Cosa succede in città- Pagina 4

Spettacoli da non perdere, da Shakespeare al “Franciscus” di Cristicchi

Nella settimana, sul palcoscenico del Gioiello

Un’occasione per accostarci ancora una volta alla scrittura teatrale di Gian Mesturino, di recente scomparso, alla sua cultura, all’amore per i classici, alla sua voglia di nuove invenzioni. Per la stagione del Gioiello va in scena mercoledì 15 gennaio “Shakespeare x 2”, scritto in compagnia di Girolamo Angione e giunto al suo settimo anno di applauditissime repliche. Una baruffa che sa appieno di teatro nata all’ombra di un antico Globe, tutta da ridere, di squisito divertimento, protagonisti due giovani attori: Elia Tedesco – un gran momento per lui, nel cast del “Paradiso delle signore” su Rai 1 e protagonista della commedia “Il fidanzato di tutte” senza scordare l’ultima affermazione nel recente “Verso l’ora zero” di Agatha Christie – e Simone Marietta (anche lui nel cast della Christie). Un’epidemia di peste, che ricorda quella che visse il buon vecchio William negli anni 1592 – 1594, causa la chiusura dei teatri. In un teatro, però, sono rimasti due attori e il pubblico. E se le autorità vietano di lasciare la struttura non resta che proporre una carrellata sulle opere del Bardo, in attesa di tempi migliori. È da questi spunti che parte l’attento lavoro drammaturgico, in un godibilissimo viaggio in compagnia di Prospero e Puck, Amleto e Shylock, Giulietta e Marcantonio. Inizio ore 21.

Franciscus il rivoluzionario, l’estremista, l’innamorato della vita, pronto a vivere per un sogno, il folle che parlava agli uccelli, Franciscus che vedeva la sacralità e la bellezza in ogni volto di persona ma anche di animale e di un lebbroso, e non soltanto in essi ma anche nel sole, nella morte, nella terra su cui camminava insieme agli altri. Che vedeva l’abbandono di ogni bene, di ogni ricchezza, di una famigli e di una casa. In cosa risiede l’attualità del suo messaggio? Cosa può dirci la filosofia del “ricchissimo” di Assisi, nella confusione della modernità affamata di senso, nelle promesse tradite del progresso? Questo è altro si è chiesto Simo Cristicchi scrivendo (con Simona Orlando) e mettendo in scena questo suo “Franciscus. Il folle che parlava agli uccelli” che continua a girare per i palcoscenici italiani con immutato successo. Franco Cordelli, recensendo nelle colonne del Corriere della Sera, ha parlato di “rivelazione” e di “una scoperta” di un attore e di un autore, ha aggiunto: “Avrà più volte partecipato al festival di Sanremo e lo avrà pur vinto, ma siamo oltre, di gran lunga.” Un percorso lungo prima di arrivare a questa figura di santo insuperato, non soltanto dell’artista ma soprattutto dell’uomo, fatto di un inizio a soli 17 anni nel mondo della musica (oggi ne ha quarantasette: profetici tratti con quella barba che inizia a imbiancare e quella gran matassa di capelli arruffati), di obiezione di coscienza e di volontariato in un centro di igiene mentale, di tappe significative che si intitolano “Maria che cammina sull’autostrada” e “Studentessa universitaria” e quei capolavori del mondo della canzone che sono “Ti regalerò una rosa” e “Non mi avete fatto niente”, attraversando i versi di Alda Merini e le “Lettere dal manicomio”, i “Canti di miniera, d’amore, vino e anarchia” e “Magazzino 18”, cruda narrazione del dramma delle foibe e dell’esodo delle popolazioni giuliano-dalmate.

Prodotto dal Centro Teatrale Bresciano e dall’Accademia Perduta Romagna Teatri, con il suo “Franciscus” l’artista romano continua a stupire il pubblico, tra riflessioni che percorrono la nostra quotidianità, domande e canzoni inedite – che portano la sua firma e quella della cantautrice Amara -, indaga e racconta il Santo di tutti, che è stato prima di tutto “un uomo in crisi, consumato dai dubbi, un laico che imparava facendo, si perfezionava incontrando e il cui esempio riuscì ad attrarre una comunità, ma non senza destare sospetti tra alcuni del popolo: uno in particolare, Cencio, stracciarolo girovago, inventore di una lingua solo sua, osservatore critico del viaggio di Francesco, interpretato dallo stesso Cristicchi.”

