“Valbum”, figurine per conoscere la storia valdese
VALBUM è uno strumento originale pensato sia per chi già conosce il patrimonio culturale valdese, sia per chi ne è incuriosito e desidera saperne di più con una formula alla portata di tutti. È composto da 60 figurine con immagini storiche, rappresentazioni di quadri e stampe, informazioni, curiosità e contenuti audio speciali raggiungibili con QR code. Pur guardando al gioco e alla leggerezza, VALBUM restituisce la storicità adeguata grazie alla collaborazione con l’Ufficio Archivio Storico e Beni Culturali della Tavola Valdese ed è l’occasione per unire divulgazione storica, narrazione per immagini e contenuti extra e aspira ad essere un ponte tra generazioni.
STORIE PIEMONTESI: a cura di CrPiemonte – Medium /
Il 2 gennaio del 1991, moriva dopo una lunga malattia Renato Rascel, nome d’arte di Renato Ranucci
di Marco Travaglini
Artista incredibilmente versatile, indimenticabile protagonista del teatro leggero italiano, nella sua lunga carriera di attore, comico, cantautore e ballerino si cimentò in moltissimi ruoli. In molti, tra i non più giovanissimi, lo ricorderanno protagonista di moltissimi spettacoli dalla rivista alla commedia musicale, dall’intrattenimento televisivo e radiofonico all’operetta e al teatro.
Non tutti sanno però che nacque “casualmente” a Torino il 27 aprile 1912, durante una tournée della compagnia di cui facevano parte i suoi genitori, il cantante di operetta Cesare Ranucci e la ballerina classica Paola Massa, artisti di opera comica che lavorarono anche con il grande Ettore Petrolini.
Il piccolo Renato passò così i primi giorni di vita in una cesta dietro le quinte dove i genitori, a turno, si prendevano cura di lui tra una scena e l’altra. Venne poi battezzato a Roma, nella basilica di San Pietro per volontà del padre “che volle confermare la sua romanità risalente a sette generazioni”.
Nascendo in una famiglia d’artisti fu normale che anche Renato sentisse il richiamo della scena e così, fin da piccolo, si ritrovò a calcare i palcoscenici di compagnie filodrammatiche e teatrali. A 10 anni entrò a far parte come soprano nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina. Grazie alla sua travolgente simpatia e a un innato talento fece tutta la trafila dalla gavetta al successo.
Suonò la batteria, ballava il tip-tap, si esibì come cantante, debuttò nel 1934 vestendo gli abiti di Sigismondo ne “Al Cavallino bianco” l’operetta più nota e popolare dopo la “Vedova Allegra”. L’esperienza lo portò a inventare un suo personaggio che lo rese riconoscibile al grande pubblico. La bassa statura e il fisico esile gli suggerirono la celebre, esilarante e surreale interpretazione del Corazziere.
Elaborò sketch e canzoni diventate pietre miliari della rivista, al fianco di attori e autori come Garinei e Giovannini. Con la sua compagnia teatrale mise in scena nel 1952 uno spettacolo — “Attanasio cavallo vanesio” — che ottenne un clamoroso successo, confermandolo tra i più amati beniamini del pubblico italiano. Un successo bissato con “Alvaro piuttosto corsaro”, “Tobia la candida spia”, “Un paio d’ali”, girando per i teatri di una Italia desiderosa di svago e divertimento.
Si cimentò nel cinema con i suoi personaggi senza tralasciare ruoli più impegnati come ne “Il cappotto” (tratto da un racconto di Gogol’) con la regia di Alberto Lattuada e “Policarpo ufficiale di scrittura”, diretto dal torinese Mario Soldati. Rascel fu anche protagonista di una grande e commovente interpretazione nei panni del mendicante cieco Bartimeo nel “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli.
