Sino al 1° dicembre, al Carignano
Nella scena anonima inventata questa volta da Nicolas Bovey, ancora prima che il “Giardino” cechoviano inizi tutto pare già aver avuto un esito, sedie bianche disseminate sul palcoscenico, a terra come dopo lo saranno i ciliegi, il rovesciamento dell’ordine e l’abbandono. Soltanto il sussurro del vecchio Firs dimenticato. Poi attraverso i grandi teli neri di plastica che delimitano il palcoscenico, che cadranno o verranno staccati con rabbiosa decisione, ancora i ciliegi nel finale, irrompono gli attori, vestiti di colori e di abiti moderni, tute giubbotti giacche a vento, qualcuno – per la necessaria distribuzione? – scambiando ruoli maschili e femminili, per cui la governante di casa Charlotta è Maurizio Cardillo in calzoncini corti, giacchetta color limone e barba e occhi segnatissimi di blu mentre la sempre ottima Orietta Notari da Leonid Gaiev s’è fatta inevitabilmente Lenja, la sorella della padrona di casa. Irruzione nei nostri giorni, e raggiranti quanto personali comodità, che rientrano in quel campionario a cui Leonardo Lidi ci ha ormai abituati, tutto sta a vedere se noi quell’abitudine ce la siamo fatta (per tacere dei mugugni altrui nel corridoio d’uscita dal teatro).
Con “Il giardino dei ciliegi”, produzione dello Stabile dell’Umbria e coproduzione di quello torinese e del Festival dei Due Mondi spoletino, sino a domenica 1 dicembre al Carignano, Lidi conclude la terna che in precedenza ha visto “Il gabbiano” e “Zio Vanja”, sconvolgendo ancora molti, giocando con il giubilo sfrenato delle nuove generazioni (che nelle aule della scuola dello Stabile da lui stanno imparando), tentando in ogni modo di épater le bourgeois (cerco ancora adesso che butto giù queste note una ragione, abbassato il soffitto, per averlo fatto diventare una spiaggia dove tutti possano prendere il sole in costume da bagno; come mi chiedo perché certi personaggi debbano diventare delle macchiette, penso all’Epichodov di Massimiliano Speziani, già eccellente Vanja) e forse ingannando quei mostri sacri che se non hanno una vera, felice motivazione per essere strattonati meriterebbero di dormirsi un sonno tranquillo.
Lidi ha confessato – sto prendendo a prestito una sua intervista a La Stampa dei giorni scorsi – di aver preso il “Giardino” e di averlo affrontato “da un altro punto di vista, esaltandone l’aspetto rivoluzionario, di forza, molto presente nel testo”, andando in direzione opposta a un teatro che va contro i nostalgici e il teatro della nostalgia, pare proprio a spada tratta, ed esaltando la “concentrazione sul presente” che avrebbe tutti i requisiti per essere profondamente salvifica. Guardando altresì quel “testo della nostalgia” con sin troppa supponenza, una sorta di bullismo questa volta teatrale, e scomodando l’anima del buon Strehler che di quella nostalgia s’era imbevuto nella propria messinscena del ’74, che aveva guardato con occhio di dolore soffocato alla “camera dei bambini” e riempito di foglie cadenti l’ombrellino della Cortese e fatto scivolare attraverso il palcoscenico, tra una “carambola” e l’altra, il trenino dell’infanzia lontana di Santuccio. Che poi in un gioco, che è eguale dal 1904, a sei mesi dalla morte dello scrittore, che sempre ritorna, la nostalgia è ancora lì, vicinissima a noi, a portata di mano, tutti la tocchiamo, il testo di Lidi non può non mantenerla e gli attori la nominano.
Immancabili, incancellabili, ci mancherebbe, per sottolineare il nuovo corso, “l’aspetto rivoluzionario”, i cambiamenti sociali e i proprietari terrieri che scapperanno a Parigi con il magone delle loro perdite e non capiscono quel presente che già li sta travolgendo, l’eterno studente dalle idee liberali e il figlio del servo della gleba, quello sempre preso a calci e obbligato ad andare con i piedi nudi d’inverno, che s’è fatto grande e furbastro e s’è comprato lui il giardino (Mario Pirrello, bravissimo nel suo Lopachin, uno studio perfetto di gesti e di frase smozzicate e di parole cercate nell’aria della chiacchiera), i ricordi delle giovani figlie di Ljuba, gli attimi trascorsi in quella casa, un arrivo e una nuova partenza che sembrano avvolgere la Storia e le tante storie. L’ultima stazione, questa del “Giardino”, di un viaggio, quello intrapreso da Lidi post pandemia, uno sconquasso per ritrovare ancora il teatro e il pubblico: ma “termineremo il viaggio confusi, pieni di domande e con pochissime risposte”, chi l’avrebbe mai detto?, e già nella mente del regista non ancora quarantenne si agita un filo rosso, “mi è sempre sembrato palese che il nostro giardino è sinonimo di nostro teatro.” Non vuol già dire voltarsi indietro, la ricerca del sarcasmo e dello spigolo dissacrante che cambiano in affetto, forse lontanissimo, forse non ammesso, verso questa vecchissima scatola magica? Chissà che cosa riuscirà a inventare la prossima volta Lidi, a dissacrare: per adesso io mi tengo stretto il ricordo – la nostalgia – di quel trenino e di quell’ombrellino riempito di foglie.
Gli appassionati della parola di Cechov e gli inseguitori di Lidi avranno modo di partecipare – bella occasione davvero – alla maratona inventata dal nostro Stabile, domani 30 novembre: sempre al Carignano, “Il gabbiano” alle 11,30, “Zio Vanja” alle 15,00 e “Il giardino dei ciliegi” alle 18,30 tour de forse fisico e mnemonico per tutti gli attori. Nella globalità del racconto, chi sarà a vincere, l’autore classico o il regista spericolato?
Elio Rabbione
Le foto dello spettacolo sono di Gianluca Pantaleo
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