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Ruggeri. Opere su carta (dal 1958 al 2008)

Lo Spazio Don Chisciotte di Torino ricorda il pittore torinese 

 

Fino al 22 dicembre

Non opere minori. Né “ancillari” a quelle eseguite su tela. Intensamente vive di vita propria. Prorompenti. Graffianti. Pagine libere di incontenibile esaltazione cromatica, sintesi naturale e perfetta fra grafie di nervosa gestualità e marcate – mai appesantite e ingombranti – stesure di colore, impossibili o comunque più difficili da realizzare attraverso interventi con colori a olio su tela. Sono le “opere su carta” realizzate in cinquant’anni di attività -dal 1958 al 2008- da Piero Ruggeri (Torino, 1930 – Avigliana, 2009), cui la Fondazione Bottari Lattes, in collaborazione con la Fondazione Piero Ruggeri dedica un’attenta rassegna ospitata, fino al prossimo 22 dicembre, nelle sale dello Spazio Don Chisciotte di via della Rocca a Torino. Una trentina i lavori esposti, accompagnati da un testo critico di Francesco Poli, curatore della mostra, il cui obiettivo è anche quello di riportare l’attenzione su tempere o tecniche miste realizzate dall’artista su supporto cartaceo e che da troppi anni non venivano esposte a Torino. Di importanza fondamentale, assimilabili agli oli su tela e, come questi, spesso di grandi dimensioni. Anch’esse opere “roventi”, come s’è scritto più in generale della pittura di Ruggeri che, insieme a Sergio Saroni e a Giacomo Soffiantino, fu maestro nobile di quell’arte informale maturata sotto la Mole negli anni ’50 (dopo gli studi all’Accademia Albertina, allievi di Enrico Paulucci) ma di visione e portata internazionale che guardava all’Europa con Nicolas De Stael e soprattutto all’America con i padri dell’espressionismo astratto De Kooning e Gorky; opere, come sottolinea Francesco Poli, in cui “l’artista – rimanendo fedele agli schemi, alle accensioni cromatiche, agli automatismi gestuali, alle articolazioni spaziali e ai contrappunti ritmici del suo tipico stile informale – attraverso le tempere arriva a realizzare delle composizioni caratterizzate da una più immediata freschezza segnica e tonale e da una particolare lievità espressiva”. In una quasi maniacale e inarrestabile attenzione alla materia fatta di bianchi, rossi, arancioni, gialli e verdi e fondi neri (in campiture non di rado monocromatiche), che mai esclude però l’urgenza del segno. Il colore non basta a raccontare quei frammenti di paesaggio, di realtà naturale, di boschi e colline, che Ruggeri va a ricercare e a ritrovare scavando e graffiando i grumi della materia per tenerne viva la memoria e la suggestione. Ecco allora l’azione dirompente del disegno. Che libera il paesaggio dall’ossessione delle luci e delle ombre. Dei chiari e degli scuri. Nell’armonioso equilibrio de “Le seye”, o nel verde “Fogliame”, tecniche miste del 2007 e dell’87, così come in quel rosso acceso de “L’incendio”, tempera su carta del 2007, che mette i brividi in corpo. Dai “grovigli” e dai segni graffianti, nascono le figure e la visione di un universo naturale che Ruggeri ancor di più imparò forse ad amare e a sentire suo, quando nel ’71 da Torino si trasferì ai Battagliotti di Avigliana. Nei pressi di un bosco. Protagonista di molte sue opere. Da ricercare. Da scovare. Da liberare nell’intensità dei colori e dei profumi. In fondo aveva proprio ragione l’amico e compagno d’avventura artistica (almeno per un tratto di strada) Giacomo Soffiantino: “Volevamo identificarci – raccontava – tramite la materia con una forma che partiva dal vero ma che poi raggiungeva una sintesi che lambiva il mistero, per noi la vera opera d’arte in quanto andava oltre la rappresentazione”. E del suo essere, pur sempre, “pittore figurativo” ( o pittore alla ricerca di una chiara, per quanto possibile, figurazione) ragionava così anche lo stesso Ruggeri, quando affermava: “…in fondo anche De Stael e Gorky non hanno mai rinnegato di partire da un dato reale… Perché forse questo mio bianco non è quello delle betulle? Io sono venuto su dentro le ninfee di Monet, non posso negarlo, ma anche Monet disfaceva la materia sino all’informale, pur sempre delle ninfee erano. Io sono convinto che anche l’arte astratta sia figurativa, come potrei non pensarlo?”.

