Chi abbia almeno la mia età ricorderà senz’altro i consigli dei più anziani, secondo i quali un lavoro andava finito a regola d’arte, occorreva un certo modo di rapportarsi con il committente (o con il cliente se si trattava di vendita). Il guadagno era si determinante ma non era l’unico fattore da considerare.
Purtroppo l’acquisizione di culture che non ci appartengono in materia di economia, di imprenditoria, di organizzazione del lavoro hanno portato ogni settore dell’attività umana a uniformarsi, dovendo ognuno rendere conto solo a tabelle impersonali, schemi predisposti spesso da chi non svolge quell’attività (e, forse, nessun’altra); l’aumento smisurato del ricorso al volontariato ha poi dato il colpo di grazia all’etica.
Mi spiego meglio: ogni professionista, ogni dipendente, ogni artigiano ha diritto alla giusta ricompensa per le attività svolte, su questo non ci sono dubbi. Così come il committente ha diritto a vedersi consegnare una prestazione o una merce corrispondente alla richiesta, del valore pattuito, rispondente ai requisiti di legge se vi siano, durabile nel tempo tipico di quel prodotto.
A quanti di voi è capitato che un lavoro consegnato abbia manifestato in breve tempo difetti che non erano visibili alla consegna? O che, ad un’analisi più accurata, risultasse che erastato realizzato con materiali più scadenti, utilizzando tecniche meno costose, ecc?
Nei casi limite subentra l’aspetto penale perché si parla di vera e propria frode, se non addirittura di truffa ma nei casi più semplici è la mancanza di etica del professionista ad aver fatto la differenza.
Ricordo ancora, quand’ero bambino, che il medico dei miei nonni passava o telefonava anche al sabato o alla sera per sapere se fossero arrivati gli esiti di un esame o se il farmaco prescritto stesse producendo gli effetti attesi; così facendo soddisfaceva due fattori: incrementava la sua esperienza, verificando se la sua diagnosi fosse stata corretta, se i farmaci prescritti fossero stati adatti per quella patologia e, non meno importante, curava quella che dovrebbe essere, nei medici ed in altre professioni, il motivo principale della scelta: la passione per quel lavoro.
Quanti casi di malasanità si verificavano all’epoca e quanti ora? Quando esistevano le casse mutua (MALF, INAM, INADEL, ecc) ogni cassa mutua sceglieva i propri medici, l’ambito era più ristretto rispetto a quello attuale di un’intera regione, ed il codice paziente era prioritario rispetto all’IBAN della struttura.
Ora si è solo dei numeri, che non devono consumare più di un tot, altrimenti non si ha più diritto alla terapia: è successo ad un mio parente, affetto da amiloidosi (malattia degenerativa incurabile a carico del cuore), al quale la Regione Piemonte ha sospeso la cura perché con quanto avrebbe speso per lui si sarebbero potuti curare altri pazienti per altre patologie. Però le tasse le versiamo tutti indipendentemente dalle prestazioni che (non) ci erogheranno.
E che dire di artigiani che lavorano in modo approssimativo, utilizzando materiali di scarto facendoli pagare per buoni o dei commercianti di auto che ritoccano al ribasso i chilometri percorsi?
Quando si pensa al malcostume sul lavoro il pensiero corre agli enti pubblici, perché è maggiormente grave la colpa di chi sbaglia, ma anche nelle aziende private non mancano episodi consueti di scorrettezza: la giustificazione è che pochi euro sono niente in confronto al fatturato dell’azienda.
Se modifichi (ed è un reato) i chilometri dell’auto che vendi, prima o poi qualcuno se ne accorgerà (un bravo meccanico sa valutare anche l’usura degli organi in movimento per determinare l’utilizzo di un veicolo) e, se sei il titolare dell’autosalone rischi di chiudere.
Mi viene in mente un allievo che incontrai nella Casa circondariale di Torino: veniva arrestato 1-2 volte l’anno per furto di autoradio; siccome fu lui a parlarmene osai iniziare un discorso in merito. Gli chiesi se avesse mai calcolato, tra quanto guadagnava da ogni autoradio (20 euro all’epoca) e quanto gli costava un avvocato, se fosse davvero proficua come attività? Lo mandai in crisi, perché non si era mai fatto quei calcoli.
L’etica nello svolgimento delle proprie mansioni, però, dev’essere innanzitutto un qualcosa che parte da sé stessi, in chi fa, non un esame che chi riceve effettua al prestatore di opera. Quando faccio una cosa, quando realizzo un manufatto dev’essere realizzato a regola d’arte, non realizzato alla carlona perché “tanto, chi se ne accorge? “.
Quando anni fa collaborai con l’Opus Dei per un progetto, conobbi gli insegnamenti di Josemaria Escrivà de Balaguer che insegnava a santificare la vita di tutti i giorni, ad essere corretti sempre, sul lavoro come in casa: se sono dipendente di un’azienda non devo fare fotocopie, telefonate (anche se ora sono comprese nel canone) o usare il pc per pratiche private, anche se economicamente il danno è lieve, o portarmi a casa le penne a sfera perché “ce ne sono tante”.
Allo stesso modo un elettricista non deve risparmiare sul diametro dei cavi per guadagnare qualcosa in più, perché dalla sua condotta potrebbe scaturire un pericolo per gli utenti di quell’impianto.
Purtroppo, in una società dove pare valere più chi sa usare la furbizia rispetto alla perizia, tali atteggiamenti sono non soltanto accettati ma quasi incentivati.
Come ho avuto modo di dire in alcune mie conferenze, e come scrivo nel mio libro “Ventiquattro sfumature di vita” è necessariodistinguersi dagli altri, non sentirsi inferiori perché nella nostra onestà siamo una mosca bianca, distinguersi perché ognuno di noi è diverso dagli altri, con le proprie peculiarità.
Sergio Motta
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