TORINO TRA LE RIGHE

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Il Castello di Piovera, che risale all’epoca Carolingia, venne potenziato dai Visconti come poderosa fortezza, poi adattata a dimora signorile…
Leggi l’articolo su piemonteitalia.eu:
https://www.piemonteitalia.eu/it/cultura/castelli/castello-balbi
Alla Precettoria di “Sant’Antonio di Ranverso”, la fotografa iraniana Marjan Moghaddam racconta la vita di trenta donne straniere residenti in Italia
Dal 28 luglio al 31 agosto
Buttigliera Alta (Torino)
Nonostante tutto. Volti che negli occhi conservano gelosamente la speranza del sorriso. La speranza e il coraggio. Donne forti, determinate, orgogliose delle loro origini, coraggiose, “Intrepide”, come le definisce il titolo della mostra ospitata, da sabato 28 luglio a domenica 31 agosto, nel “Complesso Monumentale” di arte gotica (XII secolo) della Precettoria di “Sant’Antonio di Ranverso”, lungo la “via Francigena”, nella bassa Valle di Susa, a circa 20 chilometri da Torino.
Trenta donne. In rassegna, fissate con notevole abilità di mestiere e di verve narrativa, i loro volti, accenni di usanze e costumi, espressioni che raccontano tenacia e serenità nell’affrontare esperienze di vita così diverse e in terre così lontane dai loro Paesi d’origine. A fissarle in scatti decisi e nitidi, con occhio attento e pronto a cogliere l’attimo “fuggente” del gesto irripetibile, Marjan Moghaddam, fotografa iraniana, nativa di Teheran, ma dal 1997 residente in Italia, a Torino. E’ lei stessa a raccontare: “La mia ricerca si concentra su temi come la ‘diversity’, ‘equity and inclusion’, la memoria, la tolleranza, l’identità culturale, l’integrazione sociale e i diritti umani; con i miei scatti tento sempre di catturare le emozioni e mettere al centro l’essere umano e la sua realtà, per stabilire un dialogo, capire i suoi stati d’animo e instaurare un rapporto empatico e spontaneo”.
In tal senso, anche “Intrepide” non vuole essere una semplice descrittiva esposizione, ma “un viaggio profondo nelle vite di circa trenta donne provenienti da ogni parte del mondo”. Le loro sono “storie autentiche”, storie che si confondono con mille altre, proprie di chi ha scelto di lasciare, in vario modo e per molteplici ragioni, la propria terra d’origine per iniziare una nuova vita in Italia, inseguendo i sogni di un futuro migliore e ben consapevoli di affrontare sfide non sempre, anzi quasi mai, facili, imboccando strade in salita e percorsi ricchi di ostacoli, di sguardi e parole che feriscono i cuori, di tante resistenti invalicabili barriere e pochi “ponti” e àncore cui affidarsi per superare mari in burrasca. Attraverso i loro volti e le loro storie, fermate da Marjan, emerge comunque, e sempre, un racconto di coraggio, di grande forza e determinazione.
Le fotografie sono arricchite da testi che approfondiscono le esperienze personali delle protagoniste, provenienti da innumerevoli Paesi, che vanno dall’Armenia alla Romania, alla Russia, via via fino all’India, Singapore, Australia, Camerun, Kenya, Nigeria, Senegal, Brasile, Stati Uniti, Canada e molti altri ancora.
Gli sguardi delle donne emigranti, i loro sorrisi e le loro espressioni sono il “nucleo pulsante” di un Progetto, portato avanti dalla fotografa iraniana insieme ad altri di sicuro effetto: da “Il Romanzo di una Vita” a “Io attraverso Te”. Il primo è un vero e proprio “viaggio fotografico”attraverso sguardi, gesti, parole e ricordi di anziani, “espressioni della nostra memoria”, esposto nel 2023 prima alla “Fondazione Colonnetti” e in seguito all’“Archivio di Stato”di Torino. Il secondo, da poco concluso in collaborazione con l’Ospedale “Molinette” di Torino riguarda il tema della “donazione del sangue” come gesto di generosità e consapevolezza. Il Progetto verrà esposto da luglio fino a dicembre in diverse locationcittadine, fra le quali la “Palazzina di Caccia” di Stupinigi e ancora l’“Archivio di Stato” di Torino.