Aggiungono ancora le note di presentazione: “Al centro dello spettacolo, il labile confine tra follia e santità, tema cardine della vita personale e spirituale di Francesco. Ma anche la povertà, la ricerca della perfetta letizia, la spiritualità universale, l’utopia necessaria di una nuova umanità che riesca a vivere con il creato. Temi che nel frastuono della società in cui viviamo diventano ancora più urgenti e vividi”. Forse lo spettacolo di cui davvero c’è bisogno oggi, tra sentimenti e momenti di tranquilla riflessione. Repliche venerdì 17 gennaio (ore 21), sabato 18 (ore 19,30) e domenica 19 (ore 16). Un successo tutto da scoprire.

(e.rb.)

Nelle immagini, Elia Tedesco e Simone Marietta in “Shakespeare x 2” e Simone Cristicchi in “Franciscus”.

Antonio Albanese con i suoi personaggi più amati al teatro Colosseo per 12 giorni di tutto esaurito

 

Dal 15 gennaio all’1 febbraio a dominare il palcoscenico del teatro Colosseo sarà il genio comico di Antonio Albanese, con il suo nuovo spettacolo dal titolo “Personaggi”, per un totale di 12 recite tutte soldout. Diretto da Giampiero Solari, l’attore e regista lombardo riparte dallo spettacolo scritto insieme con Solari, Michele Serra e Piero Guerrera. Si tratta di un affresco della società contemporanea, inserito in un “one man show” dove sono previsti rapidi cambi di costume, dialetti e situazioni. Antonio Albanese porta al Colosseo monologhi e situazioni surreali che capitano ai suoi personaggi, tanto amati dal pubblico: Epifanio, l’Ottimista, Alex Drastico, il Sommelier, Cetto La Qualunque e Perego. Lo spettacolo incarna magistralmente le maschere dei nostri vicini di casa e di noi stessi, tutti affetti da nevrosi, alienazione e solitudine, elementi che caratterizzano i rapporti umani odierni: la disgregazione della famiglia e il vuoto ideologico. Che cosa hanno in comune i mille volti con i quali Albanese racconta il presente? L’umanità. In scena uomini del sud e del nord, alti e bassi, grassi e magri, ricchi e poveri, ottimisti e qualunquisti. Maschere irriverenti e grottesche che rappresentano lo specchio di una realtà guardata con occhio irriverente, attento a carpirne i difetti, le abitudini e i tic. Antonio Albanese invita lo spettatore a guardare il mondo che lo circonda, così ricco di umanità.

Mara Martellotta

Un viaggio nella storia delle Universiadi all’archivio di Stato di Torino

Un viaggio nella storia delle Universiadi, all’archivio di Stato di Torino, in piazzetta Mollino, sino al 23 gennaio 2025, dalle ore 10 alle 18.30, con ingresso libero.

Fiaccole, bracieri, tante storie e le medaglie, quelle d’epoca e quelle nuove nate da un concorso organizzato tra gli studenti dell’Accademia Albertina di Belle Arti, vinto dalla giovane Matilda Elia.

Igino Macagno

Il “Cabaret” di Brachetti e Cannito, il ritorno di un successo tra divertimento e riflessioni

All’Alfieri, repliche sino a domenica 19 gennaio

 

Continuiamo a credere quanto già pensato al debutto una quindicina di mesi fa, ovvero quanto sia pensato e realizzato in grande “Cabaret” che nei giorni scorsi ha avuto un nuovo affermativo successo nella sala dell’Alfieri. Un ritorno felice, applauditissimo. È pensato e realizzato in grande nella produzione del Fabrizio Di Fiore Entertainment come nella regia firmata a quattro mani da Arturo Brachetti (anche se il nostro trasformista con il suo solo nome in ditta abbia dato una bella accelerata al proprio personaggio e ai suoi spazi) e Luciano Cannito (sue anche le coreografie), gran coordinatore dell’intera vicenda, entrambi a costruire il privato e il pubblico divertimento del Kit Kat Klub – nel doppio piano della scenografia firmata da Rinaldo Rinaldi (il vagone di un treno e una vecchia stazione, i corridoi e una camera d’albergo di poverissime pretese, un negozio di frutta e verdura, le luci dello spettacolo nel più trasgressivo dei locali della Berlino d’inizio anni Trenta; e poi la grandezza di una città, con i suoi monumenti, lassù dove trovano posto i componenti l’orchestra dal vivo, un paio in abiti femminili a camuffare le cose) – con un invidiabile ritmo, con il divertimento che non lascia tranquillità ai momenti di una tragedia che sta per esplodere, ma l’incalza dappresso, ai sogni e al loro infrangersi contro una realtà troppo amara e dolorosa, alle passioni, alla spensieratezza e alla libertà anche sessuale che invadevano quegli anni: arrivando oggi “Cabaret”, diremmo, a proposito, ad avere tutta l’aria di “spettacolo contemporaneo”, nel filtrare le atmosfere che ci circondano e di cui ogni giorno siamo spinti a guardare, nelle notizie dei giornali e nelle immagini televisive.

