STORIA- Pagina 29

Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

Torino sul podio: primati e particolarità del capoluogo pedemontano

Malinconica e borghese, Torino è una cartolina d’altri tempi che non accetta di piegarsi all’estetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre l’arancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano all’irruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo “a misura d’uomo”, con tutti i “pro e i contro” che tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma l’antica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri “sudaticci” ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito – e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.

 

1. Torino capitale… anche del cinema!

2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

6. Chi ce l’ha la piazza più grande d’Europa? Piazza Vittorio sotto accusa

7. Torino policulturale: Portapalazzo

8.Torino, la città più magica

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

10. Liberty torinese: quando l’eleganza si fa ferro

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

Le persone che sintravedono al di là delle vetrine, intente nelle loro faccende mangerecce, paiono Tableaux vivantsimprovvisati, quadri incorniciati dal legno o dalla ferraglia dei locali, soggetti colpiti furtivamente dalla luce che sintrufola sotto i portici. Gioco spesso a sbirciare, non vista, i film muti che si svolgono dentro bar e ristoranti, provo a soffermarmi sui tipi più eccentrici o sui solitari, è un buon esercizio creativo, fantasticare sulle vite degli altri, pensare agli individui come personaggi di libri e storie poliziesche, chissà se tra quei divoratori di coppe di gelato non via sia qualche fuggiasco, oppure se dietro occhiali da sole e tazze schiumate di caffè non vi si nascondino degli amanti segreti.
Ecco la Torino ghiotta e stuzzicante, ecco latmosfera che resta tutta gozzaniana!
La moda cambia, le donne non alzano più la veletta per mangiare i dolcetti, né si preoccupano dei guanti mentre la panna cola vulcanica dal foro del cannolo, eppure la bellezza della scena rimane intonsa: giovani fanciulle passeggiano con i loro coni gelato Ganduja e crema uscite da Fiorio, signore altezzose sorseggiano caffè shakerato al Caffè Torino, mentre i facoltosi ridono fragorosamente tra i tavoli di Baratti e Milano, certamente meno charmantsdei loro antenati e un popiù “yuppie, ma non meno adocchiati da chi sogna un facile cambio di categoria, e nel frattempo gli intellettuali della precollina sconfinano oltre il Po, non di certo per amalgamarsi alla folla, ma in cerca di leccornie e prelibatezze non sempre da condividere con le amiche di pelliccia.
Torino ha un lato snob, lo si sa, così come è noto che allinterno del suo perimetro ogni quartiere tiene alla propria identità, giudicando goliardicamente i vicini di casa, prendendoli in giro su usi e costumi che variano notevolmente da zona a zona come giustamente ci fa notare il comico Davide DUrso-.

Eppure una cosa fa cedere ogni barriera: la golosità.
Infatti il capoluogo pedemontano non vanta solo primati culturali ed artistici, ma anche diverse vittorie culinarie che rendono tuttoggi la nostra bella città un punto di riferimento anche per quel che riguarda il turismo dei golosi.
Numerosi sono i Food Festivalche si svolgono a Torino, così come sono diversi gli eventi che si incentrano sul wine tasting, suicocktail contest, o le food experiencese via discorrendo, tra questi avvenimenti spicca di certo la celebre kermessedel cioccolato artigianale che ogni anno, dal 2003, si svolge nel centro della città,CioccolaTò”.
Lantica Augusta Taurinorum è sempre stata attenta ai palati dei suoi cittadini, tant’è che proprio qui, nel 1780, presso il Caffè Fiorio, luogo di ritrovo di intellettuali e politici, soprattutto durante il Risorgimento, pare sia nato il cono gelato da passeggio” –anche se il brevetto sarà poi conseguito da altri-.
Diversa invece è la storia del Giandujotto, prodotto inventato dalla Caffarel: quando Napoleone – nel 1806- bandisce tutti i prodotti provenienti dalla Gran Bretagna e dalle sue colonie, i cioccolatai torinesi devono trovare unalternativa al cacao, sempre più difficile da reperire, e finiscono per scegliere la nocciola delle Langhe, oggi prodotto IGP. La prima azienda a passare dalla crema al cioccolatino è stata proprio la Caffarel, che presenta il suo nuovo prodotto durante il Carnevale del 1865, motivo per cui il nome della squisitezza deriva dalla tipica maschera torinese, che, in quellevento particolare, lo distribuiva alla folla: il Signor Gianduja.

Rimanendo in tema dolci, pare che Ferdinando Baratti ed Edoardo Milano siano i genitori del succulento cremino, mentre per i sostenitori del salato” è bene ricordare alcuni piatti tipici della tradizione, come il vitello tonnato, i tajarin, gli agnolotti del plin, il gran bollito misto, il fritto misto alla piemontese, nonché la temutissima Bagna Caoda, letteralmente traducibile con salsa calda, che però è composta da aglio, acciughe e olio. Com’è altrettanto caratteristico, le dispute non mancano quando si tratta di tradizioni e ricette, il gusto per il bon-ton contemporaneo vuole che laglio possa anche essere eliminato dalla preparazione, ma, dallaltra parte, i puristi sinfervorano, precisando che sia necessaria una fiasca maleodorante per ogni partecipante al banchetto.
Il mio consiglio è di tentare con loriginale, almeno una volta nella vita, basta tenere sottocchio il calendario e organizzare una mini clausura di sicurezza, per salvaguardare le amicizie ed i rapporti sociali.
Ma c’è tempo per organizzarsi in tal senso, la Bagna Caoda resta comunque un piatto invernale, nel frattempo concentriamoci sulla ghiottoneria estiva per eccellenza, il gelato.
Ancora una volta gli Stati Uniti tentano di sottrarci il primo premio, additando allinvenzione dell’Eskimo Pie, brevettato nel 1922, prodotto che tuttavia si scontra con il noto Pinguino, lo stecco che permette di mangiare il gelato senza sporcarsi le mani, ideato e brevettato dalla Gelateria Pepino, fondata da Domenico Pepino, maestro gelataio napoletano immigrato a Torino, che, nel 1916, aveva ceduto l’attività al commendatore Giuseppe Cavagnino e al suocero, Giuseppe Feletti (già affermato imprenditore dolciario).
Il Pinguino è uninnovazione senza precedenti, porta con sé una nuova modalità di consumo e una piccola rivoluzione tra gli intenditori di gelato: ora si tratta di un prodotto da passeggio.
Già una svolta di notevole impatto era stata data dallintroduzione delluso del ghiaccio secco per trasportare i prodotti freddi e conservarli, scoperta che contribuisce ad aumentare la notorietà della gelateria preferita di Cavour, anche se la vera svolta avviene proprio nel 1938, con il lancio sul mercato del cremoso gelato alla vaniglia ricoperto di cioccolato e messo su stecco. Loriginale è costituito da uno stecco in legno con sopra un fior di latte alla vaniglia e una sottile copertura di cacao che, oltre a rendere croccante e appetitoso il gelato, è anche funzionale a mantenere intatto il prodotto, evitando che si sciolga troppo velocemente. È un successo indiscusso, che porta lazienda a ottenere il brevetto numero 58033, ossia il primo gelato su stecco al mondo. Il passare del tempo vede la realizzazione di diverse varianti, ripiene di menta o gianduja, senza contare poi le collaborazioni con altre case produttrici, come la Leone (Pinguino alla violetta), la Costadoro (Pinguino al caffè), o le tanto modaiole edizioni limiatatecon tanto di packagingcreativi predisposti alloccorrenza, come quello con la squadra di calcio del Torino o per il compleanno dei 60 anni della Mini Cooper.