In fase di conclusione e di estrema attualità, infine, il Progetto (antecedente, nella sua ideazione e partenza, allo scoppio della terribile crisi mediorientale) “Iran. Famiglia, vita, libertà”. Obiettivo, “quello di sensibilizzare – racconta l’artista – l’osservatore sulla complessa realtà dell’Iran, mostrando soprattutto la forza dei legami familiari e la situazione della vita quotidiana che, sebbene possa sembrare tanto distante dall’Occidente in taluni aspetti, in altri è sorprendentemente vicina a noi”.
Gianni Milani
“Intrepide. Storie di donne, viaggi, sogni e avventure”
Precettoria di “Sant’Antonio di Ranverso”, Buttigliera Alta (Torino); infowww.ordinemauriziano.it
Dal 28 giugno al 31 agosto
Nelle foto: Marjan Moghaddam, “Fé – USA” ed “Elida – Brasile”
Oggi fra i più apprezzati e noti artisti – artigiani della Vallée
“Stele. Donato Savin” al valdostano “Forte di Bard”
Fino al 31 dicembre
Rocce allungate verso il cielo o verso cime più alte. “Stele” come divinità protettrici o guerrieri posti in difesa di mura e ardui luoghi fortificati o ancora (perché no?) presenze aliene, sicuramente pacifiche, radicate in costoni di pietra diventati ormai protettivo rifugio terreno. Da alcuni giorni, e fino a mercoledì 31 dicembre, chi è salito o salirà lungo l’ultima parte della strada interna che porta alla sommità del “complesso fortificato” di Bard, troverà lungo il cammino, a fargli buona e piacevole compagnia, le opere di Donato Savin (classe ’59), valdostano doc di Cogne, residente e operante in frazione Epinel. La mostra, curata da Aldo Audisio in collaborazione con l’“Associazione Forte di Bard”, presenta dopo una serie di importanti esposizioni in Italia e all’estero, una selezione di 30 opere del progetto “Stele” avviato dall’artista alcuni anni fa: si tratta di rocce posizionate su essenziali basi di ferro che ben si integrano con la maestosità delle grandi murature e creano un’inedita esposizione “en plein air”.
Gli inizi artistici di Savin risalgono piuttosto indietro negli anni, allorchè un bel giorno, visitando la celebre “Fiera di Sant’Orso” ad Aosta, scopre l’artigianato tradizionale, ricco di espressioni artistiche. Per Donato è un’autentica folgorazione. Alla vista di quelle opere che spesso é troppo riduttivo chiamare “artigianali”, gli si apre un nuovo entusiasmante mondo. Lì, sceglie un suo nuovo percorso di lavoro e di vita, avvicinandosi alla pietra che inizia a scolpire instancabilmente. Tanto che, nel 1987, partecipa lui stesso alla “Fiera” e vince uno dei più prestigiosi premi. È l’inizio della sua carriera, che lo vede scegliere definitivamente a materia del suo “produrre” le rocce delle sue montagne, tastandole, scolpendole, modificandone con avveduta oculatezza le forme, soffermandosi sui verdi acidi dei licheni mescolati alle venature del marmo o alla lieve porosità della pietra.
“L’idea della ‘Stele’ – racconta Savin – mi venne ad Aosta al ‘Museo Archeologico’. Vidi in quelle forme di rocce allungate ‘Dèi di Pietra’ e iniziai a cercare pezzi di scisti di quel tipo, cosparsi di licheni. Le mie opere restano aperte ad ogni interpretazione. Io ci vedo degli Dèi, specialmente femminili, che salgono verso l’alto; quando non ci sarò più, saranno i testimoni del mio passaggio nella vita terrena”. Un mondo di pietra, immobile, grandioso, fermato nel tempo a raccontare l’amore di Savin per la sua terra. Opere di pietra solide, dure, inamovibili ma palpitanti nel battere di un loro “cuore” che è il “cuore” dell’artista, che le rende ”uniche” ed “irripetibili”. Proprio come sono i frutti di un infinito amore.
