CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 3

Alla Galleria del Ponte, una importante mostra sino al 29 novembre

C’è una foto dell’autore di “Cristo si è fermato a Eboli” – ricordate? il romanzo tradotto in cinema, nel ’79 da Francesco Rosi, con un grande Volontè e una Irene Papas, dal volto scavato, arcaica nelle proprie superstizioni – nel bel catalogo a corredo della mostra “Carlo Levi. Il coraggio della pittura”, curata da Pino Mantovani, alla Galleria del Ponte di corso Moncalieri 3, sino al 29 novembre prossimo. È ritratto negli spazi della villa Strohl Fern di Roma, anni Settanta, lo scrittore e pittore è seduto ad un tavolo, posato sopra un piccolo cesto intrecciato a contenere frutti, lui le braccia incrociate e il sigaro tra le dita, un vistoso orologio al polso, alle spalle il ritratto della “Madre”, un olio datato 1930 che oggi vediamo in mostra: il viso è composto alla serenità, un leggero sorriso sulle labbra, uno sguardo di affettuosa partecipazione con lo spettatore. Mutato del tutto il ritratto dell’uomo, all’epoca poco più che cinquantenne, appagato, felice della sua nuova relazione con Linuccia Saba, unica figlia dell’autore di “Ernesto” e del “Canzoniere”, sereno e lontano da quel Sud – ma se lo sarebbe portato nel cuore per tutta la vita – in cui era arrivato (delatore Pitigrilli), ad Aliano per l’esattezza, che nel romanzo sarebbe divenuta Gagliano (“sono arrivato a Gagliano un pomeriggio d’agosto, portato in una piccola automobile sgangherata”), perché colpevole di sospetta attività antifascista. Era il marzo del 1934. In precedenza, dopo aver terminato gli studi secondari presso il liceo Alfieri, s’era iscritto alla facoltà di medicina (ma, laureato, non avrebbe mai esercitato), aveva frequentato lo zio Claudio Treves, figura di spicco del Partito Socialista Italiano, e Piero Gobetti, che per primo lo avrebbe indirizzato lungo quel sentiero quando gli affidò un articolo, il primo nelle colonne della “Rivoluzione liberale”, che aveva proprio come tema la questione meridionale.

Un’esperienza pittorica (e letteraria, indissolubili e necessarie l’una all’altra) che s’estende tra la metà degli anni Venti sino al secondo dopoguerra, un cammino – importante – che è toccato a Stefano e Stefania Testa ripercorrere, privatamente, “rendendosi conto” della scadenza del cinquantenario della morte dell’artista: mentre tutto nella sua città natale sembra scorrere in silenzio prima che l’anno termini. “Una galleria non è un museo. Le sue possibilità di scelta sono limitate, ma una galleria che ha lavorato seriamente negli anni ha avuto modo di trattare materiali di pregio, che potrà esporre quando serva dimostrare il valore di un impegno continuativo e coerente: attingendo al proprio magazzino, recuperando ciò che è transitato sulle sue pareti, meritando prestiti da rari collezionisti”, mugugna il curatore e gli assennati proprietari con lui.

Era nato a Torino all’inizio del secolo, Levi, nel 1902. Artisticamente, introdotto alla scuola di Felice Casorati, dopo un soggiorno parigino nel ’23 speso a conoscere i Fauves e Modigliani, “scopre” tre anni dopo il desiderio di immergersi nell’esperienza del ritratto, con oli su cartone o tavola, dando vita a quelli del fratello (colto nella lettura di un libro, ad esempio, un’intimità offerta con rara sicurezza), o del padre con il suo sigaro in bocca, il collettino bianco inamidato e le dita della destra infilate tra i bottoni del panciotto (“nell’economia dell’esperienza espressiva di Carlo Levi, ai linguaggi della figura, in particolare alla pittura, tocca di presentare il versante lirico e poetico dell’immagine”, citando ancora Mantovani), forse il più suggestivo, nella sua incompiutezza, nel suo abbozzo per tratti verdognoli, a decifrare le linee maggiori di un “Flautista”, in non meglio imprecisati anni ’20. Intanto, l’esperienza dei Sei di Torino, dietro le spinte di Lionello Venturi e di Edoardo Persico, sotto lo sguardo protettivo di Riccardo Gualino, anche lui inviso al regime, Levi il più politicizzato e alla ricerca di quella libertà che la retorica ufficiale e il conformismo e l’avanguardia del Futurismo non potevano dargli, la loro prima esposizione alla galleria Guglielmi di Torino nel gennaio del ’29. Poi gli anni Trenta, con quei paesaggi che guardano all’impressionismo (“Il monte dei Cappuccini”, 1929) o hanno appena costruito visioni più nitide (basterebbe la cattura delle luci e delle ombre del “Cortile interno con bambini”, 1927, assolato e gioioso) o quel successivo “Paesaggio con i due carrubi” del ’33 che più strizza l’occhio al mondo di Matisse.

La bellezza dei ritratti della madre, ancora all’inizio dei Trenta, che hanno oltrepassato la lezione casoratiana, scolpiti contro quei fondali grigiastri o definitivamente scuri, o la ricchezza dell’amato Renoir in un “Nudo di donna” o in quello “Sdraiato” che della donna analizza la povertà delle forme in un sconfortato realismo, esempio alto, con la “Donna” del ’49, di quella “urgenza di svelamento del ‘vero’” di cui ancora scrive Mantovani nella sua illuminante presentazione. Poi, siamo nel decennio successivo, i ritratti che colgono la cerchia familiare e degli amici e degli affetti (per tutti, quello che raccoglie il quartetto composto da “Paola Olivetti, Leoni, Carlo Emilio Gadda e sconosciuto”, realizzati in uno sguardo lineare quanto complice, le espressioni dell’attimo profondamente colte. Nei ricordi della sua Lucania, di quegli anni d’esilio, dei paesaggi e dei volti, l’opera di Levi si potrebbe dire che diventi ancor più coinvolgente, le concrete spatolate, i grumi di colore che diventano quasi una scultura, i frutti e gli alberi che prepotentemente occupano la tela. “Qui nascono”, del ’54, è il capolavoro che attende il visitatore a metà strada, un’immagine di miseria, “l’innesto rivoluzionario della poesia e della politica”, una “sacra rappresentazione” chiusa nella sua denuncia laica, un gruppo di donne e di uomini, un pugno di bambini che a tratti hanno l’odore della morte, gli occhi infossati, quasi scheletri assenti, alle loro spalle un paesaggio brullo che non offrirà mai nulla. Sono immagini di una realtà toccata con mano, il ricordo che l’uomo si porta appresso, sono i visi incontrati giorno dopo giorno per le strade del paese. Un mesto panorama, un’epicità dettata dal coraggio, un futuro che forse non esisterà mai o che vedrà un cammino ancora doloroso, laddove “gli intellettuali (sono) convocati a prendere atto finalmente di una incresciosa situazione, i contadini tra i quali la coscienza di una condizione insostenibile sembra faticosamente farsi strada.” La vita, forse a fatica, pare risorgere nel vivo dei colori e dei fiori che nascondono una coppia d’amanti, o nelle nature morte composte dei tanti prodotti o persino nelle nodosità di quegli alberi che riempiono da sempre una natura selvaggia.