 

Gianni Milani

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“Ruggeri. Opere su carta (dal 1958 al 2008)”

Spazio Don Chisciotte, via della Rocca 37/b, Torino; tel. 011/1977.1755 o www.fondazionebottarilattes.it

Fino al 22 dicembre

Orari: mart. – sab. 10,30/12,30 e 15/19

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Nelle foto

– “Composizione”, tempera su carta, 1985
– “La collina n. 2”, tecnica mista su carta, 2006
– “Le seye”, tecnica mista su carta intelata, 2007
– “Interno in rosso”, tecnica mista su carta, 2003

“La Repubblica Punciuta”, tutti i misfatti di Cosa Nostra

L’autore si sofferma peculiarmente sul delicato tema delle connessioni fra la mafia palermitana e l’universo istituzionale e politico italiano

“La Repubblica Punciuta” è il titolo del nuovo libro di Stefano Baudino, autore ventiquattrenne di Collegno. Il saggio, edito da Monetti Editore, ripercorre tutta la storia di Cosa Nostra dall’anno della sua fondazione fino alle recenti sentenze sulla trattativa Stato-mafia e sulla strage di via d’Amelio, passando per le grandi guerre di mafia che hanno insanguinato la Sicilia nella seconda metà del secolo scorso e il Maxiprocesso all’organizzazione mafiosa istruito da Falcone e Borsellino. Oltre a descrivere la struttura e le trasformazioni subite dalla Commissione di Cosa Nostra, l’autore si sofferma peculiarmente sul delicato tema delle connessioni fra la mafia palermitana e l’universo istituzionale e politico italiano grazie all’analisi di una serie di sentenze specifiche estremamente significative, spesso occultate o travisate dai media tradizionali. Il saggio verrà presentato nelle librerie e all’interno di vari licei torinesi: l’obiettivo dell’autore è infatti quello di fornire uno spaccato della storia e dell’impianto di Cosa Nostra in particolare al pubblico più giovane.

”Che fara’ il cane senza di te?”. E il carabiniere la salva dal suicidio

Un carabiniere le ha spiegato che senza di lei il suo cane non sarebbe riuscito a sopravvivere e così’ ha salvato una donna di 58 anni che voleva suicidarsi. La signora  ha telefonato al 112 annunciando che voleva buttarsi dal quinto piano di un condominio di Barriera di Milano. Ma il  militare è riuscito a trattenerla al telefono per circa  un’ora, chiedendole del cane, che per lei era come un figlio. Nel frattempo i carabinieri del nucleo radiomobile sono riusciti a salvarla. Ora è affidata ai  medici del  San Giovanni Bosco.

“La Croce”

Da Harry Truman, a Reagan, passando da Eisenhower e arrivando fino a Barack Obama, è stato consigliere spirituale di dodici presidenti a stelle e strisce: il predicatore protestante Billy Graham, in Italia poco conosciuto ma all’estero noto quanto una popstar, avrebbe compiuto 100 anni esatti il 7 novembre scorso

E’ quindi, questa data, un giorno che per il mondo evangelico riveste un significato speciale e, probabilmente, proprio per questo è stato scelto dall’associazione che porta il nome del predicatore (la “Billy Graham Evangelistic Association”) come primo giorno della campagna di comunicazione evangelica più vasta che abbia mai interessato il nostro Paese. Punto forte di questa campagna, la proiezione del docu-film “La Croce” che, dopo alcune storie di vite trasformate raccontate in prima persona, affida la conclusione al noto predicatore che, rivolgendosi allo spettatore, lo invita a riflettere su alcune importanti considerazioni circa la vita, la fede, la speranza. A Torino, sarà possibile prendere visione gratuita del film sabato 10 novembre alle ore 20.15 presso la Chiesa Cristiana Evangelica di via Spalato 9, in zona San Paolo. Graham, 60 anni di attività evangelistica che secondo stime prudenti ha raggiunto 2,2 miliardi di persone, è stato il più influente rappresentante del mondo evangelico del secolo scorso e la sua vita fu costellata di aneddoti ed eventi sorprendenti per numero e natura: da quando negli anni ’50 fece rimuovere un cordone che divideva la platea tra bianchi e neri a quando pagò di tasca propria la cauzione per liberare dalla prigionia Martin Luther King. La campagna evangelistica, tenuta in collaborazione con l’iniziativa cristiana denominata “MyHope Italia”, non vuole essere il colpo di coda della laboriosa attività di cui Billy Graham è stato protagonista, ma la naturale eredità di una vita spesa per la causa del Vangelo che ha contagiato beneficamente un numero esorbitante di individui.

