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Il Museo Nazionale della Montagna di Torino festeggia 150 anni

Dalla digitalizzazione dell’esperienza di visita alla nuova esposizione permanente sul K2, il Museo racconta le terre alte attraverso i linguaggi contemporanei

Tra le prime sedi del Club Alpino Italiano, il Museomontagna annuncia il nuovo calendario di attività 2024. Tra le linee guida: innovazione, inclusione, ecologia e trasformazione digitale

Sono trascorsi 150 anni da quando nel 1874 fu inaugurata al Monte dei Cappuccini di Torino la Vedetta Alpina, un’edicola dotata di cannocchiale attraverso cui osservare 450 chilometri dell’arco alpino. Nel 2024 il Museo Nazionale della Montagna di Torino festeggia il suo centocinquantenario con un ricco palinsesto multidisciplinare incentrato sul tema del cammino: una pratica di conoscenza, apertura e immersione nell’ambiente, ma anche metafora dei traguardi che ha raggiunto e raggiungerà l’istituzione, esplorando i grandi temi della contemporaneità.

 

Tra le linee guida che hanno ispirato il calendario 2024 del Museomontagna – nonché l’ultimo quinquennio sotto la guida della direttrice Daniela Berta – figura la trasformazione digitale, con la realizzazione dei nuovi contenuti multimediali per la visita della collezione permanente. Il progetto, realizzato grazie al contributo della Fondazione Compagnia di San Paolo, prevede la creazione di un racconto articolato in dieci temi di approfondimento rispetto alle collezioni esposte nei due piani del Museo, una nuova narrazione video-interattiva fruibile sia in presenza che da remoto. Parallelamente sarà condotta una nuova campagna di digitalizzazione e schedatura della Fototeca del Centro Documentazione del Museo, per una migliore conservazione dei materiali, agevolare le attività di ricerca necessarie ai progetti di valorizzazione e consentire la fruizione anche online.

 

La volontà di rinnovamento del Museo porterà a marzo 2024 all’inaugurazione di una nuova sezione permanente dedicata al K2, in occasione del 70° anniversario della spedizione italiana che per prima ne raggiunse la vetta nel 1954, patrocinata dal Club Alpino Italiano e dal Ministero della Difesa, e i cui archivi sono conservati dal Centro Documentazione del Museo.

 

Il tema della sostenibilità ambientale rimane fondamentale, in coerenza con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU e con il Programma Sostenibilità avviato nel 2018 dal Museomontagna, in particolare attraverso il progetto Stay with Me e la mostra A Walking Mountain, che inaugurerà durante la Torino Art Week 2024. Si tratta di un progetto espositivo che, mediante il dialogo tra le ricerche di artisti contemporanei italiani e internazionali e le collezioni storiche del Museomontagna, propone una panoramica sulla pratica del cammino in montagna e della Walking Art.

 

Il Museomontagna si afferma come punto di riferimento nello scenario globale legato alla cultura delle terre alte e ospiterà lunedì 6 maggio al Monte dei Cappuccini le assemblee annuali delle due associazioni di settore che qui hanno sede e coordinamento: l’IAMF – International Alliance for Mountain Film e l’IMMA – International Mountain Museums Alliance.

 

Iniziative per la didattica inserite in programmi ad hoc hanno infine come obiettivo avvicinare i giovani al Museo, il tutto sviluppando progetti interdisciplinari sinergie con altri interlocutori e aprendo il museo a differenti mondi e linguaggi.

 

 

«Sarà un anno speciale per il Museo Nazionale della Montagna di Torino» affermano il presidente Mario Montalcini e la direttrice Daniela Berta. «Siamo fieri di presentare un calendario ricco di novità e iniziative per rendere la nostra istituzione in grado di affrontare i grandi temi dell’attualità attraverso linguaggi contemporanei ed eredità storiche inestimabili».

 

 

Di seguito le principali mostre del Museomontagna nel 2024:

 

Le ossa della terra. Primo Levi e la montagna

Dal 26.01 al 13.10.2024

La mostra viene presentata in occasione del Giorno della Memoria 2024, in collaborazione con il Centro Studi Primo Levi, ed è dedicata alla figura di Primo Levi e al suo rapporto con le terre alte. Il percorso espositivo è articolato attorno alle parole del protagonista, a fotografie storicheoggetti, documenti ed estratti video provenienti da archivi pubblici e privati, oltre che dai familiari dello scrittore e dal Centro Documentazione del Museo.

 

Stay with Me. A Whole Growing Exhibition

Fino al 31.03.2024

Un programma in divenire attorno alla mostra Stay with Me, incentrata sul tema del cammino analizzato da una prospettiva ampia con una serie di appuntamenti come panel, workshop ed eventi artistici che coinvolgono figure creative attive a livello locale, italiano e internazionale e istituzioni storiche come l’Accademia Albertina di Belle Arti.