Il film omonimo di Bob Fosse (otto Oscar su dieci candidature nel ’73, una grande regia e una Liza Minnelli smagliante) ci ha insegnato l’ascesa e la caduta della spericolata Sally Bowles, cantante di quel locale, e di Cliff Bradshaw, scrittore americano di radici ben reali e dalle molte speranze, di molte idee e di poca fortuna, spinto nel suo soggiorno nella capitale tedesca (sui primi passi c’era stato un benaugurante “Willkommen”) a pensare di fornire lezioni d’inglese, altroché il grande romanzo!, dietro cui il romanziere Christopher Isherwood con molte libertà nascose se stesso, anche lui ospite, a cavallo degli anni Trenta, della sorta Repubblica di Weimar a raccogliere materiali di vita e di esistenze che convoglieranno in seguito in “Addio a Berlino”. Un amore che nasce e sembra eterno, incosciente e solido, mentre tutto sembra votato al piacere e alla spensieratezza, al successo senza mezzi termini (“Money Money”), mentre iniziano a comparire le nubi del nuovo regime, la Notte dei lunghi coltelli e l’affidamento del Cancellierato al futuro dittatore, mentre le prime squadre prendono a intonare “Il domani appartiene a noi”, come suona il titolo di una delle più belle canzoni del musical (e uno dei momenti di più tragica poesia del film; le musiche sono di John Kander, le parole di Fred Ebb, il libretto di Joe Masteroff: sul palcoscenico dell’Alfieri Luciano Cannito ne ha fatto, in quelle luci e in quelle ombre che piovono dall’alto, un piccolo ritagliato capolavoro, con i suoi ballerini/attori/cantanti e il giovane Ernst Ludwig (Niccolò Minonzio) dalla svastica al braccio a intonarne i versi, terribilmente patriottici, in un levarsi e in un alternarsi di voci che mettono i brividi). Sally continuerà a costruire e a sperare in una carriera di cantante all’interno del club, perché la vita dopo tutto é un grande “Cabaret”, Cliff tornerà in America, una vera fuga, come in quegli anni abbandonavano e fuggivano il mondo tedesco maestri del cinema come Billy Wilder e Otto Priminger, Robert Siodmak e Fritz Lang, Fred Zinnemann e Max Ophüls, senza la speranza di ritornarvi. Era un mondo che offendeva gli angoli anche appartati e semplici degli affetti privati, come quelli dell’affittacamere Fraulein Schneider e dell’anziano Herr Schultz, un ebreo ancora orgoglioso di essere tedesco e inguaribile uomo di speranza: anche per loro un tempo breve di affetti e il doveroso distacco, di fronte ad un futuro più che incerto.

Brachetti si è ritagliato i momenti del Kit Kat Klub, con i suoi numeri di Maestro delle Cerimonie, il vulcanico Emcee pronto nella sua ambiguità e nella sua irriverenza a prendersi gioco del potere, a riportare all’aperto quella libertà sessuale che in quegli anni la faceva da padrona. Coordina, guida, canta, commenta, chiama il pubblico (di oggi) a testimone, intenso e vero motore di quell’angolo di decadenza. Incursioni destabilizzanti le sue, ampi momenti in cui non rinuncia ad essere Brachetti, realissimo, quello teatrale che conosciamo, regalando ancora una volta quei flash di trovate – è sufficiente un cambio velocissimo, impercettibile, un abito che appare inspiegabile, appare e scompare, uno stupore, una smorfia, una trovata mai superflua, sino a trovare anche lo spazio per citare quel nanerottolo del führer con un mappamondo tra le mani, in un preciso memento chapliniano – che ce lo fanno ad ogni occasione apprezzare. Ha alle spalle quel mostro sacro di Joel Grey (che si guadagnò l’Oscar come migliore attore non protagonista nel film di Fosse) e parecchi altri: ma il suo sberleffo, i suoi grumi di cattiveria e di diabolico, la sua gran capacità di condurre il gioco sino in fondo, sino a mostrarsi nella più completa nudità come prigioniero pronto a entrare tra la nebbia di una camera a gas, un vecchio pastrano addosso e subito buttato a terra, ne decretano il pieno successo. Forse mi sbaglierò, ma lo spettacolo si è fatto più teso e più cupo se ripensato con il debutto, certo più commovente, più asciugato, più occasione per ripensare. Merito non ultimo della regia di Luciano Cannito, dell’alternarsi e dell’amalgamarsi delle vicende, di quei momenti più intimi che potrebbero affaticarsi di troppi sentimentalismi e che al contrario ne sono tenuti fuori dallo sguardo disteso sulla realtà, dandogli pienamente l’efficace trasposizione italiana dei testi, ottima, sinceramente udibile, semplicemente quotidiana, laddove in altri musical si è incappati in nuovi testi per molti versi stonati e ridicoli: allora il successo è davvero completo. Laura Galigani ha oggi indossato anzi afferrato con decisione gli abiti e gli sguardi, le commozioni e la pretesa grandezza sognata da Sally Bowles, più vittima che manipolatrice. Certo, combatte, pure lei, contro un altro mostro sacro del cinema e a noi in platea non si può chiedere di non “rivedere” certi occhioni sgranati, certi numeri perfetti, certe scene che da cinquant’anni ci stanno nella memoria: ebbene, la sua Sally se la è costruita fin dall’inizio con grande determinazione, con una grinta sottile e sempre più con ricchezza di particolari, caparbietà e leggerezza, il continuo e disperato voler chiudere gli occhi dinanzi alla tragedia che avanza. Mi pare che più abbia interiorizzato il personaggio, l’abbia visto nell’interno, abbia contenuto certo esplosioni: mi pare che la coreografia della canzone che dà il titolo al musical sia maggiormente trattenuta ma continui a essere travolgente. 

