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Canto popolare… una storia senza fine!

Rubrica a cura di Mamme in Sol

Da sempre la musica è sinonimo di condivisione e crescita per adulti e bambini. Incredibile strumento utilizzato per tramandare, insegnare e divertire, racchiude in un repertorio vastissimo sia espressioni sonore indirizzate ai bambini, come le ninna nanne o i giochi infantili, che espressioni utilizzate dagli adulti, come le rime, le conte o le filastrocche.

Il rapporto tra genitore e figlio si crea anche grazie a questo: basti pensare che una delle prime forme di contatto sonoro tra mamma e bambino è proprio la ninna nanna.

Il canto per tranquillizzare il bambino, ma non solo

L’aspetto più difficile da cogliere è che il gesto del cantare al proprio bimbo svolge molte più funzioni di quelle che pensiamo. Non solo la mamma (o chi per lei) riesce spesso a tranquillizzarlo, ma questo consente anche al bambino di apprendere inconsapevolmente insegnamenti e un buon numero di vocaboli legati alla vita quotidiana e comprendere situazioni a lui vicine.

Il canto popolare… e i bambini!

L’intento del canto popolare è quello di esprimere il proprio stato d’animo, narrare o insegnare. Le canzoni popolari nascono insieme alla civiltà umana e con essa si sviluppano nel corso del tempo, giungendo fino a noi grazie ai nostri antenati che le hanno tramandate oralmente. All’inizio era soltanto suono, forse solo una nota, arricchita poi dalla voce umana che ha iniziato a modulare vari intervalli e linee melodiche.

Il canto popolare è da sempre molto presente nella vita quotidiana poiché viene accostato a occasioni come rituali, imprese eroiche, attività lavorative da cui scaturiscono filastrocche, ninne nanne, inni.

Mamme in sol accompagna le mamme nella vita quotidiana

Il percorso di accompagnamento delle mamme nella loro vita di tutti i giorni è seguito da “Mamme in Sol”, il dolcissimo libro che fa da cuore pulsante di tutta l’associazione, e che, canzone dopo canzone, aiuta i genitori nei loro difficili compiti di tutti i giorni offrendo momenti di spensieratezza tutti da cantare!

Mamme in Sol Canto PopolareStelle frittelle: il vecchio canto popolare da cantare ai bimbi

Tra le tante, la simpatica filastrocca “Stelle frittelle” riprende il vecchio canto popolare. Ottima da cantare in cucina, da sempre luogo d’incontro e condivisione per eccellenza. Può però trasformarsi facilmente anche in momento di gioco e divertimento per i più piccoli!

L’inizio del brano è molto caratteristico, e conduce subito gli ascoltatori in cucina. I suoni, infatti, sono stati registrati con veri utensili da cucina, per ricreare l’atmosfera della tradizionale balera di paese e dare l’idea di un luogo familiare, sicuro.

Da ritmare, cantare o sussurrare, la filastrocca può essere accompagnata da un ovetto musicale o un tamburello, per poi concludersi con un momento di suspence e allegria! Attraverso questi semplici trucchi, la mamma crea le basi per una vera interazione con il bambino, che lo stimoleranno al gioco e alla partecipazione, rendendolo attento e reattivo allo stimolo musicale della mamma.

Ascolta qui Stelle Frittelle

 

Quando i torinesi dicono sì. Le sfide e i tour di Somewhere Tour&Events

Rubrica a cura di Somewhere Tour & Events

La nostra zona di comfort, come Somewhere Tours&Events, è sempre stata nel turismo e nella passione per la Torino esoterica. In questi 22 anni di lavoro abbiamo cercato di uscire sempre di più da questa zona, seppur per noi più sicura. Ed ecco che abbiamo iniziato a condividere la nostra passione con i torinesi, cercando un codice linguistico adeguato, un percorso faticoso ma interessante, grazie anche al confronto con scrittori come Giuditta Dembech e Renzo Rossotti, che ha deciso di lasciare a noi il suo archivio, come eredità culturale. Così è nato ad esempio il tour Torino Magica®.

Ogni tour una nuova sfida

A quali forze ed energie abbiamo attinto per accettare le sfide dei nostri sì che hanno portato alla nascita degli altri nostri tours? Lo ha raccontato molto bene Laura Audi – socia fondatrice di Somewhere Tours and Events insieme a Nicoletta Ambrogio, durante l’intervista rilasciata ai nostri amici di Rotta su Torino, nella rubrica i TorineSì.

Sicuramente rifiutare è sempre più facile che accettare, poiché il rifiuto non comporta mai decisioni e rischi.
Dire di no dà sicurezza, ma non permette di andare avanti, soprattutto in un mondo in costante evoluzione come quello del turismo. Rifiutare spesso non significa solo non avanzare, ma anche retrocedere, perdere terreno nei confronti degli altri.

La Notte Bianca del 2000 al Balon

Ci sono sì che possono essere detti istintivamente ed altri sui quali è necessario meditare.
Il sì più folle pronunciato da Somewhere è stato quello detto al Comune di Torino per organizzare la Notte Bianca del 2000, al Balon. È stata la prima a Torino, non si sapeva come sarebbe andata ed è stata un grande rischio, ma alla fine è stato un successo incredibile. Possiamo considerarlo come il primo segno di cambiamento di Torino, che da quel momento ha iniziato lentamente ad aprirsi e a rinnovare la sua identità. Ma non è sempre tutto così facile.

