Quando si parla di campi di sterminio, frutto dell’abominio dell’idea nazista, il pensiero corre immediatamente ai milioni di Ebrei di ogni parte d’Europa che persero la vita in quell’inferno in terra, soprattutto (ma non solo) durante la seconda guerra mondiale.
Ma non bisogna dimenticare che ‘ospiti’ e vittime della barbarie furono anche russi, polacchi, zingari, Testimoni di Geova, ‘asociali’ (come venivano chiamate persone ai margini della società bruna), omosessuali, prigionieri di guerra, oppositori politici, resistente.
Terenzio Magliano, nato a Torino nel 1912 e scomparso nel 1989, dottore commercialista, capitano paracadutista, combattente della guerra mondiale e, successivamente, partigiano ispettore delle formazioni Matteotti, fu uno di questi.
Catturato a Torino dai tedeschi, in seguito alla delazione di una donna che aveva un negozio vicino alla sede di un grande giornale, venne inviato a Mauthausen, in Austria, nel tristemente famoso ‘campo di lavoro’ (la distinzione tra campo di sterminio e di lavoro è piuttosto eufemistica, anche perché in questo secondo tipo di lager, se non morivi gassato, pur in presenza di forni crematori, morivi di stenti o di malattia, o giustiziato per aver commesso qualche infrazione o, semplicemente, per a discrezione dei tuoi carnefici) dove trascorse 17 mesi sino al momento della liberazione e del rientro in Italia.
Nel dopoguerra fu un politico apprezzato per serietà e coerenza, nella sila del Partito Socialista, nel Psu e infine nel Psdi, ricoprendo importanti incarichi quali assessore al bilancio del Comune di Torino e senatore e deputato della Repubblica.
Nel 1963 diede alle stampe ‘Mauthausen cimitero senza croci’, edito per i tipi di Roggero e Tortia editori.
E’ un libro di appena un centinaio di pagine, molto scorrevole, che racconta la sua esperienza di deportato e la sua vita e sopravvivenza nel campo nazista. Cosa lo spinse a mettere su carta i suoi ricordi lo dice lui stesso nell’introduzione: “Niente. Forse non avrei mai scritto niente di questo angolo della mia vita se, quella sera, non avessi incontrato a Porta Nuova il mio amico Francesco Amadei”. Fu, infatti, l’amico, al quale aveva appena raccontato un incubo ad occhi aperti, vissuto anni dopo la deportazione, a chiedergli, bruscamente, perché non mettesse su carta l’esperienza di vita. Nell’introduzione Magliano fa molti riferimento a luoghi di Torino, la trattoria di Sassi dove avevamo mangiato, il gruppo di persone che davanti a Talmone discuteva della Fiat. Corso Regina Magherita, dove al civico 79 viveva da ragazzo.
Il racconto nel libro, che purtroppo oggi sembra come molti altri di quel periodo caduto nel dimenticatoio sacrificato alle logiche editoriali dell’istant book, si articola in modo avvincente. L’autore descrive senza filtri la sua tragica esperienza di deportato, dà volto e storia a molti che non ce l’hanno fatta a sopravvivere in quell’inferno dei vivi, come il professor Luigi Scala, cui intitola un capitolo o lo spagnolo Augustin Torres che spera di tornare dalla amata Liane (ma che perderà la vita pochi giorni prima della liberazione).
Nonostante tutte le sofferenze patite, Magliano non ha parole di odio o che incitano all’odio nei confronti dei suoi aguzzini: è sufficiente leggere le sue pagine per capire da che parte stesse il Bene e dove albergasse il Male.
Dopo, in vita, non ha più scritto altri libri. Una seconda pubblicazione, alla quale stava lavorando, ‘La cava di pietra’ è uscita postuma a cura dell’Associazione Culturale Piemontese per l’impegno di Luciano Sartori che di Terenzio Magliano fu amico.