 

Sfrecciava in città a 160 km, patente ritirata

Tra corso Venezia e piazza Baldissera

Viaggiava in città a 160 chilometri l’ora,  tra corso Venezia e piazza Baldissera. L’uomo alla guida di una Bmw X3 è stato fermato dalla polizia municipale in via Fossata, dove è stato multato  di oltre mille euro, gli  sono stati decurtati 10 punti sulla patente e gli è stata ritirata la licenza di guida. Ora rischia la sospensione da sei mesi a un anno.

Spara a ufficiale giudiziario: morto per le ferite

A Portacomaro d’Asti un novantenne  ha sparato due colpi d’arma da fuoco contro un ufficiale giudiziario che  era andato ad effettuare un pignoramento presso la casa dell’anziano. Il ferito, in gravi condizioni,  è stato trasportato d’urgenza all’ospedale di Asti dove è morto dopo alcune ore. I carabinieri hanno fatto irruzione e bloccato l’uomo.

Nuove uniformi per i Civich

Regione e capoluogo stanno operando insieme per dare impulso al percorso regolamentare che porterà in tempi brevi uomini e donne delle Polizie locali piemontesi a disporre di uniformi moderne e funzionali in modo da unire praticità d’uso, sicurezza e gradevolezza estetica. Allo scopo di alzare il livello della protezione individuale e soprattutto la visibilità, che dovrà essere “alta”, una commissione di esperti è infatti al lavoro per fissare le linee guida e le caratteristiche tecniche dei capi che sarti e aziende tessili dovranno seguire nel confezionamento. L’Amministrazione comunale torinese, in questo periodo ponte, ha tuttavia stanziato duecentomila euro per l’acquisto di uniformi che saranno assegnate al personale che opera in prima linee, sulle strade cittadine. Inoltre, la pratica quotidiana degli oltre 1.700 componenti il Corpo torinese che indossano la divisa fa da supporto – attraverso alcuni ufficiali e a rappresentanti sindacali – alla Commissione tecnica, affinché non siano dispersi suggerimenti utili, dettati dall’esperienza diretta: “Seguo costantemente e, da molto vicino, il lavoro della nostra Polizia municipale insieme all’assessore Roberto Finardi e al comandante Emiliano Bezzon, apprezzando la qualità dell’impegno profuso dagli agenti su fronti sempre più articolati e complessi – sottolinea la sindaca Chiara Appendino -. In un quadro coordinato a livello regionale, risulta dunque anche importante rivedere le caratteristiche del vestiario, per ammodernarlo e renderlo più funzionale e confortevole di oggi”. Alla Polizia municipale delle città italiane più importanti come Torino, oltre ai tradizionali compiti d’istituto, vengono attribuiti ruoli operativi rilevanti a salvaguardia della collettività per esempio nelle attività di prevenzione e contrasto all’uso di stupefacenti a tutela degli studenti, nelle adiacenze delle scuole superiori. Un fronte, questo, che vede all’avanguardia gli agenti torinesi grazie a specializzazione e preparazione professionale offerta dalla Scuola di formazione e agli aggiornamenti continui.  Il Comando di via Bologna potrà inoltre disporre di fondi assegnati dal Ministero dell’Interno grazie ai quali saranno acquistati strumenti operativi e nuovi veicoli attrezzati.

