CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 3

Il cinema di James Cameron, la visionarietà sui banchi della scuola

/

Sino al 15 giugno (per ora) nello spazio della Mole

 

James Cameron ha dei ricordi – “da bambino, nella città canadese in cui vivevo, disegnavo su carta con penna, matita e pastelli, molto prima di mettere mano alla mia prima cinepresa” oppure “il film “Quando i mondi si scontrano”, del 1951, ha esercitato una profonda influenza su di me, ne feci un adattamento in fumetti durante l’ultimo anno di superiori, senza tuttavia riuscire a completarlo, gli esami finali si avvicinavano e mi trovai improvvisamente a corto di tempo e talento” – e delle ferree certezze, delle leggi personali – “un personaggio non è mai soltanto uno schizzo ma dev’essere uno schizzo molto convincente”.

Oggi James Cameron, con tutto il suo mondo di regista visionario – “il luogo della Mole è perfetto per la mostra, architettura e arte cinematografica s’incontrano e sottolineano quello sguardo verso il futuro che già Antonelli ebbe, come il regista ha, avrebbero molte cose da dirsi se si incontrassero”, dice Carlo Chatrian, direttore del Museo del Cinema. Mentre il presidente Enzo Ghigo riprende “è qui e oggi la vera risposta a quanti continuano a chiederci ma Cameron c’è o non c’è? Oggi all’interno della Mole c’è tanto di quel Cameron che la sua presenza finisce col passare in secondo piano”. Ma Cameron verrà, un po’ più in là (si vocifera a fine marzo?), durante il periodo lungo di questa mostra che nei programmi scorre sino a metà giugno ma che qualcuno già sussurra di dover essere prolungata sino a dopo l’estate (un investimento di oltre un milione di euro, ma, assicura lo staff del Museo, si è guardato ben oltre la mostra dal momento che un certo materiale rimarrà al Museo oltre la chiusura): oggi Cameron è in Nuova Zelanda, impegnato nella postproduzione di “Avatar 3.

 

Fuoco e cenere (uscita sugli schermi di tutto il mondo il 19 dicembre, il regista ne parla già come “il più emozionante e forse migliore dei tre finora”), lo ha promesso, magari in compagnia di qualche stella di prima grandezza scelta dal cilindro magico di una filmografia che in poco più di quarant’anni, ha “soltanto” superato i dieci titoli, con l’esclusione di documentari e sceneggiature. Dopo le tempeste (non propriamente in un bicchiere) organizzative di alcuni mesi fa con la Cinémathèque francese capitanata da Costa-Gavras e qui rappresentata da Agathe Moroval e già ospite della mostra in onore del “pioniere” – o se volete di “una” mostra, dal momento che a Torino ha una sua propria e indiscussa veste, non per nulla si sottolinea più volte l’impronta della “nuova e inedita dimensione”, la nostra città può essere considerata la seconda tappa, altre seguiranno nei prossimi anni -, oggi circolano sorrisi e foto di rito che inquadrano altresì le più strette collaboratrici del regista, Kim Butts e Maria Wilhelm, della Avatar Alliance Foundation, “per la loro disponibilità e sostegno nell’adattamento della mostra per il Museo”, come si legge alla voce ringraziamenti che sta al fondo del ricco volume edito da SilvanaEditoriale in occasione di “The Arts of James Cameron”, pronte loro a ricordare “il rigore e la disciplina” trovati durante l’intera collaborazione, ampliando le parole a quella che suona “perfezione”.

Senza nascondere che la mostra, durante la permanenza torinese, s’arricchirà di altri materiali, non ultima l’intervista al regista da parte di Chatrian, durata quattro giorni e realizzata in 3D. Mentre s’ammira al centro della grande Aula la struttura cilindrica di “tripoline” che cade dall’alto e su cui vengono proiettati immagini e momenti di alcune opere del regista, si prende a salire la passerella elicoidale: per incontrare le primissime esperienze di un giovanissimo Jim, di un tredicenne (siamo nel 1967) che con i pastelli a olio disegna un paio di aerei, di un ragazzo che l’anno successivo a Niagara Falls vince il concorso annuale, per Halloween, e ancora nei due anni dopo, indetto dalla banca Lincoln Trust and Savings, un metro quadrato sulle proprie vetrine, ed è la nascita di un primo mostro che ha per viso una zucca intagliata, dell’adolescente che ama le storie di Conan e tratteggia e colora e deve assoldare un amico grande e grosso per impedire a quelli impallinati con il solo sport di bullizzarlo, solo perché lui possa continuare a disegnare in santa pace. Che nel 1971, a diciassette anni, ha appena visto “L’uomo che fuggì dal futuro” di Lucas o legge “1984” di Orwell o “Il mondo nuovo” di Huxley e ne trae idee e impulsi, che stampa 500 esemplari di un manifesto di sua invenzione: ne venderà quattro o cinque al massimo, i rimasti gli serviranno per anni come carta su cui schizzare. Guarda a Dalì e a Magritte e al simbolismo tutto (“molte delle mie illustrazioni di questo periodo sono fatte su carta a righe perché le abbozzavo nei quaderni di scuola, per non farmi scoprire dagli insegnanti.