“Toccare la roccia, sentirla con le mani e poi modificarla – sottolinea ancora Savin – è un modo per estraniarsi dal mondo. Liberarsi e sognare, far rivivere tante cose che ho appreso da bambino osservando i montanari. Un mondo di cui sono parte che, con le mie opere, cerco di perpetrare nel futuro, rinnovandolo”. Una sorta di “universo parallelo”, eppure così tenacemente radicato ad un paesaggio che ne è grembo materno, da cui prende vita e forma nella sua essenziale verticalità e in quel suo voluto, suggestivo gridare, di voce alta, al cielo.
Spiega la presidente del “Forte di Bard”, Ornella Badery: “Siamo lieti di presentare ai tanti visitatori che ogni giorno percorrono il camminamento interno del ‘Forte’ questo iconico progetto firmato da Donato Savin, maestro dell’artigianato contemporaneo che interpreta e rivisita le rocce delle sue montagne in modo essenziale. Le rocce di Savin creano un potente dialogo con le pietre del ‘Forte’ e si fondono con armonia nel paesaggio circostante creando un itinerario artistico ricco di suggestione”.
Arte, spiritualità e natura. I tre elementi che fanno da ideale collante alle “rocciose” opere dell’artista cogninese (o cougnèn, in patois valdostano), che sarà altresì presente, da lunedì 28 luglio e per tutta l’estate, a Cogne nella mostra diffusa “Donato Savin. La vita attorno a me”, organizzata da “Fondation Grand Paradis” nell’ambito del 28° “GPFF – Gran Paradiso Film Festival”.
Gianni Milani
“Stele. Donato Savin”
Forte di Bard, via Vittorio Emanuele II, Bard (Aosta); tel. 0125/833811 o www.fortedibard.it
Fino al 31 dicembre
Orari: dal mart. al ven. 10/18; sab. dom. e festivi 10/19
Nelle foto: Donato Savin: “Stele”
Genio incompreso, donna ignorata per scarsa fiducia nel suo lavoro, o per una diffusa misoginia? Sono alcuni degli interrogativi sorti intorno alla figura della scienziata lucana Filomena Nitti, figlia dell’ex Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, moglie di Daniel Bovet, Nobel per la medicina 1957, del quale fu indispensabile collaboratrice. Eppure lei dal Nobel rimase esclusa. Cosa la penalizzò?
La giornalista e scrittrice Carola Vai (nella foto), nel libro “Filomena Nitti e il Nobel negato” Rubbettino editore, realizzato con il contributo della nipote Maria Luisa Nitti, cerca di dare qualche risposta. Il volume, 200 pagine, 16 euro, in vendita nelle librerie, sul sito on line di Rubbettino e sui vari siti dedicati ai libri, narra per la prima volta l’intera vita della ricercatrice coetanea di Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina 1986, della quale Carola Vai ha scritto quella che è ancora l’unica biografia completa sulla scienziata torinese: “Rita Levi-Montalcini una donna libera”, sempre per Rubbettino. Filomena e Rita, caparbie, ambiziose, instancabili, diversissime, incrociarono spesso le loro vite in pubblico e in privato, senza mai diventare amiche. Ma mentre Rita non si sposò, Filomena ebbe due matrimoni e tre figli. Con il secondo marito, Daniel Bovet, come lei biochimico, collaborò tutta la vita al punto da firmare tutti i lavori con i rispettivi nomi e cognomi. Eppure lui ottenne il Nobel, invece lei venne ignorata.