Rascel scrisse anche molte canzoni, alcune delle quali riscossero un successo che varcò i confini nazionali entrando a far parte del nostro repertorio popolare come “Arrivederci Roma”, “Romantica” ( con la quale trionfò al Festival di Sanremo nel 1960), “Te voglio bene tanto tanto”, “E’ arrivata la bufera”. I ragazzini della mia generazione lo ricordano in televisione con la veste talare del protagonista de “I racconti di padre Brown”, sceneggiato prodotto e messo in onda dalla Rai nel 1970. Risale a quello stesso anno la sua ultima interpretazione in una commedia musicale di Garinei e Giovannini (Alleluja brava gente) dove Rascel ebbe l’onere di sostituire all’ultimo istante il famosissimo Domenico Modugno con un giovane Gigi Proietti, pressoché sconosciuto al pubblico.
Una carriera lunga e ricca che lo vide al tempo stesso innovatore e rappresentante autentico della storia nobilmente popolare della commedia italiana. Una vicenda umana e artistica che, ancora oggi, molti ricordano con affetto e riconoscenza.



Cosa sarebbe successo se uno dei componenti la comitiva del Grande Torino in quel lontano maggio del 1949, seguendo dei ‘segni’ non fosse salito a bordo dell’aereo, e con lui altri due compagni di squadra, e fosse tornato in Italia con un lungo e faticoso viaggio in auto via Francia ? Questo è il filo conduttore di ‘E se un angelo a Lisbona …’ libro scritto a quattro mani di Orazio Di Mauro, già autore di diverse pubblicazioni (ultima in ordine di tempo il giallo calcistico ‘Rosso diretto’) e Sergio Gabetto, figlio di Guglielmo, il calciatore del Toro caduto con la squadra a Superga, L’editore è Neos Edizioni.Abbiamo incontrato Sergio Gabetto alla Cremeria Dolcearea di Alessandro Ledda in via Mercadantea Torino per parlare della sua prima produzione letteraria. L’autore, nato nel 1947, laureato in matematica, ha insegnato negli istituti superiori ed è stato assistente universitario alla facoltà di Fisica a Torino. Ha, però, vissuto una parte notevole della sua vita lontano dalla città natale.
Gabetto, come è nato questo libro ?
Guardando dei vecchi ricordi dopo che ero tornato da Cuba. Qui, però, è necessario che faccia una precisazioni. Mi piaceva il mondo caraibico, avevo già vissuto un paio d’anni in Repubblica Dominicana e dal 1995 al 2020 ho vissuto a Cuba, dove mi sono sposato e ho avuto due figlie. E là con alcuni amici ho fondato il Toro Club Cuba. Il tifo la si fa al ritmo bailato. Al tempo del Covid con la mia famiglia sono tornato in Italia e ho seguito mio fratello sino a quando è mancato. Mio nipote mi diede un paio di scatoloni pieni di ricordi, così è nata l’idea di questo libro.
Che presenta una particolarità ….
Non volevo scrivere un qualcosa che riportasse dati, statistiche, risultati. Ne sono stati scritti tantissimi. Volevo che fosse un racconto di fantasia e avesse Lisbona sullo sfondo.
Ma c’è un fondo di verità ?
Mio padre, effettivamente, credeva nei segni, era abbastanza superstizioso.
In quanto tempo ha scritto il libro ?
Il libro è stato scritto a quattro mani con l’amico Orazio Di Mauro, che è tifoso del Torino, da gennaio a marzo circa, poi Neos ha provveduto a stamparlo ed era pronto prima del 75esimo anniversario della tragedia.
Il libro però non è stato l’unico modo per ricordare il Papà ?
Per celebrare questo anniversario ho voluto creare un oggetto da collezione: una bottiglia di quel Barbera che Giovanni Arpino legò a loro, ‘Il Vino del Barone’.
Che accoglienza ha avuto il libro ?
Buona. E ha anche vinto il primo premio alla Fiera del Libro di Orbassano. Adesso abbiamo anche in programma alcune presentazioni.
Che rapporto ha con suo Padre ?
Quando se n’è andato avevo solo venti mesi. Ne ho soltanto sentito parlare e ho ricevuto degli aneddoti e ricordi da mia mamma Anita e dai tifosi del Bar Vittoria che aveva con Ossol in via Roma, dove oggi c’è Zara. Quel far dove i tifosi chiamavano ‘Gabos’ con le iniziali di entrambi.
Cosa vuole dire essere Granata ?
E’ più di una fede, è un modo di vivere, l’interesse è che il giocatore abbia senso di appartenenza, che si impegni sul campo, che giochi e non vivacchi.