‘La cava di pietra’ è quella scala che portava al campo che i prigionieri dovevano salire recando spesso pesi inumani sulla spalle, in balia dei loro aguzzini. E molti di loro persero la vita.
In conclusione ‘Mauthausen cimitero senza croci’ è un testo che merita di essere riscoperto, in quanto contributo alla verità storica di quel tragico periodo.
Sarebbe auspicabile che venga fatto conoscere anche nelle scuole a beneficio delle nuove generazioni: il suo stile lineare e la sua drammaticità non hanno niente di meno di altri testi di autori più conosciuti.
E in questo modo si renderebbe oltre tutto giustizia a uomini e donne, ed alle loro sofferenze, sulle quali la storia e gli storici non si sono soffermati ancora abbastanza.
Massimo Iaretti

3
Dopo questa lunga spiegazione si è fatta l’ora di entrare. A questo punto ci si imbatte nel celebre e scenografico scalone, definito uno dei capolavori dell’architettura europea, realizzato tra il 1718 e il 1721 per volere di Maria Giovanna Batista di Savoia-Nemours da Filippo Juvarra, (Messina, 7 marzo 1678 – Madrid, 31 gennaio 1736), architetto e scenografo italiano, uno dei principali esponenti del Barocco, che operò per lunghi anni a Torino sotto le direttive di casa Savoia.
Le ultime scoperte sono eccezionali e hanno messo al lavoro interi team di specialisti giunti anche dall’estero. Dal mare e dai campi di battaglia della storica Terra Santa dove cristiani e e musulmani si combatterono con ferocia continuano ad affiorare importanti reperti come resti di scheletri, frecce, utensili, monete e spade, come quella riemersa nello scorso autunno al largo di Haifa in Israele. Scrivevamo allora, con tanta immaginazione e non poco entusiasmo, che poteva trattarsi della spada di Corrado, il celebre marchese del Monferrato, uno dei protagonisti più illustri di tutta la storia delle Crociate nonché il piemontese che sconfisse in battaglia nientemeno che il Saladino. Ebbene, dopo lunghe e meticolose analisi, il Dipartimento israeliano per le Antichità è giunto alla conclusione che si tratta di un’arma assai rara poiché finora le spade ritrovate risalenti a quell’epoca sono pochissime. Quest’ultima, rinvenuta nelle acque di Haifa, è sicuramente appartenuta a un cavaliere crociato del XII secolo. Quale cavaliere non si saprà mai anche se il prode Corrado è passato proprio da quelle parti. Giaceva sul fondale da secoli, coperta dalla sabbia e incrostata da organismi marini. Con la lama lunga circa un metro, quasi del tutto intatta, la spada si presenta in ottime condizioni, impugnatura compresa. Se ci spostiamo all’interno di Israele, a nord del lago di Tiberiade o Mar di Galilea, incontriamo il Guado di Giacobbe che alla fine di agosto del 1179 fu teatro di uno scontro armato tra l’esercito crociato del regno di Gerusalemme e l’armata musulmana comandata dal Saladino che vinse la battaglia. Il condottiero curdo attaccò il castello al Guado di Giacobbe (Vadum Jacob), che sorgeva sul Giordano nell’alta Galilea, fatto costruire da Baldovino IV, re di Gerusalemme, e dai Templari, e dopo un assedio di cinque giorni lo conquistò. I difensori cristiani vennero tutti uccisi e il castello fu distrutto. Della fortezza, nell’odierna Ateret, rimane solo il muro perimetrale: le rovine che vediamo sono lì da più di otto secoli, nelle stesse condizioni lasciate il giorno della caduta del castello nelle mani delle truppe di Saladino, il 30 agosto 1179. I resti di molti crociati caduti per difendere il castello sono venuti alla luce insieme a ossa di cavalli e pezzi di frecce e lance. Secondo le analisi condotte da due gruppi di studiosi inglesi e israeliani si trattava proprio di una guarnigione di crociati. Ma non