L’incapacità al potere

Chi ha vissuto negli anni ’70 ricorderà lo slogan “la fantasia al potere”: non sarà stato il massimo, non sarebbe stata la strategia vincente ma governare con la fantasia avrebbe dimostrato pur sempre un’idea su come governare.

Dalla seconda Repubblica in poi, quindi da circa 30 anni a questa parte, si assiste invece ad un fenomeno generalizzato di totale incapacità e inettitudine dei governatori, a tutti i livelli, nella “res publica”.

Gli italiani in particolare hanno un’idea della politica piuttosto complessa e contorta, come di un qualcosa dove ci siano più intrallazzi che scelte trasparenti, più giochi di potere che adempimenti al mandato conferito dagli elettori.

In effetti, negli ultimi anni si assiste ad una pletora di perfetti incapaci prestati alla politica, di persone che non hanno idea della differenza tra delibera e determina, tra Parlamento e Governo, che promettono ai potenziali elettori ogni genere di favore (“ti aiuterò ad avere i permessi” per un’attività per la quale i permessi non occorrono, per esempio) dimenticando, tra l’altro, che il voto di scambio (“se mi voti, ti faccio avere…”) è un reato.

In aggiunta, persone che non sanno coniugare un verbo, che credono che usare il congiuntivo provochi la congiuntivite, che dovrebbero almeno nelle fasi iniziali saper redigere un’interrogazione, un’ordinanza o un disegno di legge si candidano alla guida di un’amministrazione, dal Comune alla Regione, al Parlamento senza sapere cosa li aspetti né, ancor peggio, senza conoscere oneri e limiti del proprio mandato.

L’eliminazione del Reddito di cittadinanza, poi, ha ulteriormente aggravato le cose perché, sebbene sia durato poco, ha abituato le persone a guadagnare facendo nulla, e molti pensano che anche con un incarico politico sia lo stesso; premesso che, perlomeno nei Comuni fino a 5000 abitanti, un consigliere non percepisce emolumenti ma solo un gettone di presenza di 18 euro lordi per ogni seduta consiliare, ovviamente se partecipa alle sedute del Consiglio comunale (circa una seduta ogni due mesi), si spiega così perché, invece di informarsi a priori, i novelli Cavour comincino dopo i primi mesi di entusiasmo a disertare le sedute consiliari fino a disinteressarsi del tutto dei loro doveri.

La disaffezione dalla politica ha ormai almeno 50 anni, all’incirca da quando lotte femministe, manifestazioni contro la guerra in Vietnam e manifestazioni studentesche riuscivano a raccogliere decine di migliaia di manifestanti in ogni città, che marciavano a tutela dei loro interessi o per qualcosa in cui credevano; schifati dalle vicende di Tangentopoli, della sempre maggior corruzione (tangentopoli non ha eliminato la corruzione, ha solo alzato i prezzi), dalla mancanza di devozione alla politica, gli italiani si trovano ora a considerare l’incarico politico, la mansione elettiva, come un lavoro qualsiasi, non troppo impegnativo, “tanto poi imparerò stando lì” o, peggio, “cosa ci vuole?”.

La moltiplicazione di liste in ogni tornata elettorale è la dimostrazione di quanto sto scrivendo: si candida un candidato perché è figlio di tizio o coniuge di qualcun’altro, lo si elegge perché ha distribuito molti volantini o ha incantato con i suoi discorsi ma l’analfabetismo funzionale da cui sempre più persone sono affette non ci fa comprendere nulla del suo programma elettorale, della sua capacità reale, della sua onestà intellettuale.

Arriviamo così, ogni volta, ad una crescente insoddisfazione perché il candidato eletto ha pensato solo ai propri interessi, perché si è dimostrato inaffidabile, perché è stato denunciato, perché è passato con quelli che non avrei mai votato, perché l’hanno sorpreso a compiere gesti inenarrabili o perché, nei territori dove ha promesso miracoli, torna solo dopo 5 anni per chiedere nuovamente il voto.

E’ evidente che occorra riavvicinare gli italiani alla politica, nell’accezione originale del termine, cioè la cura della polis, la città stato greca e far entrare nella cultura comune il concetto che se ognuno ruba, indirettamente, un centesimo al giorno, ogni giorno spariranno illecitamente 600 mila euro; se la somma non preoccupa presa singolarmente, sul totale dei cittadini raggiunge somme ragguardevoli.

Se ognuno pensa al proprio tornaconto “tanto, cosa vuoi che sia” o “tanto lo fanno tutti” non ci solleveremo mai da questa paludemorale ed economica.

Copiamo spesso gli Stati Uniti sotto tanti aspetti: perché non li copiamo anche sotto quello morale? Se negli Usa sanno che il vicino si droga o ha rubato lo vedono come uno che si può redimere; ma se sanno che il vicino evade le tasse lo denunciano senza problemi perché l’evasione realmente danneggia ognuno di noi e l’intero Paese (che siamo sempre noi).

“Vota Antonio, vota Antonio” non era solo lo slogan di Totò.

Sergio Motta

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