Filomena, nata il 10 gennaio 1909 a Napoli, ultima dei cinque figli di Francesco Saverio Nitti, meridionalista, ministro sotto il governo Giolitti e poi Presidente del Consiglio nel 1919-1920, e di Antonia Persico, figlia del giurista Federico, trascorse un’infanzia tranquilla con la sorella, Maria Luigia e tre fratelli, Vincenzo, Giuseppe e Federico tra Napoli dove viveva con i nonni, e Roma dove abitavano più stabilmente i genitori, con il quale si ricongiungeva soprattutto durante le lunghe vacanze estive nella casa di Acquafredda, in Basilicata. Anni felici. Fino quando la famiglia Nitti venne presa di mira, prima lentamente, poi in modo sempre più violento dagli attacchi delle squadre fasciste. Il liberale Francesco Saverio Nitti inizialmente sottovalutò gli eventi. Ma dopo l’assalto alla sua residenza romana con la distruzione di ogni cosa scelse, nel giugno 1924 di rifugiarsi all’estero con tutta la famiglia, escluse le sue due sorelle rimaste vedove, che con l’anziana madre, decisero di restare in Italia. Prima tappa in Svizzera, a Zurigo, dove la vita si rivelò presto troppo costosa. Così, dopo un anno e molte ricerche, venne deciso il trasferimento a Parigi. Seguirono vari traslochi finché la scelta definitiva cadde su un alloggio in rue Vavin 26, dietro Montparnasse, vicino ai giardini del Lussemburgo, al costo dell’affitto annuale di ottomila franchi. Qui i Nitti abitarono per quasi 20 anni, fino al ritorno in Italia. Nitti si tuffò nel lavoro di giornalista, scrittore, conferenziere guadagnando il denaro necessario per tutta la famiglia. Intanto Filomena, imparato il francese, si ambientò presto a Parigi, e finito il liceo, si laureò specializzandosi in chimica biologica. Contemporaneamente per guadagnare qualcosa accettò di fare alcune ricerche nelle biblioteche parigine. In questo periodo, lasciato il giovanissimo fidanzatino Giorgio Amendola rimasto in Italia, conobbe e si innamorò, ricambiata, di un giornalista polacco, Stephan Freund o Priacel. Francesco Saverio Nitti e la moglie contrastarono subito il legame dei due giovani convinti fosse un errore. Ma Filomena educata fin da bambina a diventare una donna indipendente attraverso lo studio e il lavoro, a vent’anni sfidò il volere della famiglia. Sposò Stephan; con lui ebbe due figli, poi lo seguì a Mosca quando decise di raggiungere la Russia. Nel Paese governato da Stalin la giovane Filomena lasciata spesso sola affrontò difficoltà di vario genere mai del tutto chiarite. Capì presto di aver sbagliato. Con coraggio lasciò Stephan, e con i due bambini tornò a casa dei genitori, a Parigi, ottenne il divorzio, riprese gli studi fino diventare una scienziata. Non aveva ancora trent’anni. Attraverso una borsa di studio entrò nel prestigioso Istituto Pasteur di Parigi dove già lavorava il fratello Federico Nitti, ricercatore scientifico, insieme al collega e amico Daniel Bovet, svizzero emigrato in Francia per motivi professionali. L’incontro tra Filomena e Bovet sfociò presto in un grande amore fatto di tante promesse e pure una stretta collaborazione scientifica. La coppia si sposò ed ebbe un figlio, il primo per Bovet, il terzo per Filomena. Lo scoppio della seconda guerra mondiale, difficoltà di vario genere, l’arresto del padre Francesco Saverio Nitti da parte dei tedeschi e la sua lunga prigionia, complicarono, ma mai frenarono l’impegno scientifico, famigliare, materno di Filomena. A fine guerra i due coniugi lasciarono la Francia e si stabilirono a Roma, assunti dall’Istituto Superiore di Sanità, impegnati nello stesso laboratorio e nelle medesime ricerche al punto da firmare tutti i lavori con i nomi e cognomi di entrambi. Seguirono anni di enorme impegno e grandi successi. I due chimici nel settore scientifico divennero due star. I loro nomi finirono sulle più famose riviste scientifiche nazionali e straniere. Innamorati, sposati da quasi vent’anni, Filomena e Daniel vivevano tra scienza, famiglia, figli, viaggi. Nel mondo della scienza tutti, o quasi, sapevano che la coppia portava avanti ogni ricerca insieme. Fino all’ottobre 1957. In una tranquilla mattina autunnale, una telefonata proveniente dal Karolinska Institut svedese annunciò il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia a Daniel Bovet. A lui soltanto. Nemmeno un cenno a Filomena Nitti, sua insostituibile collaboratrice. Perché? Carola Vai nel volume “Filomena Nitti e il Nobel negato” nel narrare la sua storia tenta qualche risposta per togliere la scienziata dalla quasi invisibilità benché per anni impegnata professionalmente a fianco del collega-marito.
