CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 3

“I Nomi e le Voci”, al teatro Erba il “Monstrum” della poesia di Roberto Mussapi

Nella serata di martedì 14 ottobre, presso il teatro Erba di Torino, è andato in scena “I Nomi e le Voci” di Roberto Mussapi, un grande e ispirato esempio di teatro-poesia prodotto da Torino Spettacoli. Sul palco, insieme all’iconica Miriam Mesturino, che con il suo personaggio Didone condivide fascino passione, i talentuosi e pieni di grazia Roberta Belforte e Matteo Anselmi, l’incantevole voce del soprano Danae Rikos sulle note al pianoforte di Andrea Bevilacqua e alcuni ragazzi e ragazze dei G.E.T. Germana Erba’s Talents (Matilde Dalla Verde, Gaia Del Papa, Elisa Frangelli, Miriam Iezzi Mammarella, Fiamma Laiolo, Angelo Marchianó, Simone Marietta e Matilde Tacconi) che, della poesia, tanto hanno rappresentato la sua infinita gestualità di volo e gioventù, sapientemente curata dal regista Girolamo Angione e dalla coreografa Laura Fonte.

Il protagonista assoluto di questo spettacolo, cifra stilistica riscontrabile in tutta l’opera di Roberto Mussapi, è quel “Monstrum”, inteso come prodigio, segno divino, di cui si nutre la poesia quando diventa catalizzatrice di eventi, sentimenti, passioni e personaggi che vivono grazie a questo ispirato e mostruoso centro d’energia universale. In letteratura, nei classici, dalla figura di Achille in avanti, ricorre spesso questa potente voragine associata al personaggio, che a sua volta metamorfizza in voce, gesto o strumento d’espressione della poesia stessa: viene naturale pensare al capolavoro di Melville, “Moby Dick”, il cui protagonista, Achab,  può essere cantato nelle sue gesta soltanto da Ismael, portatore della voce poetica, ma molto somiglianti in queste caratteristiche possiamo trovare Dracula di Bram Stoker, la cui sofferenza per il perduto amore lo condurrà alla grazia del perdono nell’incontro con Mina Murray, o ancora Don Giovanni. In Mussapi, chiaramente, questo “Monstrum” è la stessa poesia: un’ispirazione che si impossessa del poeta per far sì che ogni cosa intorno possa avere un nome, una voce.

Questo spettacolo sembra ripercorrere il concetto classico dell’universalità, nel tempo e nello spazio, legato alla poesia. Le immagini da essa evocate, che nella sola lettura possono essere sentite e percepite, sono diventate palpabili, “cinematografiche” (come a fine spettacolo le ha definite Mussapi stesso, presente in sala, riferendosi al Tuffatore di Paestum interpretato da Matteo Anselmi), un coro che ha unito il significato del suono a quello della parola, nell’armonia finale di voci diverse che la poesia ha saputo fondere in quella che il poeta portoghese Fernando Pessoa definì “una sola moltitudine”.

“Attingendo dalla silloge ‘I Nomi e le Voci’ – ha raccontato il regista Girolamo Angione – si sono scelti alcuni altri monologhi in versi, prediligendo quelli ispirati a personaggi del mito o del mondo antico: accanto a Didone ed Enea, Arianna, Cassandra, la Ninfa Eco e il Tuffatore di Paestum. Ciascuno di loro, confinato come un’ombra nel regno dei morti evoca con toni a tratti dolenti e malinconici ma sempre profondamente umani, la propria esperienza terrena illuminata dalla forza vitale dell’amore. E di ciascun personaggio, ogni monologo esprime una profondità del sentire e una verità esistenziale che sorprende e avvince. Il verso a teatro è un lusso: per l’attore, anzitutto, che nel verso si astrae dal linguaggio prosastico e nella parola poetica trova la voce con cui dirla, l’emozione della musicalità, la misura del gesto, la vibrazione del corpo; e il disegno del personaggio, nel riverbero della poesia, s’arricchisce di nuove sfumature e rivela profondità insospettate e un respiro che dà nuova vita al suo nome stesso. Parola/Voce, Musica, Gesto: questi gli elementi di una messa in scena che si è voluta essenziale e figurata ad un tempo e in cui ciascuna componente mantiene e accresce, nella necessaria autonomia, il proprio valore assoluto; configurando però nel quadro composito d’insieme, un esito che ci proponiamo equilibrato ed armonico. La musica  (Ravel l’autore prescelto per il perfetto equilibrio formale tra emozione e intelletto) non prevarica mai la parola, ma ne amplifica, semmai, il senso più intimo, il portato affettivo e dei sentimenti. protagonista assoluto, personaggio invisibile, ombra tra le ombre nel suo viaggio di ricerca ed esplorazione, a più riprese invocato dalle ombre che anelano a lui, è il poeta; autentico demiurgo, con l’atto creativo della sua parola, il poeta riporta quelle ombre alla luce della memoria e, per tutti noi, ridà loro la vita e la voce sulla scena del teatro e della poesia. Per questo, per la straordinaria occasione che ci offre, a Roberto Mussapi vanno tutta la nostra riconoscenza e gratitudine”.