Ma se sugli stecchinisi può giocare a cavillare, resta però impossibile battibeccare sulle Cri-cri, le tonde caramelle composte di cacao, nocciole e zucchero, ma unite in un modo decisamente diverso, con la nocciola tostata avvolta nel cacao e poi la copertura di minuscole praline di zucchero. Non si conosce il nome dellinventore del dolciume, tuttavia ad esso è legata una leggenda altrettanto zuccherina: il fidanzato della bella Cristina era solito comprare dolcetti come pegno damore, questultimo una volta era entrato con lamata in pasticceria e laveva chiamata Cri, alla commessa era piaciuto quel vezzeggiativo e lo ripropose al ragazzo Cri?, il quale controrispose Cri!. Da quel frivolo scambio di battute, il doppio Cridiviene una sorta di consuetudine tra il ragazzo e la pasticcera, che decide di battezzare in quel modo la pralina.
Infine perché non citare una bevanda, altrettanto nota tra turisti e torinesi doc, il Bicerìn. Si tratta di un liquore già in voga nellOttocento, soprattutto tra intellettuali e politici, servito allepoca principalmente nel bar della Consolata, poiché lì, un giorno, qualcuno pensò di cambiare la bavareisa” – il solito elisir messo in tavola per i consumatori- servendo cioccolato, latte e caffè in tre contenitori distinti, gli ingredienti venivano poi mescolati con uno sciroppo segreto e versati in un piccolo bicchiere con supporto e manico di metallo, et voilà”, ecco il nuovo trenddel Bicerìn.
Bene, cari lettori, non so a voi, ma a me è venuta una certa acquolina in boccae direi di chiuderla qui, per questa volta.
Mi accingerei, se non vi spiace, a ritornare bambina, intanto che mi appresto a gustare la mia pasta nella confetteria che più mi aggrada: Bon appétit!a tutti!

 

 