Ero lì per imparare, ma della scuola mi interessavano solo quelle sei o otto ore in cui disegnavo. Insomma, perché avrei dovuto limitarmi a farlo nelle lezioni di arte?”), alla metafora e a Platone con la sua caverna, riflette ed esplora, a poco a poco si fa “costruttore di visioni” come titola il proprio intervento nel volume il critico Frédéric Strauss. Cameron inventa oggetti e strutture e mondi, è artista completo, affronta “i confini estremi della conoscenza scientifica” e segue le precise orme di quella realtà, “nel suo epico progetto di fantascienza mai realizzato, “Xenogenesis”, l’astronave Cosmos Kindred rappresenta la sintesi di anni di teorizzazioni sulla funzionalità di un tale veicolo, come per “Aliens – Scontro finale” co-progetta la navicella futuristica Dropship, simile a un elicottero d’assalto, basandosi sui principi dell’aerodinamica”. Non soltanto il futuro con le proprie scommesse, anche il passato è per lui un punto d’orgoglio, con la necessità di garantire la maggiore fedeltà storica possibile. Sono ben quattordici le immersioni subacquee che Cameron e la sua squadra effettuano durante la preparazione di “Titanic”, con macchine sottomarine comandate a distanza, lo scopo è la reinvenzione storica degli ambienti per l’esecuzione di una esatta scenografia.

Schizzi allora, eccezionali, la preparazione di quel futuro generatore di grande cinema che avremmo visto realizzato sullo schermo: “si tratta di bozzetti che ho realizzato e che mostrano alcune stanze della nave affondata, si basano sulle mie osservazioni reali durante la mia spedizione al relitto del Titanic nel 1995”. Studi e scommesse e re-invenzioni che hanno modo di divenire sprazzi di una felicità senza confini. Lo pensiamo felice e stupefatto insieme come un bambino, Cameron: “il mio disegno esplora fondamentalmente ciò che ho immaginato fosse il risultato di decenni di immersione sul fondale oceanico. Il legno della cabina è un po’ consumato, ma è sopravvissuto abbastanza bene e l’intarsio in oro è ancora intatto. Al centro a sinistra c’è un’applique capovolta, rimasta sospesa per i cavi. Durante una successiva spedizione al Titanic nel 2005 sono riuscito a far entrare uno dei bot in una vera cabina del ponte C e indovinate un po’ cosa abbiamo scoperto? L’intarsio d’oro era ancora lì, proprio come nel mio disegno. Inoltre, due applique erano state strappate dal muro e penzolavano, capovolte, appese per i cavi, una a ciascun lato della porta. L’unica differenza rispetto al disegno era che queste lampade erano in ottone placcato oro e poiché l’ottone diventa verde quando si corrode, presentavano bugnature verdi”. Non soltanto gli ambienti, Cameron corre a definire le mani dei suoi personaggi, le posture e i volti – non sfuggono nemmeno le creature immerse nella natura, mostruose e no, non ultima quel Xenogenesis che non ha mai visto la luce, una sorta di cavalletta alata che si regge a un piccolo ramo: “l’ho vista in sogno quando avevo diciannove anni, sognai una foresta bioluminescente popolata da lucertole volanti le cui ali erano composte da segmenti disposti a ventaglio, parecchio tempo dopo avrei rispolverato le idee delle lucertole e della foresta per ‘Avatar’” -, accennando, approfondendo, offrendo particolari che definiranno completamente.

Schizzi e bozzetti per arrivare a un risultato che pareva “generico”. Poi con l’impegno e la ricerca di ogni giorno è arrivato il ritratto di Rose/Kate Winslet, gli occhi e lo sguardo, la mano posata sul lato della fronte e il pollice rientrato, il gomito poggiato sull’elegante cuscino, il “cuore dell’oceano” posato sul petto. Non è Jake Dawson ad averlo seguito, è la mano di Cameron (“ho fatto la controfigura di Di Caprio”), precisa e sognatrice ancora una volta. Un’ultima nota per chi visiterà la mostra. Non fermatevi al nero nastro che sale verso l’alto, tra disegni e fotografie e filmati, addentratevi nelle salette laterali alla grande Sala per non perdervi quegli angoli che ancora di più vi sveleranno i mostri di “Alien” o la realizzazione di “Titanic” o le sembianze del “terminator” Schwarzenegger: per godervi appieno il regista che ha saputo unire arte e i migliori incassi della storia cinematografica.

Elio Rabbione

Nelle immagini: angoli dell’allestimento della mostra; e – tutte Avatar Alliance Foudation © James Cameron – “Schizzo del ritratto di Neytiri”, “Studio su Terminator” (prima del casting di Arnold Schwarzenegger), “Ritratto di Rose” e “Il pianeta Mesa di Xenogenesis” (metà anni ’80).