Nelle immagini: Carlo Levi, “Qui nascono”, 1954, olio su tela, 97 x 146,5 cm; “Ritratto del padre col sigaro”, 1926, olio su cartone, 49,5 x 34,5 cm; “Flautista”, anni ’20, olio su tela, 92 x 70 cm.

Al Concordia il genio surreale di Alessandro Bergonzoni

Sabato 25 ottobre, ore 21

Arrivano i Dunque (Avannotti, sole Blu e la storia della giovane Saracinesca)

 

 

Il genio surreale di Alessandro Bergonzoni torna al Teatro Concordia con il nuovo allestimento di Arrivano i dunque (Avannotti, sole Blu e la storia della giovane Saracinesca) e la sua “crealtà” che esplicita, in un pensiero che si fa neologismo, la vera tensione morale di questo artista unico.

 

Un’asta dei pensieri dove cerco il miglior (s)offerente per mettere all’incanto il verso delle cose: magari d’uccello o di poeta”.

Un luogo scenico, multifunzionale, dove proseguire la sua ricerca artistica nei territori che in questi anni lo hanno visto partecipare attivamente in prima persona ad avvenimenti sia artistici che sociali applicando fattivamente la “…congiungivite dove varco il fraintendere, fino all’unità dismisura, tra arte e sorte, fiamminghi e piromani, van Gogh e Bangkok, bene e Mahler, sangue fuori mano e stigmate, stigmate e astigmatici, Dalì fino Allah”. Quindi “Arrivano i Dunque” perchè i tempi sono colmi e come si chiede Bergonzoni “Manca poco? Tanto é inutile? Non per niente tutto chiede!”.

 

ALESSANDRO BERGONZONI, BIO

Nasce a Bologna nel 1958. Artista, attore, autore. Quindici spettacoli teatrali al suo attivo e sei libri. Nel cinema: Pinocchio (2001) di Roberto Benigni e Quijotet (2006) di Mimmo Paladino. Da anni scrive Aprimi Cielo sul Venerdì di Repubblica e Il pensato del giorno su Robinson, dal 2005 si avvicina al mondo dell’arte esponendo in varie gallerie e musei. Unisce al suo percorso artistico un interesse profondo per temi sociali quali la carcerazione, l’immigrazione, la malattia e la pace tenendo su questi argomenti incontri in vari ambiti. Ha vinto il Premio della Critica 2004/2005, il Premio Hystrio nel 2008 e il Premio UBU nel 2009. Dal 2015 ha presentato in varie pinacoteche nazionali l’installazione performativa Tutela dei beni: corpi del (C)reato ad arte (il valore di un’opera, in persona). Nel 2020 per Garzanti esce Aprimi cielo, dieci anni di raccoglimento articolato. Nel 2022 gli viene assegnata la Coppa Volponi per il lavoro letterario, il Premio Nazionale Cultura della Pace-Città di Sansepolcro e, nel 2023, il Premio Montale Fuori di Casa. Nel 2024 oltre al debutto di Arrivano i Dunque inaugura al Mudima di Milano l’installazione Vite Sospese con Bill Viola. Per Art City 2025 presenta Il Tavolo Delle Trattative.

Info

Teatro della Concordia, corso Puccini, Venaria Reale (TO)

Sabato 25 ottobre 2025, ore 21

ARRIVANO I DUNQUE (Avannotti, sole Blu e la storia della giovane Saracinesca)

Di e con Alessandro Bergonzoni

Regia Alessandro Bergonzoni e Riccardo Rodolfi

Scene Alessandro Bergonzoni

Produzione Teatro Carcano

Biglietti: intero 22 euro, ridotto 20 euro

www.teatrodellaconcordia.it

011 4241124 – info@teatrodellaconcordia.it

“Festa del libro medievale e antico”: Religiosità e spiritualità nel Medioevo

A Saluzzo, ritorna, per la sua 5^ edizione. Ad Alessandro Barbero, il nuovo “Premio Chevalier Errant”

Dal 24 al 26 ottobre

Saluzzo (Cuneo)

Nell’anno del “XXV Giubileo Ordinario” e in occasione delle celebrazioni per l’ottavo centenario della morte di San Francesco d’Assisi, per la 5^ edizione della “Festa del libro medievale e antico di Saluzzo” non poteva scegliersi un cammino tematico più appropriato se non quello di “esplorare le molteplici espressioni del Sacro – ‘Religiosità’ e ‘Spiritualità’ – nel Medioevo”. Tempo storico, per altro, perfettamente, e ancor oggi, “narrato” ed esemplificato in una città come Saluzzo, capitale dell’omonimo “Marchesato”, che dominò il Piemonte sud-occidentale dal 1140 al 1548 e che seppe magnificamente inserirsi nella storia dell’“Età di Mezzo” europea con le sue testimonianze architettoniche di impronta gotica, costruite tra il Duecento e la fine del Quattrocento e ancora caratterizzanti il suo antico e intatto centro storico.

Nata nel 2021, su promozione della Città di Saluzzo, della “Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo” e “Fondazione Amleto Bertoni”, in stretta collaborazione con il “Salone Internazionale del Libro di Torino”, l’edizione 2025 della “Festa” libraria saluzzese si svolgerà da venerdì 24 a domenica 26 ottobre, con un’anteprima giovedì 23 ottobre e diversi appuntamenti di avvicinamento in corso dalla scorsa domenica 12 ottobre in Saluzzo ed in altri 13 Comuni del territorio. In calendario, nell’arco dei tre giorni della “Festa”, appuntamenti variegati per tutte le età e un considerevole numero di illustri ospiti: presentazioni di romanzi e saggi, lezioni magistrali, spettacoli, performance, concerti, visite guidate, momenti conviviali a tema, mostre e allestimenti, giochi di ruolo e a tema, laboratori per bambine e bambini. A queste iniziative si affiancheranno le proposte e la presenza di editorilibrerie generaliste antiquarie provenienti da diverse regioni italiane, che arricchiranno ulteriormente l’esperienza del pubblico. Al programma culturale si affiancherà, poi, la parte espositivasabato 25 e domenica 26, nel cuore della manifestazione “Il Quartiere”, in piazza Montebello 1, il pubblico sarà accolto da editori, librerie ed enti culturali con le loro proposte di catalogo, le novità sul tema e la presenza di copie di libri esclusivi, sia manoscritti che a stampa. Case editrici, specializzate e non, offriranno al pubblico il meglio delle uscite editoriali che raccontano il Medioevo.

Il programma completo e le indicazioni relative agli ospiti e alle varie location su: www.salonelibro.it

Da segnalare una speciale “anteprima teatrale”: giovedì 23 ottobre (ore 21,15, Cinema Teatro “Magda Olivero”Ascanio Celestini, attore, autore, regista e scrittore, aprirà, accompagnato dalle musiche di Gianluca Casadei, le giornate della manifestazione con lo spettacolo “Rumba – L’asino e il bue nel presepe di San Francesco”, terza parte della trilogia iniziata con “Laika” (2015) e “Pueblo” (2017). Lo spettacolo, che affronta il “tema degli ultimi e dei dimenticati”, nasce dalla necessità di capire “perché Francesco ci affascina ancora dopo otto secoli”.

