Torino e i suoi musei. L’egizio

Torino e i suoi musei
Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere. (ac)

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1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus

1. Museo Egizio

La prima volta che mi hanno portato al Museo Egizio ho pianto. Più avanti vi dirò perché.  Quando frequentavo i primi anni delle elementari, come la maggior parte dei bambini, avevo una stereotipata curiosità nei confronti di quel popolo antico e strano, all’epoca per me nient’altro che un “purpurrì” di piramidi e bislacchi esseri zoomorfi. Naturalmente poi, nel corso del tempo, tante altre furono le visite all’Egizio che ho fatto con sempre maggior consapevolezza e desiderio di conoscenza.  Il Museo è situato in Via Accademia delle Scienze 6, dove sorge il “Collegio dei Nobili”, edificio realizzato su progetto di Michelangelo Garove a partire dal 1679 e, in seguito, modificato e ampliato, nella seconda metà dell’Ottocento, grazie agli interventi di Giuseppe Maria Talucci e Alessandro Mazzucchetti.  Si tratta del più antico Museo dedicato alla civiltà dell’antico Egitto, tappa obbligata per turisti e torinesi.
Il Museo, fondato nel 1824, nel 1832 apre al pubblico. Proprio nel 1824 re Carlo Felice acquisì la prima raccolta di Bernardino Drovetti, esperto collezionista che era solito scegliere con criterio illuminato gli oggetti e le opere da acquistare. Egli infatti era interessato in egual maniera ai ritrovamenti più opulenti e a quelli ritenuti di minor valore, eppure essenziali per documentare la storia della civiltà che tanto lo appassionava.

Nel corso del tempo si sono susseguite svariate modifiche espositive, dovute anche all’aumentare dei reperti, sia grazie a scambi con altri musei, sia ad acquisti e concessioni di privati.
Anni essenziali per la crescita della collezione furono quelli tra il 1903 e il 1907, periodo in cui prima Ernesto Schiapparelli, poi Giulio Farina, portarono avanti importanti scavi archeologici in Egitto, da cui ricavarono ben trentamila reperti da trasportare a Torino. Altri lavori vennero eseguiti nel 1908 e nel 1924, per mancanza di spazio lo stesso Schiapparelli ristrutturò la zona espositiva che oggi porta il suo nome. Tra le molte modifiche che si susseguirono tra gli anni Trenta e gli anni Ottanta, particolarmente significativa risulta l’opera di ricomposizione del tempietto rupestre di Ellesiya donato dal governo Egiziano: la struttura fu tagliata in sessantasei blocchi e inaugurata nel 1970. In occasione dei Giochi Olimpici Invernali di Torino, nel 2006, lo statuario è stato riallestito dallo scenografo Dante Ferretti.

Oggi non sono in grado di descrivere a memoria l’allestimento degli anni Novanta, quello che ho visto da piccola, durante una gita con la classe delle elementari, eppure mi è rimasto il ricordo di quella fanciullesca sensazione di stupore, novità e straniamento che avevano suscitato in me tutte quelle teche, così numerose da parere ammassate l’una sull’altra, lucide come può essere il vetro antico, ognuna chiusa a proteggere il proprio contenuto come cubici ventri materni.  Ricordo con affetto quella giornata, con le maestre e la guida del Museo intente a mostrare a me e ai miei compagni quella moltitudine di “cose” lì contenute, mentre io ero concentrata a cercare quegli strani ibridi che capeggiavano nei libri illustrati. Avevo come la sensazione che tutto andasse troppo a rilento ma dopo un po’ di sbuffi e tanta pazienza, la guida ci mostrò finalmente qualcosa di davvero interessante: un’enorme stanzone contenente colossali statue dal corpo di donna e dalla testa di gatto. Si trattava della dea Sekhmet, pericolosa figlia del Sole, a cui erano dedicate innumerevoli raffigurazioni. Le statue della dea sono presenti anche nell’attuale allestimento, situate nella Galleria dei Re, poeticamente illuminate da una studiata, calda e scenografica luce mirata. Le sculture tutt’ora esposte appartengono ad un’unica serie, scoperta al tempio di Mut a Karnak (Tebe est), forse inizialmente collocate nel «tempio di milioni di anni» nel sito di Kom el-Hettan, dove erano installate lungo le pareti del grande cortile. Si pensa che in totale fossero presenti nel tempio ben 365 statue: ogni giorno una particolare statua della dea, distinta da appellativi specifici, doveva essere invocata per supplicare la divinità sterminatrice di mantenere in vita il monarca regnante e liberarlo dalle febbri, dall’arsura e dalle forze avverse.