Il libro, che si legge velocemente, tanto è avvincente e pieno di significato si chiude con una riflessione di Guglielmo, bellissima: ‘Potrò giocare bene o male, vincere o perdere le partite, ma loro, soltanto loro rimarranno i granata che vincono sempre. Il Toro non perde mai”.
MASSIMO IARETTI
Restauro e allestimento all’interno del Museo Diocesano
Una lunga storia accompagna ormai il grande mosaico che, realizzato tra il 1170 e il 1190 nella chiesa di San Salvatore – fondata alla fine del 300 d.C., ricostruita nei primi decenni dell’anno 1000, a tre navate con un tetto a capriate, per essere distrutta alla fine del Quattrocento e far posto all’attuale duomo voluto dal vescovo Domenico della Rovere e dovuto ad Amedeo da Settignano conosciuto meglio come Meo del Caprino -, venne alla luce, nel corso di lavori di manutenzione, nel 1909: scoperta documentata da testimonianze, descrizioni, fotografie. I frammenti, rimossi, furono in un primo momento ospitati presso l’antico Museo Civico per essere in seguito ricomposti a Palazzo Madama nell’allestimento inaugurato da Vittorio Viale nel 1934. Nel 1996, nuovi scavi nell’area portarono il mosaico a essere ricollocato sul fianco del duomo, in corrispondenza del presbiterio della basilica antica, in aperta visione grazie ad una piramide vetrata progettata dallo studio Gabetti e Isola. Con il presentarsi di problemi conservativi, dovuti in special modo a infiltrazioni d’acqua, il mosaico veniva ancora una volta rimosso. Oggi, dopo il restauro che ha avuto l’alta sorveglianza di Tiziana Sandri e che ha visto gli interventi contributivi della Consulta torinese e della Reale Mutua, il mosaico di San Salvatore ha trovato la propria definitiva sistemazione pavimentale, nell’allestimento di Massimo Venegoni (l’eccellente posizionamento centrale che ha dovuto fare i conti “con quanto preesistente nella sala”, nuove luci, la valorizzazione dei dettagli, il filmato che aiuta il visitatore a comprendere meglio storia e caratteristiche e tecniche), all’interno del Museo Diocesano di piazza San Giovanni.
L’arcivescovo Roberto Repole, durante la presentazione nei giorni scorsi dell’attuazione del progetto, ha sottolineato come “recuperare un patrimonio storico non sia soltanto un fatto che appartiene alla chiesa ma altresì alla città tutta”, senza dimenticare che il mosaico presbiteriale, dalle radici pagane, ha subito “un processo di inculturizzazione” da parte del cristianesimo, laddove le antiche narrazioni volgevano ad “un più alto valore simbolico, finalizzato a istruire e ad ammonire i fedeli.” Mario Turetta, Segretario generale del Ministero della Cultura e Direttore avocante dei Musei Reali di Torino, ribadisce che “la sua esposizione nel percorso di visita del Museo Diocesano, visibile anche dall’area archeologica della Basilica paleocristiana dalla quale proviene, va ad arricchire l’offerta culturale avviata due mesi fa in occasione del trecentesimo anniversario del Museo di Antichità, con l’apertura al pubblico dell’area archeologica annessa al Teatro Romano, parte integrante dei Musei Reali.”