Il paesaggio ottocentesco, dall’età romantica al simbolismo

A Novara, negli spazi del castello visconteo, sino al 6 aprile

Due figure femminili, di differenti età, introducono dalla mura del castello visconteo di Novara alla mostra “Realtà Impressione Simbolo. Paesaggi. Da Migliara a Pellizza da Volpedo”, visitabile sino al 6 aprile prossimo (www.metsarte.it): la pastorella, ovvero la bambinaia dei figli del pittore, che, posta da Segantini nella distesa dei prati e tra le nevi del Cantone dei Grigioni, si mette al riparo del sole facendosi ombra con il cappello di paglia a larga falda e con il palmo della mano (“Mezzogiorno sulla Alpi”, 1891), e la vecchia, nello sguardo di Carlo Fornara, in un incessante susseguirsi di piccoli e ravvicinati tratti di colore, lineari e in spirale, curva sotto il peso del fascio di legna che avanza sotto le sferzate del freddo vento del nord in un sapiente alternarsi di azzurri e di rosati, “L’aquilone” del 1902. Un sipario d’introduzione ma rintracciabili nell’ultima delle nove sezioni in cui è suddivisa la mostra, là dove il divisionismo oltre ai succitati abbraccia alcune opere di Morbelli – il paese sull’alto della collina con i pochi personaggi, “Nebbia domenicale” del 1880, riproposto sotto diversa atmosfera trentacinque anni dopo – e di Pellizza da Volpedo, di cui si rivede quel capolavoro di vita e di arte che è “Sul fienile” (1902), un favolistico tratteggio in terra monferrina che confina per molti versi con il pointillisme parigino, intimo e struggente, una scena d’agonia e di sacramenti tra religiosità e povertà posta nell’ombra e messa a confronto con la luce netta che piove su una calda giornata d’estate. Un divisionismo, ancora con Segantini, capace di sfociare in una nuova sperimentazione linguistica e in una incursione in netto clima simbolista, nell’”Amore alla fonte della vita”, del 1896, proveniente dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano, commissionata dal principe russo Jussopoff di San Pietroburgo, “l’amore giocondo e spensierato della femmina, e l’amore pensoso del maschio, allacciati insieme dall’impulso naturale della giovinezza e della primavera” ebbe a scrivere l’artista in una lettera a Domenico Tumiati, fratello dell’attore Gualtiero, mentre “un mistico angiolo sospettoso stende la grande ala sulla misteriosa fonte della vita, l’acqua scaturisce dalla viva roccia, entrambi simboli dell’eternità”.

Uno sguardo per “Paesaggi” che s’incrocia su Piemonte e Lombardia soprattutto, unendo altresì la Liguria (i nomi e la zona di Carcare) e le valli svizzere, con le ricche testimonianze – in un percorso coordinato per isole da Elisabetta Chiodini – provenienti dalle Gam di Torino Milano e Genova e Ricci Oddi di Piacenza, dal museo Segantini di St. Moritz e quello del Paesaggio di Verbania, dalla Galleria Giannoni di Novara. Un percorso che ha inizio dall’età romantica del paesaggio, a partire da quella serie di vedute lombarde che nel 1807 Eugenio di Beauharnais, vicerè d’Italia, commissiona a Marco Gozzi “con l’intento di documentare le località più pittoresche e le opere di ingegneria d’importanza strategica nello sviluppo del territorio”. Faranno seguito i panorami della Franciacorta ad opera di Luigi Basiletti, ville e poderi e personaggi ripresi con netto realismo sino all’arrivo a Milano di Massimo d’Azeglio che s’afferma sulla scena artistica con la formula del “paesaggio istoriato” (“La morte del conte Josselin di Montmorency”, 1825), ove prevale l’aspetto storico immerso in ampie vedute studiate dal vero, e alla “sensibilità moderna” di Giuseppe Canella (del ’38 è la sua “Veduta della laguna di Venezia”, barche e pescatori rischiarati da un vasto tratto d’orizzonte illuminato dalle ultime luci della sera), colpito dall’esempio dei maestri fiamminghi incontrati nelle sale del Louvre all’epoca del suo viaggio parigino. La necessità di andare oltralpe, di superare i confini per saggiare apporti diversi che possono giungere tra gli artisti del nord Italia: si sviluppa l’area mitteleuropea, con i suoi personaggi immersi in un’atmosfera romanticonaturalista, con l’influenza tra gli altri di Alexandre Calame, ginevrino, e Julius Lange, tedesco, che spingeranno i loro colleghi a studiare la natura dal vero, e con gli incontri – da parte di Fontanesi, ad esempio, nelle sale dell’Esposizione Universale parigina del 1855 – con la scuola di Barbizon, con Corot e Daubigny e Rousseau, autore quest’ultimo del bellissimo “Ancien moulin de Saint-Ouen” datato intorno al 1832.

Sarà, verso gli anni Sessanta, la città di Ginevra il punto d’incontro dei tanti artisti, con la scuola di Calame, con gli incontri e le amicizie e i sodalizi artistici che nascono tra il torinese Avondo e il portoghese de Andrade, tra il genovese Rayper ed Ernesto Bertea, pinerolese, consolidati tra i tavolini del caffè du Bourg: una spinta a immergersi al centro della natura, a coltivare l’en plein air, a sviluppare le successive esperienze d’ambito realista, pronte a trovare sede a Rivara, nel canavese, in casa di Carlo Ogliani cognato di Carlo Pittara, e a Carcare, nel savonese, dove prenderà forma la “Scuola dei Grigi”. La natura soprattutto, certo, come è per Fontanesi (“Aprile. Sulle rive del lago del Bourget”, 1864), ma anche l’occasione per guardare – all’interno di un paesaggio livido e spoglio – alla vita sociale, per cui “Buoi al carro” di Pittara può essere anche letto come “Le imposte anticipate” (1865), o al progresso che avanza, unica quella “Via ferrata” di Tammar Luxoro, di origini genovesi, con il treno e il suo sbuffo che attraversano la campagna, e siamo già al 1870. Ad ingigantire il confronto tra il pittore e ciò che lo circonda, saranno Fisanotti e Riccardi, professori di paesaggio a Brera, a portare tra i Sessanta e i Settanta i loro allievi a dipingere nelle campagne dei dintorni di Milano, “spronandoli a confrontarsi con il vero e a cercare di restituire sulla tela le luci, i colori, le ombre” che esistono in natura: quindi non più il paesaggio concepito come una veduta scenografica dove dettano ordini rigide norme compositive e di prospettive, un unicum di accordi di luci e di colori dovranno avere il sopravvento, alla ricerca di una esatta “impressione”. La figura di maggior spicco Filippo Carcano, in sala tutta l’ampiezza (101 x 200 cm) della sua ”Isola dei Pescatori”- il pittore è quarantenne – gioiello del lago Maggiore, datato 1880, in collezione privata, la sponda e le case e il campanile quasi miniaturizzati in tanta precisione, lasciando al paesaggio tutt’intorno la libertà di una tranquilla dispersione.

