RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
In questi giorni nelle nostre università gruppi di studenti (e non) chiedono la rescissione di ogni accordo con le università e le istituzioni israeliane e l’interruzione dei rapporti di ricerca con alcune industrie.
Le manifestazioni, le occupazioni e le rivendicazioni confliggono con il valore, condivisibile, che vorrebbero affermare, ossia arrestare ogni forma di conflitto e ogni ingiustizia.
Come singoli e come lista di rappresentanza desideriamo e chiediamo con forza il cessate il fuoco nella striscia di Gaza, l’interruzione di ogni violenza e di ogni violazione dei diritti umani. È per queste ragioni che vogliamo spendere le nostre energie, con rinnovata intensità, nel luogo in cui siamo chiamati: riteniamo che il nostro contributo al raggiungimento della pace, che pare così distante, debba dispiegarsi in Università. Perché questo avvenga è indispensabile che il nostro Ateneo non abdichi al proprio ruolo e, quindi, non tradisca la propria vocazione di luogo d’inesausta ricerca del vero, di libero dibattito, di sviluppo del pensiero critico e anche di «dissenso nei confronti del potere. Dibattito, critica e dissenso collegati tra gli atenei di tutti i paesi, al di sopra dei confini e al di sopra dei contrasti tra gli stati» (così il Presidente Mattarella nel discorso all’Università di Trieste, 12 aprile 2024).
Se questo è uno dei principali scopi dell’università, ci lasciano perplessi le richieste di boicottaggio indiscriminato di ogni accordo. L’Università non è chiamata a parteggiare per alcuno schieramento, ma deve costruire ponti al di sopra delle mura che possono essere erette tra Stati, popoli o ideologie, certo non senza limiti e regole che evitino collaborazioni indiscriminate e abusi. Limiti e regole che esistono e che, se violati, devono essere fatti rispettare unicamente attraverso il lavoro degli organi adibiti (organi che esistono ed in cui risiedono i rappresentati delle diverse anime del nostro Ateneo, sempre auspicabilmente attenti alle sensibilità e alle rivendicazioni di ciascun membro della comunità accademica).
Le perplessità persistono, non solo nel merito delle richieste, ma anche nel metodo. E precisiamo che criticare le modalità con cui si portano avanti le proprie istanze non significa indifferenza verso la causa, né tantomeno significa avallare l’operato di una parte o di un’altra.
Affinché il nostro Ateneo rispetti il proprio compito, anche educativo, occorre che permetta, anzi favorisca, il libero dibattito e lo sviluppo di una coscienza critica. Le contestazioni e le occupazioni non rispecchiano l’atteggiamento della maggioranza degli studenti e delle studentesse che vuole, invece, frequentare le lezioni, accedere alle biblioteche e abitare gli spazi universitari, anche organizzando incontri, assemblee, eventi di beneficienza, proprio per alimentare lo sviluppo del giudizio critico. In questo caso, invece, l’occupazione diventa uno strumento di prepotenza di alcuni che pensano di rappresentare la volontà generale, impedendo l’esercizio del diritto allo studio, precludendo ai lavoratori e alle lavoratrici di svolgere le proprie mansioni, imbrattando e rovinando gli spazi della comunità studentesca (che, prima o dopo, andranno restituiti integri e fruibili, non senza esborsi).
Ciascuno – Rettore compreso, che invece in questi giorni ha preferito, colpevolmente, non proferire alcuna parola – è chiamato ad un impegno responsabile nella costruzione della “propria parte” per la pace. Pace (in ebraico shalom e in arabo salam, hanno la stessa radice) significa integrità, essere completo. La pace, dunque, ha sempre bisogno di un approccio integrale alla vita, quindi alla politica, all’economia, alla formazione, alla spiritualità: tale approccio è impedito se sono interdetti i luoghi privilegiati a questo scopo. Coloro ai quali tutto ciò sembra “troppo poco” o “poco concreto” e sono interessati a discuterne davvero ci trovano – presto o tardi – in Università.
(foto: Intifada Studentesca Torino)