All’insegna del proprio disegno in bianco e nero, il mosaico di San Salvatore si pone come non ultimo esempio di quella ricca serie di pavimenti musivi romanici che caratterizza l’Italia padana e il Piemonte in particolare, ricordando Acqui, Aosta, Asti, Casale Monferrato, Ivrea, Novara e Vercelli, pavimenti che riprendono tecniche di età romana e spesso l’utilizzo di materiali di quella stessa età. Qui abbiamo l’unione di due racconti che facevano parte dell’immaginario medievale, la mappa del mondo e la ruota della fortuna, una geografia del tempo ricavata ad esempio dai trattati enciclopedici di Isidoro di Siviglia e una morale che stigmatizzava la vanità delle glorie terrene. Nello splendore di quanto oggi si può ammirare, nonostante le tante parti ormai inesistenti, ecco il mondo allora conosciuto – Europa, Africa, Asia – circondato dal grande cerchio dell’Oceano con le sue acque e le sue onde, ai quattro angoli la collocazione dei dodici venti (questi in gran parte perduti) e all’interno animali (i leoni a significare l’Etiopia, l’elefante l’India, il bufalo con il giogo l’Europa, e ancora grifoni e due gru dalle lunghe gambe) e creature fantastiche, una sirena a doppia coda, ad alludere alle varie regioni della terra. Ecco al centro l’immagine della Fortuna, “una figura femminile avvolta in un manto che afferra i raggi della ruota e la fa girare, determinando il successo e la disgrazia degli uomini, rappresentati da un personaggio che sale, raggiunge il culmine della gloria e infine precipita, colpito dalla sventura. Un’iscrizione, parzialmente conservata, fungeva da introduzione e da monito a coloro che si accostavano alle figurazioni del pavimento, salendo dalla navata centrale della chiesa verso l’altare.”
Ancora una volta una testimonianza preziosa, una tappa di un percorso che dovrebbe aprirsi senza interruzioni – al riparo della sicurezza e crediamo soprattutto degli intoppi burocratici – all’interno della intera area archeologica, e che percorra le tre chiese – non soltanto San Salvatore ma le consorelle Santa Maria di Domno e San Giovanni Battista, riportate alla luce -, i resti di abitazioni romane e dell’antico palazzo vescovile, le arcate di un chiostro e il decumano che si vede alle spalle del teatro. Altresì un allestimento che è una traccia importante per un passato medievale relativamente avaro e “un occasione per pensare anche oggi, sulla scorta dei padri antichi, alla natura del destino che, come scrive Bernardo di Cluny nel 1150, ‘gira come una ruota… mutevole, variabile e sempre instabile’.”
Elio Rabbione
Con la scomparsa delle cartoline che Gozzano aveva mandato dall’Oriente a Candidina Bolognino, si perdonoelementi anche utili a comprendere la formazione di Guido.
Un compito dello storico è il documentare il passato e, nel caso, loposso ancora fare, perché, da sempre, mi è consueto Agliè, dove ritrovo, oltre ai parenti nostri, i riflessi di qualche amicizia di famiglia e, tra queste, l’amica di mamma: Mary Prola col marito, dottor Roberto Bolognino! Sono persone che animano i nostri ricordi più lontani e, nella vivacità dei loro incontri, caratterizzati dal racconto del loro vissuto, che era sempre partecipato da tutti, costituiscono esempi, divenuti consueti anche a noi, di vita domestica, quando le loro presenze erano ancora usuali. Io, che ascoltavo gli adulti, in caso di necessità, richiedevo direttamente i chiarimenti che sentivo necessari …
Il periodare facile ed il vociare faceto dei famigliari erano scanditi dal timbro baritonale della voce del Bolognino, un compagno di facoltà dell’avvocato Agnelli… che, col gradimento di tutti, raccontava della sua prima infanzia (per nulla inficiata dalla prematura scomparsa di quel suo padre medico, nato come Guido nel 1883). Egli ricordava le visite ad Agliè, e la zia Candidina che,presente Diodata Mautino, la madre di Gozzano, invitava lui,Roberto bambino, a recitare a memoria qualche brano poetico di Guido… – Adulto, egli sarebbe stato un impiegato dell’INPS, ma rimanendo uno sportivo, diviso nella pratica tra il ciclismo, il nuoto e lo sci (quasi coll’approvazione postuma del Poeta di Agliè).
Quanto a luogo, noi riconosciamo un’abitazione storica dei Bolognino (sarà quella una delle due per cui, fin dal Seicento, essi furono esentati dalle tasse, per volere e grazia dei San Martino d’Agliè?). Quella in questione è un bel palazzo sei-settecentescodai lineamenti sobri, con un’ala a doppio porticato sovrapposto, il quale fa da sfondo alla signora Gozzano, ritratta con una nipote del marito, in una fotografia del 1940!
Fi qua tutto bene, ma, allora, chi era e che cosa faceva ad Agliè la zia di Bolognino?