 

(foto: il Torinese)

 

Il dare e avere della storia

STORIE DI CITTA’ di Patrizio Tosetto
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Un giornale nazionale con redazioni a Milano e Roma afferma: strani questi torinesi che prima votano la Chiara Appendino e poi lamentandosi si dichiarano pro Tav. Ergo, chi è causa del suo mal pianga se stesso. Accidenti, ma si sa che nessuno è perfetto. Siamo consapevoli di aver fatto un errore, ma non vogliamo essere diabolici e non perseveriamo. Non ripetiamo l’errore e su questo vorremmo essere aiutati dalle altre Regioni.  A parziale discolpa riportiamo l’ultimo episodio che riguarda il rapporto tra Torino e Roma. Il ” povero ” Paolo Foietta manda 8 mail certificate a Conte presidente e al Ministro Toninelli, quello che si inventa i tunnel mai esistiti. Risultato ? Niente.  È Foietta chiede l’ incontro non per sapere che cosa deve fare, ma per relazionare che cosa ha fatto, come ha svolto e come intende svolgere il suo lavoro fino a fine mandato. Niente, proprio niente. Difficile lavorare in questo modo. Verissimo noi torinesi abbiamo sbagliato, ma siamo in buona compagnia. Mal comune mezzo gaudio? Non proprio così. Però se abbiamo sbagliato vi chiediamo di aiutarci nel rimediare, visto che è chiaro un solo punto: si può e si deve rimediare. Unica possibilità è cambiare radicalmente pagina amministrativa.  Come torinesi l’abbiamo sempre “sfangata”. I Savoia erano indecisi se fare del loro regno capitale Pinerolo o Torino. Faticosamente ha vinto la nostra città. Abbiamo cacciato saraceni e spagnoli e quando è stata l’ora pure ai francesi siamo stati capaci di dire  no.I Savoia hanno costruito tra i più i importanti e fondamentali archivi di Stato Europei. Che dire poi del nostro Barocco. Vero, gli architetti arrivavano dalla Sicilia. Una sana competizione con i francesi. È poi il nostro capolavoro, il  Risorgimento.
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Praticamente tutti sono nati qui.Giuseppe Garibaldi da Nizza italiana,Giuseppe Mazzini repubblicano e genovese. Con il Conte per antonomasia, Camillo Benso di Cavour. Il nostro Talleyrand.  Allora le cose si giocavano in grande. Delusi da Vittorio Emanuele II ci sentivamo scippati ma ci siamo reinventati.  Abbiamo dato ed abbiamo ricevuto. La Fiat ne è l’esempio. Giovanni Agnelli che geniale attraversa l’Atlantico per imparare da Ford come realizzare le linee di montaggio. E migliaia e migliaia di contadini da tutte le parti d’Italia diventavano operai di quelle linee.  È non è finita. Le prime occupazioni di fabbrica un po’ per la rivoluzione e soprattutto per salario e diritti. Nascita del Partito Comunista d’Italia, con migliaia di antifascisti costretti ad espatriare. Per po tornate ed organizzare la Resistenza. Qualche Presidente della Repubblica, giusto per gradire, poi la Cultura. La mitica casa Giulio Einaudi, editore da Pavese a Calvino al poliedrico Sergio Vittorini che insieme al suo Politecnico milanese era direttore editoriale. Con Beppe Fenoglio, all’ inizio non capito ma successivamente osannato.  Che dire poi dei capolavori di Dario Argento che con il suo Profondo Rosso aleggia tra piazza CLN e la collina di Villa Scott. Proprio così, abbiamo dato ed abbiamo ricevuto e 3 anni fa ci siamo sbagliati votando Chiara Appendino.  Potrei invocare le attenuanti generiche. Responsabilità diretta non ne ho, ma sono torinese fino al midollo. È chiedo aiuto per i Torinesi. Chiedo aiuto agli uomini di buona volontà, preoccupati e desiderosi di salvare la città. Chiedo aiuto a Marco Travaglio, insigne torinese. per capire e far capire che stiamo morendo e che la decrescita infelice è tra le più grandi stupidaggini mai dette. Non è questione di destra o sinistra, è questione di competenze e di capacità di una intera classe dirigente.Sabato ci tentano imprenditori ed operai, in particolare le loro organizzazioni sindacali, promettendo di non sbagliare più. La Chiara Appendino quando era in ambienti imprenditoriali rassicurava: non ci opporremo alla Tav e nel mentre cincischiava  con i centri sociali. Sì, qualcuno è stato preso in giro.

Tocca Ferro!

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino. (ac)

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9 Tocca Ferro!