La vittoria del Nobel da parte di Bovet sconvolse i tempi di tutta la famiglia e solo dopo un periodo di caotica organizzazione, l’abilità di Filomena consentì il ripristino dei ritmi quotidiani. Bovet venne invitato dalle università e organizzazioni scientifiche di tutti i continenti. Con lui quasi sempre anche Filomena, nel ruolo di moglie, raramente in quello di scienziata.
Nonostante l’umiliazione Filomena mantenne ovunque il sorriso, rimanendo quasi sempre in silenzio durante le molte interviste a Bovet. Tuttavia in un incontro con dei giornalisti nel 1985 ammise con una certa ironia: “avendo sposato un genio, naturalmente ho fatto quello che fanno le donne, ho fatto tutto quello che serviva a lui per alleviargli la vita, Ma l’ho fatto con piacere”.
Dopo gli anni del successo, arrivarono gli anni della sofferenza. I Settanta furono contraddistinti prima dalla morte in un incidente stradale di Gian Paolo Nitti, il figlio maggiore di Filomena, e qualche tempo dopo dalla morte del secondo figlio, Francesco, per soffocamento durante un pasto. Seguì l’inizio della malattia con alti e bassi di Daniel Bovet che morì l’8 aprile 1992. Filomena affrontò il dolore raccogliendo tutte le testimonianze scientifiche che inviò all’Istituto Pasteur. Nel passato aveva già raccolto tutti i documenti del padre, Francesco Saverio Nitti, e della famiglia, consegnando il materiale alla Fondazione Einaudi a Torino. Lei che mai si era sentita solo una donna di scienza e anche senza praticare la politica attiva, mai se n’era distaccata del tutto, alla morte di Bovet ebbe l’impressione di non avere più nulla da dire.
Tanto più che l’Inail, l’Istituto fondato dal padre e dal quale lei e Daniel avevano affittato la casa romana di piazza Navona, consegnò alla ottantacinquenne Filomena lo sfratto. Davanti ad un presente doloroso, ed un futuro grigio, Filomena forse travolta da una forte depressione decise di andarsene.
Carola Vai nel libro ripercorre il cammino di una donna dalla volontà di acciaio, con un’esistenza influenzata da eventi storici come la realtà di milioni di persone. Una storia terminata bruscamente il 7 ottobre 1994 a Roma. Trent’anni dopo, nel 2024, il suo nome e cognome, Filomena Nitti, sono stati aggiunti nell’aula dell’Istituto Superiore di Sanità per decenni intitolata solo a Daniel Bovet. Un riconoscimento ufficiale ad una donna trascurata per decenni.