Il tour della Torino Sotterranea

Il sì più faticoso è stato l’invenzione della Torino Sotterranea: abbiamo inventato la sera come momento turistico. Prima di noi, quali musei o luoghi accettavano di aprire dopo cena e chi usciva di casa per andare a scoprire la propria città alla sera? È stato un successo strabiliante, molto amato dai torinesi, oltre che dai turisti. Un altro sì importante è stato quello alle Olimpiadi, con l’accettazione di un rischio: Torino ha dovuto cambiare pelle nel momento in cui la Fabbrica non assicurava più le certezze di prima.

Un nuovo turismo culturale

Sono anche tanti gli enti pubblici e privati che vogliono uscire dalla propria zona comfort, per creare un nuovo turismo culturale. E proprio in questa categoria di consensi rientra l’ultimo sì di cui siamo particolarmente orgogliosi: quello della preziosa collaborazione di cui facciamo parte e che ha portato all’apertura straordinaria serale dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. L’Accademia è stata la prima scuola d’arte d’Italia ed ora intende farsi conoscere non solo come il Museo che è, ma anche come scuola, con visite guidate serali anche alle sue aule, generalmente non aperte al pubblico, che proponiamo in diverse occasioni durante l’anno.

Un incredibile e saporito ragù senza carne!

Rubrica a cura de La Cuoca Insolita

Chi mi conosce già, sa che io non sono vegana, né vegetariana, né… Insomma, non posso essere definita con un’etichetta. Cerco solo di proporre delle alternative ad alcuni ingredienti che, si sa, è meglio mangiare con moderazione. Prendiamo ad esempio la carne rossa: a me piace molto, ma ne mangio poca. Questa volta ho voluto vedere se riuscivo a fare un buon ragù, escludendo però il famigerato ingrediente: proprio la carne tritata. Ho così dato il nome a questo sugo, che secondo me ha veramente un sapore, un colore e una consistenza incredibilmente paragonabili al ragù della tradizione italiana. Come al solito vi dico “provare per credere”. 

Perché vi consiglio questa ricetta?

  • Contiene la metà dei grassi e il 77% di grassi saturi in meno rispetto alla ricetta tradizionale fatta con la carne. Le calorie sono il 23% in meno.
  • Grazie alle numerose verdure impiegate, questo ragù è ricchissimo di fibre (quattro volte in più a confronto con la ricetta tradizionale).
  • Stenterete a credere che non sia fatto con la carne per il suo sapore così intenso. La ricetta è adatta anche a chi segue una dieta vegana.

Tempi: Preparazione (20 min); Cottura (50 min);
Attrezzatura necessaria: Tegame antiaderente diam. 24 cm, tagliere e coltello a lama liscia, robot tritatutto per piccole quantità.
Difficoltà (da 1 a 3): 2
Costo totale: 3,89 €

 

Ragù senza carneIngredienti per 500 g di ragù senza carne

(4 porzioni da 125 g)

  • Granulare di soia – 70 g 
  • Passata di pomodoro – 300 g
  • Carote – 50 g
  • Cipolla – 75 g
  • Sedano – 1/2 gambo 
  • Aglio – 1/2 spicchio grande 
  • Rosmarino – 1 rametto grande
  • Salvia – 10 foglie medie 
  • Olio extra vergine di oliva – 2 cucchiai 
  • Acqua – 100 g
  • Vino rosso – 50 ml
  • Sale fino integrale – 1 cucchiaino raso 
  • Pepe – alcune macinate generose, se gradito

Approfondimenti e i consigli per l’acquisto degli “ingredienti insoliti” a questo link.

In caso di allergie… Allergeni presenti: Soia, sedano, anidride solforosa e solfiti (da vino)

Preparazione del ragù senza carne

Fase 1: L’ammollo della soia

Mettete in ammollo in acqua di rubinetto il granulare di soia per almeno 30 minuti. Quando la soia sarà reidratata, strizzatela bene con le mani per eliminare l’acqua in eccesso.

Fase 2: Il pomodoro e le altre verdue

Lavate il sedano, pulite e sbucciate la cipolla e la carota e tritate finemente queste tre verdure insieme. Separate le foglioline di rosmarino dai rametti e tritatele insieme a salvia e aglio

Fase 3: La cottura

Mettete un cucchiaio di olio in una pentola antiaderente e fatelo scaldare, quindi soffriggete per pochi secondi il trito di erbe aromatiche e aglio; aggiungete poi le tre verdure tritate e fate rosolare per 5 minuti a calore sostenuto. Versate la soia reidratata nella pentola e fatela insaporire per altri 5 minuti, aggiungendo l’acqua e un cucchiaio di olio. Versate il vino rosso e fatelo evaporare. Aggiungete la passata di pomodoro, salate e pepate. Fate cuocere a calore molto basso e coperto per 35 minuti. Se resta ancora un po’ di liquido sul fondo della pentola proseguite ancora la cottura senza coperchio per il tempo necessario.