 

K2. Nuova esposizione permanente nel 70° anniversario della spedizione italiana

Da marzo 2024

Una nuova Esposizione Permanente dedicata al K2, la seconda montagna più alta del mondo, allestita con documenti, fotografie, video, attrezzature e abbigliamento originali, di storica o recente acquisizione, a celebrare la seconda montagna più alta al mondo, ma la più impegnativa per difficoltà tecniche e pericolosità, e una grande storia italiana del Dopoguerra.

 

Alberto di Fabio. Montagne primordiali

Da aprile a ottobre 2024

Alberto Di Fabio celebra la montagna come luogo fisico e mentale mediante una raffigurazione unica. La mostra − la prima che un’istituzione italiana dedica alla produzione degli anni Novanta − presenta una selezione di opere pittoriche e su carta, alcune delle quali mai esposte.

 

Mali Weil

Dopo la mostra The Mountain of Advanced Dreams del 2023, il collettivo Mali Weil torna al Museomontagna con un progetto artistico inedito. Gli artisti danno forma a un palinsesto di azioni diffuse nel tempo e nello spazio incentrate sulla creazione di un linguaggio speculativo per comunicare la sostenibilità ambientale.

 

A Walking Mountain

Dal 29.10.2024 al 30.04.2025

A Walking Mountain è la mostra di chiusura del percorso iniziato con Stay with Me nel 2023: un progetto di ricerca ed espositivo che, mediante il dialogo tra i lavori di artisti contemporanei e le collezioni storiche del Museomontagna, propone una panoramica sulla pratica del cammino in montagna e della Walking Art.

 

Ad arricchire il calendario, installazioni temporanee open air sulla Terrazza panoramica, una ricca offerta di attività educational, collaborazioni e scambi con altri enti del territorio e internazionali, rassegne letterarie con la Biblioteca Nazionale CAI e almeno due mostre ideate e prodotte dal Museo e presentate in altre sedi: Rock The Mountain! La montagna nell’iconografia della musica pop presso la Casa Alpina di Ceresole Reale e The Mountain Touch al MUSE – Museo delle Scienze di Trento.

Ville, palazzi e castelli di Cereseto dal medioevo al conte Gualino

 