Tutti quanti gli interpreti, e non è davvero la frase che a volte si sforna per il dovere di non dimenticare nessuno, sono dei necessari quanto autoritari tasselli nella storia. Luca Pozzar, giovane scrittore, ha una voce convincente e una gran bella grinta, Simonetta Cartia e Toni Mazzara, la coppia d’attempati innamorati, viaggiano tra sentimenti e affetti, come continuano a divertire le sortite a sfondo pubblicitario/erotico di Giulia Ercolessi, giovane signorina Kost con un forte debole per i marinai, tutt’intorno ballerine e ballerini che entrano ed escono a riempire letteralmente di bravura l’intero palcoscenico. Un autentico successo.

Elio Rabbione

Nelle immagini: alcuni momenti dello spettacolo.

Rock Jazz e dintorni a Torino: Giovanni Allevi e gli Skiantos

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. Per l’apertura delle Universiadi All’Inalpi Arena, si esibisce Giovanni Allevi.

Martedì. Al Jazz Club suona il quartetto di Andrea Scagliarini. Al teatro Colosseo è di scena Amedeo Minghi.

Mercoledì. All’Hiroshima Mon Amour in ricordo di Gigi Restagno, concerto dei musicisti torinesi. All’Inalpi Arena si esibisce Lazza. Al Jazz Club The Chicago Blues Jam!.

Giovedì. All’Hiroshima Mon Amour suonano gli Atlante. Al Jazz Club concerto dei Sentimental Mood. Al Blah Blah si esibiscono i Popforzombie.

Venerdì. All’Hiroshima Mon Amour suonano gli Skiantos. Al Magazzino di Gilgamesh è di scena la Rob Tognoni Band. Al Jazz Club si esibiscono i Bluescreen. Al Magazzino sul Po suona la Funky*Club Night. Allo Ziggy sono di scena i Rhesina+ Breathe Me In +Emo Kills.

Sabato. Al Magazzino di Gilgamesh suona la Marjorie Martinez Blues Band + il trio Meltin’ Colors. Al Jazz Club si esibiscono gli Eterea. Al Folk Club suona Riccardo Tesi & Giua + special guest Vincent Boniface.

All’Inalpi Arena è di scena Il Volo. Al Magazzino sul Po suonano My Thelephone Number + Skinny Peachfuzz. Al Blah Blah si esibiscono i Dune Aurora + Holygiant.

Domenica. Al Jazz Club suona il Jonnie Duo.

Pier Luigi Fuggetta

Per quattro lunedì il Conte di Montecristo a Torino

Lunedì 13 gennaio 2025, su Rai1, in prima serata, arriva in tv per quattro settimane, una versione kolossal de “Il conte di Montecristo”, la storia della vendetta più famosa della letteratura nata dalla penna di Alexandre Dumas nel 1844. La produzione è italo – franco – inglese, capofila la Palomar di Carlo Degli Esposti e Rai Fiction, e buona parte delle riprese sono state realizzate grazie al contributo della Film Commission Torino Piemonte.