In estate, al posto della passata di pomodoro, questa ricetta si può preparare con i pomodori freschi, spelati e tagliati a dadini.

Chi è La Cuoca Insolita?

La Cuoca Insolita (Elsa Panini) è nata e vive a Torino. E’ biologa, esperta in Igiene e Sicurezza Alimentare per la ristorazione, in cucina da sempre per passione. Qualche anno fa ha scoperto di avere il diabete insulino-dipendente e ha dovuto cambiare il suo modo di mangiare. Sentendo il desiderio di aiutare chi, come lei, vuole modificare qualche abitudine a tavola, ha creato un blog e organizza corsi di cucina. Il punto fermo è sempre questo: regalare la gioia di mangiare con gusto, anche quando si cerca qualcosa di più sano, si vuole perdere peso, tenere a bada glicemia e colesterolo alto o in caso di intolleranze o allergie alimentari.

Lotta alle zanzare, individuata nuova specie in Piemonte

Rubrica a cura di IPLA – Istituto per le Piante da Legno e per l’Ambiente

Proprio in queste settimane è in fase di discussione l’avvio del progetto di lotta alle zanzare per l’anno 2020. Le temperature miti dell’inverno favoriscono una partenza dei cicli biologici delle zanzare anticipata rispetto agli anni passati. Occorre quindi monitorare e partire con le azioni di lotta tempestivamente.

Lotta alle zanzare

Nella scorsa annata, nell’ambito del progetto regionale di monitoraggio e lotta contro le zanzare, l’Istituto per le Piante da Legno e l’Ambiente di Torino (IPLA SpA) che dal 2007 gestisce il progetto di contrasto alle zanzare per conto della Regione Piemonte, ha individuato alcuni esemplari di Aedes japonicus, una specie di zanzara fino a ora non presente in regione, giunta da noi dal vicino Canton Ticino dove è segnalata dal 2017. Questa nuova specie di zanzara è stata individuata in 6 comuni della provincia del Verbano-Cusio-Ossola (Verbania, Cannero Riviera, Oggebbio, Stresa, Crodo e Gravellona Toce) ma il suo areale è sicuramente più ampio di quello che è stato possibile accertare. L’indagine è tuttora in corso e proseguirà.

Aedes japonicus, una specie invasiva

Aedes japonicus è considerata una delle specie più invasive, tanto da essere stata inclusa nella lista del Global Invasive Species Database. Originaria delle zone temperate dell’estremo oriente, ha raggiunto gli Stati Uniti orientali alla fine del secolo scorso probabilmente con il commercio dei copertoni usati. Da allora è stata segnalata in più di 30 stati degli USA e in Canada. La prima segnalazione per l’Europa risale al 2000, in Francia, dopodiché è stata rinvenuta in numerosi Paesi, tra cui Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Austria, Slovenia, Ungheria e Croazia.

Il primo esemplare in Italia nel 2015

In Italia il primo esemplare è stato trovato nel 2015 in provincia di Udine, non distante dal confine con l’Austria. Da lì ha colonizzato almeno 58 comuni tra le province di Udine e Belluno, ad un’altitudine compresa tra i 99 e i 1263 m slm, anche in zone finora precluse alla zanzara tigre (Aedes albopictus). Le sue larve sono state ritrovate in varie tipologie di focolai: copertoni, vasi, sottovasi, tombini, vasche di fontane e recipienti di varie dimensioni.

Si tratta di una specie che dimostra una buona adattabilità e che è capace di colonizzare aree e ambienti anche differenti da quanto fatto finora dalla zanzara tigre. Essendo di recente introduzione, occorrerà considerare anche gli effetti di competizione nei focolai larvali con le specie autoctone o di precedente introduzione.

Le zanzare veicolano patologie

Aedes japonicus è considerata un vettore di patologie poco importante rispetto ad altre sue congeneriche, quali la zanzara tigre. Nonostante ciò, in laboratorio è stato possibile accertare la sua competenza per la trasmissione di nematodi (filarie) e alcuni virus che possono colpire l’uomo. Se il progetto sarà approvato dalla Regione Piemonte, le azioni di monitoraggio e lotta che realizzeremo saranno anche volte alla verifica della diffusione di questa nuova specie e al suo contenimento.

Per maggiori informazioni sulla lotta alle zanzare.

Torototela, qual è il significato di questa parola piemontese?

Rubrica a cura del Centro Studi Piemontesi

Torototela: È il titolo di una bella poesia di Nino Costa (1886-1945). La traduzione potrebbe essere “cantastorie”; così lo cita in esergo di poesia Costa: “Menestrello campagnolo, estroso e vagabondo, di cara e giocosa memoria. Nelle feste e nelle baldorie paesane improvvisava, non senza grazia, la poesia la canzone e la satira di circostanza”.

Ma anche “antico e rozzo strumento musicale”. Il REP (Repertorio Etimologico Piemontese, Torino, Centro Studi Piemontesi-Ca dë Studi Piemontèis, 2015) spiega come etimologia “Voce imitativa…dei ritornelli delle canzoni popolari e del suono dello strumento con cui il cantastorie si accompagnava”. E cita una fonte che affianca questo strumento al “corrispondente arabo Arababbah”.

