Diario minimo urbano…vedere e ascoltare per credere
Genio è decisamente peggiorato. Tantissimo. Non mi devi più chiamare “capo”! Gliel’ho detto mille volte…ma non lo capisce. Niente da fare! E’un continuo, ogni volta che gli passo davanti: “Ciao, capo! Tutto bene, capo? Hai bisogno, capo?” Ebbasta. Mi ha proprio rotto i coglioni! Adesso non passo più di lì, se no mi incazzo sul serio. E non perché è nero. Ci mancherebbe! Proprio io! E’ che non mi va di essere chiamato “capo”. E allora capiscilo una volta per tutte! Dagli un taglio! Dimmi “ciao Genio” o “ciao” … e basta! Genio è furioso. Urla al vento e ai passanti- che non vede neppure- il suo odierno problema. Che oggi è personificato in quel giovane e gentile ragazzo di colore sempre posizionato all’ingresso del supermercato frequentatissimo del corso. E che per qualche spicciolo è sempre pronto ad aiutare e a dare una mano a quanti – vecchiette e vecchietti soprattutto – escono a spesa fatta con sporte, borsoni e carrelli pieni. Non so il suo nome. E’alto e magrissimo. E gentile, dicevo. Parla a monosillabi l’italiano. Solo qualche parola. Poche. Parole che ha sentito da altri. Magari sul barcone affollato su cui è miseramente (ma almeno lui ce l’ha fatta) riuscito ad approdare in Italia, lasciandosi dietro il suo mondo, il suo “tutto”, per poi arrivare qui a Torino. Non so per quali vie traverse. Non so nulla di lui. Come e dove vive? Dove dorme? So solo che saluta tutti con un Ciao, capo, tutto bene? O Ciao, mamma! O (a me, per esempio) Ciao, papà.. e la nonna (mia suocera)? Non fa male e non dà fastidio a nessuno. Anzi, si presta a dare una mano, per un caffè e una brioche, alle persone più anziane che vede in difficoltà. Come il suo amico, qualche isolato dopo, che, ramazza in mano, pulisce il marciapiedi dove un cartone a terra, con qualche riga scritta, invita a lasciare in un raccoglitore di plastica (difficilmente colmo a fine mattinata) qualche spicciolo, magari il resto del giornale acquistato all’edicola di fronte. Genio non ce l’ha con loro. Ci mancherebbe. Genio (ve ne avevo già parlato, qualche mese fa) non vuole semplicemente essere chiamato “capo”. E lo urla ai due venti. Un pensiero e una rabbia che sbottano in un gridare “fuori senso” e mal contenuto. Un’incazzatura fermentata nel silenzio di casa, forse per giorni, e che oggi è diventa cascata di sfogo al mondo intero. I passanti lo osservano. Sempre più curvo, passi sempre più lenti, dietro – malamente trascinato a mano – il carrello della spesa. La sua “mala solitudine” (ricordate?) lo sta impietosamente divorando. E’ un pugnale ben puntuto che gli trafigge il corpo l’anima e il cuore. I capelli sempre più lunghi bianco-giallognoli (ormai definitivamente dimentichi dell’esistere di quel benefico efficace liquido chiamato shampoo), i pantaloni sempre più larghi, magro magro, la mascherina debitamente portata a coprire il mento (!), da cui fatica a nascondersi perfino la lunga incolta (da chissà quanto?) barba bianca che fa capolino da ogni angolo del volto. “Che succede, Genio?” provo a fermarlo dal suo imprecare e dagli sguardi curiosi, alcuni (a firma di imbecilli) perfino divertiti e ridanciani. Ci conosciamo da trent’anni io e Genio. Un passato per entrambi da insegnanti. Poi altre strade per lui. La morte, qualche anno fa, della dolcissima moglie. I figli giustamente fuori gioco (del tutto o quasi) con le loro vite. Genio è solo. E qualche volta lo grida, a modo suo, al mondo, precipitando lungo un burrone da cui niente e nessuno (e, credo, nemmeno lui) può ormai salvarlo. “Eh, che succede?”, mi risponde. Succede che sono stufo d’essere preso per il culo, sentendomi chiamare tutti i giorni “capo” da quel ragazzotto, che poi mi fa anche pena, davanti al supermercato. Adesso per andare al bar non ci passo più. Mi faccio tutto il mercato. E’ meglio. Per un attimo pare calmarsi. Provo a fargli cambiare discorso. Macché. A me, proprio a me ‘capo’. Proprio a me che non ho mai sopportato quelli che sono o si sentono ‘capi’ facendolo pesare ai sottomessi (per loro) con le parole e con la violenza. Lo spirito sessantottino non s’è spento del tutto in Genio. E poi ‘capo’, non so perché ma mi ricorda troppo il ‘kapò” dei lager nazisti. E con l’aria che tira oggi nel mondo! E da noi! Ahi, non addentriamoci in politica. Cambio le carte. Ma senti un po’, Genio, hai fatto un po’ di ferie quest’estate? Non l’avessi mai detto! Mi sembra ancor più imbufalito. Ferie? Ma io le ferie non mi ricordo neanche più cosa sono! Ah sì, le ultime le ho fatte una decina d’anni fa, mi pare al mare, prima che se ne andasse la mia povera Caterina. Le parole inciampano nella memoria. Per un attimo. E poi Sai cosa mi viene in mente quando sento parlare di ferie? Mi vengono in mente la ‘Feriae Augusti’, quando studiavamo latino al liceo e anche alle medie ai nostri tempi. Ricordi? E ti so ancora perfino dire quando Ottaviano Augusto le istituì. Ci pensa una frazione di secondo. Era il 18 a. C. per ricordare ai Romani la presa di Alessandria e la triste fine di quei due là, lui soprattutto mica tanto furbo, Marco Antonio e l’irresistibile Cleopatra. Genio si è calmato. Genio, ancora oggi e nonostante tutto, uomo di grandi letture. La sua salvezza. Fa un gesto con la mano destra al cielo. Con l’altra trascina sbilenco il carrello della spesa, ingiallito e grigiastro come lui. Non mi saluta neanche. S’avvia (sul marciapiede opposto al supermercato) borbottando …18 a. C.? Boh…A casa devo andare a controllare. Alla prossima, Genio!
Gianni Milani
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