Mino Giachino
Mino Giachino
Un furgoncino ha tamponato violentemente a Ivrea un camion dell’azienda di raccolta di plastica e vetro dalle apposte campane.
Sul posto il 118, la Polizia e i Vigili del Fuoco. Il conducente del furgone è rimasto ferito ed è stato portato in ospedale.
IL COMMENTO Di Pier Franco Quaglieni
Un manifesto di circa cento persone, in verità non tutti intellettuali (evito di citarne i nomi), merita sempre attenzione. Se poi a ispirarlo e illustrarlo è un avvocato di lungo corso come Fulvio Gianaria, esso merita di essere letto e meditato. A due mesi dal voto, appare strumentalizzabile e anche un po’ fuori tempo perché il manifesto di Croce del 1926 ebbe ben altre firme e guardava al fascismo con una profondità di pensiero che qui non si coglie anche perché oggettivamente non ci sono le condizioni per scriverlo. Manca anche l’interlocutore Giovanni Gentile e il delitto Matteotti. Fa sorridere Elena Caffarena, figlia del più noto Mino, funzionario e dirigente del PLI , quando scrive: “ Ci unisce il desiderio di vedere un nuovo Risorgimento. Vogliamo ispirare chi la pensa come noi”. L’idea sarebbe buona, ma mancano gli ispiratori. Neanche una parola diretta a sostegno di Israele, ma solo giri di frase. I liberali, i liberal-democratici sono stati sempre dichiaratamente filoisraeliani. Stupisce la conversione al liberalismo di Massimo Negarville, figura oggettivamente lontana da vecchi e nuovi risorgimenti, anche lui autorevole firmatario. Gobetti nel suo slancio non sempre rigoroso aveva un’attenuante: era giovane ed immaturo. Un‘attenuante che non si può concedere a molti dei firmatari. Sempre cento o quasi, come quelli che ebbero bisogno dell’Ungheria invasa per dimettersi dal PCI togliattiano che difendeva i carri armati di Mosca. I liberali non si agitano per l’eguaglianza sociale ma per libertà che consente ai più capaci e meritevoli di liberarsi dal soffocante egualitarismo livellatore. Farmacisti, politicanti vari della I repubblica e improvvisati saggisti provenienti dal pci, si sono dimenticati anche di denunciare la corruzione correntizia in particolare del Pd odierno che allontana dal voto i cittadini e dà il potere ai capi bastone, fomentando il populismo di ogni colore, anch’esso incompatibile con il liberalismo. Non sono dimenticanze da poco. Ma molti il liberalismo l’hanno conosciuto in un corso al Cepu, come dice Dino Cofrancesco.
Premiati il servizio di gastroenterologia ed i reparti di urologia e ortopedia nella classifica nazionale stilata dall’Istituto Tedesco di Qualità e Finanza
Il Presidio Sanitario Cottolengo di Torino si è posizionato con ottimi risultati nella classifica «Ospedali di Eccellenza 2024», il primo studio nazionale sulle migliori strutture ospedaliere italiane, condotto dall’Istituto Tedesco di Qualità e Finanza ITQF e pubblicato su «Salute», inserto distribuito da La Repubblica, La Stampa e altri quotidiani del Gruppo Gedi.
L’Ospedale Cottolengo, in particolare, è stato premiato per la qualità del servizio di gastroenterologia e dei reparti di urologia e ortopedia, per gli interventi di anca, ginocchio e spalla.
La ricerca integrale, che ha premiato le eccellenze italiane nei reparti di cardiologia, gastroenterologia, urologia e ortopedia, è pubblicata online al seguente link: https://www.repubblica.it/salute/ospedali/
«La guida “Ospedali di Eccellenza 2024”», spiegano i responsabili dell’Istituto Tedesco di Qualità e Finanza, «è stata stilata dopo una lunga e dettagliata ricerca che ha preso in esame i dati pubblici presenti sul Programma Nazionale Esiti e i risultati di un questionario compilato dal personale medico di reparto».