Il giorno dopo, venerdì 24 ottobre, nell’“Antico Palazzo Comunale”, il via ufficiale alla “Festa” con i saluti istituzionali, alle ore 18, e la “lectio magistralis” (alle 18,30) tenuta dal professore emerito di “Storia della Chiesa e dei movimenti ereticali” e di “Storia del Cristianesimo”, Grado Giovanni Merlo, massimo esperto del Frate di Assisi.

Sottolineano i curatori, Beatrice Del Bo, medievista – docente all’Ateneo Torinese e Marco Pautasso, segretario generale del torinese “Salone Intrnazionale del Libro”: “Guidati dal tema di quest’anno, cercheremo di esplorare le diverse forme di religiosità e spiritualità nel Medioevo, illustrando innanzitutto il significato complesso dei termini e le declinazioni personali e di comunità, di richiamare le protagoniste e i protagonisti più e meno noti, e le opere (dal “Cantico delle Creature’ al ‘Canto gregoriano’) … Si parlerà di Ebrei e di marrane, del mondo musulmano, anche per raccontare la fondamentale influenza economica e socioculturale di tali persone sull’Occidente e capire come le esperienze religiose medievali continuino a risuonare nel nostro presente”.

Importante novità di quest’anno, è infine l’istituzione del “Premio Chevalier Errant”, assegnato ogni anno a una personalità del mondo culturale o accademico che, con la propria opera e il proprio lavoro, si sia particolarmente distinta nel diffondere, trasmettere e rendere comprensibili al grande pubblico, non solo agli studiosi, contenuti storici complessi, con particolare attenzione al periodo medievale, rendendoli accessibili, vivi e stimolanti anche per chi non possiede una formazione specialistica. Per la prima edizione del “Premio”, il riconoscimento andrà domenica 26 ottobre al “Quartiere” (ore 18,30) al professor Alessandro Barbero. Il nome del Premio si ispira all’opera “Le Livre du Chevalier Errant” del Marchese Tommaso III di Saluzzo (1356-1416) e, per l’occasione, in serata, si terrà una lectio dedicata a Santa Caterina da Siena (ore 21,15Pala CR Saluzzo).

Gianni Milani

Nelle foto: immagine guida “Festa”, Ascanio Celestini e Alessandro Barbero (Ph. Lorenzo Olivetti)

Torino tra architettura e pittura. Filippo Juvarra

/

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

1) Filippo Juvarra

Ribadisco il concetto che l’arte vada insegnata nel modo più concreto possibile, invitando i ragazzi a guardare le architetture dal vivo -nel limite del possibile ovviamente- e non solo sulle pagine dei libri o attraverso la LIM, convincendoli a toccare colori e materiali, e se anche se ci si sporca un po’ non è un problema. È così che mi piacerebbe poter spiegare alle mie classi il “Barocco”, portando i ragazzi a passeggiare per le vie del centro, fermandoci a commentare e a chiacchierare tra piazza Castello e Piazza Vittorio, desidererei poterli condurre alla Palazzina di Caccia di Stupinigi o alla Basilica di Superga, rendendo loro lo studio un’esperienza concreta e trasformando delle nozioni prettamente storico-artistiche in un autentico ricordo di vita.

Sono consapevole di quanto sia utopico il mio pensiero, non solo per la drammatica situazione pandemica che pone ovvi divieti e limitazioni alle nostre abitudini quotidiane, ma anche perché il tempo scolastico pare trascorrere a ritmi insostenibili, le lezioni si susseguono e le ore non sono mai abbastanza per stare al passo con i programmi ministeriali. Non mi dilungo poi su quanto sia diventato complicato a livello burocratico organizzare attività sia dentro che fuori le aule.
Facciamo un gioco, facciamo finta che quanto appena premesso non sia del tutto vero, e fingiamo di poter organizzare un tour della Torino barocca. Prima di tutto occorre mettere in evidenza la personalità che più di tutte ha contribuito alla trasformazione dell’aspetto del capoluogo piemontese, si tratta di Filippo Juvarra, nato a Messina in una famiglia di orafi e cesellatori, è stato scenografo, disegnatore e architetto, la sua formazione è stata decisamente “pratica”, volta a migliorare le qualità tecniche artigianali.
Filippo Juvarra, (1678-1736), arriva a Torino nei primi anni del Settecento. Quando l’architetto messinese mette piede nel territorio si trova circondato da cantieri, lavori di ammodernamento e di ristrutturazione urbanistica, tutti interventi volti a rendere la città esteticamente degna del ruolo di capitale che le era stato decretato da Emanuele Filiberto nel 1563. In questo senso era risultato essenziale il contributo di Guarino Guarini, al servizio dei Savoia a partire dalla seconda metà del Seicento; all’architetto si deve infatti l’edificazione di vari edifici, tra cui la chiesa di San Lorenzo e la realizzazione della Cappella della Sacra Sindone.

E’ tuttavia con Juvarra che la città acquista effettivamente un nuovo aspetto, degno delle idee innovative che investono il Settecento.
Nel 1714 Vittorio Amedeo II di Savoia chiama a suo servizio l’artchitetto siciliano e lo nomina “primo architetto del re”, grazie a questo titolo Juvarra ottiene immediata visibilità all’interno dell’ambiente artistico e la sua ben più che meritata fama viene riconosciuta in poco tempo anche in territori stranieri. Egli infatti intraprende molti viaggi durante la sua vita, lavorando in Austria, Portogallo, Londra, Parigi e Madrid, città in cui morì improvvisamente nel 1736.
La sua formazione avviene prevalentemente a Roma, dove frequenta lo studio di Carlo Fontana e ha l’occasione di studiare dal vivo le opere classiche, rinascimentali e barocche, soffermandosi soprattutto sugli esempi di Michelangelo, come attestano i numerosi schizzi sui quali era solito appuntare le sue osservazioni. A Roma Juvarra esordisce anche in qualità di scenografo, come attestano i fondali che egli realizza per il teatrino del cardinale Ottoboni, al cui circolo arcadico era strettamente legato. I fogli juvarriani del periodo romano evidenziano i suoi molteplici interessi: progetti per architetture e apparati effimeri, capricci scenografici e vedute equiparabili a quelle del Vanvitelli, con cui in effetti Juvarra era entrato in contatto.
Juvarra esercita la sua opera come architetto soprattutto in Piemonte, più precisamente a Torino e dintorni. Egli non solo progetta chiese e residenze reali ma si occupa anche di riorganizzare interi quartieri periferici; lavora sullo spazio urbano e si conforma ai dettami dell’urbanistica torinese, riuscendo tuttavia a creare nuovi punti focali, quali i “Quartieri Militari” nei pressi di porta Susa, la facciata principale di Palazzo Madama (che di conseguenza rinnova anche l’aspetto di Piazza Castello), le chiese di San Filippo Neri, Sant’Agnese del Carmine, e, soprattutto, la Basilica di Superga, che si erge sulla collina e determina un nuovo confine visivo della città. Decisamente degni di nota sono anche i suoi interventi extraurbani, come dimostrano i nuclei architettonici nei pressi di Venaria, Rivoli e Stupinigi.