La storia dei Savoia, la dinastia più longeva di tutte le casate europee

Rubrica a cura di Somewhere Tour & Events

Ma quale fu il segreto che permise ai Savoia di trasformarsi da semplici “conti” nei futuri Re d’Italia? Forse più di uno, ma sicuramente furono in grado di creare un utile stato cuscinetto a ridosso dei valichi alpini, che divideva le grandi potenze europee dell’epoca. Gli storici rilevano spesso l’indole guerrafondaia della dinastia sabauda, che non per nulla potrà vantare nel 1700 una delle migliori accademie militari d’Europa. Tuttavia, l’esercito sabaudo era l’esercito di uno stato povero e non poteva certo competere, sul piano militare, con le corone di Francia, di Spagna o d’Austria.

Sarà nell’abile politica delle alleanze che il ruolo del piccolo e povero stato sabaudo sarà cruciale, arrivando addirittura a capovolgere gli esiti delle grandi guerre che attraversavano l’Europa tra il ‘600 e il ‘700. E, il miglior modo di fare le alleanze, allora come oggi, è quello dei matrimoni. I Savoia avevano la capacità di imparentare la loro numerosa prole attraverso matrimoni strategici con gli eredi di tutte le più importanti casate dell’epoca. E non per nulla, le Madame dei Savoia saranno in grado di condurre una propria politica e di governare anche a lungo come reggenti, contribuendo a stabilizzare gli instabili equilibri dell’epoca.

La storia dei Savoia comincia con la Contessa Adelaide

Questa lunga storia, non a caso, incomincia da un matrimonio con una donna straordinaria: la Contessa AdelaideSiamo alla fine del X secolo e, prima di questo matrimonio, i Conti di Savoia non si erano affacciati al di qua delle Alpi. Adelaide si sposa con Oddone, figlio del Conte Umberto di Biancamano, a sua volta figlio di un mitico Beroldo della casa Sassone, capostipite della casata cui sarà assegnata una contea che faceva perno sull’attuale Savoia. La Marca della Contessa Adelaide, invece, tagliava trasversalmente il Piemonte da Ivrea fino ad Albenga, sul mare, tenendo dentro anche i valichi alpini e quindi l’accesso alla Val di Susa. Così i Savoia iniziano ad interessarsi ai territori subalpini. Ma sarà una strada lunga: Adelaide, che morirà centenaria nel 1091, dopo essere sopravvissuta a 3 mariti e 3 figli, lascerà lo stato in un vuoto politico che durerà a lungo. 

I Conti di Savoia, insieme ai Principi d’Acaja, ramo collaterale della famiglia, li ritroviamo già verso la fine del ‘200 e poi con l’epoca degli Amedei tra il ‘300 e il ‘400. Tra tutti, ci piace ricordare Amedeo VI, il Conte Verde, che fu personaggio davvero cruciale. Oggi vi aspetta proprio davanti al municipio, nel monumento commissionato da Carlo Alberto a Pelagio Palagi nel 1830, forse posto lì per ricordare che fu il primo Signore di Torino non solo a riconoscere le leggi comunali, ma a riordinarle tutte in un codice coerente che verrà incatenato a una delle colonne dell’ingresso del Palazzo di Città. 

Da Conti a Duchi, con Amedeo VIII Duca di Savoia

Il passaggio da Conti a Duchi i Savoia lo fecero con un personaggio davvero originale: Amedeo VIII, che nel XV secolo si autonominò Duca ed anche Papa! Ma è solo con il Duca Emanuele Filiberto, che deciderà di spostare da Chambery a Torino la capitale del ducato sabaudo, che si apre la stagione moderna della dinastia. Siamo negli anni ‘60 del ‘500, gli anni in cui nasce per volere del Duca la Cittadella di Torino, fortezza militare all’avanguardia per l’epoca e che segna il passaggio verso Torino Capitale. E proprio con Emanuele Filiberto prima e poi con suo figlio Carlo Emanuele I, i successori e le madame reali Cristina Di Francia e Giovanna Battista di Savoia Nemours che Torino incomincia ad assumere l’aspetto che ancora oggi ammiriamo in tante vie del centro storico.

Oltre alla politica dei matrimoni è il momento della politica d’immagine: il territorio diventa rappresentazione del potere e, per stare alla pari con le grandi case europee dell’epoca, Torino si dota di una nuova urbanistica e di una Corona di palazzi (la corona di delizie) utile a far apparire molto più ricco e potente di quanto non fosse, lo stato dei Savoia. Con Carlo Emanuele I nascerà anche quel gusto per il collezionismo che porterà alla raccolta di oggetti d’arte e archeologici, di codici miniati e di armi che sono all’origine del grande polo museale torinese di oggi. Questo patrimonio fa parte integrante della politica d’immagine, rappresentata plasticamente e pittoricamente nei fregi e nelle decorazioni delle varie anticamere della Sala del Trono a Palazzo Reale, vere e proprie immagini utili a impressionare diplomatici e ambasciatori degli stati limitrofi.