Tanti sono i luoghi affascinanti che Torino con i suoi dintorni presta a questa storia:  Palazzo del Pozzo della Cisterna, Palazzo Carignano, il Museo Nazionale del Risorgimento, piazza Carlo Alberto, via San Francesco da Paola, via Cesare Battisti, via Corte d’Appello, piazza Palazzo di Città e gli interni di Palazzo Civico, per quanto riguarda il centro città, e poi ancora le eleganti sale della Palazzina di Caccia di Stupinigi, Villa Cimena di Castagneto Po, il Castello di Strambino ed il Parco della Mandria. Altre riprese sono state effettuate tra Parigi, Roma e Malta. La miniserie è diretta dal regista danese Belle August, premio Oscar e due volte vincitore della Palma d’oro a Cannes, Sam Claflin è il Conte di Montecristo, Jeremy Irons interpreta l’abate Faria, il compagno di prigione con cui Dantès organizza la fuga dall’isola di Montecristo mentre Luca Guanciale è il brigante Vampa che si finge il Conte Spada. Nel cast troviamo inoltre: Michele Riondino, Ana Girardot, Gabriella Pession e Nicola Maupas, il Chiallitto della serie “Mare fuori”, uno dei volti rivelazione della cinematografia italiana.

Il primo cortometraggio su il Conte di Montecristo risale al 1908 e venne girato proprio a Torino, il primo film invece è del 1922, il tutto quando il sonoro non era ancora stato inventato. Da allora ci sono stati 12 film, cinque serie tv, un musical teatrale e persino una serie di animazione giapponese. Il primo ricco e spietato Edmond Dantès che fece innamorare milioni e milioni di telespettatrici davanti al piccolo schermo nell’ormai lontano 1966, è stato Andrea Giordana, conte di Montecristo indimenticabile nel “teleromanzo” di Edmo Fenoglio, il torinesissimo apprezzato regista di numerosi sceneggiati che tra gli anni Sessanta e Novanta hanno fatto la storia della televisione italiana.

Nel 1988 spetta poi a Gèrard Depardieu interpretare Dantès, nella serie francese in cui Mercedes, l’amore perduto, era interpretata da Ornella Muti. Infine, solo qualche settimana fa il Conte è andato in onda pure su Canale 5 con il bravo attore francese Pierre Niney che ha conquistato il pubblico italiano: una serie davvero bella! Vedremo adesso questa di versione; la storia la conosciamo tutti: il giovane marinaio di Marsiglia Edmondo Dantès sta per coronare tutti i suoi sogni quando viene ingiustamente accusato e imprigionato nel Castello d’If, dove rimane per quattordici lunghi anni e dove incontra l’abate Faria, un un uomo erudito che gli rivela l’esistenza di un meraviglioso tesoro nascosto sull’isola di Montecristo. Dopo una rocambolesca evasione e grazie al ritrovamento di queste ricchezze Edmond assume l’identità del Conte, pronto a tutto pur di compiere la propria vendetta contro coloro che hanno tramato alle sue spalle e che l’hanno tradito.

Igino Macagno

Al via la seconda parte della stagione dello Spazio Flic, il Caleidoscopio della scuola circense

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Al via il secondo tempo del Caleidoscopio dello Spazio Flic, il cartellone di spettacoli circensi che la Flic, scuola di Circo di Torino propone presso lo spazio Flic Centro Internazionale per le Arti Circensi, che ha sede in via Nicolò Paganini 0/200

Dal 18 gennaio al 29 giugno 2025 andrà in scena il secondo tempo del Caleidoscopio con ben 11 spettacoli in 16 appuntamenti e il grande finale dal 27 al 29 giugno con la terza edizione del Festival Oscillante.

La programmazione dello spazio Flic prevede due appuntamenti che vedono compagnie ospiti di livello internazionale. Il 18 e 19 gennaio 2025 sarà la volta di Akri, spettacolo del catalano Rosés Moretó, che viene presentato in prima nazionale. Questo assolo acrobatico esplora il concetto di confine attraverso l’uso di una scala, che diventa strumento circense e metafora di vita. Si tratta di un viaggio profondo che affianca tra loro discipline diverse quali il teatro, la manipolazione di oggetti e il movimento acrobatico, accompagnato da un’elegante colonna sonora e un sofisticato disegno di luci. Manél Roses Moretó è nato a Barcellona e, dopo la laurea presso l’Università di danza e Circo di Stoccolma, ha lavorato in varie compagnie, tra le quali il Cirque du Soleil.