Tutte le sue costruzioni si inseriscono nell’ambiente in modo armonioso e studiato, ogni cantiere viene soprinteso con rigorosissimo controllo dallo steso architetto messinese; per ogni progetto egli recupera sapientemente il proprio ricco bagaglio culturale, riuscendo di volta in volta a riplasmare e innovare i modelli di riferimento in senso moderno e suggestivo, secondo una razionalità e una sensibilità del tutto settecentesche.
Continuiamo il gioco e immaginiamo di poterci fisicamente spostare per il territorio alla ricerca delle realizzazioni architettoniche di Juvarra. Partiamo da Palazzo Madama: per la ristrutturazione di tale edificio Juvarra parte da modelli francesi, (fronte posteriore di Versailles), e romani, (palazzo Barberini), e arriva però a una soluzione originale: conferisce unità alla parete grazie all’utilizzo di un unico ordine corinzio sopra l’alto basamento a bugnato piatto e sottolinea la zona centrale dell’ingresso con colonne aggettanti e lesene plasticamente decorate. Il palazzo, classicheggiante nella netta spartizione degli elementi, risulta settecentesco nelle ampie finestre attraverso le quali una ricca luce illumina adeguatamente i vani interni. Nella realizzazione dello scalone d’onore, opera unica nel suo genere, Juvarra fa invece affidamento alla sua esperienza teatrale: lo spazio che la gradinata marmorea occupa è uno spazio scenografico. La struttura si presenta di grande impatto visivo ma al contempo è calibrata e misurata, le decorazioni, segnate da delicati stucchi a forma di conchiglie e ghirlande floreali, aderiscono alla scalinata e si amalgamano all’architettura, rendendo più incisivo l’effetto della luce che trapassa le vetrate.

Immaginiamo ora di prendere un pullman e di allontanarci dei rumori della città. La nostra direzione è la verdeggiante collina torinese, dove ci aspetta uno dei simboli della città subalpina. La Basilica di Superga, edificata tra il 1717 e il 1731, svolge una duplice funzione, essa è sia mausoleo della famiglia Savoia, sia edificio celebrativo dedicato alla vittoria ottenuta contro l’esercito francese nel 1706. L’edificio svetta su un’altura, la posizione è tipica dei santuari tardobarocchi, soprattutto di area tedesca. L’impianto centralizzato con pronao ricorda il Pantheon, la cupola inquadrata da campanili borrominiani, invece, si ispira a Michelangelo. Nonostante i modelli di riferimento, sono del tutto assenti quelle tensioni tipiche del Buonarroti o dell’arte barocca: il nucleo centrale ottagonale si dilata nello spazio definito dal perimetro circolare del cilindro esterno, perno di tutto l’edificio; da qui si protendono con uguale lunghezza il pronao arioso e le due ali simmetriche su cui si innestano i campanili. Quest’ultima parte è in realtà la facciata del monastero addossato alla chiesa che su uno dei lati corti fa corpo con essa. L’edificio si estende nello spazio e asseconda l’andamento della collina, e diventa un nuovo e interessante punto di osservazione per chi si trova a guardare verso le alture torinesi.
Impossibile non ricordare la tragedia di Superga, avvenuta il 4 maggio 1949, alle ore 17.03, quando l’aereo su cui viaggiava il Grande Torino si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore della Basilica, provocando trentuno vittime. Certi luoghi assorbono tristezza e per quanto siano architettonicamente belli, rimangono velati di malinconia e accoramento. Sempre rimanendo sul nostro iniziale filone dell’ipotetico tour scolastico, immagino che mi sarei allontanata dalla Basilica riferendo ai miei allievi una certa superstizione: meglio non visitare la chiesa in compagnia della propria metà, pare infatti che porti sfortuna alla coppietta innamorata.
Saliamo sul nostro pullman e dirigiamoci ora verso un’altra meta.

Nella Palazzina di Caccia di Stupinigi (1729-1733), troviamo un oscillamento tra la tradizione francese e la pianta italiana a forma di stella. Qui ritorna il motivo della rotonda, ma da essa fuoriescono quattro bracci a formare una croce di sant’Andrea, schema su cui Juvarra medita fin dagli anni giovanili. Il nucleo centrale e centralizzato costituisce il punto focale di un disegno vasto e articolato: esso è preceduto da una corte d’onore dal perimetro mistilineo, che si innesta nell’ambiente naturale e per gradi conduce fino al palazzetto vero e proprio; lungo il perimetro della corte d’accesso si dispongono le costruzioni dedicate ai servizi. L’impianto del grande salone richiama precedenti illustri, ma il tutto è trasfigurato in senso rococò, grazie ai ricchi stucchi, alle elaborate pitture, agli arredi e al particolare cadere della luce sui dettagli preziosi delle decorazioni artistiche e artigianali. La muratura esterna è scandita da una successione di lesene piatte nettamente profilate. Tutta la struttura della Palazzina risulta raffinata e in studiato rapporto dialettico con la natura che la circonda; le numerose finestre che si trovano su tutto il perimetro contribuiscono a dare un senso di generale leggerezza, controbilanciando l’impatto visivo dato dalle dimensioni imponenti dell’edificio.
Siamo alla fine del nostro gioco immaginato e ci manca ancora una meta per terminare la lezione sul Barocco.

Le chiese juvarriane presentano soluzioni architettoniche originali, soprattutto la chiesa del Carmine (1732-1735), dove le alte gallerie aperte sopra le cappelle si rifanno ad uno stile nordico e medievale. In queso edificio (che si trova in via del Carmine angolo via Bligny) l’impianto tradizionale a navata unica con cappelle lungo i lati è rinnovato dalla riduzione del muro delimitante la navata a una ossatura essenziale di alti pilastri di ribattutta e dalla sapiente modulazione della luce che, piovendo dall’alto fra i pilastri, si diffonde nella navata e nelle cappelle. Lo storico dell’arte Cesare Brandi così descrive l’elaborata chiesa del Carmine: “L’invenzione appare così una felice contaminazione coll’architettura del teatro e aggiunge un segreto senso di festa e di leggerezza all’ardita struttura della chiesa che solo nella volta, appunto a somiglianza di un teatro, ha una superficie unita, e quasi un velario teso sugli arredi delle grandi pilastrate.”
Ecco, il tour fantastico è terminato, e così anche l’articolo che concretamente sto scrivendo: come nelle favole realtà e immaginazione si mescolano, si sovrappongono e si uniscono, in una sorta di “kuklos” che alla fine fa quadrare tutto.
D’altronde sognare è gratis. Per ora.

Alessia Cagnotto

Per la stagione di Fertili Terreni Teatro è di scena Tiger Dad

Per la stagione Iperspazi 2025-2026 di Fertili Terreni Teatro, in  San Pietro in Vincoli andrà in scena da giovedì 23 a sabato 25 ottobre prossimi, alle 21, la pièce teatrale ‘Tiger Dad’, produzione A.M.A. Factory  e Cattivi Maestri Teatro, con il contributo del Centro Studi sul Teatro Napoletano, Meridionale e Europeo, interpreti Salvatore Nocera su testo e regia di Rosario Palazzolo.