Chi ha deciso di trasformare Botteghe Oscure, casa- madre del PCI di Togliatti e Berlinguer, in un grande hotel a 5 stelle nel centro della capitale, ha giocato di anticipo e su indicazione della Sovrintendenza romana, ha conservato due icone del disciolto partito dopo il crollo del Muro di Berlino: un tetro busto di marmo nero di Antonio Gramsci e la bandiera della Comune di Parigi del 1871 che i clienti dell’hotel potranno vedere e, forse, non venerare come reliquie di un passato che certo non appartiene alla clientela di lusso a cui è consentito pernottare in quella maison. Un destino cinico e baro, avrebbe detto Saragat, quello del “Bottegone” come lo definì non senza una profetica lungimiranza Pansa. In quelle stanze sono stati ospitati i ricordi dei comunisti italiani, i ricordi belli (fu persino alcova un po’ piccolo-borghese del Migliore) e quelli tragici durante i quali, ad esempio, essi furono complici dei sovietici negli anni dello stalinismo più feroce ed efferato e anche in quelli successivi, quando furono a fianco di Mosca durante l’invasione dell’ Ungheria nel 1956.Timidamente dissentirono sui carri armati a Praga nel 1969, ma si trovarono del tutto impreparati di fronte al crollo del Muro di Berlino che rischiava di ricadere sulle loro spalle. Il segretario particolare di Togliatti Massimo Caprara ed alcuni ricercatori hanno scritto che l’edificio romano fu acquisito anche con i soldi dell’oro di Dongo, trafugati dopo l’arresto di Mussolini in fuga nel 1945 sul lago Maggiore.
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PS
È strano che nessuno abbia ancora proposto una lapide sull’edificio che fu sede del PCI. Il sindaco Gualtieri forse ci sta già pensando. Una bella lapide celebrativa sarebbe quasi necessaria.
Nella foto di copertina l’hotel NH Carlina di Torino. Sopra, Botteghe Oscure
Con la scomparsa delle cartoline che Gozzano aveva mandato dall’Oriente a Candidina Bolognino, si perdonoelementi anche utili a comprendere la formazione di Guido.
Un compito dello storico è il documentare il passato e, nel caso, loposso ancora fare, perché, da sempre, mi è consueto Agliè, dove ritrovo, oltre ai parenti nostri, i riflessi di qualche amicizia di famiglia e, tra queste, l’amica di mamma: Mary Prola col marito, dottor Roberto Bolognino! Sono persone che animano i nostri ricordi più lontani e, nella vivacità dei loro incontri, caratterizzati dal racconto del loro vissuto, che era sempre partecipato da tutti, costituiscono esempi, divenuti consueti anche a noi, di vita domestica, quando le loro presenze erano ancora usuali. Io, che ascoltavo gli adulti, in caso di necessità, richiedevo direttamente i chiarimenti che sentivo necessari …
Il periodare facile ed il vociare faceto dei famigliari erano scanditi dal timbro baritonale della voce del Bolognino, un compagno di facoltà dell’avvocato Agnelli… che, col gradimento di tutti, raccontava della sua prima infanzia (per nulla inficiata dalla prematura scomparsa di quel suo padre medico, nato come Guido nel 1883). Egli ricordava le visite ad Agliè, e la zia Candidina che,presente Diodata Mautino, la madre di Gozzano, invitava lui,Roberto bambino, a recitare a memoria qualche brano poetico di Guido… – Adulto, egli sarebbe stato un impiegato dell’INPS, ma rimanendo uno sportivo, diviso nella pratica tra il ciclismo, il nuoto e lo sci (quasi coll’approvazione postuma del Poeta di Agliè).
Quanto a luogo, noi riconosciamo un’abitazione storica dei Bolognino (sarà quella una delle due per cui, fin dal Seicento, essi furono esentati dalle tasse, per volere e grazia dei San Martino d’Agliè?). Quella in questione è un bel palazzo sei-settecentescodai lineamenti sobri, con un’ala a doppio porticato sovrapposto, il quale fa da sfondo alla signora Gozzano, ritratta con una nipote del marito, in una fotografia del 1940!
Fi qua tutto bene, ma, allora, chi era e che cosa faceva ad Agliè la zia di Bolognino?