Torino metropoli europea grazie ad architetti e urbanisti scelti dai Savoia

Tra il ‘600 e il ‘700 Torino diventa una metropoli europea: cambia volto anche grazie alla capacità dei Savoia di individuare architetti e urbanisti del livello di Guarini e di Juvarra. È la Torino della Madame Reali e soprattutto di Vittorio Amedeo II, personaggio chiave, che si inserisce nella guerra di successione al trono di Spagna – scoppiata nel 1701, cambiando segretamente alleanza e passando da quella francospagnola (a cui era cooptato) a quella Austriaca, grazie alla parentela col principe Eugenio di Savoia Soissons della casa d’Austria. Sono gli anni dell’Assedio e della Battaglia di Torino (1706) in cui le truppe austropiemontesi batteranno il nemico franco-spagnolo. In cambio dell’alleanza con l’Austria, a Utrecht nel 1713, i Savoia acquisiranno così la corona di Re di Sicilia.

Il XVIII secolo si chiude con la Rivoluzione Francese e per i Savoia è l’ora dell’Esilio. Torneranno nel 1815 tentando la difficile e antistorica operazione della restaurazione. Ma i tempi sono cambiati: a Vittorio Emanuele I succederà Carlo Felice che non avendo eredi passerà il potere al ramo dei Savoia Carignano, nella persona di Carlo Alberto. Il Sovrano dovrà gestire il difficile momento di transizione tra l’ancièn régime, ormai sulla via del tramonto, e le richieste popolari. È lui a concedere lo Statuto e ad aderire al progetto delle guerre di indipendenza anche se, tra mille ripensamenti, sarà lui a riplasmare ancora una volta la città, lo stesso Palazzo Reale e ad aprire al pubblico le collezioni riservate un tempo a studiosi o personaggi illustri. Suo figlio Vittorio Emanuele II al termine del complicato periodo delle guerre d’indipendenza si ritroverà così ad essere Re d’Italia. Non saranno anni facili, quelli della monarchia parlamentare, su cui ancora tanti capitoli rimangono aperti, ma certo il XX secolo segnerà la fine del millenario regno dei Savoia. Dopo le vicende del Fascismo e della II Guerra Mondiale, i Savoia verranno esiliati e nascerà la Repubblica Italiana.

 

Una vita di corsa: chi è Giuseppe Tamburino, running motivator

Rubrica a cura di ScattoTorino

Ha 62 anni e sembra un ragazzo. Il suo segreto? La corsa, che è passione e lavoro allo stesso tempo. Con oltre 130.000 chilometri di strada nelle gambe e un cospicuo numero di maratone alle quali ha partecipato, anche con ottimi risultati, Giuseppe Tamburino ha creato diversi progetti – di carattere sociale e non – legati a questo sport: dall’Ecomaretona a Girls Just Wanna Have Run sino a Run&Clean. Tutte iniziative di successo che coinvolgono le persone e legano l’attività sportiva ad aspetti etici mai banali che vanno dalla pulizia del luogo in cui si corre alla sicurezza delle donne runner. Siccome la fatica non gli pesa, Beppe scrive anche sul mensile Correre e racconta storie sulla motivazione, si occupa di team building e con il suo progetto #runningmotivator accompagna nella corsa sia il personale delle aziende sia i singoli. In media si allena 3 volte al giorno per un totale di circa 30 chilometri quotidiani e non è mai stanco perché, dice: “Quello che mi attrae di più è il senso di libertà e condivisione che solo la corsa ci regala”.

Corsa Beppe

Una vita di corsa?

“Ho iniziato 35 anni fa. Era estate e i miei genitori mi avevano mandato in collegio a Paderno del Grappa. Per stare all’aria aperta potevo solo correre in pista, sotto il sole. Così per due mesi mi sono allenato, arrivando a percorrere anche 20 chilometri al giorno. Ho vinto la mia prima gara proprio lì, anche se non avevo ancora capito quanto mi piacesse la corsa. Dopo i 30 anni, a seguito di un incontro fortuito, ho preparato la prima delle mie 27 maratone, tante con un tempo sotto le 3 ore. Devo molto al mio allenatore, Alessandro Rastello, che è stato fondamentale. Ho partecipato ad una serie innumerevole di gare e della maratona di Milano ho un bellissimo ricordo: il mio best time di 2’43” e mia cugina, già malata, che mi seguiva e mi aspettava all’arrivo.  Correre mi ha sicuramente cambiato la vita e reso una persona migliore”.

Cosa significa essere un Running Motivator?

“Ho ideato questa figura 10 anni fa. Non sono un personal trainer o un allenatore, ma una persona capace di portare chiunque dal divano al parco perché, come cita il mio hashtag, #insiemepuoi. Metto la mia esperienza al servizio degli altri e li motivo alla corsa. Essendo empatico, quando mi alleno con qualcuno lo ascolto e creo un rapporto vero. Inoltre, avendo partecipato a tante manifestazioni sportive e avendone create a mia volta parecchie, ho percorso migliaia di chilometri con la gente che mi ha regalato la propria storia, che uso come proprietà transitiva. Se uomini e donne con problemi personali gravi hanno trovato nella corsa una motivazione per cambiare la loro vita o comunque migliorala, può farlo chiunque. Oggi si rivolgono a me circa 300 persone e si tratta sia di aziende come Europe Assistance o Shiseido, sia singoli individui che amano il running o vogliono dedicarsi alla corsa. Io li motivo, li preparo, ma quando hanno raggiunto l’obiettivo lascio che procedano da soli e tanti hanno anche partecipato a delle maratone. Tra chi corre solamente, la maggioranza sono donne: ammiro la loro determinazione e la capacità di mettersi alla prova”.