Come un moderno Giano bifronte, Tiger Dad rappresenta una creatura a due facce segnata da tratti lievemente ossessivi e da una pacatezza fuori del comune, un poco sorniona e un poco angustiata, simbolo vivente di una contraddizions atavica. Padre Tigre è  una sintesi perfetta in un solo individuo di una duplice natura dell’anima umana incarnata da altrettante icone pop, la trascendenza di San Pio di Pietralcina e l’irruenza dell’uomo Tigre. E se il primo è da considerarsi immagine concreta ed immodificabile, intangibile solo per chi non ci crede, il secondo incarna alla perfezione il combattente rivoluzionario, icona vivente della lotta contro ogni forma di ingiustizia. Sono fronte e retro di una stessa medaglia. Le opposte anime rivivono in uno spettacolo dai tratti ora crudi e feroci, ora più lievi e leggeri, sempre indirizzato verso un ideale di bontà.  Poco importa se alla fine Padre Tigre, o meglio Tiger Dad, come lo ha trasfigurato il popolo della rete, si troverà  a combattere una guerra destinata a vederlo soccombere.
La battaglia quotidiana contro il qualunquismo dei social, contro l’idiozia dell’intelligenza artificiale  e contro il successo ricercato a tutti i costi potrà soltanto prendere forma in un luogo immaginato per la disfatta, epilogo su cui aleggiano i fantasmi di una morte, che costituirà l’approdo finale del protagonista.
La pièce risulta impreziosita da una lingua ricca di musicalità e di vita, che diventa una vera e propria seconda pelle per l’interprete, lontana dai canoni ordinari e della quotidianità, segnata da sgrammaticate acrobazie di senso. Siamo di fronte a una ricchezza di mezzi espressivi pronta a risolversi in improvvisi non sense, all’interno di un originale, quanto inaspettato gramelot.

Il costo intero del biglietto è di 13 euro, per il biglietto ridotto 11 euro se acquistato online, 13 euro la sera dell’evento.
Resta la possibilità di lasciare il biglietto sospeso tramite donazione online o con satispay e di entrare gratuitamente per alcuni under 35, grazie ai biglietti messi a disposizione attraverso la collaborazione con Torino Giovani.

Mara Martellotta

Moncalieri si candida: Capitale Italiana della Cultura 2028

Moncalieri, 21 ottobre 2025 – Oggi  è stato presentato ufficialmente il Dossier “Moncalieri
2028. La periferia al centro”, progetto di candidatura a Capitale Italiana della Cultura
2028. Un documento che racconta la visione di una città che ha scelto di fare della
rigenerazione culturale dei margini urbani il proprio orizzonte di sviluppo, capace di
tenere insieme produzione, educazione e cittadinanza attiva.
Non un “grande evento” ma un cantiere aperto, un percorso di lungo periodo in cui la
comunità si riconosce e si rinnova.
La città si presenta forte di una doppia identità. Da un lato il passato illustre: il Castello
sabaudo patrimonio UNESCO, le Fonderie Limone rinascimentate a polo di produzione e
ospitalità creativa, un tessuto di istituzioni e imprese culturali che dialoga con Torino e con
l’area metropolitana. Dall’altro un presente che ha imparato a mettere al centro quartieri,
frazioni, borgate e spazi di confine, intesi non come “estremi” ma come riserve di
possibilità. La candidatura nasce esattamente su questa soglia: dove finisce la retorica
della periferia e comincia il progetto condiviso.

Il dossier
La strada verso il dossier non è spuntata dal nulla. Dal 2022 Moncalieri ha avviato un lavoro
di city branding per dare una voce riconoscibile alla città, ma soprattutto per dotarsi di uno
strumento di coprogettazione, sotto un cappello che porta il nome di “Visit Moncalieri”: un
invito rivolto non solo ai visitatori, ma anche alla comunità residente e al territorio
circostante. Il brand, in questo senso, ha funzionato come una chiave inglese, sviluppando
un nuovo dialogo tra uffici, associazioni, scuole, operatori culturali, commercianti.
Su questa base si è innestato, dal 2024, il cantiere della candidatura: mappature dei luoghi
e delle pratiche, tavoli di ascolto con comunità e soggetti del terzo settore, incontri con il
sistema educativo e con il mondo produttivo, una stagione di progetti pilota che ha
sperimentato format diffusi (dal centro storico alle borgate), verificando accessibilità,
sostenibilità e impatto. La scrittura del dossier è arrivata dopo – non prima – ed è stata la
traduzione in obiettivi, azioni e governance di ciò che il territorio aveva già messo in moto.
Il documento, consegnato il 25 settembre 2025, racconta una città che ha scelto la
continuità: non un “grande evento” calato dall’alto ma un calendario evolutivo dove festival,
rassegne, residenze artistiche, pratiche di cittadinanza attiva e valorizzazione del commercio
di prossimità dialogano tra loro. È stato dato spazio alla dimensione educativa, alla
produzione (non solo alla programmazione) e alla cura dei beni comuni, con i Patti di
collaborazione come strumento per responsabilizzare chi vive i quartieri. Anche dati come
affluenze, partecipazione, accessi e indotto sono entrati nel racconto come bussola di
monitoraggio, perché la cultura conti anche quando si misura.

La candidatura organizza le proprie energie in cinque aree strategiche, concepite come
cerchi concentrici. Ogni area è necessaria alle altre, e tutte sono convergenti verso
l’obiettivo comune di dimostrare che la periferia può davvero fare centro:

– Design e Trasformazione
– Rigenerazione urbana e dei Beni Comuni
– Empowerment giovanile
– Inclusione e Parità di genere
– Cultura e Innovazione sociale.

Questa architettura concentrica consente a Moncalieri di operare su livelli diversi ma
integrati, generando un effetto moltiplicatore che fa della città un laboratorio di creatività
diffusa, coesione sociale e rigenerazione culturale.
Sul sostegno della Regione intervengono Alberto Cirio, Presidente della Regione
Piemonte, e Marina Chiarelli, Assessore alla Cultura della Regione Piemonte. “La
candidatura di Moncalieri a Capitale Italiana della Cultura 2028 è una splendida notizia e
dimostra, ancora una volta, quanto il Piemonte sia una terra viva, ricca di idee, progetti e
realtà culturali che sanno fare rete e guardare al futuro. Il dossier presentato dalla Città è di
grande qualità e mette al centro due temi fondamentali come l’inclusione e la parità di
genere: valori attuali e necessari, che ben rappresentano una visione della cultura aperta,
accessibile e capace di generare impatto positivo sul territorio. Moncalieri ha una storia
importante, un patrimonio artistico di grande valore e una vitalità culturale che la rende
protagonista, oggi, di un rinnovamento intelligente che unisce tradizione e innovazione. Il
Piemonte si conferma così come un sistema culturale diffuso, dove ogni territorio
contribuisce con le proprie specificità a un progetto comune. Come Regione, seguiremo da
vicino questa candidatura: crediamo che Moncalieri possa avere tutte le carte in regola per
concorrere per un titolo così prestigioso che renderà questo territorio ancora più conosciuto
e attrattivo”.