Con Carcano compaiono i nomi di Delleani (“Giochi di bimbi”, 1885), di Francesco Filippini e il suo ampio sguardo, quasi a perdita d’occhio e dove è meraviglioso perdersi, sull’andata al “Vespro” (1891), di Eugenio Gignous ancora a guardare, sei anni dopo, alle luci dell’”Isola dei Pescatori”, di Achille Befani Formis che “Sulla Strona” guarda alla fatica e ai canti delle lavandaie. Il paesaggio si trasporta altresì nel cuore della città, nel rappresentazione della veduta urbana, coglie le attività quotidiane, le voci e i volti, le differenti età di chi la abita, le contrastanti classi sociali, fotografa ricchezza e nobiltà, la povertà che serpeggia ovunque. Il “naturalismo lombardo” s’impossessa non più dei motivi agresti e montani finora imperanti, ma delle vie e delle strette strade che brulicano di gente mattiniera, degli angoli nascosti e poco frequentati, magari banali, delle trasformazioni che abbelliscono e ingigantiscono l’intera città. È una scommessa a rendere in ambienti del tutto nuovo, ben altro da quanto frequentato in precedenza, i giochi di luci, l’intrecciarsi di riflessi, il sovrapporsi di fresche e felici suggestioni, maestri nel dividersi tra ambienti ora colpiti dalla luce piena del sole come offuscati da giornate nebbiose e rabbuiate. Grandi segnali arrivano dalla “Nevicata” di Segantini e dagli angoli notturni o ancora coperti di neve di Mosè Bianchi, vero cantore della sua Milano, le luci che rischiarano e mettono in mostra gli abiti delle signore forse alla ricerca di una carrozza (“Milano di notte”, 1886) o quella “Prima neve” (1890), dove si va di fretta, dove s’aprono passaggi sgombri, dove poveri calessi tentano d’avanzare a fatica.

Al termine del percorso – preciso, suggestivo, accattivante nei soggetti e nello svolgimento, nell’intreccio di luci e colori, nella sequenza dei tanti nomi – attendono ancora i dipinti di Leonardo Bazzaro, un angolo intimo di vita e di piacevolezze familiari, realizzati tra il 1900 e il 1905, ambientati in quell’oasi felice che per il pittore fu la residenza all’Alpino, un villino fatto costruire sulla strada che conduce da Gignese al Mottarone: felicità di soggiorni estivi soprattutto, tra amici, la cura dei fiori (“I miei fiori” venne presentato alla mostra della Promotrice torinese nel 1900, e riapparve solo qualche anno fa, dopo oltre un secolo) e le chiacchiere al tavolino con le amiche o i giochi con le piccole nipoti da parte della moglie del pittore. E un breve focus intorno alla figura di Pellizza, lo studio del paesaggismo inglese da Turner a Constable, le riflessioni su Fontanesi, uno sguardo più attento a quanto ci circonda devenuto uno dei temi prediletti dell’ultima stagione pittorica, la tecnica che il pittore stesso definisce impressionistica, il perfetto risultato che sono “La Clementina” e “Valletta a Volpedo”: una nuova visione, il paesaggio osservato dal vero che diviene “un luogo mentale”, una rilettura, “un’immagine universale della natura e del potere rigenerativo della luce”.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Giovanni Segantini, “Mezzogiorno sulle Alpi”, 1891, olio su tela, St. Moritz, Segantini Museum, proprietà della Fondazione Otto Fischbacher – Giovanni Segantini; Carlo Fornara, “L’Aquilone”, 1902, olio su tela, coll privata; Giuseppe Pellizza da Volpedo, “Sul fienile”, 1893-94, olio su tela, coll privata; Antonio Fontanesi, “Aprile. Sulle rive del lago del Bourget, in Savoia”, 1864, olio su tela, coll privata; Mosè Bianchi, “La prima neve”, 1890, olio su tela, coll privata.

“Mai + trasmessi”, “La madre di Torino”

Raistoria propone da due settimane dei numeri unici in bianco e nero e a colori; il ritorno alla luce di programmi televisivi andati in onda una sola volta: “Mai + trasmessi”. Mercoledì 26 febbraio, alle ore 21,10, nel corso della puntata si parlerà dell’originale televisivo “La madre di Torino”, del regista e sceneggiatore Gianni Bongioanni, vincitore nel 1967 a Ravenna del Premio Italia.

Andato in onda sul programma Nazionale televisivo il giorno 11 aprile 1968 e distribuito con successo a molte emittenti televisive internazionali ha come interpreti l’attrice Lucia Catullo nei panni della madre e Roberto Trevisio in quelli del figlio ed il torinese Carlo Enrici. Girato in 35 mm con una cinepresa a braccio è la ricostruzione di una storia familiare e cittadina, di un fatto realmente accaduto proprio a Torino negli anni Sessanta tra corso Peschiera e corso Francia: un bambino di quattro anni gioca sul terrazzo in una casa popolare e mentre gioca da solo si trova catapultato nel vuoto, ma all’ultimo riesce ad afferrare le sbarre della ringhiera. La madre se ne accorge, lo trattiene per le mani ma non riesce a sollevarlo per portarlo in salvo. I due  rimangono così, mani nelle mani, per ore. Intrappolati in un congegno di tralicci, amore, angoscia e terrore, madre e figlio rimangono per ore bloccati in una posizione precaria e difficile fino all’arrivo dei soccorritori. La sceneggiatura di Gianni Bongioanni e Lucile Lask è, come venne scritto sul RadiocorriereTv dell’epoca, un’indagine sui sentimenti con implicazioni sociologiche del vivere in città, in un organismo urbano vincolato, allora, alla condizione industriale dove la solitudine era quella dei bambini la cui vitalità non trovava spazi per esprimere la propria energia confinandoli in aree esigue e marginali. Una piccola perla d’epoca da riscoprire con la regia del torinese Gianni Bongioanni, scomparso a 96 anni nel 2018, che ricordiamo per aver diretto anche lo sceneggiato “Una donna”, tratto dal romanzo di Sibilla Aleramo, seguito nel 1977 da 15 milioni di telespettatori in cui lanciò la ventenne Giuliana De Sio, per “Mia figlia” del 1981 e “Matilde” con Lucia Catullo.
Igino Macagno