Tra i tuoi progetti di successo c’è stata l’Ecomaretona

“Nel 2008 ho creato ed organizzato quella che è stata la più lunga corsa a tappe in favore dell’ambiente e dello sport pulito, che ha coinvolto centinaia di associazioni sportive e tanti appassionati. L’evento ha avuto un grande successo ed ha contato 5 edizioni: la prima da Ventimiglia a Reggio Calabria, la seconda nel 2009 da Reggio Calabria a Trieste, nel 2010 in Sardegna e in Sicilia, nel 2014 da Ventimiglia a Reggio Calabria e nel 2015 da Trieste a Ventimiglia. I giorni di corsa sono stati circa 300 per un totale di 40.000 partecipanti. Ogni giorno, con il team, cambiavamo posto, incontravamo persone e inviavamo il reportage ai media partner che erano Radio2, Radio Montecarlo e la rivista Correre. Per me è stata un’esperienza unica condividere questa passione con tutti coloro che ho incontrato lungo le diverse tappe. Per questa attività ho ricevuto, e ne sono molto orgoglioso, due medaglie dal Presidente della Repubblica”.

Cos’è Run&Clean?

“Il progetto unisce la corsa con l’attenzione all’ambiente. In pratica invito i runners, ma anche chi cammina, a raccogliere lattine, bottiglie e ciò che trova sul proprio percorso. Basta avere con sé un sacchetto, dei guanti protettivi e buona volontà. In Italia ci sono 7 milioni di persone che corrono ogni settimana. Se tutti aderissero all’iniziativa avremmo parchi, sentieri, vie e spiagge più pulite. L’esempio è più importante delle parole, per questo mi impegno in prima persona e metto faccia e gambe in ogni mia idea”.

Un’altra bella iniziativa è Girls Just Wanna Have Run

“Si tratta di un progetto gratuito dedicato alla sicurezza delle donne che corrono, ma desidero che a parlarne sia Margherita Cavaglià, che è l’ideatrice”.

Margherita Cavaglià (che abbiamo raggiunto al telefono) spiega: “Ho sempre fatto agonismo di canottaggio e il fiume e il parco del Valentino li ho vissuti tanto poi, 3 anni fa, sono stata aggredita mentre stavo correndo alle 3 del pomeriggio. Mi sono spaventata e ho smesso di correre per 2 anni, optando per la palestra. Nel dicembre del 2019 ho deciso di ricominciare e ho cercato dei gruppi, ma non ho trovato nulla dedicato alle donne, così ho pensato di crearlo io. Mi sono rivolta a Beppe, che ha accettato con entusiasmo di unirsi all’iniziativa. Girls Just Wanna Have Run, che riprende il titolo di una famosa canzone di Cindy Lauper, organizza uscite che sono anche dedicate alla sensibilizzazione e all’informazione.  Con noi c’è Diletta Gasperoni che è una personal trainer ed insegna degli esercizi a corpo libero per migliorare la postura e la muscolatura. Il progetto, che sta riscuotendo l’interesse di possibili sponsor di abbigliamento sportivo, è replicabile ovunque e ha grandi ricadute sul territorio. Al momento, senza pagare sponsorizzazioni su Facebook, la pagina conta circa 600 iscritte e vorremmo creare un gruppo a livello nazionale ed inserire dei corsi di sicurezza: dall’uso dei fischietti ai consigli pratici – come ad esempio non ascoltare la musica che attenua la percezione dei rumori circostanti – all’importanza di correre insieme per non essere un bersaglio dei molestatori”.

Corsa Beppe Beppe, Torino per te è?

“Se avesse il mare sarebbe il top! È comunque un luogo bellissimo in cui vivere, anche se ha perso lo spirito imprenditoriale che aveva ai tempi della Fiat. Oggi ci sono molte startup e tante iniziative importanti, ma manca un progetto di business a lungo termine. Forse dovremmo chiederci cosa vogliamo fare da grandi”.

Un tuo ricordo legato alla città?

Nel 2006 ho organizzato per Samsung il viaggio della fiamma olimpica che da Roma è arrivata a Torino attraversando l’Italia. Ho gestito il budget e l’idea nella sua totalità, vincendo una gara a livello mondiale. Per giorni ho corso e condiviso la stessa passione con le circa 250 persone, tutte fantastiche, che facevano parte del gruppo: insieme abbiamo fatto 10.500 chilometri passando anche per la Sicilia e per la Sardegna e abbiamo coinvolto 11 milioni di italiani. Con noi c’era una carovana di 16 mezzi che includeva anche Radio2 e due postazioni di dj che cambiavano la musica in base a chi incontravamo lungo il percorso. Ricordo ancora l’emozione, quando siamo arrivati a Torino, nel veder scendere le persone dai carri e baciare il suolo. È stata un’esperienza unica e di grande responsabilità che, una volta conclusa, mi ha lasciato un vuoto incredibile e mi ha portato a organizzare l’Ecomaretona”.

