Che fine ha fatto Ahmadreza Djalali, è ancora vivo? Non si sa più nulla del ricercatore iraniano-svedese di 49 anni che per alcuni anni ha insegnato e lavorato a Novara e dopo il rientro in Iran è stato arrestato e condannato a morte dal regime degli ayatollah con la falsa accusa di spionaggio a favore del Mossad israeliano. Non è difficile scorgere nelle città iraniane persone che penzolano da una gru dopo essere state giustiziate in carcere. Non solo criminali comuni ma anche dissidenti, oppositori, giornalisti e artisti scomodi a un regime che da oltre 40 anni domina l’Iran con le mani sporche di sangue. Restano appesi alla gru anche per alcuni giorni, come monito a tutti gli iraniani a comportarsi bene e a non deviare dalla retta via. Non vorremmo che anche Ahmadreza Djalali finisse i suoi giorni in questo modo. Silenzio di tomba. Nessuna informazione trapela dal carcere né dal suo legale. C’è solo una foto che preoccupa, diffusa da Amnesty International. Lo si vede prima di finire in prigione e come è oggi, molto dimagrito, sofferente e con gli occhi terrorizzati. In questi giorni i suoi colleghi del Centro di ricerca Crimedim dell’Università del Piemonte orientale di Novara hanno rilanciato l’allarme perché sulla sua vicenda, iniziata cinque anni fa, non scenda il silenzio. Dal 2016 Djalali è richiuso nella famigerata prigione di Evin, alle porte di Teheran e da allora non vede né la moglie né i figli. Il carcere di Evin è l’anticamera della morte: le celle sono piccole, strette e luride, nessun mobile, nessuna finestra, solo qualche coperta da usare come letto. Gli fanno credere che l’impiccagione è questione di giorni o di poche ore e poi all’ultimo momento gli dicono che è stata rinviata. La mobilitazione internazionale per salvargli la vita continua.
Filippo Re
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