L’Impero Ottomano morì a Sanremo

Chissà se i numerosi piemontesi che trascorrono le vacanze estive a Sanremo sanno che nella Città dei Fiori si spense nel 1926, vecchio, malato e travolto dagli eventi, l’ultimo sultano dell’Impero Ottomano e che in città si trovano ancora oggi i luoghi che aveva frequentato. Maometto VI aveva scelto proprio la Riviera Ligure per trascorrere gli ultimi anni della sua vita in esilio. Il 3 luglio 1918, il neo sultano salì sul trono di Costantinopoli, sempre più instabile e vicino al crollo finale. Visse gli anni del tramonto di un grande Impero, sorto sette secoli prima. Ma anche in esilio non si diede per vinto e cercò di reagire a una disfatta ormai inevitabile. Dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale, l’Impero, già penalizzato dal Trattato di Sèvres del 1920, subì l’occupazione delle potenze vincitrici anglo-italo-francesi e anche della Grecia che occupò Smirne. Una situazione inaccettabile per i nazionalisti turchi che, guidati dal generale Mustafa Kemal Pascià, presero in mano le redini del movimento nazionale indipendentista. Gli Ottomani persero tutti i territori in Medio Oriente e le rivolte popolari e nazionaliste diedero il colpo finale alla monarchia sultaniale. Il Sultanato fu abolito nel novembre 1922 e la Repubblica Turca fu proclamata nel 1923 con Ataturk presidente. Nel 1924 fu abolito anche il Califfato. Il 28 giugno 1918 morì a Costantinopoli il sultano Maometto V Reshad e il 3 luglio salì sul trono il fratello Maometto VI Vahideddin, trentaseiesimo e ultimo sultano dell’Impero nonché centesimo califfo dell’islam. La fine dell’Impero è anche la storia degli ultimi anni di Costantinopoli capitale ottomana. Nel dicembre 1918 dalle navi alleate sbarcarono quasi 4000 soldati francesi, inglesi e italiani. Mentre le truppe tedesche e austriache lasciavano il territorio, in città le forze di occupazione prendevano possesso di prigioni, banche, ospedali e ambasciate. L’evento più plateale avvenne l’8 febbraio 1919 quando il generale francese Franchet d’Esperey, alla testa delle sue truppe, fece un ingresso trionfale a Istanbul. Giunto al ponte di Galata attraversò la città su un cavallo bianco, tra greci e armeni in festa, come aveva fatto cinque secoli prima Maometto II il Conquistatore dopo aver posto fine all’Impero Romano d’Oriente.
La città fu divisa in varie zone: i francesi a sud del Corno d’Oro, gli inglesi a Pera, gli italiani a Scutari sulla sponda asiatica della città e un piccolo reparto greco a protezione del Fanar, la sede del Patriarcato ortodosso. I turchi si sentivano quasi stranieri a casa loro. Pur essendo anziano, sconfitto e schiacciato dagli eventi, l’ultimo sultano mise a disposizione degli alleati l’apparato amministrativo ottomano che estendeva la sua sfera d’azione solo più a Istanbul e nel nord dell’Anatolia mentre il resto dell’Impero era in parte in mano agli alleati. Durante la guerra gli inglesi aiutarono i popoli arabi a ribellarsi al dominio ottomano in tutto il Medio Oriente sotto la guida dell’emiro Hussein e dal colonnello Lawrence, il mitico Lawrence d’Arabia. La frantumazione dell’Impero innescò una fiammata nazionalista. La sconfitta nella guerra causò il disfacimento dell’esercito e con il trattato di Sèvres (10 agosto 1920), firmato dal sultano, gli ottomani dovettero lasciare ai vincitori gran parte dell’Anatolia, cedere la Tracia e accettare l’internazionalizzazione degli Stretti. Nel frattempo emerse la figura dell’ufficiale nazionalista Mustafa Kemal che verrà chiamato dai turchi “Ataturk”, padre della patria”. Kemal, che costruirà la Repubblica turca laica e moderna, attribuì le responsabilità della disfatta dell’Impero al sultano. Avviò la resistenza armata, organizzò un esercito nazionalista e l’8 luglio 1919 fece destituire il sultano Maometto VI. Denunciò inoltre il trattato di pace di Sèvres, firmato dal governo imperiale, che definiva i nuovi confini di ciò che restava dell’Impero. Una larga fetta dell’opinione pubblica turca rimase favorevole alla monarchia costituzionale ma Mustafà Kemal aveva fretta di liberarsi del sultano. Il 1 novembre 1922 l’Assemblea nazionale votò una legge che aboliva il sultanato e Maometto VI fu mandato in esilio, prima a Malta e poi a Sanremo dove morirà nel 1926. L’ultimo sultano non perse mai la speranza di veder crollare Mustafa Kemal, il generale che lo esautorò per fondare una nuova Turchia, e per tre anni lavorò per raggiungere questo obiettivo. Intanto Abdul Mecid II, cugino di Mehmet VI, venne nominato da Kemal ultimo califfo. Il 24 luglio 1923, il Trattato di Losanna, firmato tra il governo di Kemal e il Regno Unito con Francia, Italia, Giappone, Grecia e Jugoslavia, ridefinì i confini della Turchia, annullando quello che era stato deciso a Sèvres tre anni prima. Il Patto restituì ai turchi tutta l’Asia Minore, la Tracia orientale e il controllo degli Stretti. Il 29 ottobre 1923 Mustafa Kemal proclamò la nascita della Repubblica di Turchia con Ankara capitale e nel 1924 il califfato fu abolito. Kemal avviò il Paese sulla strada della modernizzazione, riorganizzando l’apparato amministrativo sul modello europeo e separando la religione dallo Stato. L’Impero ottomano morì in pratica a Sanremo, località già nota alle grandi potenze per aver ospitato, nei saloni del Castello Devachan (oggi lussuoso residence), la Conferenza di pace di Sanremo, tra il 19 e il 24 aprile 1920, che divise i territori dell’Impero Ottomano tra le potenze europee. Mehmet VI trascorse gli ultimi anni della sua vita a Sanremo, prima a Villa Alfred Nobel e poi a Villa Magnolie, dove visse insieme alla quinta e ultima moglie Nimit Nevzad Kadin Efendi, sposata a Istanbul nel 1921. Cinque matrimoni e sei figli. Morì il 16 maggio 1926 a Villa Magnolie dove la sua salma, sigillata in una bara, rimase esposta per un mese. Il 16 giugno si svolse il solenne funerale del sovrano la cui bara fu trasportata su un vecchio carro della Croce Rossa alla stazione e sistemata su un treno diretto a Trieste. Fu sepolto a Damasco nel monastero di Solimano il Magnifico. La storica villa sanremese, in cui soggiornarono anche principesse persiane, zarine e i duchi di Aosta, ospita oggi una scuola ed è di proprietà della Provincia di Imperia. Una piccola curiosità: il presidente-sultano della Turchia moderna, Recep Tayyip Erdogan, nostalgico delle glorie del passato imperiale della Mezzaluna, concentra nelle sue mani poteri pressoché assoluti dopo il recente trionfo elettorale. Proprio come non accadeva dai tempi dell’ultimo sultano ottomano.           Filippo Re

Valle Grana… AAA Foto d’Epoca Cercasi

Serviranno per organizzare una Mostra di “memoria collettiva” nell’ambito del Progetto “Valle Grana Cultural Village”

Monterosso Grana (Cuneo)

Una raccolta di materiali fotografici d’antan per organizzare la prima di tre mostre di “memoria collettiva” della “Valla Grana”, la più piccola delle valli cuneesi (fra le Alpi Cozie e Marittime), enclave linguistica provenzale e patria “nobile” del grande – di tradizione millenaria – “Castelmagno”, fra le “DOP casearie” piemontesi, prodotto nei tre Comuni più alti della Valle: Monterosso Grana, Pradleves e Castelmagno per l’appunto. Questa la lodevole iniziativa promossa dal “Progetto Valle Grana Cultural Village” (su iniziativa dei Comuni di Monterosso Grana e Pradleves ai fini di una “rivitalizzazione socio – economica” dei piccoli borghi, da finanziare nell’ambito del PNRR) e coordinata dall’Associazione di Promozione Sociale “FormicaLab”.

In buona sostanza, l’iniziativa si basa sulla richiesta di “condivisione” di “album di famiglia”, “vecchie fotografie” conservate nel cassetto, “immagini dimenticate” in soffitta o in vecchie scatole. Ogni fotografia “prenderà forma” durante un workshop gratuito e aperto a tutti dell’artista visivo Alessandro Toscanosabato 7 e domenica 8 settembre.

Seguirà un allestimento in programma a fine settembre. È possibile inviare il materiale in formato digitale all’indirizzo e-mail formicalab.info@gmail.com, oppure consegnarlo direttamente presso il Municipio di Monterosso Grana (via Mistral, 22- aperto al pubblico martedì, giovedì e sabato dalle 9 alle 12). Tutti gli originali verranno restituiti insieme a una copia digitale del materiale fornito. Per maggiori informazioni visitare il sito www.formicalab.net oppure contattare il numero di telefono 338/7619170.