L’8 febbraio 2025 approderà al Flic La Burla, presentato dalla compagnia Madame Rebiné. Si tratta di uno spettacolo di Circo contemporaneo che combina poesia e magia, con tre personaggi anziani che raccontano l’epilogo di un negozio di giocattoli, evocando un mondo sospeso tra nostalgia e modernità. Si pone all’interno di quella che è definibile la magie nouvelle, una corrente artistica che ha fatto della magia un linguaggio drammaturgico e che ha la volontà di utilizzare l’effetto come mezzo e non come fine. La compagnia Madame Rebiné è nata nel 2011 a Tolosa maturando un progetto iniziato alla Flic dall’incontro di Andrea Brunetto, Massimo Pederzoli e Alessio Pollutri.

Tre gli appuntamenti della rassegna Circo in Pillole tra febbraio e marzo.

Il primo febbraio, per la regia di François Juliot, con “La grande avventura” gli allievi del corso Mise a Niveau e dell’Anno tecnico metteranno in scena un’intensa esplorazione del tema della crescita e dell’avventura.

Il 22 febbraio il Circo in Pillole, Frammenti del futuro, diretto da Francesco Sgrò, si inserirà nell’ambito del ‘World Anthropology Day’, Antropologia pubblica a Torino e Milano. Si tratta di un progetto coordinato dall’Università di Milano Bicocca e realizzato in collaborazione con i Dipartimenti di Culture, Politica, Società e Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino, in collaborazione con le università milanesi partner dello IULM e Statale e la Società di Antropologia Applicata, che cofinanzia l’iniziativa.

Lo spettacolo avrà come protagonisti nuovamente gli allievi del corso Mise à Niveau e dell’Anno Tecnico, unendo discipline circensi a temi antropologici in un racconto collettivo fatto di emozioni e gesti.

Il 9 marzo Florent Bergal guiderà gli allievi del secondo anno in un viaggio alla riscoperta della parte più istintiva e animale dell’essere umano, in “Zoography”.

Momento speciale della stagione sarà il 23 marzo, con la presentazione dei progetti work in progress vincitori dell’edizione 2024 di ‘Surreale’, la call internazionale per artisti di Circo under 35 promossa dalla Flic con il sostegno della Regione Piemonte e Ministero italiano per la Cultura. Durante la serata il pubblico potrà assistere a Failles del Collectif Desfoules, che invita a riflettere sull’equilibrio e la caduta attraverso un intreccio di corpi e pensieri, e ‘Abel’ della Cie del Caravaggio, un racconto teatrale che mette a nudo il vuoto dietro l’apparente pienezza della vita.

 

Mara Martellotta

ph. Matteo Ziglioli

La scomparsa di Gian Mesturino, un autentico uomo di teatro

La prima immagine, forse un po’ sfocata, che ho di Gian Mesturino è un’immagine di teatro, lui sul fondo del palcoscenico del Carignano nelle vesti di un “soldato” – recitava così la distribuzione dei ruoli -, oltre la fitta rete dei molti attori che riempivano “La devozione alla Croce” di Calderon de la Barca che Gianfranco De Bosio aveva messo in scena per la stagione dello Stabile torinese. Quella foto può essere sfocata perché sono trascorsi oltre cinquantasette anni, era l’inizio di ottobre del 1967, nelle decadi che sono seguite abbiamo parlato di quello che doveva essere stato il suo esordio, degli incidenti che avevano accompagnato quella messinscena e delle sostituzioni, delle presenze di Pani e di un grande Mauri e di Adriana Asti. Lontanissimi ricordi che chissà chi ha ancora voglia di coltivare. Debutto che forse “La devozione” non era se le cronache di Solonghello che sta nel cuore del Monferrato scrivono che all’età di cinque anni era stato assoldato in qualità di siparista nel piccolo teatro del paese. E poi, nella sfera mia più personale, un’occasione felicissima, quando poco più di quarantacinque anni – quanti conti si fanno ormai con i calendari – intervenne con Germana al mio matrimonio per cui ancora oggi lui è là, in più di una foto, dentro un album, sorridente, con altri amici del mondo teatrale torinese, sui gradini della chiesa lassù in collina. Era nato nell’agosto del ’42 Gian, era architetto e scenografo – quante scenografie avrà inventato negli studi Rai e per i cartelloni di Torino Spettacoli? -, aveva con l’amico Girolamo Angione preparato e rivisitato per i palcoscenici di oggi il repertorio di Plauto, aveva reinventato luoghi teatrali e li aveva rianimati, aveva con grande passione sin dai primi anni d’attività scommesso su testi che ambientava nella sala Valentino e nell’atrio (un “Don Cafasso” con il già scomparso Fulvio Bava) del Nuovo.

