L’asilo infantile di Malesco, in Valle Vigezzo, a ridosso del confine con la Svizzera, venne inaugurato nel 1853, ventisei anni dopo la “scuola per bambine”, ed entrambe le istituzioni educative trovarono alloggio per tutto l’800 nell’edificio dell’ex ospedale Trabucchi, nel centro storico del paese. Agli inizi del ‘900, agli albori del “secolo breve”, in ragione degli spazi angusti in cui erano costretti i piccoli frequentatori dell’asilo e delle scuole femminili, l’Amministrazione comunale maleschese progettò la costruzione di una nuova scuola, considerato l’aumento della popolazione scolastica. Così, con una delibera del 1907, venne scelta piazza Brié che, al tempo, era stata pensata già larga (105 metri per 45), contornata da un bel viale a doppia fila, utilizzata sul finire del secolo (nel 1896) per festeggiamenti dell’acqua potabile che, in paese, veniva distribuita alle otto fontane pubbliche, alle scuole e all’asilo. Un vanto per gli amministratori del più popoloso centro vigezzino, a quel tempo guidati dal sindaco Bartolomeo Trabucchi. L’edificio doveva comprendere al piano rialzato i locali dell’asilo, al primo piano tre spaziose aule per le scuole femminili e al secondo, sulla destra della scala, un piccolo appartamento privato per le suore, e dall’altro lato un’altra aula. L’edificio subì, nel tempo, ulteriori sistemazioni e aggiustamenti ma già negli anni ‘30, come si può desumere da testimonianze e foto d’epoca, le classi erano miste e gli insegnanti laici. In quel luogo – una scuola – attraversato, abitato e frequentato dai ragazzi in crescita si dovrebbe sperimentare lo stare insieme anche tra persone che non sono legate da un comune affetto, come nel caso della famiglia. La scuola è il luogo che fornisce contenuti di conoscenza, dove si sta con gli altri condividendo regole comuni. Ovunque, e – ovviamente – anche in quell’edificio di piazza Brié, a Malesco, quasi agli estremi dell’Italia di “mezzanotte”. Soprattutto in un asilo come quello che rappresentava il primo livello di un cammino dove, nel tempo, i bambini avrebbero incontrato le maestre che avrebbero spiegato loro i numeri, gli anni della storia, i luoghi della geografia. Si sarebbe scritto, più avanti, con il pennino e con l’inchiostro che stava nel calamaio, su ogni banco.
C’era, e lo si coglieva nei paesi di montagna come nelle città, una generosità civile nella scuola pubblica, gratuita che permetteva di imparare. L’istruzione era (lo è ancora) utile perché non discriminava e dava importanza a tutti, a partire dai più poveri. Come ha scritto Erri De Luca, “la scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però fra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori”. Ovunque, appunto. Anche a Malesco. Ma così non fu, in tempo di guerra. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, la nascita della Repubblica fascista di Salò, l’occupazione nazista e l’avvio della lotta partigiana, le cantine di quelle scuole diventarono protagoniste, loro malgrado, di indicibili atrocità. Lì, nazisti tedeschi e fascisti italiani, rinchiusero e seviziarono i partigiani fatti prigionieri durante il rastrellamento del giugno 1944. L’impervia Val Grande (oggi parco nazionale e area wilderness più grande d’Italia) e le zone circostanti ospitavano diverse formazioni partigiane come la Valdossola, la Giovane Italia e la Battisti contro cui, in quell’inizio d’estate, si scatenò l’attacco di diverse migliaia di nazifascisti con l’appoggio di artiglieria e di aerei. Tedeschi e fascisti attaccarono in quasi cinquemila, bene armati ed equipaggiati; i partigiani che si difesero erano dieci volte di meno, male armati, peggio equipaggiati e privi di viveri. Per le formazioni partigiane e per la popolazione civile furono venti terribili giorni di spietata caccia all’uomo, fucilazioni, incendi e saccheggi. Le operazioni in montagna dell’Operazione Köeln – organizzata dal comando SS di Milano – terminarono il 22 giugno con l’eccidio dell’Alpe Casarolo, in alta Val Grande, dove morirono nove partigiani e due alpigiani. Poi in Val Grande le armi tacquero ma continuarono le fucilazioni dei partigiani catturati nei paesi ai piedi dei monti. Numerose vittime rimasero senza un nome e così anche molti dispersi, come nel caso di tanti giovani lombardi saliti in montagna per sfuggire ai bandi della Repubblica Sociale Italiana e non ancora censiti sui ruolini delle formazioni partigiane. Le vittime del rastrellamento – compresi molti alpigiani in zona per la monticazione estiva – furono circa trecento, la metà delle quali uccise dopo la cattura. Nelle cantine dell’asilo di Malesco, trasformato in prigione, transitarono decine e decine di partigiani, picchiati e torturati in interminabili “sedute” d’interrogatorio dai loro aguzzini. Molti di loro vennero poi tradotti nei luoghi di fucilazione, a Fondotoce di Verbania, Beura, Baveno. E nella frazione maleschese di Finero dove, nel piccolo cimitero, in quindici vennero messi al muro e fucilati il 23 giugno 1944. Oggi, a memoria di quella tragica vicenda, è stata posta una lapide sul muro della scuola e al centro della piazza (che ha cambiato il nome in piazza XV Martiri) dove, dalla fontana, l’acqua esce da quindici zampilli, tanti quanti i partigiani che persero la vita nel camposanto lungo la strada che scende per la Valle Cannobina.
Marco Travaglini
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