Alessandro Toscano è un artista visivo italiano (di origini sarde ma oggi residente a Roma) la cui ricerca e produzione abbraccia videofotografia e installazione. Con un approccio multidisciplinare tra ricerca documentaria, artistica e etnoantropologica, ha sviluppato negli anni progetti video-fotografici “per” e “in” collaborazione con “MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo”, “MIC Ministero della Cultura”, “Rai”, “LaEffe Feltrinelli”, “Einaudi editore”, “Financial Times Magazine” e “Le Parisien”.  L’artista sarà ospite tra Monterosso Grana e Pradleves, la prima settimana di settembre.

Quella della “raccolta foto”, ricordiamo, che è solo una delle tante iniziative inserite nel Progetto “Valle Grana Cultural Village”, iniziate con la Festa Patronale di “San Giacomo”, a Monterosso Grana, svoltasi dal 19 al 22 luglio, e culminata con il gemellaggio con il piccolo borgo francese di Le Bar-sur-Loup. Le attività proseguiranno sabato 10 agostoa partire dalle 14,30, con “La Draio de l’Estelo”, escursione per famiglie alla scoperta del sentiero di “land art” fra San Lucio e Rocho de l’Estelo, organizzata da “Comboscuro Centre Prouvencal”. All’arrivo, festa conclusiva sui pascoli con “merenda sinoira” e spettacolo della Compagnia olandese “Snow Appel”.

Altro appuntamento agostano: sabato 24dalle 17, a Santa Lucia di Comboscuro, si svolgerà il “Roumiage de Setembre”. Per tutti i bimbi, dai 5 ai 12 anni, è previsto un atelier ludico con “Persil/Prezzemolo” dedicato ai giochi tradizionali delle Alpi, con l’utilizzo di legno e materiali di riciclo. A seguire il tradizionale “concerto estivo”.

g.m.

Nelle foto: Alberto Toscano e “render” Borgata San Pietro al termine dei lavori attualmente in corso per il progetto “Valle Grana Villaggio Culturale”

Un Califfo nel Piemonte Saraceno

Dallo splendido Alcazàr eretto sulla collina di Saliceto, circondato da torri, giardini esotici e fontane moresche, il califfo dominava il territorio circostante e lì visse a lungo insieme alle sue quaranta mogli. Siamo nell’Alta Langa, lungo il Bormida, vicino alla Liguria. Il grande sogno di Abdul Alì era quello di fondare un regno arabo proprio in quella zona, che si estendesse dal Monviso alle coste della Provenza da dove il Saraceno era arrivato con i suoi predoni per saccheggiare il Piemonte poco più di mille anni fa.
Non ci riuscì e quando il califfo morì il suo corpo fu chiuso in un enorme sarcofago d’oro e seppellito nella terra, poi i saraceni ricoprirono il terreno con un bosco di querce per far sparire ogni traccia. Si favoleggia sulla bella vita del califfo nelle Langhe ma non è solo leggenda poiché il nostro personaggio viene citato anche nelle antiche cronache provenzali. È però inutile andare a caccia dei resti dell’Alcazàr a Saliceto perché fu distrutto dai marchesi del Monferrato che espulsero i Mori dal Piemonte e oggi, di quella dimora, non resta proprio nulla. Tra il IX e il X secolo il Piemonte fu invaso dai saraceni che dal mare risalirono le nostre montagne e le nostre valli distruggendo e uccidendo. Di questi mujaheddin di mille anni fa non si sa molto ma le tracce del loro percorso non sono completamente scomparse. Il libro “Saraceni in Piemonte, mito, realtà e tradizione” di Gianbattista Aimino e Gian Vittorio Avondo, Priuli&Verlucca, ricostruisce storicamente il passaggio dei saraceni nelle valli piemontesi “che hanno lasciato segni di cui si trova ancora memoria nella lingua occitana, nei costumi, nell’architettura e nella cultura”. E che dire della Valle di Susa, una delle valli più colpite dalla violenza saracena. A Novalesa, il paese dell’antica abbazia benedettina fondata nel 726, il passaggio devastante dei guerrieri dell’islam arrivati dalla Provenza nel 906 viene revocato ogni anno con la danza delle spade.
I monaci abbandonarono in tempo il monastero portando con sé gli oggetti più preziosi tra cui 6000 libri. Si rifugiarono a Torino presso la chiesa di Sant’Andrea (oggi la Consolata) per tornare a Novalesa alla fine del secolo. Per sfuggire alla violenza e ai saccheggi dei Mori, narrano le leggende locali, alcuni paesani salirono sulla montagna e si infilarono in una galleria che conduceva nella valle francese di Bessans. I saraceni li inseguirono nella galleria ma i novalicensi, all’uscita del tunnel, procurarono una frana che lo chiuse mentre quelli rimasti in paese bloccarono l’ingresso con altri massi. Così i saraceni vi rimasero intrappolati per sempre. Nessuno sa dove si trovi il tunnel e sempre secondo la leggenda i resti dei saraceni con tutti i tesori rubati sono intrappolati dentro la montagna. Garessio e Ormea furono tra i primi paesi piemontesi a subire i saccheggi dei Mori. Tra le due località sulla cima di un’altura si trova una torre di avvistamento detta “Torre saracena” eretta dagli abitanti del luogo quando i Mori giunsero dal Frassineto (Fraxinetum) l’attuale Saint-Tropez, in Costa Azzurra, per devastare la Val Tanaro. Per alcuni storici il torrione risalirebbe al periodo bizantino ma per altri studiosi sarebbe stato innalzato proprio dai garessini per controllare dall’alto i movimenti dei saraceni che poi, dopo la conquista, la utilizzarono come base per loro incursioni.
Oggi i Saraceni non ci terrorizzano più ma nei racconti di valligiani e contadini di Langhe. Monferrato ed Acquese la figura del saraceno è rimasta stampata in modo incancellabile per merito di vicende e leggende che si sono tramandate nei secoli e sono giunte ai giorni nostri. “A l’é un sarasin”, quello è un saraceno, dicevano una volta i montanari per indicare furfanti e delinquenti comuni. I Mori erano molto temuti mille anni fa dalle popolazioni locali e la mamme per spaventare i figli troppo ribelli li ammonivano dicendo loro “guarda che ti porto dal Sarassin!”.Al tempo dei saraceni, all’inizio del IX secolo, il Piemonte faceva parte dell’impero carolingio che si allungava sui territori di Francia, Germania e sull’Italia del nord. La presenza saracena viene rievocata in alcune manifestazioni folkloristiche nell’arco alpino occidentale e molte feste prendono spunto dal passaggio di queste genti provenienti dal Medio Oriente, dal nord Africa o dai Balcani. Ancora oggi alcune valli, come nel cuneese e in Val Susa, ne conservano la memoria. Basta pensare alle danze degli Spadonari che si svolgono tra gennaio e febbraio a Giaglione, Venaus e a Bagnasco in Val Tanaro e alla Baìo che ogni cinque anni si svolge in alcuni paesi della Val Varaita. La presenza saracena si avverte ancora oggi nei modi di dire, nei cibi e nei prodotti della terra. A ricordo dei saraceni restano tanti vocaboli nella nostra lingua, come il grano saraceno, la saracinesca, la persiana, cognomi come il Moro, Negro. Saraceno e Taricco, dal generale musulmano Tarik che conquistò la Spagna. Le stesse Crociate portarono nelle terre del Vicino Oriente migliaia di europei ed è probabile che lo stesso mais o granoturco sia giunto dal Medio Oriente e non dalle Americhe come si ritiene, nei dintorni di Vinchio, nell’astigiano, viene coltivato un particolare tipo di “asparago saraceno” e in Val Tanaro la polenta saracena…insomma questa preziosa semente è tra i tanti regali che le invasioni moresche ci hanno lasciato oltre alle tradizioni popolari, alle parole e alle leggende che arricchiscono il patrimonio storico e culturale del Piemonte come ben raccontano nel loro libro Avondo e Aimino.
 Filippo Re