L’esistenza del feudo di antica origine, considerato una piccola isola autonoma soggetta alla giurisdizione di Vercelli, non era concepibile nell’epoca in cui le fortune aleramiche erano in auge in Monferrato e venne assorbito dalle dinastie del marchesato. Sorto, come opposizione al potere dei nobili, Cereseto acquistò una personale fisionomia solo nel 1358 con la pubblicazione degli statuti e la costituzione dei consorzi famigliari che tutelavano sia i feudatari che i sudditi. Nei parlamenti di Moncalvo del 1388 e di Pontestura del 1432 furono trattate le questioni commerciali, i tributi, la libertà personale, le milizie, la polizia interna, il diritto personale civile e il foro ecclesiastico dei comuni. Il gettito tributario del comune signorile di Cereseto era superiore di quattro volte il gettito dei comuni maggiori e di quindici volte quello dei comuni minori. Il consorzio si manifestò con la costruzione della torre e della loggia comune, simbolo di prestigio e potere. L’abitato si era spostato dalla collina di San Cassiano sull’attuale colle nel XVI° secolo e la antica pieve venne unita ai benefici della vecchia parrocchiale di San Pietro, situata accanto all’antico castello in stato cagionevole e rovinato del tutto già alla fine del XVII° secolo. Il feudo di Cereseto fu investito dal duca Vincenzo I° Gonzaga al marchese Germanico Savorgnan, celebre ingegnere militare e architetto veneziano quale ricompensa per la progettazione della Cittadella di Casale.
Dal 1693 al 1700 il feudo era proprietà del marchese Giacomo Bartolomeo Gozzani di Treville, vice presidente del Senato monferrino, succeduto al marchese Mario Germanico Savorgnan pronipote del famoso ingegnere, difeso nella disputa dal conte Cesaro Antonio Ardizzoni. Il marchese Gozzani era difeso dal causidico Francesco Lodovico Perracino, podestà del castello di Pontestura e padre di Brigida, moglie del cugino Bernardino Gozzano ultimo proprietario della casa Gozzano di Luzzogno abitanti nella villa Monromeo di Serralunga di Crea, antica casa dei discendenti del condottiero Facino Cane. Nella lista dei beni feudali sono elencati: un molino nella contrada Collobrio, la cascina Merli e la contrada Tavolara proprietà del castello con i terreni sopra le fini di Ozzano e Pontestura, le masserie delle Sturelle e Buffalora, i beni della pieve di San Cassiano, il palazzo del castello con le sue fosse, l’osteria e le case adiacenti.
Il palazzo esistente tra la chiesa e l’antico castello era sede dei diciotto notai di Cereseto dell’epoca e di Giacomo Meda, notaio e castellano, ormai con poche stanze abitabili già nel 1711. La linea dei Savorgnan si estinse nel 1726 con la morte di Francesco e il feudo, devoluto alle finanze, venne acquistato dal primo marchese di Cereseto e secondo conte di Piová Massaia Francesco Antonio Ricci nel 1728. Governatore di Casale, comandante della polizia urbana e mercante di tela, non riuscì ad elevare a marchesato la contea di Piová. Sposato con Maria Maddalena Callori, era figlio del podestà Fabio Federico, primo conte di Piová e cognato del conte Antonino Gozzani di San Giorgio. Il secondo marchese di Cereseto e terzo conte di Piová Fabio Federico Ettore Ricci, sposato in seconde nozze con Giulia del Carretto, decurione e provveditore di Casale, edificò la villa Ricci sui ruderi dell’antico castello di Cereseto e il palazzo di Piová.
Il quarto marchese di Cereseto e quinto conte di Piová Giuseppe Ricci, sposato con la contessa Teresa Visconti figlia del conte Emanuele Luigi e di Giuseppina Gozzani di San Giorgio, vendette la villa barocca e i beni di famiglia del feudo di Cereseto ereditati dallo zio Vincenzo Stanislao, terzo marchese di Cereseto e quarto conte di Piová, al conte savoiardo di Caraz e Castelgrana Giovanni De Maistre, figlio del conte Luigi e di Giuseppina Sannazzaro di Giarole. Giovanni dilapidò il patrimonio al gioco e vendette la
villa Ricci e il castello di Motta dei Conti, poi riscattati dalla moglie Giuseppina. La elegante villa di Cereseto con giardino all’inglese passò in eredità al genero Giuseppe Lovera dei marchesi di Marie (contea savoiarda di Nizza) e alla figlia Giulia De Maistre, venduta nel 1908 dal loro figlio Giacinto all’industriale e mecenate conte Riccardo Gualino. La villa Ricci fu alienata per costruire l’attuale maniero neogotico per l’ambiziosa moglie e cugina Cesarina Gurgo Salice su progetto del casalese ing. Vittorio Tornielli. La splendida dimora fu inaugurata nel 1912 in occasione del loro quinto anniversario di matrimonio e gli invitati indossarono abiti medioevali per essere in accostamento allo stile del castello.
Nei primi anni del ‘900, Cesarina frequentò il collegio femminile gestito dalle Filles de la  Sagesse, congregazione di monache monfortiane provenienti dalla Vandea fondata da San Luigi Grignon da Montfort nel 1703 (Alta Provenza) che migrarono in Italia e nel mondo dopo che la Francia aveva messo al bando gli istituti religiosi, istituto che si era trasferito da Casale al castello di San Giorgio proprietà del conte Giuseppe Cavalli d’Olivola, figlio di Alessandro e della contessa Paolina Gozzani. Nel teatro del castello di Cereseto il maestro Alfredo Casella diresse un concerto dedicato a Igor Stravinskij e nel circolo culturale dei coniugi Gualino entrarono grandi personaggi: Emma Gramatica, Jacques Dalcrole di Ginevra padre della danza moderna, Pietro Canonica scultore di Moncalieri, Carlo Levi, Luigi Pirandello, Benedetto Croce, Amedeo Nazzari, Leonardo Bistolfi, Felice Casorati e la moglie Daphne Maugham, Sibilla Aleramo, Rajssa Gourevitch (che sposerà nel 1927 Giorgio De Chirico) e Richard Strauss. La collezione della musa Cesarina, stregata da Lionello Venturi storico e figlio del critico d’arte Adolfo, fu valutata in 250 milioni di lire nel 1931, compresi i sette Modigliani acquistati a Parigi nel 1921 e parte delle opere furono destinate alla Galleria Sabauda.
Oltre al castello, i coniugi Gualino lasciarono come unica testimonianza la lapide in bronzo del Canonica posta alla base del maniero, altorilievo neogotico destinato al monumento dello zar Nicola II° a San Pietroburgo, acquistato dal Gualino dopo la rivoluzione bolscevica. Però la grande notorietà fu il seme della loro rovina. La crisi americana del 1929 coincise con il tracollo finanziario del Gualino ed ebbe inizio la decadenza del castello, messo all’asta dalle Finanze nel 1933 unitamente alla tenuta Gambarello dei marchesi Ricci. Gualino fu incarcerato in Francia e a Torino ed in seguito confinato per cinque anni a Lipari nel 1931, rappresentando l’opposizione liberale alla dittatura mussoliniana. Dopo l’avvento dei diversi proprietari, l’immagine dei castello fu deteriorata nel 1980 da una gang di malviventi nota come French Connection che produceva eroina fornendosi di oppio e morfina dal Medio Oriente, segnando il culmine della decadenza del maniero.
Armano Luigi Gozzano 

In anteprima al cinema Massimo il documentario “Le valigie della storia”

Di Marina Piperno e Luigi Monardo Faccini

 

Il Museo Nazionale del Cinema di Torino, nell’ambito degli eventi che ricordano le vittime della Shoah, accoglie un’iniziativa a cura dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, in collaborazione con la comunità ebraica di Torino e il gruppo studi ebraici di Torino.