Si diceva che, giovanissima, Tota Candidina avesse avuto un incidente in bicicletta e che, rimasta azzoppata, si muovesseaiutandosi col bastone, che fosse un’insegnante e che preparasse i ragazzi agli esami di licenza…
Battezzata Candida (Giuseppa Silvia) (Agliè, 1879-1953), era la figlia maggiore dell’esattore Giuseppe Bolognino e di sua moglie,la saviglianese Felicita Vineis (un nome che sembra tratto dal campionario poetico di Guido)! La coppia aveva avuto altri tre figli: Luigi (1880-1882), Eugenio, (Agliè, 1883 – Torino, 1918), il futuro medico chirurgo padre del dottor Roberto, e la più giovane,Claudia (San Giorgio Canavese,1889 – Torino, 1941) che andòsposa a Francesco Ciurnelli da Perugia.
Candidina aveva lo stesso nome della sua nonna paterna.
Luisa Candida Quintina Pezza che era stata battezzata a Vico Canavese, dov’era nata, perché era una figlia del notaio di Agliè Francesco Zaverio Pezza (Torino, 1772 – Agliè, 1851) che, essendo anche avvocato, fu giudice di prima istanza e, sposo di Paolina del conte Vittorio Bosco di Ruffino, ebbe alcuni figli, nati nelle sedi che egli occupò, nel progredire della sua carriera.Candida Pezza aveva poi sposato il chirurgo Giovanni Battista Bolognino di Agliè.
Ad Agliè, Zaverio Pezza era stato il padrino di battesimo diMassimo Secondo Zaverio Mautino (Agliè, 1816-1873), il cui padre, misuratore Massimo Felice Mautino era morto prima che egli nascesse, pertanto l’avv. Pezza fu una figura maschile diriferimento per il commendator Mautino, il nonno di Guido Gozzano. Per questo motivo (e anche perché i fratelli Bolognino erano vicini in età ai figli di Diodata) le famiglie Bolognino e Gozzano furono sempre in buona amicizia.
Su Candidina Bolognino dice il necrologio, pubblicato sul bollettino parrocchiale di Agliè in data 6 gennaio 1954: «Bolognino Candida d’anni 74. Non era laureata, ma era chiamata professoressa per i molti alunni che ha preparato con felici esiti ad un Diploma. Molto conosciuta nel campo letterario anche per la sua amicizia col poeta Guido Gozzano. I giornali di Torino e la R.A.I. la ricordano come l’amica e confidente di Guido Gozzano. Buona e praticante cristiana, chiuse gli occhi alla terra nella semplicità francescana».
Si trattava di una zia nubile, più giovane di pochi mesi di Erina Gozzano, la sorella maggiore del poeta, che a sua volta era la sorella del medico Eugenio, come Guido Gozzano nato nel 1883, il quale aveva avuto una figlia, nata in Friuli, dov’egli era statomedico condotto, e del nostro torinese dottor Roberto!
Si sono immaginate tante storie sul nostro Poeta e, senza tener conto della malattia, che tanto pesò sulla sua vita, si è fantasticatotanto sulle donne che egli poté frequentare ma probabilmente, se si fosse indagato meglio, senza dar retta troppo retta a suo fratello Renato, la verità storica, e non i suoi ipotetici «pallidi amori», avrebbe detto meglio...
Carlo Alfonso Maria Burdet
(Ricordando l’amicizia tra le nostre mamme, dedico queste paginea Daniela Bolognino
che qui ringrazio soprattutto per il prezioso ritratto della sua prozia).
Dedicato alle sorelle Maria e Teresa Milanollo, celebri violiniste saviglianesi, il teatro fu progettato nel 1834 dall’architetto Maurizio Serafino Eula e la sua costruzione, sul sito di una precedente sala per spettacoli, si concluse nel 1836, quando fu portata in scena la rappresentazione dell’opera L’esule di Roma di Gaetano Donizetti.