I criteri considerati sono:
• Trattamento medico
• Igiene
• Assistenza medica e infermieristica
• Iniziative sulla qualità
• Reputazione
• Servizi al paziente
• Ricerca
Il Presidio Ospedale Cottolengo ha, quindi, ottenuto il Marchio di Certificazione «Ospedali di Eccellenza 2024», registrato presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy.
Il Padre Generale della Piccola Casa della Divina Provvidenza – Cottolengo, Padre Carmine Arice, ringrazia la Divina Provvidenza e i suoi strumenti umani e si rallegra con la Direzione, gli operatori sanitari e amministrativi dell’Ospedale, e con quanti hanno contribuito a questo importante risultato. Il santo Cottolengo ci ha insegnato che il bene va fatto bene, perché i poveri – e i malati sono poveri di salute – sono i nostri Padroni. Testimoniare la dignità di ogni persona, anche la più fragile, passa anche attraverso questi percorsi».
«All’interno dell’Ospedale», evidenzia Gian Paolo Zanetta, direttore generale del Presidio Sanitario Cottolengo, «un’azione corale di tutti i servizi consente di migliorare costantemente la qualità delle prestazioni offerte e l’accessibilità dei percorsi per venire incontro ai pazienti più fragili».
Per informazioni sull’Ospedale Cottolengo: https://www.ospedalecottolengo.it/
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Il 27 aprile, a Castellamonte, riapre i suoi spazi, recentemente e sapientemente ristrutturati, il centro ceramico Museo Fornace Pagliero 1814, in frazione Spineto 61, a Castellamonte. Verrà proposta la mostra “Carlos Carlè-Fuoco, Materia e Forma”, un’antologica di circa 70 opere a cura di Antonella Gulli, della Gulli Arte di Savona, che collabora all’evento. La mostra sarà presentata sabato 27 aprile alle ore 11, e aprirà al pubblico domenica 28 aprile alle ore 10, per proseguire fino a domenica 30 giugno prossimo.
Carlos Carlè, nato in Argentina nel 1928, è mancato nel 2015 a Savona, città in cui a lungo ha vissuto ed è stato molto amato. Di lui, il critico Matteo Fochesati ha scritto: ”Tutta l’opera di Carlè pare ispirata dal complesso e articolato confronto con le mutevoli forme del concetto di tempo, a iniziare dalle opere del suo esordio artistico, improntato a modelli espressivi e iconografici delle culture primitive, per giungere agli sviluppi più tardi della sua produzione scultorea che, già a partire dalla fine degli anni Settanta, è stata contraddistinta da una dimensione monumentale, che ha trovato sfogo in strutture classiche, maestose e arcaiche, accompagnate da titoli evocanti remote delle civiltà del passato, come Colonna, Totem, Dolmen, Megalito, Pietra miliare. L’attenzione alle dinamiche del flusso temporale si può inoltre riscontrare all’interno del suo processo creativo sin dalla metà degli Anni Sessanta quando, in occasione della sua cruciale svolta artistica, cominciò ad avvicinarsi a dinamiche estetiche di matrice informale, impostando una personale attitudine a investigare le trasformazioni della materia. Tra le personalità con cui si confrontò, è importante citare Lucio Fontana: le geniali tracce dei suoi concetti spaziali sembrano riaffermare nell’impianto strutturale delle Bocce e delle Sfere che, tuttavia, attraversate da profonde incisioni, sembravano sgretolarsi per dare maggiore rilievo alle trasformazioni organiche della materia. Tangente alla pratica informale di Antoni Tàpies i Puig, marchese di Tapies, Carlè si distaccò dall’artista spagnolo per il suo rigore analitico nel controllo dei mutamenti materici e degli effetti determinati dagli interventi segnici e gestuali. La sua ricerca artistica va comunque principalmente interpretata alla luce della sua specifica scelta operativa: la ceramica, e in particolare il grès, con la sua solida e suggestiva carica espressiva”.