Perché Moncalieri si è candidata
La candidatura di Moncalieri a Capitale Italiana della Cultura 2028 è un passo naturale di un
percorso già avviato.
Negli ultimi anni la città ha investito in progetti di rigenerazione urbana e culturale che hanno
restituito spazi, risorse e opportunità alle persone. Dalle Fonderie Limone (oggi polo di
produzione e ospitalità creativa) al Castello Reale, patrimonio UNESCO e cuore del sistema
culturale, fino alle borgate e ai quartieri che hanno ritrovato centralità grazie a festival diffusi,
patti di collaborazione e percorsi di cittadinanza attiva.
“Moncalieri ha scelto di candidarsi perché ha imparato che la cultura può cambiare davvero
la geografia di una città” dichiara Paolo Montagna, Sindaco di Moncalieri. “Abbiamo
costruito un modello che mette insieme il centro e i margini, le istituzioni e le persone, la
memoria e l’innovazione. Questa candidatura è la tappa di un percorso collettivo, un invito a
guardare ai nostri luoghi con occhi nuovi.”
Nel 2028 Moncalieri celebrerà anche gli 800 anni dalla propria fondazione, avvenuta nel
1228 quando un gruppo di abitanti trovò rifugio sulla collina per difendersi da incursioni ostili.
Da borgo di confine a città metropolitana, Moncalieri ha costruito nei secoli una vocazione al
dialogo e alla trasformazione: il ponte sul Po, che per secoli fu l’unico accesso a Torino per
chi proveniva da sud, è diventato nel tempo una metafora della sua identità, quella di una
comunità che unisce e attraversa.
L’area metropolitana torinese sta ripensando il proprio modello culturale dopo anni di
innovazioni e crisi; la città di Moncalieri in questo contesto porta in dote una dimensione
“ponte”: sufficientemente grande per incidere, sufficientemente prossima per
sperimentare.

Un viaggio che continua
Il Dossier non è solo un progetto, ma la sintesi di una pratica già in corso.
Dal 2024 Moncalieri ha sperimentato nuovi format diffusi – festival, residenze artistiche,
laboratori, percorsi formativi e progetti di rigenerazione – che hanno unito produzione
culturale e partecipazione civica.
Le esperienze avviate hanno mostrato che la cultura può diventare motore di sviluppo
economico, sociale e territoriale, creando occupazione qualificata, valorizzando i saperi
artigiani e favorendo nuove alleanze tra pubblico e privato.
Il 2028 per Moncalieri non è un traguardo ma un orizzonte: un’occasione per consolidare
politiche, coordinare risorse e offrire alla città un’identità culturale riconoscibile e condivisa.
La candidatura rappresenta quindi un patto che la città intende rinnovare, con o senza titolo,
perché la credibilità di una candidatura si misura nella sua capacità di migliorare la vita
delle persone.

“La leva è la rigenerazione culturale delle periferie, intese non come estremi, ma come
soglie porose tra funzioni, generazioni e comunità” aggiunge Antonella Parigi, Assessora
alla Cultura. “Demarginalizzare significa rendere la cultura accessibile e generativa, creare
spazi di scambio dove la vita quotidiana incontra l’arte, l’impresa, la scuola, il volontariato.
Moncalieri è pronta a diventare un laboratorio nazionale di questa nuova idea di capitale.”
La candidatura di Moncalieri a Capitale Italiana della Cultura 2028 è dunque un progetto
corale, che nasce dall’amore per la città e dalla convinzione che i margini possano diventare
il centro rinnovato e ritrovato di una nuova geografia culturale italiana.

Ludovico Bellucci in concerto sonorizza i capolavori del cinema muto

La stagione concertistica di Santa Pelagia prosegue all’insegna del dialogo tra la musica e gli altri linguaggi artistici, confrontandosi in questa occasione con la Settima arte.

La rassegna Intrecci musicali presenta, il 22 ottobre, alle ore 21, la “Musica del Mito”, un evento in cui le prime pellicole dell’epoca mitica del cinema muto si incontrano con le partiture sonore di periodi musicali altrettanto leggendari, grazie al pianoforte del giovane compositore torinese Ludovico Bellucci, da tempo impegnato in una rilettura in chiave moderna delle opere del passato.
Film muti d’epoca musicati dal vivo daranno vita ad un vero e proprio reenactment delle pratiche di proiezione e sonorizzazione originali, un cinema concerto che immerge il pubblico nel contesto storico e sociale degli anni Dieci, offrendo la proiezione integrale del film accompagnata da musiche inedite, eseguite dal vivo e concepite per valorizzarne lo sviluppo narrativo, i vissuti interiori dei protagonisti, gli eventi e il carattere storico delle vicende rappresentate.
Sul grande schermo scorrono le immagini di due capolavori del cinema muto italiano: “ Didone abbandonata” di Luigi Maggi del 1910, ispirato al celebre mito virgiliano, racconta con sorprendente sensibilità visiva il dramma amoroso della regina di Cartagine, restituendo in pochi minuti tutta la forza tragica dell’epopea classica. Le musiche, eseguite in prima assoluta, dialogano con le immagini per amplificare il pathos e la tensione emotiva del racconto.
Il secondo capolavoro è rappresentato da ”La caduta di Troia” di Giovanni Pastrone, che risale al 1911 ed è considerata una delle prime grandi produzioni del cinema muto italiano  e mette in scena con ambizione epica la guerra e la distruzione della città omerica, anticipando lo stile spettacolare che renderà celebre il regista di Cabiria.
La serata è realizzata in collaborazione  con il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino e la Cineteca Nazionale del Museo del Cinema.
“La Musica del Mito” è un’occasione unica per riscoprire il fascino originario del cinema muto nella suggestiva cornice settecentesca del Coro di Santa Pelagia, dove farsi trasportare all’interno di un  viaggio tra mito, immagini e suono, in cui la musica restituisce vita e voce alla memoria visiva del passato.
L’ingresso è libero su prenotazione. L’introduzione è affidata a Maria Adorno.

Ludovico Bellucci, 20 anni,  è pianista e compositore di colonne sonore. Studia composizione con Aldo Sardo presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino,  città in cui vive e lavora. La sua carriera artistica è iniziata nel 2015 con la partecipazione alla Festa della Musica di Torino, dove si è esibito per quattro edizioni consecutive con brani originali. Nel 2019 ha vinto il primo premio al concorso Pianofortissimo di Rivoli con un proprio inedito. Dal 2022, anno in cui realizza la musica per il cortometraggio “Dura Lex Sed Lex”, vincitore al Believe Film Festival di Verona, si dedica alla musica per il cinema muto.