Gian Giacomo Della Porta

“Unicum”, la nuova rassegna teatrale di “Onda Larsen”

Al torinese “Spazio Kairos” di via Mottalciata

Dal 17 ottobre al 10 maggio

Titolo impegnativo, quello della nuova stagione teatrale organizzata dalla Compagnia Teatrale “Onda Larsen” (associata “Arci”, attiva in città e in  tutt’Italia dal 2008), allo “Spazio Kairos”, ex fabbrica convertita in teatro, in via Mottalciata 7, tra “Barriera di Milano” e “Aurora”, a Torino. “Unicum”! Come dire “pezzo unico”, opera particolarmente singolare, un “unico” nel suo genere! Impegnativa la scelta, dunque, non meno dell’esecuzione. In grado, però, di assolvere ad entrambi i compiti i componenti della “squadra attoriale” (che prende il nome da Søren Larsen, ingegnere danese che scoprì l’“effetto Larsen”, fenomeno acustico di “feedback” indesiderato, nel 1910 mentre era a servizio della “Marconi Company”), gli attori professionisti Riccardo De LeoGianluca GuastellaLia Tomatis e l’organizzatrice Chiara Agui.

Il cartellone ha in lista ben 27 spettacoli, selezionati in giro per l’Italia e proposti da Compagnie e artisti del panorama indipendente, che “spiccano per creatività e innovazione” proposte sul palco. Ecco il perché del titolo!

Si  inizia, venerdì 17 ottobre (ore 21) con “Dieci modi per morire felici” dell’Associazione teatrale emiliana “Autori Vivi” (con sede a Boretto – Regio Emilia) “Teatro ERT / Teatro Nazionale”, e con un testo molto apprezzato da pubblico e critica, scritto e diretto da Emanuele Aldrovandi e interpretato da Luca Mammoli.

Poi (andando per estrema sintesi), sempre dall’Emilia ma da Bologna, arriva Angelo Colosimo con il suo “A.s.p. Armata Spaccamattoni”, mentre da Milano giungono allo “Spazio Kairos” Fabrizio Martorelli, che propone “Canto di Natale” di Charles Dickens oltre a una “masterclass” dedicata a La parola dell’attore: agire e scrivere per la scena”, e  Massimiliano Loizzi, con “Fabulae – Un monologo sulla disparità di genere”.

“Chronos3 / Industria Scenica” di Brescia presenta, e siamo a giovedì 27 marzo“A casa lo sapevo”, mentre “Teatri d’Imbarco” di Firenze torna, giovedì 17 aprile, a Torino con “Quanta strada ha fatto Bartali!”.

Come sempre, anche quest’anno, non mancheranno i riflettori sulle “Compagnie torinesi”. Ricordiamo per tutte “LabPerm” che presenta un testo liberamente ispirato a “Istruzioni per rendersi infelici” di Paul Watzlawick, “Crab Teatro” con “Memoria del vuoto”, dall’omonimo romanzo di Marcello Fois, e la Compagnia “Operazione Miro” con “Oasi Kebab”.

La rassegna torna a proporre, anche per quest’edizione, in calendario da mercoledì 5 marzo, la settimana della “stand up comedy”, genere che riscuote sempre più interesse, soprattutto tra i più giovani. All’interno è previsto il debutto nazionale di “Jukebox comedy” di Giulia Pont“Recital” di Walter Leonardi, l’anteprima regionale di “Oh my gods” del torinese Francesco Giorda, e “Flusso d’incoscienza” con Paolo Faroni.

 La chiusura della stagione, a maggio, sarà invece affidata al debutto nazionale di “Onda Larsen”, ancora in fase di creazione. Venerdì 28 novembre, invece, viene riproposto “Una cena d’addio”, successo internazionale (scritto da Alexandre de la Patelière e Matthieu Delaporte, per la regia di Andrea Borini) di cui, in Italia, proprio “Onda Larsen” ha i diritti. Sul palco: Riccardo De LeoGianluca Guastella e Lia Tomatis.

Capitolo importante della Rassegna, quello dedicato ai bambini che prende il via domenica 2 novembre, con la proposta di 9 titoli. Tra questi, l’anteprima nazionale di “Sfavola – la non favola di tre non supereroi” scritto da Lia Tomatis e un appuntamento speciale, sabato 22 marzo, giorno in cui, in occasione della “Giornata Mondiale per  la Sindrome di Down” verrà presentato “Despresso” del “Collettivo Clochart” di Trento, scritto e diretto da Michele Comite, con protagoniste Viviana, una ragazza che sta vivendo la depressione e Giorgia, una ragazza con la “Sindrome di Down”.

Dice Riccardo De Leo, vicepresidente di “Onda Larsen”: “ ‘Unicum’ vuole richiamare fin dal titolo le realtà di  ‘teatro indipendente’ coinvolte: diverse tra loro, sperimentatrici in infinite direzioni e, dunque, uniche. Uniche’ perché, da sempre, grazie a queste loro peculiarità, rappresentano la più grande spinta al fermento creativo e innovatore del teatro”.

Per info e programma dettagliato: “Onda Larsen”, tel. 351/4607575 o www.ondalarsen.org

g.m.