Gianluca Herold presenta il suo libro “Il più bel trucco del Diavolo”

La storia di Andrea Volpe e le “Bestie di Satana”

Gianluca Herold, scrittore, collaboratore di molte case editrici e riviste come “Rivista Studio”, “Linkiesta” e “Lucy”, presenterà giovedì 27 febbraio il suo libro “Il più bel trucco del Diavolo”(Rizzoli, 2024) in occasione dell’Aperilibro di febbraio organizzato dal Gruppo di Lettura Carmagnola. Il libro ci racconta, a vent’anni di distanza, la figura di Andrea Volpe e le “Bestie di Satana”.

“Non ricorda niente. Lo chalet, Mariangela, la videocassetta. La notte che sta sfumando in un’alba di neve è un buco nero in testa, una voragine su cui incombe una luna incendiaria. Andrea Volpe non dorme da giorni, e ha perso il conto delle droghe che ha in corpo, ma una consapevolezza improvvisa lo attraversa come un brivido quando la sua Honda termina la corsa, sul ponte del canale Villoresi: è tutto finito. È il 24 gennaio 2004, sembra la fine di un incubo, ma in realtà è solo l’inizio per quel ragazzo con gli occhi da folle e i lunghi capelli corvini. A Somma Lombardo si apre l’indagine sulle Bestie di Satana, uno dei casi di omicidi più sconvolgenti del Dopoguerra italiano, come lo ha definito la BBC. Andrea ha ventisette anni, una vita già spezzata prima che le sue dichiarazioni ai carabinieri lo consegnino alla cronaca come il mostro, prima che la giustizia faccia il suo corso e arrivi la condanna definitiva per quattro omicidi. A vent’anni di distanza dai fatti, Gianluca Herold ricostruisce la storia di Andrea Volpe, che si racconta per la prima volta in queste pagine con la fiducia e la sfrontatezza di chi prova finalmente a togliersi la maschera. Il risultato è un romanzo di scavo, che ci restituisce l’itinerario brutale di un uomo che ha abitato l’abisso, e lo fa attraverso la sua voce e quella di chi ne ha incrociato il destino. Un viaggio nel male assoluto che ci interroga con sguardo lucido e una scrittura tagliente sulla possibilità di voltare pagina. Un libro molto attento alla realtà dei fatti e lontano da ogni stereotipo, è anche un’articolata riflessione sul male, sulle sue origini, e le sue conseguenze su chi lo fa e chi lo subisce”.

L’incontro sarà moderato da Maurizio Liberti e si terrà nella Sala Monviso della Trattoria della Vigna di via San Francesco di Sales 188, a Carmagnola, a partire dalle ore 21.

Come prevede la formula dell’Aperilibro, alle ore 19.30 inizierà l’apericena (non obbligatoria) al costo di 15 euro, che prevede due antipasti, un primo, acqua e la possibilità di sedere nelle prime file durante la presentazione del libro.

Mara Martellotta

Ferdinando Scianna racconta Henri Cartier-Bresson

I Giovedì in CAMERA

 

Il maestro dei maestri

27 febbraio 2025, ore 18.30

CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia

 Via delle Rosine 18, Torino

 

Martine Franck, Henri Cartier-Bresson e Ferdinando Scianna, Bagheria, Italia, 1986 © Martine Franck, Magnum Photos

Il 27 febbraio 2025, alle ore 18.30, CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia inaugura il ciclo di incontri I Giovedì in CAMERA dedicati alla nuova mostra Henri Cartier-Bresson e l’Italia, ospitando Ferdinando Scianna, primo fotografo italiano membro della leggendaria agenzia Magnum Photos.

A partire dalle immagini esposte in mostra, Scianna ripercorrerà la lunga carriera di Henri Cartier-Bresson, guidando il pubblico alla scoperta dell’occhio del secolo che ha cambiato per sempre il modo di vedere il mondo attraverso un obiettivo.

 

Per Scianna, Cartier-Bresson non è stato solo un punto di riferimento ma un vero e proprio mentore, “il maestro dei miei maestri”, ed in effetti il fotografo francese ha ispirato generazioni di artisti e fotoreporter, attraverso scatti che hanno fatto la storia della fotografia per la straordinaria gestione dello spazio dell’immagine, il rapporto tra realtà e invenzione e la capacità di cogliere l’istante: tematiche, del resto, definite proprio in Italia, nelle fotografie realizzate durante il primo viaggio nel Paese, nel 1932. È a Parigi, tuttavia, che Scianna incontra il maestro, con il quale instaura non solo una lunga collaborazione professionale – sarà proprio Cartier-Bresson a introdurlo tra i grandi talenti di Magnum Photos – ma anche un legame di profonda ammirazione e amicizia, che li accompagnerà fino alla scomparsa del fotografo francese, avvenuta nel 2004.