è l’unico ritrovamento crociato che ha fatto scalpitare gli archeologi. Nei pressi di Zippori, città israeliana nella Galilea centrale, lungo la strada che conduce a Tiberiade, sono stati trovati i resti di un probabile accampamento crociato. Qui sono riemersi, durante gli scavi per realizzare un’autostrada, scheletri, monete, frecce e oggetti personali. Secondo il Dipartimento israeliano per le antichità, a Zippori, l’antica Seforia con le sue preziose sorgenti, c’era un campo militare con una fortezza crociata, oggi restaurata, che fu abbandonata nel luglio 1187 appena il Saladino assediò e conquistò Tiberiade, poco prima del trionfo musulmano ad Hattin. I crociati si accamparono a Seforia perché c’era acqua in abbondanza e buoni pascoli per i cavalli. Partirono da lì per la decisiva battaglia di Hattin dove furono sconfitti dall’esercito del Saladino che poco dopo si impadronì di Gerusalemme. Anche nel vicino Libano non mancano ritrovamenti di notevole valore storico. Un’equipe di archeologi impegnati in scavi attorno al Castello del Mare a Sidone, roccaforte dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme e in seguito dei Templari, hanno rinvenuto cumuli di ossa, non di civili ma di soldati, gettate in alcune fosse comuni insieme a frecce in lega di rame, monete d’argento risalenti a Federico II di Svevia, anelli, fibbie di cintura e altri oggetti. Anche questo recupero, come quelli al Guado di Giacobbe e a Zippori, riporta alla luce uno dei tanti massacri compiuti al tempo delle crociate. Filippo Re
Per quanto riguarda le infrastrutture, sono ripresi i lavori della variante di Borgaretto che consentirà di collegare, entro la fine del 2022, la SP 174 a Borgaretto, dalla rotatoria Palmero, con la SP 143 a Tetti Valfrè nel comune di Orbassano. Saranno completati i percorsi ciclabili che partono da Vinovo, Orbassano e parco Sangone, fino al polmone verde di Stupinigi, grazie al bando Next Generation We – Competenze, strategie, sviluppo delle pubbliche amministrazioni, promosso dalla Fondazione Compagnia di San Paolo. In programma anche il progetto di prolungamento della linea 4 dal fondo di corso Unione Sovietica ai poderi settecenteschi che fanno da preludio alla Palazzina. La progettazione preliminare dell’opera sarà realizzata con i fondi del PUMS – Piano Urbano della Mobilità Sostenibile, ottenuti dalla Città Metropolitana di Torino.
Circa settant’anni di storia del disegno italiano, la scelta di ventisei capolavori (ri)sorti come per incanto dai depositi della Biblioteca Reale e presentati oggi in un elegante allestimento, disegni che testimoniano studi o preamboli di maggiori tele o affreschi, un percorso in terra umbra e romana, sotto i papati di Giulio II e Clemente VII, ponendo al centro la figura somma di Raffaello, tra l’apprendimento da parte di un maestro che fu Pietro Vannucci detto il Perugino, e i tanti allievi di cui si circondò nella piena maturità e che seppero affermare e rinfoltire un ambiente ricco di fervente clima artistico. “Nel segno di Raffaello” è il risultato di un progetto nato nel 2020, in occasione del 500mo anniversario della morte del pittore (era nato a Urbino nel 1483, morì a Roma appena trentasettenne per cause mai del tutto chiarite), con l’intento di selezionare, studiare e catalogare un vasto gruppo di opere che con la fine della mostra (si protrarrà sino al 17 luglio) torneranno negli archivi per maggiore salvaguardia: il lavoro, realizzato in partnership con Intesa Sanpaolo – Gallerie d’Italia, è stato affidato alla competenza di Angelamaria Aceto, ricercatrice presso l’Ashmolean Museum di Oxford, Istituto che conserva la più importante raccolta di disegni di Raffaello al mondo.