Domenica 28 gennaio, alle ore 18:00, presso la sala 3 del cinema Massimo, verrà proiettato “Le valigie della storia”, il docufilm inedito realizzato nel 2023 da Marina Piperno e Luigi Monardo Faccini, che racconta il commovente viaggio nella memoria storica di Marina, cominciato con il ritrovamento di alcune bobine Pathé girate dal 1931 al 1946 nell’immenso archivio personale del padre della regista. Salvaguardare le pellicole è la sfida e il pretesto per restituire la biografia di una carriera che affonda le radici nella lotta all’antisemitismo. Lo sguardo di Marina ripercorre il Novecento, secolo che l’ha vista protagonista, testimone, narratrice e attrice dall’infanzia nella comunità ebraica romana fino alle persecuzioni razziali del 1938 e alla clandestinità durante la guerra, per approdare alla vocazione di cineasta e produttrice coraggiosa, riconosciuta a livello nazionale e internazionale fin dagli esordi.

“Questo film nasce da due leve che da sempre ci hanno guidato nella nostra ricerca storica e antropologica – afferma Marina Piperno – la prima consistente nella convinzione che sia fondamentale raccogliere la memoria dell’accaduto, ma soprattutto versandola nella storia che l’aveva causata; la seconda consistente nella ricerca della documentazione fotografica che consente di afferrare gli avvenimenti del passato studiando in maniera accanita fino ai dettagli infinitesimi della lente di ingrandimento”.

La proiezione sarà preceduta dalla presentazione del libro della regista “Eppure qualcosa ho visto sotto il sole”. Marina Piperno e Luigi Monardo Faccini dialogheranno con Giovanni De Luna e Silvio Alovisio.

 

Museo Nazionale del Cinema, via Montebello 22, Torino

Telefono: 011 8138509

 

Mara Martellotta

27 gennaio, l’indelebile memoria della Shoah

Con vibranti parole il presidente Mattarella celebrò lo scorso anno il Giorno della memoria. “Mai più!” scandì il capo dello Stato nel salone del Quirinale con alle spalle la foto dei bambini aggrappati al filo spinato di Auschwitz.

Una denuncia forte di fronte al diffuso riemergere dell’antisemitismo, dell’intolleranza, del razzismo e del negazionismo. Disse Mattarella: “Mai più a uno Stato che calpesta libertà e diritti. Mai più a una società che discrimina, divide, isola e perseguita. Mai più a una cultura o a una ideologia che inneggia alla superiorità razziale, all’intolleranza, al fanatismo “. Potremmo aggiungere, senza pericolo di smentita, come italiani: mai più fascismo. Quest’anno il giorno dell’abbattimento dei cancelli del lager di Auschwitz, ricordando la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia e la morte nei campi di sterminio nazisti sterminio, verrà celebrato per la seconda volta con un governo di destra al potere. Tira una brutta aria nel paese. L’estrema destra italiana ha varcato la soglia delle istituzioni senza davvero fare i conti con il passato. Un grumo di silenzi, omissioni, frasi apparentemente isolate come quelle sulla banda musicale di semi-pensionati di via Rasella, le braccia tese nei saluti romani di Acca Larentia, le aggressioni verbali e un linguaggio sempre più violento sui social.  Un clima che, in tempo segnato dai conflitti tra l’est europeo e il medio oriente, dalle stragi di innocenti e dai venti di guerra che soffiano impetuosi ai quattro angoli del globo, si avvelena ogni giorno di più. Oltretutto persiste, e si rafforza, il tentativo sistematico di delegittimare la Resistenza, per erodere le basi storiche, morali, culturali e politiche della repubblica. Con frasi provocatorie, volute mistificazioni e manipolazioni della verità storica si crea un contesto che porta diritto a un negazionismo subdolo, insidioso. I dirigenti della destra dovrebbero dire con molta semplicità: si è democratici perché si è antifascisti. Altrimenti sembra continuamente che ci sia da parte loro una specie di ignavia, di equidistanza tra fascismo e antifascismo. Va bene affermare che “il fascismo è stato archiviato e consegnato alla storia” ma questo non può esimere dal dare un giudizio storico e politico. Non è un tema accademico, ma di assoluta attualità, perché presuppone la visione del mondo e della società che si ha. E guardando alle politiche concrete che la destra propone è palese la visione che ne ispira le azioni e i progetti. Tornando a Mattarella non è casuale il suo insistere sul valore della memoria senza concedere spazi a tentazioni di assurde equiparazioni o pacificazioni. Mattarella, nei suoi vari interventi, ha esaltato i giusti che salvarono gli ebrei ricordando però che ci fu anche chi invece consegnò per denaro gli ebrei ai nazifascisti. La Repubblica di Salò, sorta dopo l’8 settembre, era nei fatti alleata e complice dell’occupante nazista e, come più volte sottolineato dal Presidente della Repubblica, non si possono “dimenticare le sofferenze patite dai nostri militari, internati nei campi di prigionia tedesca, dopo il rifiuto di passare nelle file della Repubblica di Salò”. O quel novembre 1938, quando entrò in vigore il decreto legge numero 1728 voluto dal fascismo: le famigerate leggi razziali. Una storia dolorosa che ha dei padri politici perché la storia non è neutra. Mattarella citò Bertolt Brecht: “Non incolpare il destino, o donna! Le potenze oscure che ti dilaniano hanno un nome, un indirizzo, un volto “. Parole chiarissime, indelebili, scolpite nel tempo. Ricordare e trasmettere la memoria è un impegno arduo, difficile quanto indispensabile. Particolarmente oggi, in una società che vive un perenne presente ed è dominata dalla velocità. Non bastano le parole tradizionali, le vecchie modalità di comunicare questi valori, la ripetitività e l’ossificazione di gesti rituali. Il rischio è che momenti così importanti non trovino risposte efficaci quando ci si trova di fronte al difficile compito di raccontare ai giovani e ai giovanissimi questa parte della storia, questo passato spesso percepito come distante, poco decifrabile. Qui è la sfida di un’intera comunità democratica che deve assumersi il carico di trasmettere la memoria, realtà indispensabile per orientarsi e compiere scelte decisive per l’oggi. Chi ha pubbliche responsabilità deve assumersi seriamente quest’onere ricordando che democrazia, libertà, antifascismo sono i valori fondanti della repubblica e appartengono non ad alcuni, ma a tutti gli italiani.