Nelle foto: Scene da “Dieci modi per morire felici” e da “Una cena d’addio”

Sebastiano Vassalli e le sue terre d’acque

Il 26 luglio di nove anni fa si spegneva dopo una malattia fulminante e incurabile, avvolta nel più stretto riserbo, lo scrittore Sebastiano Vassalli.

Genovese di nascita (con madre toscana e padre lombardo) e novarese d’adozione, nella “terra d’acque” (come s’intitola anche uno dei suoi romanzi) ambientò alcune delle sue opere più significative, come Cuore di pietra, romanzo storico pubblicato nel 1996 da Einaudi nella collana Supercoralli, dove la maestosa casa del conte Basilio Pignatelli s’intuisce essere la novarese Villa Bossi, splendida dimora sul baluardo Quintino Sella, all’angolo con via Pier Lombardo. Laureatosi in Lettere con una tesi sull’arte contemporanea e la psicanalisi con Cesare Musatti ( il controrelatore fu Gillo Dorfles),Vassalli è stato uno dei più grandi scrittori italiani. Tra le sue opere, tradotte in molti paesi, una in particolare gli consentì di conoscere un importante successo nel 1990 quando gli venne assegnato il Premio Strega per La chimera, romanzo storico ambientato nella campagna novarese del Seicento. Il libro narra la storia di un processo (un episodio realmente accaduto) a una strega nella Milano dei Promessi Sposi, risalente al 1628. E la “chimera” altro non era che il monte Rosa per come appariva allo sguardo dei contadini che, tormentati dall’afa e chini sulle risaie del novarese, alzavano gli occhi verso l’orizzonte e vedevano stagliarsi lontano il massiccio della montagna innevata. Nelle opere di Vassalli la componente territoriale ha sempre avuto una rilevanza particolare, con la cornice del Piemonte e in particolare delle “terre del riso” nelle pianure a nordest. Nel 2011, Franco Esposito (poeta, direttore della rivista Microprovincia di Stresa) curò la monografia “La parola e le storie in Sebastiano Vassalli”. Un modo intelligente per festeggiare l’autore di tanti libri importanti da Abitare il vento a La notte della cometa ( romanzo sulla vita del poeta Dino Campana) , ai già citati Cuore di pietra e La chimera fino agli ultimi, molto belli, Le due chiese, Terre selvagge , Il confine e Io, Partenope. In quel numero della rivista, unendo gli sforzi editoriali delle Edizioni Rosminiane a quelli della novarese Interlinea, vennero proposti testi dello stesso Vassalli, belle foto e disegni oltre agli scritti di una lunga serie di intellettuali e letterati come Giorgio Bárberi Squarotti, Roberto Cicala, Franco Cordelli, Fulvio Papi e altri. Dalla prima stagione di Vassalli e dall’esperienza con la neoavanguardia del “Gruppo 63” all’originalissima cifra della sua opera letteraria, dal suo grande amore per la poesia alla fedeltà rara alla Einaudi (la casa editrice dello Struzzo) scorrendo le pagine di Microprovincia si intravvedeva tutta la complessità di questo scrittore straordinario. Una figura importante per la letteratura ma anche per il giornalismo al quale dedicò molte collaborazioni con le principali testate, da La Stampa, il Corriere della Sera e La Repubblica. Vassalli, uomo estremamente riservato, nel tempo aveva stretto un rapporto molto personale con la seconda città del Piemonte, il suo dialetto appartenente al ramo occidentale della lingua lombarda, il carattere degli abitanti e i luoghi novaresi. La cascina Marangana di Biandrate era il suo rifugio letterario,un buen retiro immerso tra le risaie a una dozzina di chilometri da Novara. Sulla porta d’ingresso di questa ex canonica trasformata in abitazione campeggia una scritta lapidaria, che vale più di tanti discorsi: i soli stanno soli e fanno luce. Vassalli sosteneva che “il mestiere dello scrittore consiste nel raccontare storie“. E aggiungeva: “Così era ai tempi di Omero e così è ancora oggi. È un mestiere antico come il mondo, che risponde a una necessità degli esseri umani, a un loro bisogno fondamentale: quello di raccontarsi. Finché ci saranno nel mondo due persone, ci sarà chi racconta una storia e ci sarà chi la ascolta“. La casa è ora un museo grazie al progetto dell’archivio Sebastiano Vassalli. Una felice intuizione tesa a costituire un centro di consultazione pubblica, a beneficio di studiosi e di quanti vorranno consultare il patrimonio culturale di questo grande scrittore.