Vi è mai capitato di essere sicuri di aver messo un oggetto in un certo posto e poi di non trovarlo più dove lo avevate lasciato? È perché “a j sun le masche”. E quando la macchina è in panne e vi lascia a piedi? Non si tratta di un guasto meccanico, né di sfortuna, è di nuovo colpa loro, delle mascheQueste donne indisponenti non si fanno notare tra la folla, ma ciò non vuol dire che non intervengano nella vita degli altri: fastidi, dispetti, disturbi, giusto qualche piccola modifica al corso comune degli eventi in modo da poter sogghignare, non viste, dietro qualche albero, o sottoforma di un gatto nero con enormi occhi gialli.  Quando si è di fretta e salta un bottone alla camicia, quando non si trova il portafoglio, quando ci si innervosisce di colpo, è perché ci sono le masche, magari non le abbiamo riconosciute, ma sono lì, non viste. Se siamo distratti, anche gli altri possono mostrarcele, per esempio quando sappiamo di dover affrontare situazioni di grande stress o ci ritroviamo di fronte a problematiche insormontabili, qualcuno ci ha fatto vedere le masche; e se per guardarci da qualche individuo furbo e doppiogiochista l’espressione che possiamo utilizzare è furb par d’na masca. Ma come ci si può proteggere da tali malefiche creature? Basta arroventare le catene della stalla e batterle una contro l’altra, la strega si infastidirà e volerà via indispettita, oppure si può circondare la casa con un filo di canapa tessuto da una fanciulla vergine, la serva del Maligno non riuscirà ad avvicinarsi in nessun modo alla dimora. Se vogliamo allontanare diavoli e spiritelli malefici, invece, sarà necessario disporre dei ramoscelli a forma di croce e posizionarli davanti alla porta d’ingresso.  Nel caso la masca vi avesse già adocchiato, potete distrarla mettendo al collo un sacchettino contenente del sale fino, la donna si metterà a contare i granelli e voi potrete sfuggire alla sua persecuzione. Nel caso il “gioiello” non rientri nel vostro look quotidiano, potete mettere delle pietre bianche sul tetto, e la strega volerà sopra altre teste. Potreste trovarvi nella situazione di dovervi disfare di una fattura, allora sarebbe il caso di cercare la vecchia del paese, o almeno del quartiere, e chiederle di pronunciare le giuste formule, e a voi il compito di far bollire per sette volte delle foglie di malva.
Nel caso la maledizione fosse più specifica e la masca avesse voluto gettare il malocchio sul burro, allora mentre cucinate il cibo in questione aggiungete un briciolo di sale, e fate attenzione che non sia né venerdì, né sabato, giorni in cui si tengono i Sabba e diventa difficile contrastare i poteri malefici di masche e satanassi. Tuttavia, la vostra persecutrice, non contenta del fatto di non essere riuscita ad intaccare il burro, potrebbe decidere di avvelenare l’acqua: in questo caso dovreste mettere nell’acqua tre foglie di ulivo pasquale e spruzzare qualche goccia di acqua santa.
Va da sé che nessuno crede più a certe cose, ma è comunque consigliabile non andare vestiti di viola a teatro, gli attori non lo apprezzerebbero. Per sapere se qualcuno ricambia i nostri sentimenti, possiamo sfruttare facebook per spiare i movimenti della persona dei nostri sogni, ma per ulteriore sicurezza si potrebbe prendere una margherita e staccarne i petali canticchiando “m’ama, non m’ama” ad ogni piccolo strappo. Per informazioni più approfondite si potrebbe ricorrere alla crommiomanzia: si intaglia il nome della persona amata su una cipolla, la si interra in un posto umido e, se germoglia, l’amore sarà ricambiato; tuttavia, a seconda della durata del procedimento di fioritura, il sentimento potrà durare in eterno oppure potrà rivelarsi una breve infatuazione. Se cercate lavoro e nessuno ha mai risposto ai numerosissimi curricula che avete inviato, è, forse, perché prima non avete pensato di ricorrere all’ovomanzia. Di sicuro non è vero, ma quando qualcuno passa la scopa, alzate sempre i piedi, altrimenti non vi sposerete più. Quando andate a fare la spesa, non mancate mai di comprare del pane, essenziale per fare la scarpetta nel piatto, ma anche per allontanare gli spiriti malvagi. Questo cibo è da sempre simbolo di vita e, per forza di cose, anche collegato alla morte: è un amuleto contro le disgrazie e gli spiriti, anche di notte deve essercene un pezzetto in giro per la casa, in modo da proteggere chi ci abita e nel caso ci fosse qualche vicino che necessiti di una estrema unzione. Sappiate, inoltre, che il pane non si butta, e che, in tavola, non va mai messo al rovescio, in quanto emblema di Gesù è come se metteste Lui sottosopra. La superstizione che ci fa sorridere nel quotidiano la ritroviamo anche nel mondo dello sport: per esempio nella Formula 1, il numero 13 non viene mai assegnato a nessuna postazione, molti piloti tengono con loro amuleti e porta fortuna, come Niki Lauda, che teneva nel guanto una monetina scaccia-iella. Nel calcio, invece, pensiamo alla leggendaria ala destra del Brasile di Pelè, Manuel Dos Santos, detto il Garrincha, che era solito mettere amuleti e feticci dietro la porta degli avversari, in modo che attirassero il pallone dentro la rete. Del resto, e sottolineiamo che nessuno lo fa perché ci crede, ma a Capodanno chi non indossa l’intimo rosso? Tale usanza affonda le radici nella lontana Cina, dove questo colore veniva utilizzato per tenere lontano lo spirito Niàn, che divorava gli uomini a centinaia; oggi nessuno oserebbe combattere un demone così temibile, ma ci si accontenta di tenere lontano il malocchio, di prevenire le disgrazie e di augurarci che l’anno nuovo possa portare buoni frutti e tanta, tanta fortuna. Rosso è sempre il “cornicello”, il cornetto tipico di Napoli, ma che ormai è diffuso in tutto il mondo. Si tratta di uno dei talismani più antichi ancora in circolazione; esso rappresenta un corno, simbolo collegato alla fortuna e alla fecondità, già i soldati romani erano soliti legarsene uno agli abiti quando andavano in battaglia. L’oggetto deve essere ” tuosto, stuorto e cu’ a punta“, (“rigido, storto, con la punta”), allontana le maldicenze e protegge dal malocchio, importantissimo per le donne incinte, le aiuta nella gravidanza e protegge il nascituro dalle malelingue. Certo è che bisogna essere proprio audaci per affrontare tutti i giorni maledizioni, invidie, masche e spiriti maligni, in aggiunta il traffico che ci fa arrivare tardi a lavoro, il colpo d’aria che ci fa ammalare proprio il giorno del colloquio più importante per l’avanzamento di carriera, il tacco del paio di scarpe preferite che si rompe, il cellulare che fa l’aggiornamento proprio mentre il navigatore ci deve dire se svoltare a destra o a sinistra… e allora viene proprio spontaneo gridare un “tocca ferro!