 

Coordinamento: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto

L’impatto degli inquinanti dell’aria sulle foreste e le loro funzioni

Rubrica a cura di IPLA – Istituto per le Piante da Legno e per l’ambiente

Sul finire del secolo scorso grande risalto ebbero i danni causati alle foreste, in particolare del centro Europa, dalle cosiddette “piogge acide”, rese tali a causa dell’immissione in atmosfera di anidride solforica dovuta al largo utilizzo di combustibili fossili.

Le preoccupazioni per le foreste

Oggi a preoccupare di più sono le notevoli masse di emissione di anidride carbonica (CO2) che rappresentano uno dei più urgenti problemi ambientali, giacché aumentano “l’effetto serra” con il conseguente riscaldamento generalizzato della terra. Un ulteriore elemento di criticità è rappresentato dall’eccesso di ozono. Il danno sulle piante in questo caso è correlato alla sua concentrazione in atmosfera e all’assorbimento delle foglie. Nello specifico la sua fitotossicità inibisce la fotosintesi clorofilliana danneggiando l’assorbimento di nutrienti. Con concentrazioni di ozono elevate si stima una riduzione dell’attività fotosintetica fino al 15%.

Il ciclo del carbonio

Negli ecosistemi terrestri il ciclo del carbonio permette di assorbire CO2 consentendo ai boschi di diventare “serbatoi di carbonio”. Se si favoriscono gli assorbimenti degli ecosistemi, maggiore sarà la quantità di carbonio fissata a lungo termine nella biomassa e nel suolo e minore sarà l’impatto delle emissioni in atmosfera.

foreste

Il protocollo di Kyoto e i successivi accordi internazionali impegnano i Paesi a ridurre le emissioni che provocano l’effetto serra e ne regolamentano la contabilizzazione secondo un mercato ufficiale che è l’ETS (Emission Trading System). Esiste inoltre la possibilità di scambiare “crediti di carbonio” nel cosiddetto mercato volontario in cui individui, società e organismi pubblici comprano crediti per mitigare le loro emissioni derivanti da produzioni industriali, trasporti, produzione di energia e altre fonti. Fra i vari progetti, oltre a quelli più diffusi nel campo delle energie rinnovabili, vi sono anche quelli in ambito forestale.

 

L’Ipla e lo studio delle foreste piemontesi

È in tale ottica che l’Ipla, a partire dagli anni 2000, per conto della Regione Piemonte, è impegnata in attività di studio e di monitoraggi finalizzati all’identificazione di tecniche di gestione delle risorse naturali (boschi e impianti per l’arboricoltura da legno) e alla contabilizzazione del carbonio in vista di un mercato regionale dei crediti. L’Ipla ha stimato che nelle foreste piemontesi (quasi 1 milione di ettari), considerando le piante e i suoli, per ogni ettaro ci siano circa 600 tonnellate di anidride carbonica stoccata, di cui oltre 200 nelle radici e nei fusti delle piante.

D’altro canto studi recenti hanno dimostrato che concentrazioni elevate di ozono possono ridurre la produttività delle foreste fino al 50%, con conseguente impatto sulla capacità delle stesse di immagazzinare l’anidride carbonica. Stiamo parlando infatti di sistemi complessi, nei quali le variabili sono molteplici e le correlazioni tra loro sono molto numerose e altrettanto complesse. Ciò premesso, è evidente l’importanza di studiare l’impatto che l’ozono può avere sulle piante e sugli ecosistemi forestali quali fornitori di servizi.

Mitimpact, il progetto di UniTO in collaborazione con Arpa e Ipla

A tale proposito, il Dipartimento di Economia e statistica dell’Università degli Studi di Torino, nell’ambito del progetto Mitimpact, in collaborazione con l’Arpa e l’Ipla, sta definendo una metodologia che permetta di stimare gli impatti dell’ozono sugli ecosistemi da un punto di vista economico.

foresteSiccome la sensibilità delle specie forestali è diversa, uno studio parallelo condotto dal Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università degli Studi di Torino, fornirà scenari futuri su come la vegetazione si trasformerà adattandosi ai cambiamenti climatici. Si prevede quale sarà la risposta complessiva delle foreste in un quadro di progressivo innalzamento delle temperature, riduzione delle precipitazioni e aumento delle concentrazioni di alcuni inquinati dell’aria come l’ozono, favoriti dalla luce e dal calore.

Di tutto questo se ne è discusso durante un importante incontro con Corinne Le Quéré, Alto Commissario per il clima nominato dal governo francese, organizzato a Nizza lo scorso 2 febbraio dal Conseil Départemental. Corinne Le Quéré, che è anche Direttrice del Tindall Centre per la ricerca sui cambiamenti climatici e reggente della cattedra per i cambiamenti climatici all’Università Est Anglia, è una climatologa di fama mondiale che ha fornito validi spunti su come proseguire la ricerca in questo campo. Le nostre foreste, apparentemente statiche, sono in realtà in continua trasformazione, sia per le naturali dinamiche ecologiche sia per le modificazioni ambientali che stanno subendo.