Marco Travaglini

Il Museo delle Ferrovie dello Stato a Porta Nuova

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Apertura straordinaria, domani, sabato 27 gennaio 2024, dalle ore 9.30 alle 12.30 e dalle ore 14 alle 17.30, nei locali che si affacciano sul binario numero 20, a fine pensilina, della stazione di Porta Nuova, del Museo Ferroviario di Torino P.N.

 

Un museo dedicato all’ingegnere Riccardo Bianchi, il primo direttore generale delle Ferrovie dello Stato nel 1905, quando Giolitti realizzò l’unificazione delle varie reti private trasformandole in un unico soggetto pubblico.

Dedicato all’oggettistica per la circolazione dei treni, la tariffazione dei biglietti e tante altre curiosità tutte da scoprire custodisce anche alcuni rari e preziosi progetti riguardanti le linee d’oltre Oceano ed una biblioteca che annovera testi storici e libri specifici dell’Ottocento e del Novecento che descrivono mezzi, tragitti, stazioni e linee ferroviarie. Sabato ed anche domenica 28, in via Sacchi 63, al primo piano del DopoLavoro Ferroviario è inoltre possibile visitare il grande plastico con 20 treni e ben 260 metri di binari in miniatura.

Igino Macagno

Anche i Testimoni di Geova furono tra i perseguitati dal nazismo

Riceviamo e pubblichiamo – Il 27 gennaio 2024 ricorre il Giorno della Memoria, che commemora le vittime dell’Olocausto. La data scelta corrisponde all’anniversario della liberazione di Auschwitz-Birkenau, il più grande campo di concentramento e sterminio nazista.

Il Giorno della Memoria è stato istituito per informare il pubblico sull’Olocausto e commemorare ufficialmente tutte le vittime del regime nazista. Tra queste si contano 6 milioni di ebrei e milioni di altre persone, tra cui polacchi, slavi, rom e sinti, omosessuali e persone con disabilità.

Un altro gruppo che è stato vittima di persecuzione sono i Testimoni di Geova.

Il professor Detlef Garbe, ex direttore del Memoriale del campo di concentramento di Neuengamme, ha spiegato: “I testimoni di Geova, che nel Terzo Reich subirono un’implacabile persecuzione, sono tra le cosiddette vittime dimenticate del regime nazista. Per decenni sono stati ignorati […] nonostante il fatto che un considerevole numero di testimoni di Geova subì persecuzione e morte”.

I Testimoni furono oppressi perché si rifiutarono di imbracciare le armi o di conformarsi all’ideologia nazista dell’odio.