Alessia Cagnotto

 

Nove novembre novantatre

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Guardare Mostar era come aprire una finestra sull’inferno. La parte musulmana della città, ormai spezzata in due, era sotto il tiro degli obici e dei cecchini. La parola più comprensibile era “niente”. Niente acqua, luce, cibo. Niente pace. Forse anche niente futuro. L’odore della morte aveva quasi spento la speranza mentre dal cielo piovevano le granate

Fu l’architetto Hayrrudin a costruirlo nel 1566, per ordine del sultano Solimano il Magnifico. Dalla parola slava che indica il ponte, «most», prese nome la città sorta sulle sue opposte sponde. Quel ponte a schiena d’asino, simbolo del legame fra Oriente e Occidente, fu visto, però dai nazionalisti croati – come ha scritto, con grande acume, Giacomo Scotti -“come negazione della loro politica d’odio verso i musulmani che abitavano ed abitano sul lato del fiume opposto a quello croato, nei densi quartieri di case abbarbicate sulle pendici che scendono dolcemente verso la sponda orientale”. In quel novembre 1993 guardare Mostar era come aprire una finestra sull’inferno. La parte musulmana della città, ormai spezzata in due, era sotto il tiro degli obici e dei cecchini. La parola più comprensibile era “niente”. Niente acqua, luce, cibo. Niente pace.