Cultore di gialli, aveva strappato i diritti di “Trappola per topi” della Christie ed era vissuto di rendita per anni, con una ineguagliabile risposta del pubblico; aveva inventato tra le mura del Gioiello, passato da sala cinematografica a teatro, gli spettacoli a lunga tenitura, intramontabili, prova tangibile quel “Forbici Follie” che festeggia in questa stagione i venticinque anni di vita e di continuo successo. Sempre con una passione ineguagliata aveva dato luogo ad appuntamenti e a rassegne e a festival, creando “Vignaledanza” e “Il gesto e l’anima”, “Isola di Pasqua” e “Natale Bimbi” e il teatro classico tra i ruderi del teatro romano di Bene Vagienna e molto altro ancora. Aveva percorso l’insegnamento e ancora tirava tardi – “la mia giornata non è ancora finita, ho ancora da vedermi un po’ di cose della scuola” lo sentivi ancora ripetere di recente, quando lo incrociavi al Gioiello o all’Alfieri, seduto nelle ultime file a “controllare” un suo spettacolo ospite di realtà che non gli appartenevano più da quando, da due stagioni, aveva traghettato le sale nelle mani del Frabrizio Di Biase Entertainement, o semplicemente da spettatore, buon conoscitore, attento, insaziabile di nuove prove, “vittima” di quel Liceo Coreutico di corso Moncalieri che ancora presiedeva, “ma il merito di tutto quel che abbiamo costruito andrà sempre a Germana, io venivo sempre dopo di lei”. Ma non era vero, Gian non si risparmiava, negli undici anni dalla scomparsa della moglie non aveva mollato, perché doveva essere così, perché il teatro era la sua casa e il pubblico era il suo pubblico: per cui se salivi gli scalini che danno sulla platea dell’Erba, inconfondibile gioiello di famiglia, te lo trovavi lì, con un “benvenuti” sulle labbra a staccarti premuroso il biglietto. Oppure sapevi che contento varcava la quarta parete per rivestire gli abiti poveri del “Gelindo” – come aveva ancora fatto il 22 dicembre scorso -, un testo che lui stesso aveva scritto attingendo dal repertorio popolare. Questo era Gian e molto altro ancora, in una rete di ricordi che nel momento della scomparsa si affollano alla mente.

Non si era mai trincerato dietro quel bianco barbone da vecchio patriarca, non era un uomo per il quale era sufficiente stare a guardare, si era sporcato le mani e gli piaceva farlo, aveva trasmesso passione e cuore e intelligenza, aveva dato casa a Piero Nuti e ad Adriana Innocenti, si era circondato di validi collaboratori, soprattutto a un manipolo di giovani aveva dato tutto l’entusiasmo di cui era capace. Anche a loro spetterà continuare. Soprattutto a Irene, che oggi dovrà essere la vera e infaticabile anima della conduzione di Torino Spettacoli, a Miriam che continuerà a viaggiare per lo stivale rappresentando testi e raccogliendo successi, ad Eva, più appartata, nella sua carriera di medico e altresì di pittrice. Il roisario sarà recitato lunedì alle 18,30 nella chiesa Madonna Addolorata al Pilonetto, i funerali nella medesima chiesa martedì alle 10.

Elio Rabbione

Daniele Sacco e il “Cambio”

IL COMMENTO Di Pier Franco Quaglieni 
Pier Franco Quaglieni

Dicono che il conte di Cavour, che pranzava al “Cambio”,  si senta più solo dal 1 gennaio quando il cav. Daniele Sacco ha lasciato dopo 42 anni la direzione del ristorante, che con lui si era aperta alle novità, rimanendo una valida tutela della tradizione dell’unico locale storico di Torino, fondato  nel 1757.  Nella sua storia più recente Sacco ha attinto all’esempio del proprietario e direttore il comm.  Parandero, che tenne mirabilmente il locale per lunghi decenni persino durante la guerra. I locali del “Cambio” appartengono oggi all’erede di Parandero che è molto orgogliosa di suo padre. Ricordo i pranzi con la mia famiglia : mio padre era di casa anche per motivi di lavoro.