Marco Travaglini

Roberto Veronesi: “Mi piace annusare la lana”

Ritratti torinesi

INTERVISTA ALL’AUTORE

È stata pubblicata la nuova fatica letteraria di Roberto Veronesi, giornalista torinese e torinista appassionato, dal titolo “Mi piace annusare la lana”(Paola Caramella Editrice, 2025). Il libro raccoglie 17 racconti, in parte autobiografici e in parte no, incentrati su temi che più spesso ricorrono nell’opera di Veronesi, quali l’amore, passioni, lavoro, famiglia ed emozioni. Il trascorrere del tempo, in particolare, fa da sfondo a tutti i racconti, rappresentando il vero fil rouge che lega le varie narrazioni all’interno del libro.
“La necessità di scrivere – ha spiegato Roberto Veronesi – è cominciata dal momento della nascita di mia figlia Francesca: un evento cruciale che ha rappresentato il passaggio a una vera consapevolezza di responsabilità e, contemporaneamente, il desiderio di restituire emozioni e considerazioni riguardo il futuro e il mondo”.
Il titolo del libro, “Mi piace annusare la lana”, trae ispirazione da un episodio di vita che contraddistingueva il carattere dell’autore fin dall’infanzia e rappresentava un importante simbolo di fiducia. Un’immagine che riporta teneramente a Linus e alla sua copertina, mitico personaggio del fumetto di Schultz.


“Ero affezionato a una coperta di lana – racconta Roberto Veronesi – una coperta che prestavo soltanto a qualcuno di cui mi fidavo. Un gesto che riporta fortemente alla tematica dell’amicizia contenuta in questo mio ultimo libro, che vuole anche rappresentare una nuova comprensione e dolcezza verso se stessi, un invito a fermarsi, ricordare e valutarci con una rinnovata benevolenza e guardare al futuro con nuovi occhi e prospettive”. “Un altro leitmotiv importante che lega i racconti – continua Veronesi – è rappresentato dall’ironia e dalla leggerezza, un modo di essere umani ancor prima di scrittori. Anche se, senza queste due componenti, probabilmente non riuscirei neanche a scrivere. La lettura è sempre stata una mia passione e mi sono ispirato molto ad autori che della leggerezza hanno fatto un loro tratto distintivo, come Piero Chiara, Stefano Benni, Daniel Pennac e Italo Calvino. I personaggi dei miei racconti sono sempre romanzati, anche se provengono quasi tutti dalla vita vera e si intrecciano fra loro attraverso quei dialoghi serrati che ritmano la narrazione. Hanno tutti un volto e un nome che originano dai miei ricordi”.
“Per quanto riguarda il futuro letterario – conclude Veronesi –  sto scrivendo altri racconti e mi piacerebbe poter dare una seguito al mio romanzo, uscito per Albatros, ‘Qui non ride mai nessuno’”.

Mara Martellotta

 

 

 

 

Sabato 18 ottobre a Borgomanero con Il seggio del peccato 

Sabato 18 ottobre, alle ore 17, la Fondazione Marazza a Borgomanero ospiterà la presentazione del libro Il seggio del peccato di Marco Travaglini. Con l’autore dialogherà con Gianni Cerutti, direttore della Fondazione Marazza. La narrativa dell’autore, nato sulla sponda piemontese del lago Maggiore e torinese d’adozione, è intesa a dare voce soprattutto alla gente comune, a quel mondo piccolo ma non minore col quale ha sempre amato convivere, assimilandone i problemi, le speranze, le gioie e i dolori. Una scrittura la sua che nasce dal cuore e arriva al cuore, che sa cogliere con passione e slancio poetico la vita delle strade, dei piccoli paesi tra i laghi e le montagne così come delle vie di Torino o della campagna canavesana, con attenzione particolare – è il caso de Il seggio del peccato come di gran parte dei suoi libri di racconti – al passato, a tempi meno facili, ma più ricchi di semplicità, di saggezza antica, di rapporto umano. Erano gli anni delle case di ringhiera e dei circoli operai, dei grandi prati non ancora invasi dal cemento; delle quattro stagioni; degli inverni dalle abbondanti nevicate e delle primavere verdi punteggiate di rondini e maggiolini. Ne Il seggio del peccato, attraverso ventisette racconti, ci guida in un itinerario emozionante che abbraccia città, campagne, laghi e montagne.

Le sue narrazioni, che spaziano da Torino al Canavese, dal Verbano Cusio Ossola al Novarese, fino ai paesi del riso attorno a Vercelli, si distinguono per la loro capacità di trasportare il lettore in un viaggio nel tempo e nello spazio. Le ambientazioni e i personaggi, siano essi frutto di fantasia o realistici, ci introducono nella peculiarità delle città o delle piccole comunità piemontesi. Come scrive nell’introduzione Sergio Chiamparino, già sindaco di Torino, “sono racconti ricchi di riferimenti storici, di notizie su luoghi, edifici storici, di curiosità, ricostruzioni di antiche tradizioni e motti popolari, molte cose che si ignorano o almeno io ignoravo”. Così, mescolando realismo con un tocco di immaginazione, Travaglini disegna un mosaico di storie di vita quotidiana, dove vizi e virtù della gente comune si intrecciano con le astuzie e le ingenuità tipiche delle persone semplici. La scrittura è piacevole e attraversata da una vena ironica che permea tutte le storie, rendendo la lettura al contempo leggera e profonda. Spiccano episodi come quello di Elvio e Aida, definiti i “Fred e Ginger della periferia, o le vicende del signor Brusa e del suo sigaro tra le cave del marmo di Candoglia e il Duomo di Milano. Tra i personaggi si alternano tipi sorprendenti come Anacleto, “esperto nel fare affari”; Laura, “sveglia, simpatica e piena d’entusiasmo… con la passione per la meccanica”; o il sodalizio Alvaro e Giovannino che riescono “in ogni caso, a mettere insieme il pranzo con la cena e persino a ricavare qualche soldo da mettere in cascina”. Poi c’è Oreste, detto il Tempesta “che raccontava le sue avventure, partendo sempre da quella volta che aveva portato sull’Isolino una contessa”. E così via, molti altri personaggi animano questo vivace affresco di esistenze periferiche. È decritta la Luino di Piero Chiara e del signor Brovelli; si narrano le fatiche degli scalpellini del già citato granito rosa, le avventure truffaldine e briose di Toni Fuoribordo, gli spalloni con il loro “andar di frodo con la bricolla a spalla”. Sono, tuttavia, solo alcune delle diverse storie che compongono questo affresco di vita piemontese. La raccolta s’avvia alla fine con un nostalgico Ritorno in Formazza e lo spassoso equivoco sulle misteriose origini del Re di Superga , che chiudono il cerchio di un viaggio emozionante attraverso la memoria e la tradizione. In definitiva, Il seggio del peccato, come già accennato, è un omaggio affettuoso e suggestivo al Piemonte, alle sue genti e alle sue terre.