L’allestimento sarà aperto dal lunedì al venerdì dalle 14 alle 18, sabato, domenica e festivi dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18.
Ingresso gratuito per i possessori dell’abbonamento Torino Musei
Per informazioni, telefonare al numero 377 4390604 – 0124 582642
Mara Martellotta
Alle Fonderie Limone, sino al 21 aprile, per la regia di Leonardo Lidi
Superati da poco i trentacinque, Leonardo Lidi, oggi artista associato dello Stabile torinese – Teatro Nazionale, nell’attesa di concludere la prossima estate a Spoleto con “Il giardino” il proprio percorso cecoviano, comincia a guardarsi indietro, a ripensare ad una certa strada percorsa. Ha tracciato, confessa nelle sue note di regia, una mappa, “scarabocchiata, usurata, spiegazzata”, il risultato degli ultimi anni di attività, gli ultimi tre, un memento da portare sempre con sé. “Ho segnato delle tappe imprescindibili, ho annotato dei luoghi/contenuti da visitare e inserito di tanto in tanto dei punti interrogativi per domandarmi quale fosse la strada più bella – e non la più veloce – da percorrere.” In periodo postpandemico, quando gli è stato chiesto di presentare un proprio progetto, ha individuato nell’amore il punto centrale di quel futuro percorso, percorribilissimo, un saggio quanto autentico espediente per riavvicinarsi al pubblico, per “scacciare la paura delle emozioni”, per individuare le scelte dei nostri cuori. Ne sono nati “Il misantropo” e “Come nei giorni migliori”, erano gli anni 2022 e ’23, un percorso d’amore in cui mancava ancora un ultimo tratto (o forse un percorso non ancora del tutto concluso, “un archetipo che possa aiutarci a mettere un punto e virgola in questo viaggio della fantasia”), in qualche modo il più faticoso da percorrere: forse inspiegabilmente al primo sguardo, certo inaspettatamente ne è nata l’euripidea “Medea”, oggi nella traduzione di Umberto Albini sul palcoscenico spoglio delle Fonderie Limone di Moncalieri, in scena sino al 21 aprile.
Ma come, “Medea” una storia d’amore? Ma come, lei, la protagonista, la figlia del Sole, la donna che da sempre abbiamo imparato, attraverso le parole nei secoli di più autori, a maledire per aver fatto scempio dei propri figli (una tragedia che a ragione la rende maggiormente vicino a noi, solo a scorrere le pagine dei quotidiani), oggi dovremmo considerarla l’eroina di un amore sconfinato? Ecco Lidi abbandonare il mondo della magia e della violenza, l’assassina proveniente dalla barbara Colchide, lo sguardo su chi antepone l’istinto di vendetta all’amore per i piccoli, a chiedersi le radici di quella tragedia, di quell’annientamento finale, di quel padre, Giasone, immiserito e anche ridicolizzato, che s’aggira per le stanze del palazzo a ricercare i propri figli; eccolo a chiedersi quanto può essere successo prima, il prima dove tutto era iniziato con la cattura del Vello d’oro, con i dubbi se seguire uno straniero o restare nella propria terra, la scelta e l’uccisione del fratellino minore, il destino di moglie fedele e la nascita dei due figli, i miti che ci riportano altre pozioni di veleno e altri assassini. Ogni cosa prima è stata dettata dal sentimento autentico, e poi l’abbandono: due tratti, due isole, du parti che in maniera ben distinta sezionano la tragedia. E la messa in scena.