Ma torniamo a noi, la gita scolastica si concluse con un lieto fine, ero riuscita a vedere i miei “mostrini” ed ero quindi soddisfatta di aver lenito la mia curiosità bambinesca. Come mai questa passione per le bizzarre creature che dovrebbero intimorire? La risposta ha a che fare con l’incipit del discorso. Avevo circa tre anni quando mio padre mi portò per la primissima volta al Museo Egizio e proprio in quell’occasione accade “il fattaccio”. La memoria si confonde con i racconti posteriori, ma leggenda vuole che i fatti siano andati così: in mezzo ad una sala ricolma di teche, c’ero io, piccola e maneggevole, in braccio a mio padre, lui guardava gli oggetti alle pareti e io in direzione opposta, con il capo reclino sulla sua spalla. E lì, in mezzo a quel vetroso labirinto a metà tra Lewis Carroll e il giardino dell’Overlook Hotel, pronunciò una frase che in famiglia è ormai un “cult”: “Che belli questi papiri”. Sì, perché non si era accorto che proprio alle sue spalle, e quindi nella direzione del mio sguardo, c’erano dei corpi accartocciati e rattrappiti, in cui le unghie e i capelli avevano continuato a crescere come in un sortilegio di cui nessuno mi aveva mai parlato. Probabilmente mi sentii osservata da quelle orbite vuote sgraziatamente sbendate e ebbi come l’impressione che tutti quei mostri inscatolati stessero ridacchiando della mia paura. Non c’era altro da fare che scoppiare in un pianto disperato. E così finì la mia prima visita al Museo Egizio di Torino.

L’unico modo per sconfiggere le proprie paure è quello di affrontarle, ma spesso accade che i timori si trasformino prima in curiosità incolmabili e poi in passioni. Durante le superiori tornai più volte “sul luogo del delitto”, ormai instancabile ammiratrice di quello che di certo è il popolo antico più magico e misterioso al mondo. L’aspetto che più mi affascinava in quegli anni -e forse tutt’ora- era la grande importanza che gli Egizi riservano al culto dei morti. Essi infatti credono nell’Aldilà e ritengono che nelle tombe prosegua in eterno la vita del defunto, per questo motivo le decorano con pitture in ricordo delle attività quotidiane e le corredano di monili, vasellame e oggetti di uso comune.
Nell’allestimento attuale, questo particolare aspetto cultuale è ben esplicato dai reperti delle tombe degli Ignoti e di Iti e Neferu. La prima venne ritrovata intatta a Gebelein nel 1911 e, grazie ai dettagliati appunti di Virginio Rosa, è stato possibile ricostruire pedestremente la disposizione degli oggetti nella ricostruzione all’interno del Museo. La seconda è un esempio emblematico di sepoltura dedicata a personaggi di alto rango, in cui particolarmente impattanti risultano le pitture parietali, raffiguranti i temi tipici del repertorio decorativo delle cappelle funerarie dell’Antico Regno: le ricchezze offerte al defunto e le persone coinvolte nella preparazione e, nella camera centrale, scene rituali d’offerta, per perpetuare la vita del defunto nell’Aldilà.
L’ultimo riallestimento museale risale al 2015, i lavori hanno riguardato l’intero percorso, articolato su cinque piani espositivi e radicalmente modificato per una più ampia godibilità degli spazi.