B.C.

Maglione, dove i muri “narrano” di arte e pittura

Maglione è un piccolo borgo rurale sulle colline moreniche del basso Canavese, a meno di venti chilometri da  Ivrea e distante  poco più del doppio da Torino

 

 Il nome, si dice, deriverebbe da “malhones” , il cui significato richiama i vigneti che producono le uve del bianco Erbaluce. Le poche centinaia di abitanti di Maglione vivono praticamente sul confine con il vercellese, a pochi passi da Moncrivello e nelle vicinanze di Borgo d’Ale e Cigliano.

Un paese tranquillo, silenzioso dove – da più di trent’anni – si può visitare il  M.A.C.A.M, acronimo che sta per Museo d’arte contemporanea all’aperto di Maglione. Dalla mappa si ricava un percorso di visita “en plein air”, ammirando ben 167 opere di importanti artisti  che, dalla piazza XX° settembre – davanti alla chiesa parrocchiale, dove campeggia una scultura di Giò Pomodoro – accompagnano i visitatori lungo le vie del paese. In questo straordinario museo a cielo aperto s’incontra una proposta di opere d’arte contemporanea di diverse tendenze e di indubbio livello culturale. E tutto senza pagare un biglietto d’ingresso per la visita e senza l’assillo dell’orario di apertura o chiusura, considerato il fatto che le opere sono esposte sui muri delle case e negli spazi pubblici del centro abitato. Ideato nel 1985 dall’ingegno eclettico e talentuoso di Maurizio Corgnati, regista e uomo di grande cultura – noto anche per essere stato l’ex-marito della rossa “pantera di Goro”, la cantante Milva – il Macam è un museo del tutto singolare. Corgnati, ritiratosi nella sua casa di Maglione, dov’era nato il primo agosto del 1917, invitò, anno dopo anno, molti artisti italiani e stranieri affinché dipingessero le loro opere sulle pareti esterne delle case messe disposizione dai proprietari o installassero sculture nelle piazze di Maglione. Nel corso degli anni prese forma una straordinaria mescolanza tra stili e scuole diverse, affiancando la tradizione pittorica alle avanguardie più innovative. Si disegnò un percorso di grande fascino, accostando artisti come Mauro Chessa, Giò Pomodoro, Ugo Nespolo , Armando Testa,  Eugenio Comencini e Francesco Tabusso con altri meno noti, ma non meno interessanti. Tra le sculture spicca anche il monumento al contadino “vittima ignorata di tutte le guerre e di tutte le paci”, costruito da Pietro Gilardi con l’aiuto degli anziani coltivatori di Maglione, utilizzando vecchi  aratri e attrezzi della civiltà rurale. Maurizio Corgnati, che amava definirsi “un buon giocatore di scopa e un grande cuoco” , oltre ad essere amico di Calvino, Fruttero e Lucentini e tanti altri protagonisti del mondo della cultura, riuscì nel suo intento di  far crescere quest’ associazione “senza fine di lucro con operatività indirizzata alla diffusione e promozione dell’arte contemporanea”. Gli artisti accettarono di buon grado la proposta di creare gratuitamente le opere murali ,trovandosi a Maglione sul finire di settembre, nel periodo dei festeggiamenti del patrono, San Maurizio. Un evento battezzato “Paese vecchio, pittura nuova” che , fino a quando Corgnati era in vita, veniva concluso con una grande cena, preparata dallo stesso regista per  “ripagare i pittori e trascorrere qualche ora in buona compagnia”. Del resto, frequentando il piccolo borgo cavanesano, gli artisti compresero fin dall’inizio lo spirito di questa iniziativa,”priva di risvolti commerciali e basata esclusivamente sull’amore per l’arte, ritrovando l’autentico piacere di stare insieme e “produrre” cultura per tutti. Questa tradizione dura ancora oggi, mantenendo vivo il ricordo e la volontà di Maurizio Corgnati che, in conclusione, definiva così la sua “creatura”: “Ecco il perché di questo museo a Maglione: i bambini di un tempo sono cresciuti in mezzo a immagini piene di mucche, pecore, ruscelli, nani, conigli e fate; i bambini futuri di Maglione avranno occhi pieni di queste immagini che stanno sui muri delle loro case“.