Lidi è un regista che analizza, che ricerca, che scende a fondo nelle viscere dei testi che mette in scena, svelando strati che da sempre – forse: lasciando ancora qualche spazio per le altre letture del mito – hanno sbilanciato la nostra attenzione. È un regista che, come qualsiasi altro pronto per dovere o per passione ad attraversare la scena, tira dritto per la propria strada, inesorabilmente e umanamente, anche a costo d’inciampare. Voglio dire che è un gioiello di messa in scena questa prima parte della sua “Medea”, i personaggi annientati e imprigionati in quelle due pareti trasparenti a formare una sorta d’acquario (la scena è firmata da Nicolas Bovey) dove si urla, si ricorda, si corre da una parte all’altra convulsamente, si intonano canzoni su una chitarra elettrica, si ama e si tenta per un breve attimo di ritornare all’antico amore, un lungo momento – la prima parte! – in cui motivazioni ed effetti, sentimenti positivi e violenti, personaggi, tutto trova il proprio giusto spazio. Stretta, compatta, serrata. Dove Orietta Notari – un’attrice, mi ripeterò ma lo penso da sempre, con grande affetto, che chi organizza teatro dovrebbe tenere maggiormente presente, dandole tutto lo spazio che le spetta – è una protagonista eccezionale, nel suo correre e nello stare rannicchiata a terra, nell’andare avanti e indietro come una bestia in gabbia, colpita e pronta a rimettersi in piedi, spavalda e animale ferito, innamorata e vendicatrice, l’attaccamento alla nutrice presa a testimone, veri capolavori di spaventosa isteria, sempre autentica nel raggiungere le varie pieghe del personaggio che Lidi le ha vestito addosso, nel rantolo e nell’urlo, nel pianto e nel riso, nello sberleffo e nel dolore (“Soffro, lo capite che soffro?”) e nella commiserazione verso la donna più giovane che da domani prenderà il posto suo a fianco di Giasone. Credo la vera colonna portante dello spettacolo, che su di lei in gran parte trova la sua ragion d’essere.
Poi Lidi sembra arrendersi, non ben sicuro dove andare a parare, tocca ancora un punto alto con l’uccisione dei figli, un lampo di malvagità grandiosa nella sua brevità, una calza nera sulla testa e i figli sono morti: ma poi cincischia, sbrodola, obbliga Giasone&Co a uno stonato assaggio di danza moderna, un frastuono da locale del sabato sera, sino a portare in scena Glauce, in bianco abito da sposa con strascico, microfono in mano, a intonare “Eternità” (per chi avesse ricordi sfocati, di Bigazzi e Cavallaro, Sanremo ’70 arrivando quarta, Camaleonti e Ornella Vanoni…). E anche lo sventurato Giasone di Nicola Pannelli passato dall’arroganza, dalla vigliaccheria, dalle ragioni di un fatto senza importanza a una disperazione che, seppur ottimamente resa con ricchezza di toni, pecca e scivola in quella povera mise di uomo soltanto in canottiera e slip, mi pare un tantino eccessivo, pur restando nell’ambito di una sfacciata demascolinizzazione. Altri interpreti Valentina Picello, che è una convincente nutrice, Lorenzo Bartoli, Marta Malvestiti e Alfonso De Vreese. In ultimo, non ci aspettavamo una Medea di Lidi con i costumi della Medea pasoliniana: anche perché la voce “costumi” sembra sempre più zittirsi sui nostri palcoscenici, il minimal e il quotidiano sono imperanti (questi sono di Aurora Damanti), qui siamo a livello della più spudorata trasandatezza. Applausi nella replica a cui ho assistito soprattutto agli attori, qualche dissenso sull’operato di Lidi attorno a me. Condivisibilissimo, appunto.
Elio Rabbione
Le immagini dello spettacolo sono di Luigi De Palma
di Adolfo Spezzaferro direttore de “L’identità”
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La storica azienda delle caramelle più famose d’Italia, rinasce nel nuovo stabilimento di Collegno, con tante novità dedicate soprattutto al pubblico, a partire dall’autunno prossimo.
