STORIA- Pagina 124

Quando la Fiat era Torino e Torino era la Fiat

I 35 giorni alla Fiat furono eterni.

Sostanzialme definibili in due fasi diverse. Dall’11 settembre al 27 settembre. Poi fino alla firma dell’accordo che avvenne 24 ore dopo la famosa marcia dei quarantamila. Il 14 ottobre era un lunedi. Diego Novelli ha sempre sostenuto che il numero dei partecipanti era una bufala. Probabile, ma che schiaffo al sindacato e dunque a tutta la sinistra italiana  Prima dell’11 Cesare Romiti annuncio’ che la Fiat dovevava mettere in cassa integrazione 24mila operai. A Torino gli operai ed impiegati erano oltre 100mila. Torino e provincia. Rincontrai davanti ai cancelli di Lingotto Ulderico Verniano compagno di liceo. Che ci fai? “Ci lavoro”. Ci vediamo dopo ? I i turni erano 6 -14 e 14 -22. Erano ancora gli anni che potevi girare per Torino senza orologio. Da Barriera si partiva in tram apposta per Lingotto e Mirafiori.  Torino era la Fiat e la Fiat era Torino. Non ci sono Santi ….alle 14 davanti ad un panino chiesi ad Ulderico di iscriversi alla fgci.
Non solo lo fece ma ne iscrisse altri 10 in Lingotto. Capitava un po’ in tutti gli stabilimenti Fiat. I piazzali di Mirafiori erano pieni di auto. Lingotto produceva sempre meno e Rivalta non aveva mai funzionato a pieno regime. Fu un errore di Valletta che voleva replicare il progetto ( riuscito ) di Mirafiori. Al museo dell’auto c’è una edificante cartina di Torino.
Sono segnati i primi insediamenti produttivi all’inizio del 900, tra carrozzerie e aziende metalmeccaniche. I più erano diventati fornitori Fiat. Il fondatore Guovanni Agnelli aveva una tecnica: per un po’ non li pagava, poi li annetteva. A volte con lusinghe, a volte con sistemi poco ortodossi. Il Vecchio ha sempre avuto il pelo. Diverso il nipote, l‘Avvocato suo omonimo. Si era goduto la vita fino a 48 anni delegando totalmente a Vittorio Valletta. Gianni Agnelli fu probabilmente ben contento di delegare il “lavoro sporco“ a Cesare Romiti. Davanti ai cancelli Fiat si paso’ dai picchetti al blocco totale. Praticamente nulla e nessuno poteva entrare ne’uscire. Bloccato tutto compreso (ovviamente) il cosiddetto indotto fatto per maggioranza da artigiani o piccoli industriali. Al di sotto dei 15 dipendenti dove non c‘era cassa integrazione. Comunque tutta la città era con gli operai Fiat. Gli Agnelli avevano un debito morale con la città e non potevano licenziare.
Il 26 settembre arrivo’ in città Enrico Berlinguer. Prima al Lingotto e poi al comizio a Mirafiori davanti alla Palazzina degli impiegati. Moltitudine di persone.Piero Cordone e Palmiro Gonzato, ex partigiani, capi del servizio d’ordine facevano largo tra la folla. C’erano tutti i capi comunisti di Torino e, giuro, c‘ero anch io. Durante il comizio di Berlinguer arrivo’ la fatidica frase: Compagno Berlinguer, se gli operai occupano la Fiat, tu da che parte stai? Ovviamente starei dalla parte degli operai. Non fu un Berlinguer risoluto nel rispondere. Perlomeno è ciò che mi ricordo, con gli occhi dell’oggi. Nel PCI, come nel sindacato c‘erano posizioni diverse tra chi voleva trattare e chi non voleva trattare.
Enrico Berlinguer fu ” tirato per il i capelli “ma nom ci poteva essere altra risposta. Risposta che era nel DNA di ogni comunista. Gianni Agnelli ci rimase male. Buon per lui ma appunto era nella forza delle cose. Sarebbe cambiato qualcosa ? No, perché era nelle cose. Il giorno dopo la Fiat annunciò  un radicale cambiamento  di strategia. Dai licenziamenti al ritorno ai 24mila cassa integrazione universalmente. I sindacati rifiutarono. Qualcosa comunque era cambiato, non ultimo erano passati 15 giorni, momenti di stanchezza con la consapevolezza che il tutto non poteva durare in eterno. Decisamente, in quei giorni ci fu una svolta diventando preludio della fine.