Marco Travaglini

 

(foto: emozionincanavese.it)

La Resistenza Permanente di Farinetti

Sabato 18 ottobre prossimo la Fondazione Mirafiore di Serralunga d’Alba inaugura la stagione 2025/2026 con un doppio appuntamento che unisce pensiero, letteratura e partecipazione

Sabato 18 ottobre, alle 18.30, presso il teatro di Fontanafredda, Paola Farinetti presenterà la nuova stagione del laboratorio di Resistenza Permanente, ciclo di incontri che da 16 anni porta nel cuore delle Langhe, in partecipatissime occasioni gratuite, le voci più autorevoli della cultura, della scienza e della società civile. Un momento di incontro e festa per dare il via a un nuovo anno ricco di riflessioni, confronto e comunità nella cornice di Serralunga d’Alba, che segna l’apertura delle prenotazioni della prima parte degli incontri in programma. A seguire, il Presidente della Fondazione, Oscar Farinetti, tornerà sul palco di casa per presentare il suo nuovo libro intitolato “La regola del silenzio”, edito da Bompiani, in dialogo con l’editor Giulia Ichino. Dopo aver conquistato tantissimi lettori con i saggi “Seren dipidity”, “Never quite” e “Hai mangiato?”, Farinetti compie un passo nuovo e si misura con la narrativa, firmando il suo primo romanzo. Un’opera che intreccia introspezione, tensione e mistero. Il protagonista, Ugo Giramondi, è uomo fuori dal comune segnato da un trauma infantile: la morte improvvisa del nonno Chiodo, stroncato da un infarto davanti ai suoi occhi, evento che gli causa la difficoltà di parlare fluentemente. Quella che sembra una condanna diventa, invece, un dono: Ugo impara a decifrare il mondo attraverso altri sensi, trasformando il silenzio in una lente che amplifica la vita. La sua esistenza scorre apparentemente tranquilla, fino a quando un delitto inspiegabile lo travolge mettendo in discussione ogni certezza e trascinandosi in un percorso di dolore e consapevolezza.

“La regola del silenzio” è un romanzo che unisce il ritmo del thriller alla profondità di una parabola morale. Nei suoi tre atti: la giovinezza, il processo e il carcere, il lettore attraversa le zone d’ombra dell’animo umano, tra sensi di colpa, ricerca di giustizia e redazione. Farinetti costruisce un racconto denso di colpi di scena e riflessioni, in cui il silenzio non è assenza di parola, ma spazio d’ascolto, di memoria e verità.

Mara Martellotta

Atteso ritorno del maestro Kirill Petrenko

 Per il secondo concerto della Stagione Sinfonica dell’Orchestra Nazionale della Rai di Torino
Il secondo concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, in programma mercoledì 15 ottobre alle ore 20, presso l’Auditorium Rai Arturo Toscanini di Torino, segna l’atteso ritorno di Kirill Petrenko, il grande direttore russo naturalizzato austriaco, attualmente a capo dei Berliner Philarmoniker. La serata verrà replicata giovedì 16 ottobre, alle ore 20.30, con trasmissione in diretta su Rai Radio 3, e venerdì 17 ottobre, alle 20.30, all’Auditorium Manzoni di Bologna, nell’ambito del cartellone di Bologna Festival.
Petrenko vanta un rapporto più che ventennale con l’Orchestra Rai, che diresse per la prima volta nel 2001, debuttando in Italia con un memorabile “Il Cavaliere della Rosa” di Richard Strauss, per tornare altre sei volte nel corso delle stagioni successive, toccando i repertori più svariati. Il concerto di ottobre è il suo ottavo con la compagine Rai, l’orchestra italiana che ha diretto maggiormente. Sul podio dell’OSN Rai, Petrenko proporrà Lachische Tänze (danze lachiane), prima opera matura del compositore Leoš Janáček. Una serie di arrangiamenti di danze popolari che attingono alla tradizione della terra di provenienza del musicista.
Le Danze Lachiane erano originariamente intitolate Danze Valacche, dal nome della regione della Valacchia Morava. Janáček cambiò in seguito il titolo, quando mutò anche il nome della regione, perche rifletteva i canti popolari di quell’area specifica. A seguire la Suite da Concerto tratta dal balletto “Il mandarino meraviglioso” di Béla Bartók. Si tratta di un’esplosione incandescente di vitalità ritmica e timbrica, eseguita per la prima volta da Ernö von Dohnányi, a Budapest, nel 1928, due anni dopo lo scandalo della rappresentazione integrale del balletto, avvenuto a Colonia. Scabroso infatti il soggetto di Menyhéert Lengyel: una sordida vicenda che ha per protagonisti tre malviventi, una ragazza di cui si servono per adescare clienti e poi depredarli, e un enigmatico mandarino che arde di desiderio per lei e che le darà la caccia scatenando forze sovrannaturali.
Chiude la serata la Sinfonia n.2 in re maggiore op.36 di Ludwig van Beethoven, composta nei primissimi anni dell’Ottocento. Fu composta tra il 1800 e il 1802, e fu eseguita per la prima volta il 5 aprile 1803 al Theater an der Wien, diretta dallo stesso compositore e dedicata al Principe Karl Lichnowsky. Beethoven trascorse diversi mesi a Heiligenstadt, oggi uno dei quartieri settentrionali del distretto di Döbling, a Vienna, ma all’epoca località di campagna nella quale recarsi d’estate in villeggiatura, e lì compose la Sinfonia. Con i suoi contenuti estroversi ed eloquenti, la pagina segna un passo significativo nella conquista di uno stile tutto nuovo e originale da parte del compositore, adottando per la prima volta, nel terzo movimento, la forma dello Scherzo il luogo del Minuetto.
Biglietti: da 9 a 30 euro – in vendita sul sito dell’OSN Rai e presso la biglietteria dell’Auditorium Rai di Torino.
Info: 011 8104653
Mara Martellotta