Si diceva che, giovanissima, Tota Candidina avesse avuto un incidente in bicicletta e che, rimasta azzoppata, si muovesseaiutandosi col bastone, che fosse un’insegnante e che preparasse i ragazzi agli esami di licenza…
Battezzata Candida (Giuseppa Silvia) (Agliè, 1879-1953), era la figlia maggiore dell’esattore Giuseppe Bolognino e di sua moglie,la saviglianese Felicita Vineis (un nome che sembra tratto dal campionario poetico di Guido)! La coppia aveva avuto altri tre figli: Luigi (1880-1882), Eugenio, (Agliè, 1883 – Torino, 1918), il futuro medico chirurgo padre del dottor Roberto, e la più giovane,Claudia (San Giorgio Canavese,1889 – Torino, 1941) che andòsposa a Francesco Ciurnelli da Perugia.
Candidina aveva lo stesso nome della sua nonna paterna.
Luisa Candida Quintina Pezza che era stata battezzata a Vico Canavese, dov’era nata, perché era una figlia del notaio di Agliè Francesco Zaverio Pezza (Torino, 1772 – Agliè, 1851) che, essendo anche avvocato, fu giudice di prima istanza e, sposo di Paolina del conte Vittorio Bosco di Ruffino, ebbe alcuni figli, nati nelle sedi che egli occupò, nel progredire della sua carriera.Candida Pezza aveva poi sposato il chirurgo Giovanni Battista Bolognino di Agliè.
Ad Agliè, Zaverio Pezza era stato il padrino di battesimo diMassimo Secondo Zaverio Mautino (Agliè, 1816-1873), il cui padre, misuratore Massimo Felice Mautino era morto prima che egli nascesse, pertanto l’avv. Pezza fu una figura maschile diriferimento per il commendator Mautino, il nonno di Guido Gozzano. Per questo motivo (e anche perché i fratelli Bolognino erano vicini in età ai figli di Diodata) le famiglie Bolognino e Gozzano furono sempre in buona amicizia.
Su Candidina Bolognino dice il necrologio, pubblicato sul bollettino parrocchiale di Agliè in data 6 gennaio 1954: «Bolognino Candida d’anni 74. Non era laureata, ma era chiamata professoressa per i molti alunni che ha preparato con felici esiti ad un Diploma. Molto conosciuta nel campo letterario anche per la sua amicizia col poeta Guido Gozzano. I giornali di Torino e la R.A.I. la ricordano come l’amica e confidente di Guido Gozzano. Buona e praticante cristiana, chiuse gli occhi alla terra nella semplicità francescana».
Si trattava di una zia nubile, più giovane di pochi mesi di Erina Gozzano, la sorella maggiore del poeta, che a sua volta era la sorella del medico Eugenio, come Guido Gozzano nato nel 1883, il quale aveva avuto una figlia, nata in Friuli, dov’egli era statomedico condotto, e del nostro torinese dottor Roberto!
Si sono immaginate tante storie sul nostro Poeta e, senza tener conto della malattia, che tanto pesò sulla sua vita, si è fantasticatotanto sulle donne che egli poté frequentare ma probabilmente, se si fosse indagato meglio, senza dar retta troppo retta a suo fratello Renato, la verità storica, e non i suoi ipotetici «pallidi amori», avrebbe detto meglio...
Carlo Alfonso Maria Burdet
(Ricordando l’amicizia tra le nostre mamme, dedico queste paginea Daniela Bolognino
che qui ringrazio soprattutto per il prezioso ritratto della sua prozia).
La storia dei Cavalieri Templari
Templari, ancora Templari. La mole di libri sui Cavalieri medioevali cresce sempre di più perché il fascino della ricerca templare consiste proprio nel non avere mai fine.


Lo vidi una sera attraversare trafelato e furtivo tra Corso Duca degli Abruzzi e Corso Luigi Einaudi Gianluigi Marianini e come in un confronto all’ americana, tra la mia memoria semantica televisiva e l’osservazione diretta, lo riconobbi con certezza probatoria, dal suo vestire eccentrico fuori stagione abbinato alla fisionomia occhialuta e vagamente cavouriana.

Non solo templari e fantasmi di cavalieri morti in battaglia, leggende e suggestioni, ma molto di più.