A Settimo Vittone tra la pieve, il battistero e il castello

É un piccolo paese di appena 1500 abitanti ma nei weekend e nella bella stagione si trasforma.

I visitatori diventano parecchie migliaia tra studiosi, appassionati d’arte e turisti in cerca di tesori culturali da scoprire e ammirare. A Settimo Vittone, a una decina di chilometri da Ivrea, lungo la strada che conduce alla Valle d’Aosta, si trova un luogo ancora poco conosciuto ma di grande importanza storica e architettonica. È il complesso formato dalla Pieve di San Lorenzo e dal battistero di San Giovanni Battista, una delle vestigia più antiche del canavese e del Piemonte, risalente al IX secolo o forse anche prima. È diventato un pezzo unico perché in origine il battistero era separato dalla chiesa e più tardi fu inserita una galleria di collegamento per unirli. Sorge sulla rocca dell’antico castello, circondato da ulivi secolari e dalla vigne che producono il rosso Carema, e da lassù domina il paese e il corso della Dora Baltea. Qui nel Medioevo passavano e sostavano i pellegrini e i viandanti provenienti dal nord Europa e diretti a Roma lungo la via Francigena. Oggi è un monumento nazionale che il Fai (Fondo Ambiente Italiano) gestisce e apre al pubblico nelle tradizionali Giornate Fai mentre una locale associazione culturale lo tiene aperto tutte le domeniche tra marzo e ottobre.
All’interno della chiesetta un ciclo di affreschi dei secoli XIII e XV abbellisce l’edificio religioso. Nel battistero ottagonale di San Giovanni si trova invece un antico fonte battesimale ad immersione (IX secolo). Costruiti in epoca carolingia pieve e battistero sono uno dei principali esempi di architettura preromanica in Piemonte. Secondo la tradizione il complesso è sorto nel IX secolo e una leggenda vuole che vi sia sepolta la regina dei Franchi Ansgarda che si ritirò qui a meditare e dove fu tumulata nell’anno 880. Più volte oggetto di restauri, la struttura subì un radicale rinnovamento a fine ‘800 con l’architetto portoghese Alfredo D’Andrade che intervenne in tempo su un monumento ridotto in pessime condizioni e in stato di abbandono. A fine Novecento furono poi recuperati gli affreschi visibili all’interno. Poco prima di arrivare di fronte al complesso si possono vedere alcuni ruderi del castello medioevale fondato nel IX secolo dal marchese di Ivrea e signore di Settimo Attone Anscario. Per motivi strategici il maniero fu fatto demolire dal Duca Carlo II di Savoia, padre di Emanuele Filiberto, nella prima metà del Cinquecento durante la guerra tra spagnoli e francesi in Piemonte. Restano i ruderi della torre e, a strapiombo sulle case del paese, si vede il cosiddetto Castello Nuovo, un palazzo del Seicento in fase di totale ristrutturazione. Arrivando da Ivrea, alle porte di Settimo Vittone, si scorge in bella mostra sulla sommità della collina, all’imbocco della Valle d’Aosta, l’elegante e romantico castello di Montestrutto, nella frazione omonima, con annessa la chiesetta romanica di San Giacomo. Edificato in pietra di fiume sulle rovine di una fortificazione medioevale appartenuta ai Savoia è stato abitato da varie famiglie nobili del territorio e all’inizio del Novecento fu ricostruito in stile neogotico, come lo vediamo oggi. Nel 1929 il maniero fu acquistato da un musicista piemontese, Rosario Scalero, violinista e compositore nato a Moncalieri nel 1870, che venne a viverci. L’attuale proprietario del castello di Montestrutto è un professore americano di storia medievale che ha continuato i lavori di restauro.
Filippo Re

Il genio alato e i titani di piazza Statuto

Alla scoperta dei monumenti di Torino / La piramide di massi frana sotto i piedi di un Genio alato, simbolo della scienza trionfante, trascinando nella sua caduta sette titani, rappresentanti la forza bruta della natura

 

Ed eccoci nuovamente pronti alla scoperta delle meraviglie di Torino, con la nostra ormai consueta e spero piacevole, passeggiata “con il naso all’insù”. Questa volta, miei cari amici lettori, vorrei parlarvi di una delle opere tra le più “chiacchierate” della città, forse anche grazie all’alone di mistero che da sempre la circonda: sto parlando del monumento Al Traforo del Cenisio-Frejus. Collocata in testa a Piazza Statuto, sul lato ovest aperto verso l’imbocco di Corso Francia, l’opera si erge imponente, rappresentando la superiorità della scienza e della tecnologia contro la forza bruta della natura. Conosciuto più comunemente come “Monumento ai caduti del Frejus”, l’opera, pietrosa e frastagliata, si erge al centro di una vasca circolare che raccoglie l’acqua che zampilla tra i massi, simulando torrenti alpini che si aprono la via sul dorso di una montagna.