Il “divino” Guido Reni, tra restauri e giornate di studio

Eccezionale mostra alla Galleria Sabauda, sino al 18 gennaio 2026

Piccola ma preziosa”, definisce Paola D’Agostino, direttrice dei Musei Reali torinesi di fresca nomina – “Sono molto onorata – aveva detto in occasione dell’insediamento – di iniziare il nuovo incarico alla Direzione dei Musei Reali di Torino, che con il loro patrimonio monumentale, le straordinarie collezioni d’arte e di archeologia, la Biblioteca e i Giardini Reali costituiscono uno dei complessi museali di maggior prestigio in Italia e nel mondo. Negli ultimi dieci anni i Musei Reali hanno avuto una crescita straordinaria, grazie alle due direzioni di alto profilo (Enrica Pagella e Mario Turetta, ndr). È un privilegio contribuire al progetto culturale e alla valorizzazione di questi luoghi e della dinastia dei Savoia, che li ha progettati, arricchiti di capolavori e modificati nel tempo” -, la mostra “Il divino Guido Reni. Nelle collezioni sabaude e sugli altari del Piemonte”, visitabile sino al 18 gennaio 2026, in occasione dei 450 anni dalla nascita dell’artista (1575 – 1642), nello Spazio Scoperte della Galleria Sabauda. Curata da Annamaria Bava e Sofia Villano, in un anno pieno di lavoro, con un efficace team di collaboratori e studiosi e restauratori, è un’occasione da non tralasciare – l’ultimo appuntamento torinese con Reni risale al 1989, alla Promotrice -, scavo di pregio verso un artista che negli ultimi anni ha visto raccolti attorno a sé studi e mostre, da Francoforte al Prado, da Bologna a Roma, nella cornice della Galleria Borghese, qui una decina di tele e altrettanti disegni e incisioni, un breve itinerario a documentare per tappe le diverse fasi della carriera, dagli anni giovanili alla maturità piena: un’occasione per riscoprire alcuni tratti, inattesi, di quello che i contemporanei non ebbero ripensamenti a definire “divino”, per incontrare presenze di un’arte che anche nel nostro territorio conserva esempi strabilianti.

Capolavoro di composizione, tratteggio di luci e ombre – Reni non guardava soltanto alla lezione iniziale dei Carracci, Ludovico soprattutto, ma altresì a quella successiva di Caravaggio -, la grande tela dipinta tra il 1605 e 1606, raffigurante l’”Assunzione della Vergine”, gioiello ai molti sconosciuto della Chiesa Parrocchiale di San Verano ad Abbadia Alpina, nei pressi di Pinerolo. Alterazioni di vernici, lacerazioni, abrasioni, una ragnatela di screpolature, una parte centrale dalle dimensioni non indifferenti ridotta a un buco che ha necessitato di un rattoppo vero e proprio e di cuciture per riorganizzare la parte mancante, con un’opera successiva di velinatura e altri passaggi, ogni cosa dovuto al lavoro del restauratore Domenico Pagliero di Savigliano e del suo laboratorio. Inoltre l’applicazione, postdatata, di una cornice settecentesca, riformata nel telaio e molto rispettosa dell’originale. In “condizioni tremende” – ha sottolineato Valeria Moratti della Soprintendenza durante la presentazione della mostra, con un apparato di conoscenza, di particolari, di parole, di dati lavorativi e di risultati che non possono non aver soddisfatto e appassionato la platea – si presentava la tela prima del decisivo intervento, un’opera dalla ricca storia. Un documento, in data 19 aprile 1606, attesta il pagamento effettuato dal prelato Ruggero Tritonio – udinese di nascita, un’importante carriera ecclesiastica che l’avrebbe portato anche in Scozia e Polonia, legato al pontificato di Sisto V e a figure di spicco del mecenatismo romano, il suo arrivo presso la corte dei Savoia tra il 1580 e il 1583, tra gli incarichi divenne abate appunto di quella Chiesa Parrocchiale – al pittore: oggi ne possiamo nuovamente ammirare le brillantezze e le cromie accese, nei mantelli degli apostoli che circondano la tomba vuota della Vergine trasportata su una nuvola e circondata da piccoli angeli, del rosso e del blu, del giallo e del bianco, non tralasciando quello spruzzo violaceo che è un fiore, quasi impercettibile, tenuto nella mano da un astante.