Non è passato così tanto tempo dalla mia ultima e recente visita al Museo Egizio e devo dire che personalmente un po’ tutte quelle teche e quelle mummie sbendate mi mancano.
L’aspetto attuale è però davvero straordinario, un chiaro esempio di museo moderno, tecnologicamente avanzato per catturare l’attenzione dei più giovani e assicurare un’esperienza immersiva e totalizzante degli spazi anche ai più grandi. Di certo non si può riassumere la grandiosità del Museo Egizio in un breve articolo come questo, né tantomeno pretendere di spiegare una civiltà che si sé sviluppata per circa quaranta secoli (dall’epoca preistorica sino al fiorire dell’arte copta nel V-VI sec. d.C.) ma a posso permettermi di condividere con voi lettori ciò che più mi ha colpito della mia ultima “passeggiata” museale. In primis, uno dei sarcofagi di Mereru, in cui è presente, oltre ai tipici occhi “udjat”, un “orologio stellare diagonale”, ossia una tabella che indica l’ora di culminazione durante la notte di 36 stelle dette «decani» con il variare dei mesi e delle stagioni.

Vi segnalo gli “ostraka”, (schegge di calcare illustrate con scene inusuali, libere dai canoni tradizionali) e le statuette delle divinità protettrici della famiglia (come Renenutet, Bess o Tuaret), scoperte nel villaggio di Deir El-Medina; nello stesso sito archeologico è stato ritrovato un papiro amministrativo di Amennakht (vissuto durante il regno di Ramesse III), in cui sono riportate le notizie riguardanti il primo sciopero della storia: gli operai del villaggio protestarono perché non ricevettero le dovute razioni alimentari, pagamento per il loro lavoro. Triste ed interessante testimonianza dell’eternità dell’ingiustizia che aleggia in questo mondo.
Affascinanti e mistici sono i papiri srotolati sulle pareti: lo sguardo si perde tra i caratteri pittografici, le composizioni armoniose, le figure che seguono i canoni dell’arte egizia che rimane invariata nei secoli e diventa inconfondibile nell’immaginario delle persone. Vengono chiamati “libri dei morti” i papiri con testi magici e illustrazioni collocati nelle tombe per aiutare i defunti a superare i pericoli dell’oltretomba e raggiungere la vita eterna. Esistevano più di duecento capitoli riguardanti tali tematiche ma nessun libro li conteneva tutti, infatti dal repertorio ciascuno sceglieva le formule a lui più appropriate, (Libro dei Morti di Kha).Mi è dispiaciuto non rivedere, per giusti motivi di restauro, il celebre “papiro erotico”. Si tratta di una parodia sociale, un particolare documento destinato a una classe agiata che trovava piacere nella rappresentazione della trasgressione.

In effetti l’elenco dei reperti che hanno ri-catturato la mia attenzione rischia di diventare eccessivamente lungo e tedioso ed è quindi bene che mi fermi e lasci scoprire a voi le altre meraviglie che non ho citato. Prima di concludere trovo obbligatorio spendere due parole su quello che è “il fiore all’occhiello” del Museo: la Galleria dei Re. L’enorme sala espositiva si trova alla fine del percorso, immensa e fiocamente illuminata, dove le imponenti statue emergono dalla penombra e ipnotizzano con la loro mistica bellezza i visitatori. Tra queste spicca l’effige di Ramesse II, uno dei faraoni più noti di tutta la storia dell’antico Egitto. Raffigurato seduto sul trono, è rappresentato con gli elementi canonici del potere, il volto sorridente e i lobi delle orecchie forati – dettaglio ripreso dall’arte Amarniana- ai lati delle sue gambe sono rappresentati la moglie e il figlio, in scala ridotta, a simboleggiare la continuità dinastica.
Quando il percorso finisce e si ritorna “a riveder le stelle” si ritorna anche alla vita “normale”, a correre frettolosi tra i sanpietrini e le architetture barocche e liberty che non abbiamo quasi mai il tempo di goderci. Eppure per me, ad ogni visita qualcosa cambia, un dubbio lenito ed una curiosità nuova da scoprire la prossima volta, e forse è questo il trucco: provare a non diventare mai “troppo grandi” da non avere tempo per essere curiosi.E comunque quando mi chiedono come mai mi piacciono i mostri e le storie horror e le leggende inquietanti io torno bambina e mi ricordo di quel simpatico trauma che non ho ancora voglia di superare.

Alessia Cagnotto

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