La piramide di massi frana sotto i piedi di un Genio alato, simbolo della scienza trionfante, trascinando nella sua caduta sette titani, rappresentanti la forza bruta della natura.  Il Genio si erge come la punta di un faro, dove converge lo sguardo di chi percorre via Garibaldi in direzione della piazza. Egli compare con una penna in mano, nell’atto di incidere sulla pietra, ad intramontabile memoria, i nomi dei tre ingegneri che resero possibile l’opera del Traforo. L’idea del monumento nacque nel settembre del 1871, precisamente all’indomani dei festeggiamenti per l’apertura della ferrovia che collegava (e collega ancora oggi) Italia e Francia attraverso il Traforo del Frejus; fu un opera di ingegneria compiuta in un brevissimo lasso di tempo e che sembrò realizzare i sogni di progresso e di comunione dei popoli. Grazie infatti al talento e alla collaborazione tra gli Ingegneri Sommelier, Grandis e Grattoni, il progetto della costruzione del traforo si avvalse dell’uso di perforatrici ad aria compressa, che ridussero le vittime e resero possibile la via di comunicazione transalpina nel giro di quattro anni.

L’entusiasmo per il successo tecnologico e per l’apertura di nuove e più veloci vie di comunicazione, spinse il conte Marcello Panissera da Veglio a proporre l’erezione di un monumento commemorativo. Quindi, su precise indicazioni riguardo al tema e alla metafora che il monumento doveva simboleggiare, venne indetto un concorso presso la Regia Accademia delle Belle Arti, che fu vinto da un giovane allievo dell’Accademia stessa, Luigi Belli. Il monumento (formato inizialmente da otto titani che poi si ridussero a sette e dal Genio alato che all’inizio doveva essere in marmo di Carrara e poi venne realizzato in bronzo), doveva rappresentare la Scienza (e quindi il progresso) vincitrice assoluta sulla natura. Associazioni operaie fecero immediatamente propria l’idea, interpretando l’intenzione del monumento, più che un elogio alla tecnologia, come un ricordo dei tanti lavoratori che parteciparono all’impresa della ferrovia e raccolsero (di loro iniziativa) fondi cospicui che fecero partire il progetto. (E’ interessante precisare come ancora oggi l’interpretazione “operaistica” sia condivisa da molti torinesi che cadendo nello stesso fraintendimento, definiscono il monumento un omaggio ai lavoratori caduti nell’edificazione della galleria del Frejus).

La sottoscrizione avviata dalle società Operaie trovò una controparte nell’analoga iniziativa capitanata dal commendatore Laclaire, che riunì la borghesia cittadina inquietata al pensiero di rimanere a guardare; infine anche la Città stanziò un fondo per la realizzazione dell’opera. I lavori cominciarono però solo nel 1874, coinvolgendo anche altri studenti dell’Accademia per l’esecuzione delle figure dei titani: sei allievi a titolo ufficialmente gratuito, prestarono la loro opera sotto la direzione dello scultore Odoardo Tabacchi e del professor Ardy, incaricati di occuparsi della statua del Genio e del concetto d’insieme dell’intero monumento. In seguito Luigi Belli, discordante con gli altri, verrà estromesso dalla realizzazione, tanto che disconoscerà l’opera giudicandola non fedele all’idea che l’aveva plasmata. Successivamente altri imprevisti e ad alcuni problemi di natura tecnica (nel 1877 ad esempio i lavori rimasero fermi per molto tempo a causa della costruzione del condotto idrico che collegava il monumento ai serbatoi del mattatoio comunale) ritardarono maggiormente l’esposizione dell’opera. Finalmente il 26 ottobre 1879, alla presenza di S.M. Re Umberto, di numerose delegazioni comunali italiane, di corpi dell’esercito, di alcune associazioni operaie e di una gran folla di privati cittadini, venne svelato il monumento, al grido magniloquente di “Volere è potere”.

L’accoglienza dell’opinione pubblica sembrò positiva, ma sui giornali dilagò immediatamente la polemica: il monumento venne giudicato sgraziato, ridicolo, pesante e grottesco. In suo soccorso subentrò però Carlo Felice Biscarra, della Regia Accademia Albertina di Belle Arti, che lo difese come opera innovativa e diversa, necessaria a svecchiare il paludato mondo cimiteriale della statuaria cittadina. L’opera è sicuramente una singolarità all’interno della città: non esiste altro monumento a Torino così mosso, così ricco e dall’apparenza così poco rifinita; se anche la piramide di sassi si distanzia molto dalle sembianze di una montagna vera, i titani esprimono con verosimiglianza la fatica e l’estromissione date da una forza più grande che è giunta a scalzarli. Anzi sono forse loro i veri protagonisti dell’intero monumento tanto che si può comprendere l’identificazione popolare tra questi titani abbattuti e gli operai schiacciati dal lavoro, sentite come vittime e a cui va l’empatia dell’osservatore. Per quanto il Genio alato sia di ottima fattura e rifinito nei minimi particolari (da notare accorgimento dei drappi che si gonfiano alle sue spalle e celano i rinforzi metallici che lo sostengono) il suo ruolo risulta piuttosto di finitura: è situato troppo in alto per poter essere ammirato per le sue qualità artistiche.