Coro di Santa Pelagia, via San Massimo 21, mercoledi 22 ottobre ore 21

Mara Martellotta

Guadagnino e una grande Roberts non raggiungono la verità

/

Sugli schermi “After the Hunt. Dopo la caccia”, presentato fuori concorso a Venezia

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Un tempo, a metà degli anni Sessanta, il mondo universitario, tra le pagine di “Chi ha paura di Virginia Woolf” di Albee, era scarnificato all’unisono con quello della coppia, oggi, con “After the Hunt. Dopo la caccia” Luca Guadagnino – bulimico cinematografico, sia detto per inciso, visti tutti i progetti, quelli bene informati dicono 6/8, che gli rimbalzano tra le mani, primo forse in scadenza, “Artificial” sul licenziamento e il reintegro del CEO di OpenAI, Sam Altman, quello che ha al proprio interno alcune scene girate qui a Torino negli scorsi mesi estivi, alla torre Intesa San Paolo -, dopo aver percorso le ultime tappe tra il tennistico “Challengers” e i dolori e le sfrenatezze di William Burroughs con “Queer”, allarga gli orizzonti all’insegnamento e agli insegnanti che hanno allontanato per sempre la cattedra e siedono intorno a un tavolo con i loro allievi, quelli che alimentano un efficace carisma e che entrando in classe iniziano senza preamboli la lezione, gli studenti attenti come pargoli agli occhi di una mamma; alle rivalse e alle demagogie, agli incontri tra pranzi e confidenze, tra ambiguità e motti di spirito che tendono a colpire, tra cattedre inseguite da una vita con tanto di studi incorporati e colleghi amici/nemici che, dopo tanti allegri chiacchiericci al pub, non vedono l’ora di metterti il classico bastone tra le ruote. E con questi, è da aggiungersi di questi tempi il me too, che come niente ha raggiunto – o invaso? – le aule, nel caso, di Yale. A intervallare l’intreccio – alla cui base è una sceneggiatura, facilmente oscarizzabile, firmata da Nora Garrett (tratta, pare, da una storia vera), piena zeppa di riferimenti, Jung e Freud e Aristotele, e poi Kierkegaard e Schopenhauer e Nietzsche, scritta in dialoghi felicissimi e fitti fitti in punta di penna, parole circostanze luoghi personaggi che non fanno una grinza, ardua difficile tutta calibrata passo dopo passo, a tratti scogliosa per lo spettatore ma estremamente stimolante, vero riferimento per certi scrittori di/per il cinema, parecchi di casa nostra, capaci di partorire tremende insensatezze e ovvietà dal fiato corto – il ticchettio ossessivo di un metronomo, tic tac tic tac tic tac, qua e là, sin dalle prime immagini, via via sdoppiato nelle musiche di Trent Reznor e Atticus Ross, padroni d’assorbire altresì ad un vastissimo repertorio, ogni nota improvvisa e disturbante (anche il padrone di casa invade gli ambienti di una musica altissima).

La docente di filosofia Alma Olsson (Julia Roberts, una delle sue più belle interpretazioni, tesissima in ogni attimo) ha chiamato a casa sua, complice l’affettuoso (la sveglia di ogni mattino ha la sua pillolina d’obbligo sul momodino) consorte Frederick, Michael Stuhlbarg, eccellente, comico disturbatore nel confessionale di turno (già con Guadagnino come padre del giovane protagonista in “Chiamami col mio nome”), per una cena colleghi e allievi e medici, per il cibo, il bicchiere di vino, la chiacchiera, la risata. Per discutere, se c’è ancora spazio, del fatto che ogni candidato maschio bianco etero e cisgender di questi tempi parte sfavorito. Con le dispute e le ambiguità di cui sopra, si arriva alla fine, il contendente Hank belloccio e narcisista e l’allieva brillante Maggie, afroamericana, gay, figlia di papà che sovvenziona con soldoni l’istituto, se ne vanno per ultimi, guardandoli Alma dallo spioncino della porta d’ingresso mentre s’allontanano sul pianerottolo, prima di pigiare il tasto dell’ascensore: salvo il giorno dopo Maggie (che, tenete a mente, durante una corsa nel bagno di casa, “si è messa” al corrente di un piccolo segreto che da sempre rimane sepolto nel cuore di Alma) rifarsi viva per narrarle delle molestie subite dall’uomo, la sera precedente durante l’ultimo bicchiere in casa di lei: rifacendosi ad Alma paladina dei diritti femminili e al clima d’empatia sorto tra due esseri umani.

Ha inizio il thriller ma non certo la ricerca di un colpevole da parte di Guadagnino, pronto anzi ad allontanare il calice amaro del finale (a dire il vero un po’ insipido, visto il fervorino che è l’inciampo dell’intero affresco, con quel biglietto da venti dollari posato sul tavolo del bar che ci ricorda quanto di “mercanteggio etico” ci sia nella storia) pur di rimescolare le carte, a dire e a negare, ad analizzare e a ritornare su quelle che sembravano conclusioni, in dialoghi a due ben congegnati dando ampio spazio alle ragioni dell’uno e poco dopo a quelle altrettanto meritevoli dell’altro, ascoltando le ragioni della pretesa innocenza e quelle forse legittime dell’accusa, guardando all’opportunismo della ragazza e agli scatti di machismo del collega, superuomo incallito, senza freni nella casa/rifugio di Alma, lasciando sempre lo spettatore sull’orlo di un enigmatico precipizio. Mentre Alma prende ad accusare dolori al ventre che crescono a denunciare tre ulcere alla fine perforate e un incidente nei confronti della università e di conseguenza della commissione che avrebbe dovuto dare il proprio placet per la agognata cattedra. In una durata di circa due ore e mezzo che si sarebbe dovuto un tantino sforbiciare. Verità nascoste e verità personalissime che Guadagnino ti schiaffa in faccia all’improvviso, con una costruzione perfetta d’ambienti (le scene sono di Stefano Baisi), con gli attori spinti a guardare in macchina (la fotografia fatta di paesaggi innevati, delle luci calde della signorilità e di quelle bianche e gelide che sono nel rifugio di Alma) ad una distanza ravvicinata oppure con questa che li tallona senza mezze misure.

Coraggioso è Guadagnino a scavare nel grande tema della verità e di conseguenza in quel mondo universitario che potrebbe ancora avere parecchi scheletri nell’armadio, argomenti modernissimi e votati alla scomodità, dove i sentimenti sono azzerati (i social aiutando parecchio) e i dubbi al di qua dello schermo permangono. Siamo nel terreno tremulo e pericoloso delle acque melmose e il regista rifiuta di darci risposte: e lo spettatore, se lo vorrà, potrà fare le proprie scelte. “Ed ecco, signori, come parla la Verità”, avrebbe detto nel finale del testo pirandelliano la velata signora Ponza. Ieri, come ogi, si calava il sipario.