I testimoni di Geova erano l’unico gruppo cristiano sotto il Terzo Reich a essere contrassegnato da un simbolo specifico per i prigionieri: il triangolo viola. Erano perseguitati solo sulla base delle loro convinzioni religiose”, dice Daniele Clementi, portavoce dei Testimoni di Geova. “I nazisti offrirono loro la libertà se avessero rinunciato alla loro fede e avessero sostenuto il regime. Eppure hanno avuto il coraggio di attenersi ai valori cristiani: la lealtà a Dio e l’amore per il prossimo”.

Alcune statistiche sulla persecuzione dei Testimoni di Geova sotto il regime nazista:

  • Dei circa 35.000 Testimoni che si trovavano nell’Europa occupata, circa 13.400 furono vittime della persecuzione nazista.

  • Circa 11.300 persone furono arrestate.

  • Circa 4.200 furono mandati nei campi di concentramento.

  • Più di 1.250 testimoni di Geova vittime della persecuzione nazista erano minorenni.

  • Circa 600 figli di testimoni di Geova furono sottratti ai loro genitori dal governo nazista.

  • Almeno 72 testimoni di Geova furono uccisi con l’eutanasia.

  • Almeno 548 Testimoni, alcuni dei quali minorenni, morirono per esecuzione o omicidio volontario.

  • In totale circa 1.600 Testimoni persero la vita a causa della persecuzione nazista.

  • Si stima che circa 6.000 Testimoni fossero detenuti in prigioni o campi di concentramento durante il periodo dell’Olocausto.

Per saperne di più sui Testimoni di Geova, visitate jw.org. Tutti i contenuti sono gratuiti e non è richiesta alcuna registrazione.

Sei opere settecentesche di Pietro Domenico Olivero approdano al Duomo di Torino

Presso il Duomo di Torino, giovedì 25 gennaio, verranno presentate sei opere settecentesche di Pietro Domenico Olivero, frutto di un restauro, la cui mostra inaugurerà domenica 28 gennaio prossimo nella sede del Duomo di Torino. Si tratta di sei oli su tela che sono parte dell’arredo della Chiesa di San Tommaso e che verranno straordinariamente esposte in Duomo fino all’11 febbraio prossimo.

Pittore di corte dei Savoia, Pietro Domenico Olivero (Torino, 1 agosto 1679 – Torino, 13 gennaio 1755) è stato anche oggetto di una mostra a Moncalvo. Per comprenderne appieno l’arte è necessario considerare lo scenario storico, politico e sociale del tempo in cui visse. All’ombra delle vicissitudini del Marchesato del Monferrato, passate attraverso l’esaurirsi della dinastia dei Gonzaga, l’amicizia e inimicizia tra Monferrato e Spagna, le guerre e l’avvento dei Savoia, in quegli anni vi fu un grande risveglio culturale di cui Olivero fu attento indagatore della realtà, “che sapeva trasfigurare in modo poetico”, ha citato il critico d’arte Alberto Cottino, paragonandolo per certi aspetti al Lissandrino.

“Gli schizzi poetici più importanti di questo artista sono quelli che riproducono le madri con i propri figli, i poveri e il mondo dei vinti, una realtà che Pietro Domenico Olivero riproduceva con grande dignità”.

 

Mara Martellotta

A Palazzo Madama un pomeriggio dedicato ai capolavori della miniatura fiamminga

Giovedì 25 gennaio 2024

ore 15.00

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica

Sala Feste

Piazza Castello, Torino

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica propone, in collaborazione con il Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Torino, giovedì 25 gennaio alle ore 15, un pomeriggio dedicato ai capolavori della miniatura fiamminga del museo.

Dal 2020 il Museo Civico sta lavorando, in collaborazione con l’Università di Torino, alla schedatura, campagna fotografica e studio della propria collezione di codici miniati e miniature ritagliate.

La conferenza apre una finestra sul mondo fiammingo, le cui opere – caratterizzate da una descrizione lenticolare della realtà – tanto influirono sulla produzione figurativa tra Piemonte e Savoia nel XV e XVI secolo.

Le collezioni del Museo Civico d’Arte Antica di Torino comprendono diversi capolavori della miniatura degli antichi Paesi Bassi borgognoni, il più famoso dei quali è senza dubbio il manoscritto delle Ore Torino-Milano. Si prenderà quindi in considerazione la situazione degli studi dopo la pubblicazione del facsimile nel 1996 e l’imponente commento scritto per l’occasione da Anne H. Van Buren. Mentre fino a quel momento sembrava esserci un sostanziale consenso a favore dell’identificazione della mano G come quella di Jan van Eyck, da allora si è cominciato a mettere in discussione questa ipotesi. Inoltre, la pubblicazione di fotografie ad alta risoluzione delle pagine miniate del manoscritto sul sito Closer to Van Eyck, ospitato dall’Institut Royal du Patrimoine Artistique (IRPA, Bruxelles), ha riacceso le discussioni tra gli specialisti. Si affronterà anche la delicata questione delle ridipinture, che distorcono la percezione delle miniature.