 

Durante l’incontro, in compagnia di Walter Guadagnini, direttore artistico di CAMERA e co-curatore della mostra, Scianna coinvolgerà il pubblico in una conversazione che, tra immagini e aneddoti personali, approfondirà la figura e l’impatto di un protagonista assoluto della storia della fotografia. Un’opportunità unica per immergersi nell’arte e nella vita di Henri Cartier-Bresson, attraverso la voce di un altro grande fotografo che lo ha conosciuto da vicino.

 

L’incontro ha un costo di 3 euro. Per partecipare è consigliato prenotare sul sito di CAMERA

“Essenza Donna 2025” a Carmagnola

Letteratura, musica e arte per la Giornata Internazionale della Donna 

Per celebrare la Giornata Internazionale della Donna, l’Amministrazione Comunale e l’Assessorato alle Politiche Sociali e alle Pari Opportunità del Comune di Carmagnola, in collaborazione con le associazioni carmagnolesi Essenza Danza e Gruppo di Lettura Carmagnola, organizzano per il terzo anno consecutivo un evento speciale intitolato “Essenza Donna”.

L’appuntamento è per venerdì 7 marzo alle ore 21:00 presso l’Auditorium Baldessano Roccati, viale Giuseppe Garibaldi 7, con ingresso gratuito fino ad esaurimento posti.

In linea con le precedenti edizioni e in sintonia con il suo stesso titolo, l’evento vuole celebrare l’essenza autentica della Giornata della Donna con momenti di qualità e riflessione, leggeri e coinvolgenti. Un viaggio tra letteratura, musica, danza e pittura, arricchito da profumi e sapori in un’atmosfera elegante e suggestiva. Con eleganza e delicatezza, le parole dei testi si trasformeranno in movimento grazie alle ballerine di Essenza Danza, accompagnate da una selezione musicale appositamente studiata per l’occasione.

Sul palco saliranno artiste di grande talento. Roberta Belforte, attrice nota al pubblico teatrale torinese, darà vita a brani della letteratura di varie autrici, tra le quali Oriana Fallaci e Annie Ernaux, accompagnando il pubblico in un percorso di scoperta dell’universo femminile. L’artista figurativa Sara Luciani proporrà sei frasi di Jane Austen, di cui quest’anno ricorre il 250° anniversario della nascita, e altrettanti ritratti della scrittrice reinterpretati secondo la sua visione artistica. La violinista Diana Imbrea, artista che ha partecipato a numerosi concorsi musicali aggiudicandosi importanti riconoscimenti, regalerà alla serata un tocco musicale raffinato.

Un omaggio floreale offerto dal vivaio Daveli e una delizia dolciaria offerta della pasticceria Di Claudio saranno donati a tutte le spettatrici, insieme a due regali messi a disposizione dai main sponsor della serata, Lumadea e lo studio dentistico Usai. Durante la serata verrà inoltre annunciata una grande novità legata all’edizione 2025 del Festival Letti di Notte, al quale tutte le realtà coinvolte collaborano.

“La Giornata Internazionale della Donna è un momento di riflessione sul cammino percorso e sulle sfide ancora aperte per raggiungere una piena parità di diritti e opportunità – ha dichiarato il Sindaco Ivana Gaveglio – anche quest’anno, a Carmagnola celebreremo la ricorrenza attraverso l’arte e la cultura, strumenti potenti per raccontare la forza, la resilienza e la creatività delle donne. Un evento come questo è un’occasione per sensibilizzare, ispirare e rendere omaggio al valore femminile nella società, mantenendo alta l’attenzione sulle discriminazioni ancora presenti e sulla necessità di continuare a costruire un futuro più equo”.

Informazioni al numero 3925938504.

Gian Giacomo Della Porta

Da Picasso a Warhol, la ceramica dei grandi maestri

“Forma e colore – da Picasso a Warhol”, la ceramica dei grandi maestri è protagonista alla galleria Sottana dell’oratorio San Filippo Neri di una interessante mostra aperta fino al 2 giugno prossimo

La galleria Sottana dell’oratorio San Filippo Neri ospita da sabato 15 febbraio la mostra intitolata “Forma e colore. Da Picasso a Warhol”, la ceramica dei grandi maestri.

“Un importante storico dell’arte del Novecento – cita Giovanni Iovane – Henri Focillon, in un suo saggio ‘Vita delle forme’ nel 1936 così scriveva ‘ ogni materia porta racchiusa in sé  la propria vocazione formale’. La vocazione formale della ceramica  e dei suoi derivati come la terracotta, vanta una sua storia plurisecolare , ma è con le avanguardie storiche del Novecento che riscopre una apertura  verso quei materiali di uso quotidiano,  verso quegli oggetti come i piatti, ma anche i giornali, il  cartone e la plastica che ci circondano e reclamano, oltre all’uso e alla funzione, una propria vocazione formale. Le cose che ci circondano, nella vita quotidiana, non sono solo elementi aggiuntivi o sostitutivi dei materiali canonici della storia dell’arte, ma hanno titolo e diritto a reclamare una propria autonomia formale come il marmo o la pittura a olio o acrilico.

La ceramica un tempo era una forma di arte minore o un  riempitivo economico come in Renoir. “Dopo Picasso – spiega Vincenzo Sanfo, curatore della mostra insieme a Giovanni Iovane – quello che prima era considerato soltanto un passatempo per gli artisti  diventa a tutti gli effetti una pratica artistica a tutto tondo e in cui tutti gli artisti tenteranno di cimentarsi a volte con risultati sorprendenti. Nel Novecento si aprirà quindi una gara fra gli artisti di tutto il mondo che, sull’onda di Picasso, vorranno cimentarsi anch’essi con questa tecnica e con le sue diverse sfaccettature. Ne nasce, in parallelo, un collezionismo attento e paro a quello dei dipinti, dei disegni, della scultura e che consente  di allargare il piacere della collezione anche a fasce di pubblico economicamente meno privilegiate.