“1979. L’inverno più buio”: Torino tra piombo, sogni e disillusioni

/

TORINO TRA LE RIGHE

C’è una domanda che apre le porte alla storia: Qual è il peso specifico del piombo?
La risposta, forse, la conosce Paolo, giovane studente del Politecnico, idealista con l’anima appesantita da una stagione che ha il colore freddo della rassegnazione e l’odore acre della paura. È il 1979 e Torino è stretta nella morsa del terrorismo: un inverno cupo, carico di tensione, in cui i sogni di cambiamento si mescolano al sangue e alle contraddizioni.
Con il romanzo “1979. L’inverno più buio”, edito da Gilgamesh Edizioni, Luigi Schifitto ci conduce in un viaggio tra passato e presente, tra idealismo e giustizia, raccontando una vicenda potente che prende forma da un fatto storico realmente accaduto nella nostra città. Un attentato, una tragedia. E un diario: quello di Paolo, che quarant’anni dopo riemerge misteriosamente tra le mani del commissario Stefano Cavalli.
Il romanzo si sviluppa su due piani temporali intrecciati con grande perizia narrativa: da un lato, il Paolo ventenne, sospeso tra l’impegno politico e la disillusione; dall’altro, il Cavalli maturo, alle prese con le ombre di un passato che ancora brucia. La storia si costruisce attorno a un interrogativo che non riguarda solo la verità processuale, ma anche la responsabilità morale, collettiva e individuale.
La penna di Schifitto è lucida e coinvolgente, mai compiaciuta, capace di restituire il clima di quegli anni senza retorica. A rendere più vivido il quadro ci pensano anche i riferimenti musicali, da De André ai Ramones, che accompagnano la narrazione come una colonna sonora emotiva.
Il risultato è un romanzo malinconico, avvincente, tragico ma necessario, che riesce in un’operazione tanto ambiziosa quanto riuscita: fondere verità storica e finzione narrativa in un intreccio serrato e fluido.
Il personaggio di Paolo, con la sua lotta interiore, le sue fragilità e i suoi tormenti, è il cuore pulsante del libro. Ma è nel contrasto con il presente, e con il percorso del commissario Cavalli, che emerge tutta la potenza del romanzo. Il lettore viene trascinato in un’indagine che è prima di tutto umana, oltre che giudiziaria.
E poi c’è il finale. Un finale che non si dimentica, che sorprende e lascia un velo di malinconia addosso. Un epilogo coerente, emozionante, che dà senso all’intero viaggio.
Luigi Schifitto, siracusano di nascita e torinese d’adozione, insegna matematica e fisica in un liceo della città. Da anni scrive di Torino e per Torino. Tra i suoi lavori precedenti, ricordiamo L’uomo con lo zainettoDelitti di stagione e Una persona scorretta, tutti con protagonista il commissario Cavalli. Con questo nuovo romanzo, lo scrittore conferma la sua capacità di raccontare la città nei suoi chiaroscuri più profondi, mantenendo vivo il dialogo tra memoria e contemporaneità.
“1979. L’inverno più buio” non è solo un noir. È un promemoria. Un invito a non dimenticare. Un libro che ci obbliga a guardare indietro, per capire dove siamo oggi.
E forse anche per chiederci, ancora una volta, quanto pesa davvero il piombo.
Marzia Estini

Luciano Berio, compositore, nel Centenario della nascita 

Nel corso dei secoli la musica ha subito naturali trasformazioni, dal periodo rinascimentale al serialismo integrale del suono nato nel secolo scorso. Felix Mendelssohn, compositore del periodo romantico tedesco, dopo quasi un secolo ha ripescato le grandi opere dimenticate di Johann Sebastian Bach, generando il repertorio musicale. Lo stile contrappuntistico di Bach fu in parte conservato da Carl Philipp Emanuel, il figlio più famoso definito il Bach di Amburgo, ricco di idee e molto ammirato da Haydn. Il genio paterno invece non era affine al figlio più giovane Johann Christian che aveva privilegiato l’elemento armonico e lo stile galante, precursore del classicismo e molto influente su Mozart.

Dopo tanti anni di attesa non si è ripetuto il fenomeno musicale del ’68, lo sciame sismico giunto dall’Inghilterra ormai esaurito ed immerso nel sonno spettrale degli ultimi decenni, splendido miraggio assopito in una società liquida senza valori dove il culto dell’immagine scorre velocemente riducendo l’ascoltatore a semplice pubblico ipnotizzato da false illusioni. L’argomento principale mancante di questo vuoto è stato riempito sapientemente nel 1972 da Luciano Berio (*Oneglia 24-10-1925 +Roma 2003), compositore e pioniere dell’avanguardia europea. La sera del 22 febbraio, una settimana dopo la chiusura del Festival di Sanremo in piena crisi con riduzione della doppia interpretazione introdotta nel 1957, richiesta di sciopero e l’amara prospettiva di sospensione del programma, sul secondo canale Rai andava in onda la prima delle dodici puntate di “C’è musica & musica”.

La coraggiosa serie ideata da Berio proponeva al pubblico televisivo l’alternativa di una nuova estetica, utilizzando nuove forme sperimentali di comunicazione musicale e sapere umanistico. Le varie problematiche sulla scrittura e sul pensiero musicale furono esposte tramite oggetti sonori dal barocco di Monteverdi ai contemporanei Beatles, commentati da importanti personaggi internazionali quali Bernstein, Cage, Boulez, Messiaen, Stockhausen, Sanguineti, Donatoni e Dallapiccola. Le puntate furono replicate sulla stessa rete da marzo a giugno e pubblicate da Feltrinelli nel 2013 con commenti di Michele Dall’Ongaro, direttore musicale di Rai Radio Tre. Nel primo Studio di Fonologia Musicale della Rai di Milano, Berio aveva approfondito con Bruno Maderna la ricerca sonora delle interazioni acustiche tra strumenti, suoni elettronici e parola, affermandosi come autorevole esponente di musica sperimentale.
In “Omaggio a Joyce”, le risorse espressive della mezzosoprano americana e prima moglie Cathy Berberian unite alla rielaborazione elettroacustica crearono una dialettica e un nuovo linguaggio parlato onomatopeico. Tra i vari premi ottenuti da Berio ricordiamo il “Leone d’oro alla carriera” alla Biennale di Venezia, diversi ” Honoris Causa” e il “Premium Imperiale” giapponese. Promotore di musica contemporanea, insegnò nelle prestigiose accademie di Europa e Stati Uniti e a Firenze fondò l’istituto “Tempo Reale”, utilizzando nuove tecnologie e applicazioni elettroniche. Tra i suoi allievi figura Giulio Castagnoli, docente del Conservatorio Verdi di Torino aperto ai diversi contesti artistici con la passione per la fisica acustica, autore di saggi sui suoi mentori Berio, Donatoni e Ferneyhough. Compositore di musica espressiva formata da suoni materici, parafrasa i pensieri musicali del passato con la tipica complessità, per certi aspetti, di Olivier Messiaen.

L’interesse di Berio verso la musica di Castagnoli si era concretizzato dopo il loro incontro a Bonn, dirigendo egli stesso nel 1992 al Comunale di Bologna i “Madrigali per Orchestra” di Castagnoli e nel 2002 commissionandogli per l’Accademia di Santa Cecilia il “Concerto per violoncello e doppia orchestra”. Per il centenario della nascita di Berio, Castagnoli e Andrea Basevi del Conservatorio Paganini di Genova sono stati ospiti della terza sessione del Convegno di Rimini del 19 ottobre 2025, una tavola rotonda dal titolo “Abitare la melodia, due compositori tra le architetture di Luciano Berio”, dedicata alla tecnica sapiente e alla vena creativa del maestro. Con i due compositori, Berio aveva completato e orchestrato l’opera di Sergio Liberovici “Maelzel o delle macchinazioni”, pubblicata nel 1995 da Casa Ricordi. In questo inizio di secolo la musica contemporanea è in fase di cambiamento, percorsi sempre più individuali e scritture meditate non condivise, confusione in atto anche nelle arti figurative.
Armano Luigi Gozzano