Un altro manoscritto affascinante è il Libro d’Ore 446/M, attribuito dagli anni Settanta al pittore e miniatore di Valenciennes Simon Marmion. L’estetica dello “spazio perduto”, con numerose pagine bianche e bordi vuoti, è tipicamente borgognona, così come l’uso della grisaille. Il manoscritto contiene stemmi parzialmente cancellati, che sono riconducibili alla famiglia dei Rolin, grandi servitori dello Stato borgognone.

Infine, si esamineranno due Libri d’Ore di fattura più modesta, realizzati a Bruges negli anni Sessanta del Quattrocento da miniatori della cerchia di Willem Vrelant.

Dominique Vanwijnsberghe ha conseguito il dottorato in storia dell’arte (Katholieke Universiteit Leuven, 1996) ed è responsabile di ricerca presso l’Institut Royal du Patrimoine artistique (IRPA, Bruxelles), dove dirige l’unità di ricerca sulla storia dell’arte e sugli inventari all’interno del dipartimento di documentazione. È stato Visiting Fellow all’Università di Princeton (1997-1998), alla Ruprecht-Karls-Universität di Heidelberg (2003-2004) e alla Section des Sources iconographiques dell’Institut de Recherche et d’Histoire des Textes (CNRS, Parigi/Orléans) (2009). Ha ottenuto l’abilitazione a dirigere la ricerca dall’Università di Lille-III nel 2011. È membro effettivo dell’Académie Royale d’Histoire de l’Art et d’Archéologie de Belgique. I suoi ambiti di specializzazione sono la pittura e la miniatura tardo-medievali nei Paesi Bassi meridionali e la ricezione dell’arte medievale nel periodo moderno.

*Didascalia foto: Miniatore fiammingo, Preghiera nell’orto di Getsemani.

Dalle Très Belles Heures de Notre-Dame de Jean de Berry, codice noto anche come Heures de Turin-Milan, 1380-1450.

Tempera e oro su pergamena, 29,5 x 21,3 cm (con la legatura). Dalla collezione Trivulzio.

Ceduto dalla Città di Milano, 1935

Ingresso libero fino a esaurimento posti

Il re “galantuomo” guarda Torino dall’alto

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Vittorio Emanuele II, nel corso del tempo, coadiuvato dal primo ministro Camillo Benso Conte di Cavour, portò a compimento il Risorgimento nazionale e il processo di unificazione italiana. Per questi avvenimenti viene indicato come “Il Padre della Patria”

Situato proprio nell’intersezione tra corso Vittorio Emanuele II e corso Galileo Ferraris, la statua che vede come protagonista re Vittorio Emanuele II, si eleva sopra un’area quadrata ad angoli smussati su cui poggia il basamento rivestito da blocchi e lastroni di granito della Balma. Tale basamento si compone di due serie di gradini la cui seconda è interrotta, in corrispondenza degli angoli, da quattro blocchi prismatici su cui sono scolpite le date a ricordo delle guerre per l’Unità d’ Italia: 1848-1859-1866-1870. Questi blocchi fungono a loro volta da sostegno alle quattro aquile in bronzo sostenenti gli stemmi sabaudi.

Sopra le due serie suddette di gradini si eleva il piedistallo sul cui attico stanno,in posizione seduta, quattro grandi statue in bronzo di figure allegoriche tra cui la Pace, la Libertà, l’Indipendenza e l’ Unità (molto dubbia la quarta figura allegorica). Le quattro statue trovano a loro volta appoggio fra i vani delle quattro colonne in stile dorico di granito rosso che sostengono, superiormente, una trabeazione completa con architrave, fregio, triglifi e cornice; sopra questa trabeazione è disteso il grande tappeto in bronzo sul quale si eleva la grande statua del Re.Vittorio Emanuele II è raffigurato in piedi e a testa scoperta: lo sguardo fiero, solenne, rivolto lontano con nella mano sinistra una spada in atto di vigorosa fermezza.

 

Primogenito di Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, e di Maria Teresa d’Asburgo-Toscana, Vittorio Emanuele II di Savoia nacque a Torino (precisamente a Palazzo Carignano) il 14 marzo 1820. Va curiosamente fatto presente che alcuni storici moderni hanno dato credito all’ipotesi, data la scarsa somiglianza con i genitori e in base ad altre vicende, che Vittorio Emanuele non fosse il vero figlio della coppia reale, bensì un bimbo d’origine popolana sostituito al vero primogenito di Carlo Alberto morto, ancora in fasce, in un incendio nella residenza del nonno a Firenze. La maggior parte degli storici invece esprime dubbi sull’autenticità della vicenda e la confina nell’ambito del pettegolezzo facendo perdere qualsiasi credibilità all’ipotesi dello scambio.