Un percorso suddiviso in tre sezioni. Nella prima s’ammirano i disegni del Perugino (“il meglio maestro d’Italia”, ebbe a definirlo Agostino Chigi, banchiere, grande mecenate e protettore d’artisti tra i più importanti della sua epoca), cresciuto alla bottega fiorentina del Verrocchio, in compagnia di Leonardo e Sandro Botticelli e Domenico Ghirlandaio tra gli altri, che trasmette al giovane e talentuoso Sanzio con il valore della pratica disegnativa lo stile classico e rigoroso, l’equilibrio e lo studio matematico delle proporzioni e della prospettiva. Al Perugino, in occasione della mostra, è stato restituito il “Giovane che suona il liuto e particolari dello studio delle sue mani” (1490-1500 circa), sinora accostato al nome di Raffaello, un pregevole disegno a punta metallica ripreso dal vero, il cui personaggio è con tutta probabilità uno dei tanti garzoni della bottega preso a modello. “L’artista si avvale di una tecnica arcaica – è sottolineato nella presentazione del disegno -, di difficile utilizzo perché non ammette ripensamenti dal momento che il tratto lasciato dallo stilo metallico sulla carta preparata, rosa, non è cancellabile. Il disegnatore abbozza prima la figura con rapidi tratti per poi, con passaggi successivi dello stilo, dare forma plastica al soggetto rappresentato, utilizzando anche inchiostro acquerellato e tocchi di biacca per accentuarne il rilievo scultoreo.” Ancora di Perugino (o di bottega) in mostra “Due uomini in conversazione” (1480 circa), una probabile prova avvicinabile alle due simili figure che fanno parte del “Battesimo di Gesù” della Cappella Sistina.
figura di Giulio Romano, capace di prendere in mano molte di quelle commissioni (si veda tra gli altri il “Matrimonio mistico di Santa Caterina con Santi”, 1530-1536 circa, prezioso insieme con al centro il Bambino, poggiato alle ginocchia della Madre, mentre offre alla santa, che ha ai piedi la ruota spezzata simbolo del proprio martirio, un anello nuziale, a testimoniare castità e comunione con Dio); ma non si possono dimenticare i nomi già affermati di Polidoro da Caravaggio, Perino del Vaga (per lo storico Giuliano Briganti egli si differenzia “dai colleghi della cerchia raffaellesca per una fantasia più accesa, per un fare più estroso e bizzarro, per quel suo stile corsivo, deformato entro moduli di un’esasperata eleganza che ben presto si allontana dal raffaellismo più statico e classicheggiante”) e Baldassarre Peruzzi e quelli di personaggi un po’ meno noti ma comunque interessanti come Vincenzo Tamagni.
(con lui, Biagio Pupini, Polidoro da Caravaggio, Baccio Bandinelli), ventenne dalla smoderata ed irruente voglia di apprendere e far proprio il lascito di un artista che ha davvero segnato un’epoca. Una nuova concezione, l’impostazione della scena al di fuori di canoni prestabiliti, la si nota nella ”Sacra Famiglia con San Giovannino” (1530-1540 circa), penna e inchiostro bruno e nero su carta, un tema riproposto spesso dagli artisti nel corso del Rinascimento, qui visto in una nuova luce ed in un ordine gerarchico forse mai affrontato: il ruolo primario viene offerto alla figura di san Giuseppe, con accanto san Giovannino, mentre la Vergine, in posizione che potremmo definire subalterna, il viso posato con languore sul dorso della mano, li osserva: il Bambino, centrale ma pure per una volta comprimario, le gambe incrociate, si volta con uno scatto della testa all’indietro. Un momento di autentica quanto semplice umanità, cui forse Raffaello, con l’affrontare in maniera più incisiva l’elemento di maestosa e sovrana religiosità, non aveva mostrato appieno.