È del 14 aprile il nuovo spot pubblicitario della “Fabbrica della felicità “ per pastiglie Leone, dai toni, dai costumi dei personaggi coinvolti, dalle atmosfere fiabesche e oniriche, che ricordano un po’ quelle della “Fabbrica di Cioccolato”, il famoso film con protagonista Johnny Depp.
“Leone è la Fabbrica della Felicità da quasi 170 anni” spiega Mario De Luca, Marketing Director dell’azienda torinese. “Con il nuovo spot vogliamo raggiungere un pubblico sempre più vasto e diffondere la filosofia del Brand: un inno alla bontà e alla gioia di vivere, un’esplosione di allegria e squisitezza tutte italiane, in grado di viaggiare per il mondo e far vivere a chiunque – e ovunque – dei momenti di pura spensieratezza. I nostri prodotti sono unici perché realizzati da una squadra che lavora in perfetta armonia per rendere le iconiche pastiglie il linguaggio universale della felicità”
Recente anche la presentazione alla stampa e alle istituzioni del territorio locale e regionale, della nuova sede per Leone 1857, accolti dalla Presidente di Leone, Michela Petronio insieme al marito Luca Barilla. Le novità che porta in serbo per il futuro e le stesse dolcezze delle quali è ambasciatrice addirittura dai tempi di Cavour, regalano felicitá sin dall’ingresso in azienda. Leone è un’azienda dolciaria innovativa e sorprendente dal 1857, che racchiude nel proprio DNA gusto, bellezza e italianità, per offrire momenti di piacere sofisticato e spensierato allo stesso tempo. Tutto ha inizio più di 166 anni fa quando Luigi Leone aprì una confetteria ad Alba e cominciò a produrre piccole pastiglie di zucchero, diventando in pochi anni il fornitore ufficiale della Real Casa Savoia. Oggi, Leone è il brand di pastiglie più vendute in Italia: completano la gamma squisite gelatine, gommose e caramelle e raffinato cioccolato, prodotte con materie prime eccellenti e ricette tradizionali dell’antica confetteria italiana, della quale intende farsi rappresentante nel mondo, regalando piccoli momenti di inaspettata felicità.
La Fabbrica della Felicità – 7.000 mq di superficie di cui una parte destinata all’area esperienziale e l’altra alla produzione – ambisce a diventare una vera e propria destinazione turistica e rappresenta una tappa fondamentale nell’evoluzione di questa eccellenza italiana, già protagonista a settembre dello scorso anno di un rebranding che ha modernizzato il “volto” dello storico marchio.
“La decisione di investire in Leone” spiega Michela Petronio, presidente del brand “è stata motivata dalla volontà di rilanciare un marchio storico del food italiano, celebre per la sua qualità e autenticità. Leone rappresenta non solo un prodotto di alta qualità, ma anche un simbolo dell’italianità nel mondo. Abbiamo scelto di investire in quest’azienda perché pensiamo che abbia il potenziale per conquistare nuovi mercati essendo un marchio unico con prodotti distintivi.
Siamo entusiasti di inaugurare i lavori per la nuova Fabbrica Leone, che non sarà solo un centro di produzione, ma una vera e propria destinazione per tutti quelli che vorranno entrare nel mondo del brand. Questo ambizioso progetto consentirà al pubblico di immergersi nel magico processo di trasformazione delle materie prime in caramelle e cioccolato, offrendo un’esperienza coinvolgente, senza precedenti. Sarà un luogo dove la magia prende vita e dove sveleremo i segreti di questa antica confetteria, affascinando tutti coloro che vi entreranno.”
La progettazione, a opera dello studio di architettura milanese Piuarch, ha avuto come obiettivo quello di esaltare, attraverso l’espressione artistica del nuovo fabbricato, l’” anima” dell’industria dolciaria, guardando il futuro e l’innovazione ma non dimenticando la tradizione e l’artigianalità di Leone.
Chiara Vannini