“Esageroma nen!” Qual è il significato di quest’espressione?

Rubrica a cura del Centro Studi Piemontesi

Esageroma nen! La traduzione letterale è “non esageriamo”, ma il senso profondo, caro a Norberto Bobbio, è la coscienza “dei propri limiti e la conseguente diffidenza per chi siede a scranna”. Una sorta di naturale understatement dell’”homo pedemontanus”: “laborioso, leale, probo, di poche parole, riservato nell’espressione dei suoi sentimenti, misurato nei gesti, obbediente, ma non servile…”.

[vedi: RENZO GANDOLFO, Conoscenza – e coscienza – attuale del
passato piemontese, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2019 (terza ristampa)]

Cinema e Food, un rapporto «insaziabile»!

Rubrica a cura di Somewhere Tour & Events

Che cosa lega il Cinema al Cibo? Al giorno d’oggi siamo abituati ad andare al cinema e gustare pop corn e dolciumi vari, a cenare in compagnia delle pay TV, a rilassarci davanti al nostro film preferito o all’ultima novità, con qualche golosità da sgranocchiare. Ma il cinema non accompagna solo il cibo: c’è un rapporto molto più stretto e profondo tra la settima arte e l’alimentazione.

Cinema e Food, così diversi ma così simili

Così diversi, eppure così simili: nel cinema, come nel cibo, proiettiamo i nostri desideri e le nostre paure. Sia cinema che cibo sono pietre miliari della comunicazione sociale e dello sviluppo relazionale: il primo appuntamento romantico ufficiale avveniva in passato proprio al cinema oppure a cena. Sullo schermo, come in cucina, l’evoluzione nasce sempre dalla sperimentazione. E questi sono solo alcuni termini che ritroviamo in entrambi i settori: “pizza” è il nome in gergo della pellicola; è di uso comune l’espressione “cucinare un film” o “dare in pasto agli spettatori”, spesso una creazione cinematografica può essere definita “pesante”, “indigesta” o “sciropposa”.

Perché il cinema e il cibo sono così legati tra loro?

In quale modo cinema e cibo si sono così legati nel tempo? Tutto ebbe inizio nel 1895, in uno dei primi lavori dei fratelli Lumière intitolato Le répas de Bebè, dove venne ripresa una delle scene di vita familiare più intime: un bambino imboccato dai genitori. Il cibo non a caso diventa protagonista dello schermo a partire dalle prime pellicole.

Le battute di numerosi film, dove il cibo è il vero protagonista, sono ormai entrate nel linguaggio di tutti i giorni. Come dimenticare la scena di Un americano a Roma (1954), dove Nando Mericoni (Alberto Sordi), estenuato dalla dieta americana, minaccia un piatto di pasta per poi avventarsi su di esso.

Ci troviamo nell’Italia degli anni ’50, dove sta dilagando il mito della cultura americana e tutto – modi di vestire, di parlare e di mangiare – sembra adeguarsi al modello oltreoceano. In questo caso la pasta è la rivincita del modo di vivere italiano su quello straniero: il protagonista del film arriva addirittura a sostituire il termine italiano “bucatini” al dispregiativo americano “maccaroni”, ma non può resistere alla loro bontà!

Cinema e food, altri esempi di questa relazione duratura

Stessa voracità, causata da differenti circostanze, è quella che spinge i personaggi di Miseria e Nobiltà (1954) ad assalire un piatto di vermicelli al pomodoro. Il film, ricordato per la scena degli spaghetti mangiati con le mani e messi in tasca, è l’emblema di Totò, maschera della fame del cinema italiano per eccellenza. Il piatto verace e popolare che viene mangiato senza dar conto alle buone maniere, in questo caso, rappresenta l’antico rituale che lega uomo e cibo, come riempimento ed appagamento. Dietro alla pittoresca immagine ripresa dal “mangiamaccheroni” napoletano, oltre alla rappresentazione della fame vera, c’è anche una grande rivincita: quella della creatività contro la sfortuna.

…ma anche cinema e dolci!

Film più recenti invece vedono come protagonisti i dolci, in particolare il cioccolato: La Fabbrica di Cioccolato del 1971 interpretata da Gene Wilder ha avuto un remake a firma Tim Burton nel 2005. A vestire i panni del proprietario della fabbrica di dolci più famosa al mondo nella nuova versione è Johnny Depp. Uno dei momenti clou è la visita alla fabbrica: un mondo sognante popolato di dolci di ogni tipo, dove c’è una sorpresa golosa ad ogni angolo come la cascata di cioccolato.

Un altro esempio famoso dello stretto legame tra cinema e food è Chocolat (2000). La cioccolataia più conosciuta del grande schermo ha il volto dolce e sensuale di Juliette Binoche. Chi non ha sognato almeno una volta di mangiare il cioccolato di Vianne Rocher e restare rinchiuso per una notte nella sua bottega?

E voi conoscete altre scene celebri in cui il cibo è il vero protagonista?