Ultimo re di Sardegna (dal 1849 al 1861) e primo re d’Italia (dal 1861 al 1878), fu anche Principe di Piemonte, Duca di Savoia e Duca di Genova.Dopo la sconfitta di Novara e l’abdicazione di Carlo Alberto, si iniziò a definire Vittorio Emanuele II il re galantuomo o re gentiluomo (appellativo con cui è ricordato ancora oggi), che animato da sentimenti patriottici e per la difesa delle libertà costituzionali si oppose fieramente alle richieste di abolire lo Statuto albertino. Nel corso del tempo, coadiuvato dal primo ministro Camillo Benso Conte di Cavour, portò a compimento il Risorgimento nazionale e il processo di unificazione italiana. Per questi avvenimenti viene indicato come “Il Padre della Patria”.

Vittorio Emanuele II morì improvvisamente, a causa di una polmonite, il 9 gennaio del 1878 all’età di cinquantasette anni. La sua morte suscitò il profondo cordoglio sia della borghesia colta e politicizzata (che aveva partecipato all’avventura risorgimentale), sia dell’esercito di cui il “Re Galantuomo” era stato il capo pragmatico e largamente amato. Con cinque guerre combattute, ventinove anni di regno e uno stato unificato alle spalle, Vittorio Emanuele II fu il simbolo aggregante del Risorgimento italiano, in un paese ancora troppo fragile per sopportare il vuoto istituzionale venutosi a creare con la sua scomparsa.

Il monumento in suo onore fu voluto direttamente da Umberto I che, per riparare alla mancata sepoltura della salma del padre nella basilica di Superga a favore del Pantheon di Roma, comunicò, in una lettera indirizzata alla cittadinanza, l’intenzione di affidare “alla religiosa devozione” dei torinesi “i segni del valore” che il Re aveva conquistato “combattendo per l’unità e l’indipendenza della patria”. Nella stessa lettera Umberto I espresse il desiderio di erigere un monumento che eternasse la memoria del Primo Re d’Italia stanziando, per tale iniziativa, la cospicua somma di un milione di lire.

Venne subito istituita una Commissione tecnica incaricata di promuovere varie iniziative tra cui stilare il Programma di Concorso per il Monumento al “primo re”; il 28 marzo del 1879 la Commissione tecnica, incaricata di esaminare i progetti presentati al concorso, decreta vincitore lo scultore Pietro Costa. Tale decisione suscitò tuttavia, numerose polemiche che si conclusero con una petizione sottoscritta da cinquantadue firme dei maggiori rappresentanti delle Accademie di Belle Arti d’Italia che appoggiarono completamente la scelta della Commissione.

Ma se in meno di diciotto mesi si chiuse l’itinerario che aveva portato alla scelta del progetto, la fase successiva, quella della costruzione, durò circa vent’anni tra disguidi, ripicche e liti che finirono in tribunale. Il 23 novembre del 1896, a quattordici anni di distanza dalla stipula del contratto, Costa scrisse al Sindaco di Torino per giustificarsi dall’accusa “d’essere pigro e negligente” oltreché fortemente in ritardo nella consegna del monumento;nonostante ciò l’artista venne condannato al risarcimento dei danni per inadempienza contrattuale.

Il 15 gennaio del 1898, finalmente la città di Torino entrò in possesso del monumento. Ultimato per le parti bronzee dall’ Officine Costruzione d’Artiglieria di Torino e dall’ ingegnere Prinetti, il monumento venne inaugurato il 9 settembre del 1899 alla presenza dei sovrani, delle autorità cittadine dei principali comuni italiani, nonché degli esponenti della politica nazionale, dell’esercito e dei veterani del 1848. Ci furono tre giorni di festeggiamenti durante i quali Torino ritornò ad essere patriottica e risorgimentale, quasi nostalgica di essere stata (un tempo) capitale d’Italia.

Per quanto riguarda il luogo di collocazione del monumento, va fatto presente che la scelta di posizionarlo nel centro del piazzale, sull’incontro del corso consacrato a Vittorio Emanuele II e corso Siccardi (oggi corso Galileo Ferraris), è stato frutto della Commissione per un ricordo storico nazionale al re “gentiluomo”. L’area circostante il monumento era, nella seconda metà dell’ottocento, una zona in espansione a tipologia residenziale, pronta a recepire gli spunti di una volontà politica che mirava ad attirare a sé il ceto dei notabili e la piccola borghesia emergente. L’operato della Commissione rientrava nell’ambito di quella politica nazionale di costruzione del mito di Vittorio Emanuele II che, facendo ricorso ad attività di propaganda e di educazione “per fare gli italiani” (come disse D’Azeglio), intervenne anche in opere di rimaneggiamento degli spazi urbani e cambiamenti della toponomastica.

Oggi, la statua del Re, sovrasta ancora i tetti delle case dei torinesi dominando con lo sguardo tutto l’arco alpino fino alla magnifica Superga. 

(Foto: il Torinese)

Simona Pili stella