Colin Firth and Micheal Ward in the film EMPIRE OF LIGHT. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2022 20th Century Studios All Rights Reserved.

Sam Mendes e la sua dichiarazione d’amore al cinema

“Empire of Light”, fuori concorso al 40° TFF

È un film letterario, con le citazioni di Tennyson e di Auden, è un film musicale, con i tocchi al pianoforte estenuanti e precisi e con le note e le voci dei gruppi di quegli anni. È soprattutto un omaggio al cinema, quello di sapore ormai antico, quello con il luminoso pulviscolo che volteggia nel fascio di luce che fuoriesce dal proiettore, che gioca dentro quella cabina di proiezione con le immagini disordinate della Masina e di Brando e di tutto un universo in bianco e nero (un allontanarsi dal mondo, una sorta di “Nuovo cinema Paradiso” inglese, un mestiere trasmesso ad altri), che getta un ponte verso la felicità nella nostra personale esistenza. “La pellicola sono solo fotogrammi statici con in mezzo il buio. Il nostro nervo ottico ha un piccolo difetto e se riproduco la pellicola 24 fotogrammi al secondo si crea l’illusione del movimento, l’illusione della vita, non percepiamo il buio. Il mondo vede solo un raggio di luce e nulla avviene senza luce”, dice il vecchio proiezionista Norman (Toby Jones), che dopo anni sogna ancora a occhi aperti la propria maestria a collegare bobine e il suo mestiere fatto di movimenti perfetti.

“Empire of Light”, visto al 40° TFF fuori concorso, uno dei titoli più attesi della rassegna, è scritto e diretto da Sam Mendes (il regista che esordì con “American Beauty”, che ci ha dato due capitoli di 007 e che ha affrontato le trincee del primo conflitto mondiale con “1917”). Lo ha scritto in tempo di lockdown, uno di quei periodi oscuri che sembra al contrario essere stato fatto apposta per certi autori cinematografici (leggi anche Spielberg, Natale si porta appresso il suo autobiografico “The Fabelmans”) a raccogliere i ricordi della giovinezza, a costruire storie in cui la loro passione per l’immagine in movimento la potesse fare da padrone e reinventare. Reinventare il tempo, i colori, le atmosfere, i gusti, le macchie oscure. È il suo documento d’amore al cinema, come medicina, come supporto salvifico, la sua affermazione di “grande magia”. È il finire del 1980, i fuochi artificiali visti dalla terrazza dell’Empire – curvilinea sala art déco posata sul litorale di una piccola città della costa del sud britannico, con i suoi tappeti colorati e un po’ démodé, la grande vasca dei popcorn e le confezioni colorate di caramelle, le scale che salgono sinuose e gli ottoni ben lucidati, velluti rossi, i clienti che pretendono di portarsi dell’unto cibo in sala – annunceranno il nuovo anno. Si proietta “All that jazz” e “Gregory’s girl” e l’annuncio di una grande première con “Momenti di gloria”, con tanto di sindaco e autorità varie, sottratta alla catena di cinema Odeon, sul suo grande schermo mostra tutto l’orgoglio del proprietario Mr. Ellis, che ha l’occhio sinistro e arraffatore di Colin Firth. È la storia di Hilary (un ruolo di responsabile di sala ideato per Olivia Colman, premio Oscar e un paio di altre candidature: forse anche quest’anno tra le candidate?), bravissima, perfetta nel rendere appieno la solitudine, la voglia di rivolta, le frustrazioni, i sentimenti anche rabbiosi e sfatti, una donna di mezz’età che ha trovato tra i colleghi quella famiglia che non ha mai costruito, che tenta di buttarsi alle spalle un passato ferito da una condizione di malattia mentale, che sottostà ad una squallida relazione con Mr. Ellis, con tanto di masturbazioni in ufficio. Troverà in Stephen (l’emergente Michael Ward), origini caraibiche, giovanissimo ragazzo nero, ultimo arrivato nel gruppo, con sogni universitari e una carriera di architetto buttata verso il futuro, quegli affetti che sinora le sono stati negati, quella grande sala polverosa all’ultimo piano, chiusa da tempo (“una volta erano quattro sale”), è il loro rifugio e quel colombo che ha un’ala spezzata e che il ragazzo prende a curare è il simbolo, forse un po’ scontato ma altrettanto delicato, dell’amore che si fa dedizione completa.

Toby Jones and Micheal Ward in the film EMPIRE OF LIGHT. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2022 20th Century Studios All Rights Reserved.

 

È anche l’Inghilterra con la politica di quel periodo, i riferimenti al razzismo di Enoch Powell, sono le intimidazioni e le immagini degli skinheads che scorrazzano in moto davanti all’ingresso del cinema e, una volta entrati, s’avventano su Stephen.

Forse è cosa facile il versante razzista, forse è cosa più che facile l’unione tra lo sconquassato animo femminile e la gioia verso la vita del giovane ragazzo di colore: ma quegli attimi in cui Hilary, sempre vissuta al di fuori della sala, vi entra per la prima volta, tutta sola, a godersi “Oltre il giardino” di Ashby con il superbo Peter Sellers (“La vita è uno stato mentale” dice il giardiniere Chance, mentre immerge i piedi nell’acqua del laghetto), ecco che allora s’azzerano quelle piccole pecche che stanno nel tessuto cinematografico di Mendes. Altro capolavoro di interni (certi luci tiepide, certi chiaroscuri) e di esterni (il lungomare, la spiaggia, la luce della costa) per Roger Deakins (Oscar 2017 per “Blade Runner 2049” e nel 2019 per “1917”), un maestro geniale. Il film sarà sui nostri schermi il 23 febbraio 2023: e ne riparleremo, perché lo merita. Per intanto attendiamo i premi del 40° TFF.

Elio Rabbione

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