Il sogno infranto del "Brasile d'Europa"

JUGOCALCIO 4Il Brasile d’Europa. Il calcio nella ex Jugoslavia tra utopia e fragilità” ( edito da Urbone Publishing) è un libro interessante, ben scritto da Paolo Carelli, giornalista, ricercatore universitario, grande appassionato di football. La vicenda del calcio nella ex Jugoslavia  è sempre stata intrecciata con l’originalità politica, sociale e culturale di una nazione costruita sul delicato equilibrio di popoli eterogenei, attraversando il Novecento con i suoi traumi, utopie e contraddizioni. Dai primi successi olimpici ai contrasti (anche sportivi) con l’Italia sulle “questioni” di Fiume e Trieste, dall’impresa della nazionale under 20 vittoriosa in Cile fino allo sgretolamento del Paese cominciato proprio su un campo di calcio, il Maksimir Stadion,  con gli scontri del 13 maggio 1990 durante l’incontro tra i padroni di casa  croati della Dinamo Zagabria e i serbi belgradesi della Stella Rossa. Un’epopea fatta di successi e talenti, ma soprattutto di una costante ricerca della perfezione ed una fatale rivelazione di un senso profondo di instabilità eJUGO CALCIO fragilità. Il calcio jugoslavo è stato davvero un caso unico, inedita combinazione di geometria e fantasia, con giocate pulite ed eleganti, trame ipnotizzanti  e fulminee verticalizzazioni, tanto sofisticate quanto incostanti, esempio di virtuosismo mitteleuropeo che spesso tracimava in un lezioso senso di superiorità che, a volte, veniva dissipato a causa di quello spirito balcanico che porta all’eccesso. La Stella Rossa di Belgardo è stata l’unica compagine jugoslava a vincere la Coppa dei Campioni e quella Intercontinentale, entrambe nel 1991. Il 29 maggio di quell’anno in molti se lo sono appuntato tra i ricordi più belli. Fu una serata speciale, nello stadio San Nicola di Bari, dove la “crvena zvezda” di Dejan Savićević piegò ai rigori (5 a 3 ) l’Olympique Marsiglia di Amoros e Papin grazie ai  goal di Prosinečki,Binić,Belodedić,Mihajlović e Pančev. Simbolo della Jugoslavia multietnica, la Stella Rossa era scesa in campo schierando serbi e macedoni, montenegrini , croati e bosniaci.

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Un successo internazionale importante che, purtroppo, coincise con uno degli ultimi atti del calcio jugoslavo, quasi una sorta di canto del cigno. Infatti, al termine del campionato 1990-1991 le squadre croate e slovene abbandonarono il torneo, e lo stesso fecero l’anno successivo quelle macedoni e quelle bosniache. Dopo la dissoluzione della “terra degli Slavi del sud”,con la nascita dei nuovi stati, presero forma anche i singoli campionati nazionali. Sei in tutto, tanti quante le nazioni nate dall’implosione  che incenerì il capolavoro di Tito: la Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija.JUGO CALCIO 2 Anche la nazionale di Jugoslavia, intesa nella sua interezza, giocò di lì a poco la sua ultima partita, esattamente il 25 marzo del 1992. Era un amichevole con gli “orange” olandesi e rimediò una sconfitta per 2-0 . Non se la presero più di tanto perché gli sguardi e le attese erano puntati  sull’Europeo in Svezia di quell’estate, alla cui fase finale la nazionale Jugoslava sia era qualificata a pieno merito. Già vincitrice del già citato mondiale under 20 del 1987, con giocatori del calibro di Boban, Suker e Mijatovic e ingiustamente eliminata ai quarti del mondiale di Italia ’90, quella squadra – che alcuni ribattezzarono “ il Brasile d’Europa” – era pronta a cogliere un grande risultato. Avrebbe potuto vincere quell’Europeo? Probabilmente sì, ma la domanda restò lì, sospesa a mezz’aria, senza risposta poiché – scoppiata la guerra nei Balcani – la squadra jugoslava venne esclusa dalla competizione e sostituita dalla seconda classificata del suo girone. Quest’ultima, la Danimarca, si aggiudicò il torneo, battendo in finale con un secco 2-0 la Germania di Andreas Brehme e Jürgen JUGO CALCIO3Klinsmann. Un segno del destino? L’ironia della sorte? Più giusto dire, forse, che la realtà tragica del conflitto fece – tra le prime vittime – anche quella del sogno balcanico di una squadra che, raggiunto l’apice della maturità, praticamente sul più bello, si vide cancellare di colpo ogni sogno e qualsiasi prospettiva. A quei giocatori, ricchi di estro e genialità , era stata affiancata un’organizzazione solida e rigorosa. Insomma, gli “slavi del Sud” avevano in mano le carte giuste per fare il botto e vincere. Il botto,invece, lo fecero le bombe, i tonfi dei mortai, le fucilate secchedei cecchini, il crepitio delle scariche di mitraglia. Il sogno di gloria di quei ragazzi in maglia blu finì sotto le macerie e oggi, ciò che resta del calcio  slavo è senz’altro dignitoso e rispettabile ma ha poco a che vedere con il talento e la forza di  quella squadra , in grado di regalare concrete emozioni e promettere gloria e successi. E’ questa la storia che Carelli racconta, rammentando a tutti che c’è stato un tempo in cui anche l’Europa aveva il suo “Brasile”.

Marco Travaglini

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