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Forse anche niente futuro. L’odore della morte aveva quasi spento la speranza mentre dal cielo piovevano le granate. Tante, tantissime  granate, provenienti dall’altra parte della città, quella sotto controllo dell’Hvo (l’esercito dei croato-bosniaci). L’artiglieria croata portò a compimento il suo”capolavoro” martedì 9 novembre, abbattendo il ponte. In coincidenza con il quarto anniversario della caduta del Muro di Berlino. Esattamente cinquantacinque anni dopo la “notte dei cristalli”, il pogrom antisemita dei nazisti che distrussero, bruciarono e saccheggiarono sinagoghe e negozi ebraici in Germania, Austria e Cecoslovacchia. Casualità? Difficile dirlo. Un fatto è certo. Se, per un verso,  la caduta del Muro chiuse una pagina nera della storia europea, abbattendo simbolicamente il confine della guerra fredda e avviando il processo di riunificazione della Germania, l’abbattimento del ponte di Mostar equivalse all’esatto contrario. La distruzione del Ponte Vecchio non fu un gesto casuale, né l’azione scellerata di un manipolo di soldati scriteriati e senza ordini. Al contrario, fu il risultato di una strategia pianificata dai politici croati e dai capi croato-bosniaci per rimuovere la popolazione musulmana, ghettizzandola sulla sponda orientale della Neretva. I sei croati ritenuti responsabili vennero imputati dal Tribunale dell’Aia per aver commesso una “impresa criminale congiunta” e condannati dai dieci ai venticinque anni di prigione. Tra di loro il generale croato Slobodan Praljak, al quale di anni ne furono affibbiati venti, in quanto riconosciuto come principale responsabile della distruzione dello Stari Most. Lo stesso che dichiarò che “quelle pietre” (il ponte) “non avevano nessun valore”. Divisione, cesura, distruzione di un simbolo dell’identità culturale: altro che anonime pietre. Alla fine della guerra, nel 1995, la comunità internazionale pose tra gli obiettivi principali della ricostruzione della Bosnia-Erzegovina devastata, la riedificazione dello «Stari Most». La seconda vita di quello che molti definivano un «monumento alla pace» cominciò qualche anno dopo, con materiali e tecniche originali, recuperando dal fiume le poche pietre ancora utilizzabili ed estraendone altre dalle cave da cui proveniva la pietra originaria che andava lavorata dagli scalpellini.

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Il costo della ricostruzione dell’intero complesso, dalle Halèbija e Tara – le imponenti, seicentesche torri laterali – agli edifici attigui, ammontava a circa 18 milioni d’euro. E l’Italia fu la nazione più impegnata, per l’entità della donazione, con oltre tre milioni. Una parte tutt’altro che simbolica dell’impegno straordinario per aiutare la Bosnia-Erzegovina a rimettersi in piedi. Una cosa importante che s’accompagnò a quella ben più straordinaria della folla di pacifisti, donne e uomini d’ogni età e ceto sociale,  che durante la guerra, affrontando gravi pericoli e mettendo a repentaglio la propria vita, portarono ai bosniaci d’ogni etnia la solidarietà, gli aiuti concreti in cibo, medicinali e  vestiario oltre che il conforto di un mondo che non li aveva dimenticati relegandoli alla cronaca di qualche telegiornale della sera. Anche tra questi, in molti, furono gli italiani. Purtroppo, mentre il ponte rinasceva offrendo di sé un’immagine di speranza, altri episodi contribuirono a tenere aperte le ferite. Come il significato simbolico che i nazionalisti hanno voluto dare al nuovo, altissimo campanile della piccola chiesa francescana. Il più alto che esista nell’ex Jugoslavia, ovviamente molto più alto del campanile originario, anch’esso lesionato dalle cannonate nel 1992. S’innalza come un pinnacolo a 107 metri d’altezza, svettando a dominio della città, ben oltre il campanile della più grande chiesa cattolica del Balcani, vale a dire la cattedrale di Zagabria. Un evidente gesto di sfida che si accompagna all’enorme croce di marmo bianco, alta trentatré metri, che si staglia nel cielo ancor più del campanile, perché issata sul monte Hum, che domina la Mostar occidentale, croato-cattolica. Una scelta deliberata dei croati di Mostar per sfida e dispetto ai musulmani. Simboli, grandezze e ombre che s’intendono proiettate sullo Stari Most che invece appartiene a tutti i mostarini, collegando le due sponde del fiume. Ma, nonostante tutto, il ponte resterà il vero ed unico simbolo della città nel suo insieme.

Marco Travaglini