Parlando di questo monumento non si può non parlare dell’alone di mistero che da sempre lo circonda, dato dall’immaginario esoterico della Torino Magica che vede Piazza Statuto ed il monumento come deputati al male e alla confluenza di energie nefaste. La piazza, costruita sui resti della “valle occisorum” (vale a dire una necropoli romana), orientata verso occidente dove tramonta il sole ed essendo vicina al celebre rondò d’la furca (o rondò della forca), luogo un tempo predisposto per le condanne a morte, è ritenuta un punto di energie negative. In questo contesto, secondo gli esoteristi, il luogo di massima negatività sarebbe proprio il “Monumento ai caduti del Frejus” che rappresenterebbe proprio la porta dell’Inferno mentre il Genio alato non simboleggerebbe la scienza trionfante, bensì Lucifero, l’angelo ribelle, con la stella ad attestarne l’origine sovrannaturale e con lo sguardo rivolto a controllare Piazza Castello, punto di energia positiva.

Allontanandoci da questa suggestiva visione per così dire “magica” dell’opera, è interessante segnalare una piccola variazione avvenuta al monumento nel 1971 proprio in occasione del centenario dell’ideazione della ferrovia. In quell’occasione si è provveduto a far aggiungere una targa che rendesse il merito dovuto a Giuseppe Francesco Medail, l’imprenditore nativo di Bardonecchia che per primo sostenne la causa del Traforo e che morì senza veder realizzato il suo sogno. Così, se pur con clamoroso ritardo, si diede voce all’accorata protesta della sua vedova, che già all’indomani dell’inaugurazione, nel marzo del 1880, rimproverò l’amministrazione cittadina di non aver associato al monumento il nome del marito.

(Foto: il Torinese)

Simona Pili Stella

Adamo Ferraris garibaldino

La figura di Galileo Ferraris, soprattutto per chi ha studiato la storia ed i progressi della scienza nella seconda metà dell’Ottocento non ha certo bisogno di presentazioni.

Scuole ed istituti, vie gli sono dedicati non solo a Torino o Vercelli ma in tutta Italia. Meno nota, ma altrettanto degna di essere menzionata è la figura del fratello maggiore Paolo Innocenzo Adamo, meglio noto come solo Adamo, medico e garibaldino, caduto sul campo di battaglia in terra straniera, nel 1871 quando ormai l’Italia era fatta da 10 anni, ma battendosi per la libertà dei popoli d’Oltralpe. Nato a Livorno (che allora, naturalmente, non era l’attuale Livorno Ferraris, in Provincia di Vercelli) il 30 giugno 1838 da Luigi, farmacista, e da Antonia Messia, dopo i primi studi nel comune vercellese si spostò a Torino per poter seguire gli studi ginnasiali e liceali.

Per motivi di salute compì gli studi universitari a Parma, addottorandosi in medicina. Il soggiorno in quella città gli permise di conoscere il dottor Gian Lorenzo Basetti che a sua volta gli fece incontrare Giuseppe Garibaldi, e quello che uno dei classici incontri che ‘ti cambiano la vita’. Così fu con l’Eroe dei due mondi nel 1866 contro gli Austriaci in Val di Ledro combattendo a Bezzecca nell’unico evento vittorioso di Bezzecca della terza guerra d’indipendenza (che però portò in dote il Veneto alla Corona d’Italia). Nell’estate del 1867, chiamato dal sindaco Drebertelli, con vero animo missionario andò a Borgo D’ale per debellare il “cholera morbus”. Combatté eroicamente a Monterotondo e a Mentana; i particolari della campagna furono narrati in un memoriale del 1868 “Memorie di un volontariato della campagna dell’Agro Romano”. Tornò poi a Torino per esercitare con animo filantropico la sua professione.


Nel 1870, come medico personale di Garibaldi prese parte all’intervento dei volontari garibaldini a sostegno dei francesi nella guerra franco – prussiana che vide Napoleone III sconfitto nettamente a Sedan, con la conseguente caduta dell’Impero. E questa campagna gli fu fatale perché Adamo cadde il 23 gennaio 1871 a Digione dopo tre giorni di vittoriose battaglie. Il 22 ottobre dello stesso anno Garibaldi scriveva da Caprera all’on. Pietro Del Vecchio “la perdita di Adamo Ferraris fu grave per l’Italia e per me”. Per espresso desiderio del fratello Galileo la salma venne traslata ed inumata nel cimitero di Torino– Adamo Ferraris, però, non fu solo medico e patriota: coltivò la musica, sotto la guida del Maestro Guido Rossaro, la pittura (suo un magnifico scenario per il Teatro Viola di Livorno) e la scultura. Più di tutto amò la filodrammatica di cui fu lodevole interprete nel Teatro Viola, con la sorella Teresa ed il cognato capitano Botto, direttore della compagnia. A lui è dedicato uno spazio, la ‘Sala Adamo’ all’interno del Museo Ferraris, a Livorno Ferraris. Qui si possono trovare giubbe, cappelli indossati da Adamo Ferraris nelle varie campagne al seguito di Garibaldi, nonché una serie di suoi scritti e documenti.