La ceramica, per la sua duttilità, la sua luminosità, la ricchezza della sua cromia e, non da ultimo, per la facilità della sua collocazione, troverà grandi spazi nel mondo artistico internazionale dando a questa pratica la possibilità di divenire estremamente popolare e diffusa”.

“È stato Picasso – prosegue Vincenzo Sanfo –  a sdoganare la ceramica e a introdurla nel mondo dell’arte, segnando un nuovo percorso che, dopo di lui, vedrà altri grandi maestri dedicarsi a nuove modalità espressive, deviando dai loro consuetudinari ambiti, come la pittura e la scultura. In questa mostra ne sono presenti circa un centinaio, provenienti da ogni parte del mondo, dalla Spagna alla Cina, passando per il Messico, per una esposizione unica nel suo genere”.

“La ceramica, per la sua duttilità, luminosità, ricchezza di cromia e, non ultimo, per la facilità di collocazione, troverà grandi spazi nel mondo artistico e internazionale – precisa Vincenzo Sanfo – dando a questa pratica la possibilità di diventare estremamente diffusa. Non si contano i piatti decorati, i vasi, gli oggetti da collezione, le piccole o grandi sculture che, presenti ovunque, addobbano e danno forza anche dal lato meramente decorativo, a collezioni importanti e diffuse in tutto il mondo”.

Fino al 2 giugno prossimo, la galleria Sottana, attigua alla chiesa più grande di Torino, San Filippo Neri, accoglie circa 100 opere in ceramica provenienti da collezioni private firmate da grandi artisti del Novecento e contemporanei, originari di gran parte del mondo, che hanno praticato l’arte della ceramica senza essere ceramisti puri, bensì, per lo più scultori e pittori. Per quanto riguarda la Cina, sono in mostra opere di Ai Weiwei e Zhang Hongmei, due tra i più grandi maestri del panorama artistico cinese, in cui vi è una visione del tutto antitetica che trova nelle opere di artisti come Pan Lusheng, Liu Ruo Wang e Xu De Qi, i loro compagni di strada, una lucidità di percorso tra poesia e contestazione.

Un mondo in parte ancora sconosciuto è quello della creatività latino americana che spazia dall’arte optional di Julio Le Parc al surrealismo contemporaneo di Vik Muniz, fino alle presenze sofferte di Javier Marin. Sono tutti artisti che ci portano a scoprire una creatività in divenire, raccontandoci con la ceramica l’inquietudine e le speranze di un continente complicato e complesso.

Il mondo dell’arte italiana frequenta da sempre la ceramica, dai derivati della terracotta alla porcellana, sino ai gessi e ai cementi. In mostra si possono ammirare le ceramiche di Marco Nereo Rotelli, una vetrina dedicata a Ezio Gribaudo, una a Marco Lodola, ceramiche di Enzo Rovella e Franco Garelli, che dimostrano come questo rapporto tra la terra e il fuoco sia presente nel nostro DNA. La ceramica è anche stata capace di abbracciare l’arte concettuale, e lo dimostrano le presenze in mostra delle opere di Sol LeWitt, Rudolf Stingel, Alighiero Boetti, che ci riportano a un concetto rigoroso e mentale dell’opera d’arte.

Molto significativa è la sezione e dedicata a Picasso. L’arrivo a Vallauris di Picasso, e il suo improvviso innamoramento per la ceramica, complici anche i begli occhi di Jacqueline Roque, che diverrà da lì in avanti la sua compagna di vita, costituisce una sorta di spartiacque tra una concezione utilitaristica o decorativa della ceramica e un suo approdo nel mondo dell’arte moderna che guarderà al fare ceramica in modo nuovo e con crescente interesse.

La creatività femminile trova, in questa sezione, tutta la sua ricchezza: la ceramica è anche donna e lo dimostra la creazione di Marina Abramovic per Illy Cafè, i lavori di Louise Bourgeois, di Jenny Holzer e Yoko Ono, che raccontano con le loro opere come la creatività femminile sappia essere protagonista anche nel mondo della ceramica.

Oratorio San Filippo Neri – galleria Sottana – via Maria Vittoria 5, Torino

Martedì-domenica dalle 10 alle 19 / lunedì chiuso / Pasqua chiuso / aperture straordinarie 21/04 e 02/06

Mara Martellotta

Torino e le verità sussurrate: “I sorrisi non fanno rumore”

