Quando – cinematograficamente – Steven Soderbergh non indagava ancora con Erin Brokovich sulle falde acquifere attorno a Hinkley, nella California a cavallo dei Sessanta, contaminate dal cromo esavalente o Todd Haynes non tentava di far luce in Cattive acque, attraverso un arco di venti e più anni, con un inespressivo avvocato Mark Ruffalo, sulle nefandezze della DuPont che con sversamenti nei corsi d’acqua attorno a Parkersburg di acido perfluoroottanoico, nella Virginia occidentale, aveva per anni procurato danni fisici irreparabili e tumori alla popolazione e al bestiame (il film recente, documentatissimo, si rifà ad un articolo del “New York Times Magazine” del 2016), nella sua Norvegia di 138 anni fa Henrik Ibsen faceva già opera di denuncia con Un nemico del popolo
Al centro della vicenda il dottor Stockmann, pronto a spalancare una finestra per mostrare quanto di marcio c’è in città, a denunciare la contaminazione delle acque della stazione termale della piccola città in cui vive con moglie e figlia, stazione su cui il nucleo ha poggiato l’intera sua economia, il prosperare, l’afflusso numeroso e continuo dei frequentatori.
Una denuncia che tutti dicono necessaria, in primis la stampa locale, anche con l’appoggio degli interventi e dei sacrifici (tre anni di chiusura degli stabilimenti, con gli introiti tutti a scendere) che la messa a punto comporta. Insomma, la gratitudine generale ad un passo. Il sindaco tuttavia, spregiudicato quanto ambiguo fratello del guastafeste e presidente degli stabilimenti, inizia la sua opera di persuasione, viscida e forte, anche nella volontà di tenere al riparo i tanti immobili che sull’attività prosperano, raggira, convince (La voce del popolo si dice indipendente: ma quanto?), obbliga, mette a tacere, come troppa gente sbatte in primo piano il bene comune che va salvaguardato, mette i suoi concittadini di fronte ad una nuova quanto falsificata responsabilità, di modo che ognuno gira le spalle al dottore, nella convinzione ancora una volta, passato o epoca attuale poco importa, che la sicurezza economica e la prosperità che poggia sul marciume possa essere ben più significativa dello spauracchio che qualcuno ci vuol mettere davanti. Tutto va tenuto nascosto, perché dare il via ad una insicurezza che finirà con l’avvolgere tutti: il poveretto è letteralmente bandito dalla società, perde il lavoro, anche la propria famiglia ne è colpita. A lui non rimarrà che una solida solitudine (e il bellissimo, rallentato finale, con l’eroe che rimpicciolisce verso il fondo della scena, mentre alcune parti inventate da Marco Rossi cadono, va dritto in questa direzione).
Lo spettacolo (visto la settimana scorsa per la stagione dello Stabile torinese), prodotto dal Teatro di Roma, salutato con i Premi Ubu 2019 – miglior spettacolo dell’anno e miglior attrice protagonista Maria Paiato, grandioso sindaco en travesti, magistralmente in bilico, un blocco ben saldo e tenuto lontano dagli “eccessi”, quadro perfetto e disumano del potere contro cui combatte la ragione -, ha il suo eccellente punto di forza nella regia di Massimo Popolizio, che s’è ritagliato anche il ruolo di protagonista, studioso e scopritore, intellettuale messo a dura prova, simbolo d’onestà, osteggiato ma pronto a continuare la propria battaglia. Nulla gli ha vietato, giustamente, di trasportare in qualche povera zona del profondo sud degli States il suo racconto e il commento di un menestrello/ubriaco di colore (i ritmi del blues sono in sottofondo), come ha adottato per tutti (maschere di voltafaccia in abiti scuri, soltanto lui in camice bianco) un tono recitativo da caricatura, grottesco e artificioso, strettamente legato a quell’ipocrisia che tutti attraversa, esempio sfacciato di intima falsità. Il risultato è alto e godibilissimo, 110’ di ragionamenti e di divertimento (sarebbe sufficiente la scena del pubblico processo per dirci quanto questo spettacolo, per cui è davvero necessario abbinare il termine “civile”, sia importante nell’annata teatrale, quanto Popolizio abbia lavorato con intelligenza e sottigliezza): innegabile che quasi ad ogni singola battuta del testo lo spettatore, partecipe sempre, spinto a fare i conti con “la maggioranza”, si senta in obbligo di porsi a confronto con le tante realtà di oggi, presenti, innegabili, reali.
Elio Rabbione
Le foto di scena sono di Giuseppe Distefano