Massimo Iaretti

Il 25 luglio e la storica pastasciutta antifascista dei Cervi

Il 25 luglio del ’43 Benito Mussolini venne arrestato, creando la temporanea illusione della fine del regime e della guerra. In realtà le cose andarono diversamente e i mesi successivi furono segnati dalle peggiori sofferenze per il popolo italiano, ma in quelle ore si festeggiò in tutta Italia la destituzione del Duce. Nella bassa pianura reggiana, fra i comuni di Gattatico e Campegine, in località Campi Rossi, dalla casa colonica dei Cervi partì uno degli eventi spontanei più originali, con una grande pastasciutta offerta a tutto il paese, distribuita in piazza a Campegine dalla famiglia per festeggiare l’evento, come disse Papà Cervi, con il “più bel discorso contro il fascismo, la pastasciutta in bollore”. I sette fratelli Cervi con i genitori e tutti i famigliari portarono la pastasciutta in piazza, nei bidoni per il latte. Con un rapido passaparola la cittadinanza si riunì attorno al carro e alla birocia che aveva portato la pasta. Tutti in fila per avere un piatto di quei maccheroni conditi a burro e formaggio che, in tempo di guerra e di razionamenti, rappresentavano prima di tutto un pasto prelibato, quasi di lusso. C’era tanta fame ma c’era anche la voglia di uscire dall’incubo del fascismo e della guerra, il desiderio di “riprendersi la piazza” con un moto spontaneo dopo anni di adunate a comando e di divieti. Di quel 25 luglio, di quella pagina di storia italiana è rimasto poco nella memoria collettiva. Eppure si manifestò in quei giorni uno spirito genuino e pacifico di festa popolare: prima dell’8 settembre, dell’occupazione tedesca, della Repubblica di Salò. Prima delle brigate partigiane e della lotta di Liberazione. Contadini mezzadri, i Cervi già all’inizio degli anni ’30 avevano espresso un deciso orientamento antifascista. I sette figli maschi di Genoeffa Cocconi e Alcide Cervi — Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore — vennero fucilati insieme a Quarto Camurri per rappresaglia nel dicembre del 1943 e la loro vicenda assunse subito un forte valore simbolico. La loro casa, punto di riferimento e di concreto aiuto per antifascisti, renitenti alla leva e per chi si opponeva alla guerra, è diventata il “Museo per la storia dei movimenti contadini, dell’antifascismo e della Resistenza nelle campagne”. Da più di vent’anni questa festa antifascista, popolare e genuina, rivive non solo nell’aia del Museo Cervi ma in molte località del Paese. Anche in Piemonte si svolgeranno diverse manifestazioni in tutte le province organizzate dall’Anpi e dalle associazioni democratiche. L’idea di “esportare” la festa della pastasciutta ha conquistato e continua a conquistare territori e comunità, riproponendo gli stessi ingredienti della serata di casa Cervi: la festa per la caduta del fascismo, la pastasciutta, la rievocazione storica. E l’insopprimibile desiderio di libertà, pace e giustizia mai così forte e necessario come in questi tempi difficili.

Marco Travaglini

Il Magnanimo si affaccia sulla “sua” piazza

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Alla scoperta dei monumenti di Torino / L’idea di erigere un monumento in onore di Carlo Alberto risale al 1847 sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle riforme politiche che trovarono una formulazione costituzionale nello Statuto che porta il suo nome

Nel centro della piazza e rivolto verso Palazzo Carignano, il monumento si presenta su tre livelli. Sul più alto posa la statua equestre in bronzo del Re con la spada sguainata in atteggiamento da fiero condottiero. Al livello del piedistallo, che sorregge il ritratto equestre, sono collocate (all’interno di nicchie) le statue in bronzo in posizione seduta raffiguranti le allegorie del Martirio, della Libertà, dell’Eguaglianza Civile e dello Statuto. Al livello centrale sono collocati quattro bassorilievi che ricordano due episodi delle battaglie di Goito e di Santa Luciarisalenti alla Prima Guerra di Indipendenza, mentre gli altri due, rappresentano l’abdicazione e la morte ad Oporto di Carlo Alberto. Agli angoli del piano inferiore, infine, sono poste quattro statue in posizione eretta, raffiguranti corpi dell’Esercito Sardo, quali l’Artiglieria, la Cavalleria, i Granatieri e i Bersaglieri.

 

L’idea di erigere un monumento in onore di Carlo Alberto, detto il Magnanimo, risale al 1847 sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle riforme politiche che trovarono una formulazione costituzionale nello Statuto che porta il suo nome. Fu un comitato promotore, composto da illustri uomini politici e del mondo della cultura guidato da Luigi Scolari, seguito a ruota dal Municipio di Torino, ad ideare il programma di una pubblica sottoscrizione da sottoporre all’allora ministro dell’Interno Des Ambrois. Seguì un lungo e appassionato dibattito parlamentare volto anche alla individuazione del luogo più adatto ad accogliere il monumento, interrotto brevemente in seguito ai Moti del 1848. L’andamento del dibattito subì una repentina svolta con la morte in esilio di Carlo Alberto nel luglio 1849: da quel momento la commissione istituita per la realizzazione del monumento attribuì all’iniziativa “il valore assoluto di precetto morale e insegnamento perenne”.

Nell’agosto del 1849 l’iniziativa venne ufficializzata da un progetto di legge, uno stanziamento di 300.000 lire e l’apertura di un concorso pubblico. Con una legge del 31 dicembre 1850 la gestione del progetto e le decisioni relative al monumento passarono al Governo e venne infatti nominata, in seguito, una commissione presieduta dal Ministro dei Lavori Pubblici Pietro Paleocapa. Si dovette però attendere fino al 20 maggio del 1856 per ottenere, dalla Camera e dal Senato, il voto che sancì la convenzione con Carlo Marocchetti, lo scultore scelto dal Ministero dei Lavori Pubblici per la realizzazione dell’opera, e lo stanziamento dei fondi necessari per la sua esecuzione (675.000 lire). A Marocchetti, il Ministero riconobbe “la piena e libera facoltà di modificare d’accordo con il Ministero […] il disegno in tutti i particolari limitandosi però sempre all’ammontare della spesa”.

In seguito, fu sotto suggerimento di Edoardo Pecco (l’ingegnere capo del Municipio che seguiva la realizzazione di tutti i lavori di sistemazione della nuova piazza Carlo Alberto) che la statua venne orientata in asse con palazzo Carignano, in modo da poterla cogliere anche dalla piazza omonima attraverso il cortile aperto al passaggio pubblico.L’inaugurazione avvenne il 21 luglio del 1861, cioè pochi mesi dopo l’unificazione d’Italia, con cerimonia solenne, nella quale il capo del governo Ricasoli tratteggiò la figura di un re che aveva configurato e preparato i destini di una nuova Italia.  Per quest’opera a Marocchetti venne riconosciuta la Gran Croce dell’Ordine di San Maurizio.

In tempi recenti, la piazza ha attraversato fasi di vita e utilizzo comuni ad altre piazze storiche del centro cittadino. E’ stata percorsa dalle auto e poi successivamente resa pedonale. E’ una delle piazze più vissute dagli studenti, al punto da essere anche soprannominata “la piazzetta”. Ridisegnata con spazi verdi e raccordata con le vie Cesare Battisti e Lagrange, anch’esse pedonali, tutte insieme creano un perfetto ed elegante percorso tra i musei. Infatti sulla piazza Carlo Alberto si affacciano il Museo Nazionale del Risorgimento nel Palazzo Carignano (sede del primo Parlamento italiano) e la Biblioteca Nazionale, mentre in via Lagrange è situato il Museo Egizio.

Simona Pili Stella