Ma non posso dimenticare che Arrigo Olivetti volle fondare al Cambio il Centro “Pannunzio” e Soldati  nel 1982 fondò  nella sala “Risorgimento” il Premio “Pannunzio”. E nelle sere d’estate, come scrisse Valdo Fusi, cenare nel  dehors a contatto visivo con palazzo Carignano suscita delle emozioni proustiane. Il “Cambio” ha avuto visitatori e clienti illustri a livello internazionale. Sacco con diplomazia e caparbietà tutta piemontese ha tenuto alto il nome di uno dei luoghi mitici di Torino. Lo ha fatto con il passo di corsa del bersagliere perché questi 42 anni sono passati in fretta Ricordo il primo  Premio “Pannunzio” del 1982 con il presidente del Consiglio Spadolini, che smaniava perché Galante Garrone ricordasse nella sua laudatio che lui a 25 anni era già professore, mentre Sacco da una parte e chi scrive dall’altra cercavamo di far funzionare le cose. In un  elegante libro al quale io stesso ho collaborato, uscito  per i 200 anni del locale, Chiamparino ha banalizzato il ristorante, mettendo insieme agnolotti e Risorgimento. Fu una delle tante volte che non mi sentii rappresentato dal sindaco.
Sacco dopo oltre quarant’anni è  rimasto giovane: ad un certo punto della storia del ristorante ha dovuto affrontare momenti difficili che ha fatto superare con la sua autorevolezza da tutti riconosciuta. Cosa farà  il diversamente giovane Sacco dopo la pensione ? Non è facile pensarlo anziano seduto su una panchina a svernare in riviera.

Fondazione Giorgio Amendola, presentata la projection mapping di Telero Lucania ’61

In occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Carlo Levi (1902-1975) è stata presentata nella serata di giovedì 9 gennaio scorso, in via Tollegno 52, a Torino, “Luce riflessa”, projection mapping che spiega il Telero Lucania ’61, una monumentale opera pittorica dell’intellettuale torinese. La traduzione multimediale del dipinto è stata realizzata da Olo Creative Farm su commissione della Fondazione Giorgio Amendola all’interno di un progetto finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del PNRR Next Generation EU.

“La Fondazione Giorgio Amendola – ha dichiarato il Presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio, rappresentato dall’assessore Andrea Tronzano – intitolata a un grande italiano partigiano e antifascista, è un luogo speciale. Qui vengono in visita le scuole del territorio, c’è una biblioteca aperta ai giovani studenti, qui si incontrano diverse generazioni e si fa cultura attraverso l’arte, come dimostra il monumento che inauguriamo oggi. Mi fa poi particolarmente piacere che questa installazione celebri l’opera del torinese Carlo Levi, diventato per la sua storia personale narratore della questione meridionale e, in qualche modo, testimone di quella commistione che è una delle caratteristiche del tessuto urbano di Torino, animata dalle tante comunità di quelli che mi piace chiamare ‘torinesi e piemontesi d’adozione’, arrivati in passato da altre Regioni italiane e che tanto hanno contribuito a far crescere il nostro territorio con il loro lavoro, ma anche con le loro tradizioni e il saper essere comunità”.

“Torino, città di cultura e di memoria – ha dichiarato l’Assessore ai Grandi Eventi Mimmo Carretta – è orgogliosa di ospitare questo evento che unisce arte, storia e innovazione, e di rendere omaggio a Carlo Levi, protagonista della cultura italiana, il cui impatto va ben oltre la sua epoca. Il cinquantesimo anniversario della sua scomparsa rappresenta un momento di riflessione sulla sua straordinaria opera artistica e letteraria, ma anche un’opportunità per valorizzare il suo impegno civile e la sua lotta per la giustizia sociale. Il Telero racconta una storia di speranza e resistenza, ponendo l’accento sulle sfide del meridione e sulla dignità degli individui. La traduzione multimediale realizzata da Olo Creative Farm non solo celebra la sua eredità, ma la rinnova stimolando un dibattito sempre più attuale riguardo a temi da sempre importanti e su messaggi universali”.

Il progetto multimediale “Luce riflessa” trasforma il celebre Telero Lucania ’61 di Carlo Levi in un’esperienza immersiva multisensoriale capace di unire passato e futuro, arte e tecnologia. Grazie alla tecnica del projection mapping, “Luce riflessa” dà nuova vita all’opera d’arte svelando dimensioni inedite e invitando il pubblico a immergersi nei paesaggi e nelle figure del dipinto. L’esperienza si snoda attraverso un racconto visivo dinamico che, con l’ausilio di animazioni, suoni sincronizzati e narrazioni multilingue (italiano, inglese, arabo, cinese) esplora dettagli nascosti, simbolismi e il contesto storico del capolavoro di Levi.

L’obiettivo non è solo emozionare, ma anche educare e sensibilizzare rendendo l’arte accessibile a un pubblico vasto e variegato. “Luce riflessa” celebra il dialogo tra il Mezzogiorno d’Italia, la Torino industriale e l’Europa dei popoli rendendo omaggio alla figura di Carlo Levi in chiave contemporanea e innovativa. Si tratta di un’esperienza inclusiva che unisce storia e tecnologia per avvicinare il pubblico alla profondità dell’arte e al potere evocativo della luce.

 

Mara Martellotta