della madre.
La donna infatti è sempre stata vittima del marito manesco e violento, obnubilato dall’alcol. Per la figlia era impossibile fermare il padre quando l’ira gli faceva perdere il lume della ragione e si avventava sulla povera moglie; che però si è sempre rifiutata di lasciare il suo aguzzino, reiterando il pericoloso meccanismo di perdono e giustificazioni.

Il romanzo racconta come anche Lily scivola, a sua volta, in una relazione tossica.
Lui è Ryle Kincaid, affascinante neurochirurgo totalmente concentrato solo su stesso e la sua carriera, narcisista incapace di amare una donna. Ma l’attrazione tra i due è forte e Lily finisce per invischiarsi in un rapporto quasi fotocopia di quello genitoriale che le ha segnato l’anima e la crescita.

Ormai sa riconoscere la violenza in una coppia, eppure neanche lei riesce a liberarsi dal compagno che la sta massacrando. Proprio come sua madre è sempre pronta a perdonare e ricominciare a subire.
La Hoover, con una scrittura leggera e scorrevole, affronta un tema pesante come il legame di dipendenza emotiva che può instaurarsi tra un uomo che calpesta la sua donna in ogni modo possibile. Una sorta di commedia romantica che pone una domanda su tutte: «amare significa anche perdonare a qualsiasi costo chi ci sta distruggendo la vita?».