Torino tra le righe

Per Torino tra le righe oggi vorrei parlarvi dell’ultimo libro di Enrica Tesio “I sorrisi non fanno rumore”.
Enrica Tesio è blogger e scrittrice torinese. Laureata in Lettere con indirizzo cinematografico, fa la copywriter da quando aveva 20 anni. Nel 2015 ha pubblicato per Mondadori “La verità, vi spiego, sull’amore”, dal quale è stato tratto un film. Nel 2017 è uscito per Bompiani “Dodici ricordi e un segreto”. Nel 2019 ha pubblicato per Giunti la raccolta di poesie “Filastorta d’amore. Rime fragili per donne resistenti”, che è diventata uno spettacolo teatrale in giro per l’Italia. Per Bompiani ha pubblicato “Dodici ricordi e un segreto” (2017), “La dispensa della memoria” (2017), “Tutta la stanchezza del mondo” (2022) e “I sorrisi non fanno rumore” (2023). Ha tenuto diverse rubriche su “La Repubblica” e “Donna Moderna”.
La storia è una favola moderna, scritta per incantare gli adulti. La protagonista è tutto fuorché la classica eroina da fiaba, ma riesce comunque a trasmettere quel senso di “e vissero felici e contenti” che ci aspettiamo e, forse, ci meritiamo.
La storia prende il via da un fatto curioso, un episodio fra il comico e il tragico. Antonia, per tutti Toni, è l’autrice e illustratrice di una fortunata serie di libri per bambini. Ma durante una presentazione della sua ultima opera, di fronte a un vasto pubblico di ragazzini della scuola elementare, si lascia sfuggire una dichiarazione poco adatta all’uditorio: semplicemente, con candore, dice ai suoi giovani lettori che Babbo Natale non esiste. Toni si sente soffocare in un momento che pareva una farsa e la verità le sembra una boccata d’ossigeno. Ma i bambini presenti scoppiano in un mare di lacrime e i loro genitori sono in cerca di un capro espiatorio… Così la piccola distrazione di Toni la costringe alla fuga, e il temporaneo isolamento la spinge a fare i conti con il suo passato.
Da questo episodio in poi, il romanzo prende una piega particolare e diventa una storia che ruota tutta intorno a due parole chiave: assenza e presenza. La protagonista ci mostra come assenza e presenza siano due facce della stessa medaglia e quanto queste sfumature definiscano la nostra esistenza. L’assenza è la perdita delle persone che non sono più con Toni, che sono venute a mancare o che l’hanno lasciata. La presenza è l’amore infinito, ma sofferto, che la donna sente nei confronti della figlia, e sono i nuovi incontri o le vecchie relazioni da rimodulare.
La protagonista è alla ricerca di un equilibrio: non si sente una madre giusta per la figlia, soffre nel vedere il suo ex marito accanto a una nuova compagna, giovanissima, solare e finlandese, vive tra il caos di ricordi che non riesce ad abbandonare ma che le fanno provare dolore, e il disastro di una routine andata in pezzi all’improvviso. Alla fine capisce che l’unica felicità possibile è quella che possiamo concederci, accettando noi stessi, gli errori e il tempo che passa. Una serenità semplice, eppure capace di fare la differenza in una vita.
A me questo libro è piaciuto tantissimo. Ha i toni intimi, sinceri e commoventi di una confessione. Una favola moderna, certo, ma che ci fa anche scontrare con tematiche serie e importanti, in modo dolce e un po’ amaro. Toni e Vittoria, ma anche Riccardo e Cesare, ci fanno riflettere sulla vita da adulti, sulle responsabilità e le scadenze che hanno la meglio su tutto, sulla ricerca di visibilità e di protagonismo, sul ricordo e la perdita. Fa sorridere come da una verità possano nascere tante bugie e come da un allontanamento si possano mettere in moto dinamiche inaspettate.
Ho iniziato questo libro una sera e non sono riuscita letteralmente a staccarmi dalle pagine. L’ho letto tutto d’un fiato.  Mi sono sentita vicina alla protagonista, al suo senso d’inadeguatezza, il timore di non essere la mamma “giusta” per la figlia, quel sentirsi sempre fuori posto, sola e frammentata. Il dover rispondere alle aspettative altrui, il bisogno di mostrarsi come gli altri vogliono vederci. E credo di non essere l’unica a riconoscersi in Toni.
Accanto alle emozioni e alla crescita di una donna che è anche madre, l’autrice affronta un tema cruciale della società di oggi e della genitorialità stessa: i social media, luoghi di giudizi sommari, impietosi e gratuiti, capaci di lasciare cicatrici profonde. Enrica Tesio ha il raro dono della leggerezza, di uno stile pacato e divertente, lieve e profondo, dove la rivelazione di Antonia diventa il motore per fare pace col passato e il presente, per perdonarsi, per tornare ad amare.
“I sorrisi non fanno rumore” è un libro che invita alla riflessione, che ci accompagna in un viaggio di consapevolezza e accettazione. Una lettura che consiglio a chiunque abbia voglia di emozionarsi e riconoscersi in una storia autentica e sincera.
Marzia Estini
Nino the mischievous elf an incredible Christmas adventure of friendship and magic
linktr.ee

L’arte di James Cameron

L’ arte di James Cameron,  mostra ad alto livello che  inaugura il percorso da Direttore di Carlo Chatrian al Museo del Cinema di Torino.
Il personaggio Cameron uomo di cinema molto conosciuto ci porta a svelare quelle sfumature umane che sprigionano creatività… tutto inizia dall’ arte: opere disegni da dove partono i suoi film da illustratore a regista passando da ricercatore, studioso, innovatore, fantasista.


La mostra sviluppata in verticale come si addice alla struttura della Mole, espone oltre 300 opere origini tratti dall’ archivio personale del cineasta. Alla base dei suoi film diventati pilastri della cultura popolare, proprio i suoi schizzi, disegni e dipinti da lui realizzati. La mostra ci accompagna in un viaggio attraverso la complessità di una mente brillante la cui immaginazione non ha limiti.Dai disegni dell’ infanzia ai dipinti per poster, dalla carta sono partiti anche i progetti più tecnologici che l’innovazione ha portato in vita nei suoi film.


L’omaggio a James Cameron propone al Cinema Massimo, dal 21 febbraio al 5 marzo 2025, una retrospettiva completa, inclusi i film a cui ha collaborato quando lavorava nella Factory di Roger Corman, come sceneggiatore e produttore, insieme a Kathryn Bigelow, di due dei suoi film. La mostra sarà visitabile alla Mole Antonelliana fino il 15 giugno.

GABRIELLA DAGHERO