Leggi l’articolo su piemonteitalia.eu:
https://www.piemonteitalia.eu/it/cultura/teatri-storici/teatro-milanollo-di-savigliano
Con la comicità extra-large della quinta e ultima serata di “Zelig Show”, il “MOV Summer Festival 2025”
Giovedì 14 agosto, ore 21
Mondovì (Cuneo)
Dopo il successo delle prime serate con Ivana Spagna, Sarah Toscano, Dario Vergassola e Claudio Cecchetto, il “MOVE Summer Festival 2025”, realizzato a Mondovì da “Mondovicino Outlet Village”, in collaborazione con “Wake Up”, chiude i battenti la sera della vigilia di Ferragosto, nel segno pieno dell’allegria e della leggerezza con lo spettacolo “Zelig Night Show”, serata evento che, a partire dalle 21, promette tre ore di puro divertimento in compagnia di alcuni dei protagonisti più amati della comicità italiana. Sul palco della Piazza Centrale di “Mondovicino” (piazza Giovanni Jemina 47, Mondovì – Cuneo), giovedì 14 agosto, sarà infatti una vera esplosione di risate con tre “bombe” di comicità in arrivo dallo storico programma televisivo “Zelig”, in onda su “Italia 1” e su “Canale 5”, condotto– in un via vai di presentatori – (nelle sue ultime puntate, 15 – 29 gennaio 2025) da Claudio Bisio e da Vanessa Incontrada. Fra i comici che maggiormente hanno lasciato il segno, in una trasmissione che ha goduto nel complesso di grande successo, i tre che arriveranno la vigilia di questo Ferragosto a Mondovì non mancheranno di attrarre un grande pubblico di imperdibili “aficionados”. Bastano i nomi: i romani veraci Gianluca Fubelli (in arte “Scintilla”, per l’energia e la vivacità che da sempre trasmette dal palco), Marco Mazzocca e il torinese, ma “tanto calabrese dentro”, Franco Neri.
Fubelli, attore di cinema e televisione (lo ricorderete soprattutto per la sua partecipazione a “Colorado” al fianco, prima, di Paolo Ruffini e Federica Nargi e poi di Ruffini e Belén Rodriguez) porterà in scena il suo universo surreale fatto di personaggi grotteschi e battute fulminanti, con quell’attitudine al “nonsense” che l’ha reso uno dei comici più esemplari della scena contemporanea.
Mazzocca, maestro del paradosso, farmacista per laurea e comico di mestiere (a “Zelig” l’esilarante Ariel, curioso collaboratore domestico filippino di Bisio) trascinerà il pubblico in un turbine di “gag” e monologhi che spaziano tra il quotidiano e l’assurdo, mentre Franco Neri (ricordate? Quello del tormentone Franco! Oh, Franco! ) interpreterà con la sua inconfondibile ironia le contraddizioni e i “tic” della società italiana, come ha fatto per anni tra palchi, tv e cinema.
La serata è organizzata in collaborazione con “Nokep TV”, programma televisivo in diretta su “Sky Italia” e su altri canali del Digitale Terrestre e “piattaforme web”, con la partecipazione dei migliori “Centri Commerciali” d’Italia.
L’ingresso è gratuito.
Dopo lo spettacolo la festa continuerà con i negozi e i punti ristoro del “Village” che resteranno aperti fino alle 23, offrendo al pubblico la possibilità di concludere la serata con una cena sotto le stelle o un ultimo giro di shopping.
“Con questa quinta e ultima serata, il ‘MOV Summer Festival 2025’, si conferma – ricordano Luca Robaldo e Alessandro Terreno, sindaco e assessore alle ‘Manifestazioni’ di Mondovì – come uno degli appuntamenti estivi più attesi del Monregalese, capace di mescolare musica, cultura e comicità in un ‘format’ gratuito, aperto a tutti, e pensato per far vivere il ‘Village’ come uno spazio di comunità e intrattenimento. Al pubblico, sono state proposte cinque serate complementari rispetto al resto del calendario monregalese, a testimonianza di una città vivace, pronta a divertirsi coinvolgendo diverse zone del territorio comunale”.
Per info: www.mondovicino.it
Nelle foto: Gianluca Fubelli (“Scintilla”), Marco Mazzocca, Franco Neri