Ancora dal territorio piemontese deriva “San Maurizio riceve la palma del martirio” (1615 – 1618, “in un momento di transizione nel linguaggio del maestro, dal rigore classicista del periodo precedente verso una pittura più morbida e pastosa”), dal Santuario della Madonna dei Laghi, in Avigliana, la possente figura del soldato in primo piano, il braccio destro in bella diagonale a proseguire verso l’angelo che gli porge la testimonianza e sullo sfondo, in vasta lontananza, la battaglia e la legione tebea alla sua guida, sterminata dall’imperatore Massimiano sul finire del terzo secolo. Il dipinto è documentato nel Santuario nel 1624, dovuto al mecenatismo del cardinale Maurizio di Savoia pronto a celebrare uno dei protettori della dinastia ma altresì un (velato?) omaggio a se stesso, che del santo porta il nome. Una sorta di autocelebrazione, anche se posta magari in secondo piano.

Alle pareti, anche le due tele assai simili che narrano un celebre episodio delle “Metamorfosi” di Ovidio. “Apollo che scortica Marsia”, databile intorno al 1620, è in prestito dal Musée des Augustins di Tolosa, ennesimo esempio delle spogliazioni napoleoniche (vi soggiorna dal 1805), in campo la bellezza del corpo e del viso del dio, simbolo altresì di razionalità divina, contrapposta al corpo martoriato e al volto straziato dal dolore, simboli di tracotanza, del satiro colpevole di una sfida musicale in cui non sarebbe mai stato vincitore. Reni riflette sull’alto senso della giustizia divina attraverso quel gesto, terribile in sé, di punizione, “calmo e misurato”, distaccato, lontano da sé, quasi non riguardante un essere distante dalla superbia e dalla bruttura del mondo, accrescendo il tutto di un valore simbolico, “la vittoria dell’intelletto e dell’armonia apollinea sulla brutalità e sull’eccesso, un tema caro alla cultura dell’epoca e in linea con le riflessioni che dovevano svolgersi nell’Accademia romana dei Desiosi, fondata dal Cardinal Maurizio.” Accanto la replica, con piccole digressioni, datata intorno al 1670, e appartenenti alle collezioni sabaude.

Si passeggia tra le bellezze del “San Giovanni Battista” (1635) e del “San Gerolamo” (1640 circa), veri capolavori della piena maturità dell’autore, tra “La morte di Lucrezia”, un tema sempre ricercato nella vasta produzione, e un’incantevole “Lotta tra Amorini e Baccarini” (1613 – 1615) che proviene dal ramo cadetto dei Savoia Carignano ed è trasferito nel Palazzo Reale nel 1831 per volontà di re Carlo Alberto, opera considerata una seconda versione, verosimilmente autografa, della tela di analogo soggetto eseguita da Guido Reni per il marchese Facchinetti, bolognese, e oggi conservata alla Galleria Doria Pamphilj di Roma: opere appartenenti tutte alla Sabauda. Interessante, forse più appartata, l’attività incisoria di Reni, ancora preziosa appartenenza dei nostri musei, i legami con l’editoria documentati dai “Disegni degl’apparati fatti in Bologna per la venuta di N.S. Papa Clemente VIII l’anno MDXCVIII intagliati da Guido Reni”, pubblicati per la prima volta a Bologna nel 1598; inoltre studi di mani e di teste, pieno di fascino quello della “testa di giovane donna”, carboncino e pietra rossa, che ricorda da vicino il viso femminile del frammento di “Bacco e Arianna” conservato a Bologna.

Per chi vorrà, s’annunciano piene d’interesse le giornate del 25 e 26 novembre prossimi quando l’Accademia delle Scienze di Torino, in stretta collaborazione con i Musei Reali, organizzerà il convegno scientifico dal titolo “Guido Reni (1575 – 1642). L’arte di un grande maestro: esplorazioni critiche e restauri”: un appuntamento che guarderà alle recenti ricerche reniane, dalle novità che sono emerse durante la mostra al Prado (2023) alle opere di restauro, non ultima quella eseguita all’interno del Casino dell’Aurora a Roma. Parteciperanno, tra gli altri, David Garcìa Cueto del Museo Nacional del Prado, Raffaella Morselli della Sapienza Università di Roma e Giulia Iseppi dell’Università di Bologna.

Elio Rabbione

Nelle immagini, opere di Guido Reni: “Assunzione della Vergine”, 1605 – 1606, olio su tela, Abbadia Alpina (Pinerolo, Torino), Chiesa Parrocchiale di San Verano; “San Giovanni Battista”, circa 1635, olio su tela, Torino, Musei Reali – Galleria Sabauda; le due tele rappresentanti “Apollo scortica Marsia”, dal Musée des Augustins di Tolosa e dalla Sabauda; “Lotta tra Amorini e Baccarini”, circa 1613 – 1615, olio su tela, Torino, Musei Reali- Galleria Sabauda.