Patrizio Tosetto

La memoria sospesa del Caffé Tito

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La prima volta mi ci sono imbattuto per caso, voltando sul retro del Museo di Storia nazionale, dove è conservata la preziosissima Haggadah, il più antico documento serfadita del mondo, scritto a Barcellona intorno al 1350 e portato a Sarajevo dagli ebrei in fuga dalla Spagna

 Lì , a pochi passi, tra la   ulica Zmaja od Bosne e la riva destra della Miljacka, quasi di fronte al quartiere di Grbavica che si stende sulla riva opposta del fiume, c’è il Caffè Tito. Tra pareti rosse e verdi, gli ospiti vengono accolti dall’esposizione di ogni tipo di materiale bellico: dai kalachnikov fissati alle pareti agli elmetti appesi al soffitto e usati come portalampade. Nel dehors si può stare seduti su di una cassa per munizioni di mortaio, sorseggiando un boccale di bionda e fresca Sarajevska pivara. Ci sono persino un M3-M5 Stuart, il carro armato leggero di fabbricazione americana usato nella seconda guerra mondiale. E, a fianco, un esemplare di “sIG-33” (schwere Infanteriegeschütz),un obice tedesco usato come arma di appoggio dai fanti della Wehrmacht che venne,   probabilmente, “fatto prigioniero” dai partigiani jugoslavi. Dentro è un piccolo museo. Dal busto in bronzo del leader della Jugoslavia alle sue foto incorniciate e appese ai muri: in vacanza sulle isole istriane di Brioni, mentre ispeziona le truppe, al fianco di Churchill, Che Guevara, Castro; mentre discute con JFK poco tempo prima che il presidente degli Stati Uniti fosse ucciso a Dallas. Ma anche immagini con attori famosi, da Richard Burton a Elisabeth Taylor, Sofia Loren e Gina Lollobrigida. Sul muro c’è l’orologio, fermo sull’ora e il giorno della sua morte: le tre e zero cinque del quattro maggio 1980. Girando per i locali si possono ammirare il quadro che descrive la battaglia della Neretva e la serie di suoi ritratti a carboncino, accanto a vecchie pagine di giornale incorniciate dove di parla di lui. Sul sito web, in campo rosso,scorrono frasi come queste: “Druze Tito, mi ti se kunemo”, compagno Tito,noi te lo giuriamo, “Smrt Fašizmu Sloboda Narodu “, a morte il fascismo, libertà del popolo. Strana città, Saraievo,dove si è incontrata la storia dai romani fino all’impero ottomano, mescolando origini ed etnie mentre oggi, in quest’epoca incerta s’irrigidiscono i nazionalismi. Un detto veniva un tempo ripetuto,quasi con orgoglio: sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito.

Lui, il garante della complessa unione degli slavi del sud, conservata per decenni nel mito della lotta partigiana, gelosamente difesa da est e ovest, non ha potuto assistere al crollo e alla dissoluzione del sogno jugoslavo. Nel Caffè le immagini sono statiche, fissate dal tempo come nei libri di storia mentre, a poco meno di quarant’anni dalla sua morte, la figura di Tito resta lì, sospesa nel limbo, ancora scomoda e difficile, amata e contestata. In tanti vorrebbero dimenticarla mentre altrettanti la rivendicano in un soprassalto di nostalgia. Non bisogna farsi trarre in inganno,però: nel bar, a ciò che ci circonda, quasi nessuno ci fa caso. Non c’è un fervore “titino” da parte dei clienti. Solo un paio di anziani, a quanto si racconta, vengono di tanto in tanto, comandano una rakija e mentre se la bevono lentamente ispezionano i muri quasi temessero che l’immagine di Tito potesse d’un momento all’altro dissolversi, sparire. I ragazzi invece si fermano a bere, fanno festa e quando il clima lo consente preferiscono sedersi all’aperto sotto il portico. Altri ragazzi della loro età, più o meno venticinque anni fa, percorrevano le strade di Sarajevo scandendo “Mismo Walter”, noi siamo tutti Walter,tentando di fermare la corsa pazza vero la guerra ammantata da falsi simboli etnici e religiosi che s’avvicinava minacciosa. Agitando migliaia di bandiere arcobaleno ripetevano all’infinito uno dei nomi clandestini del partigiano Tito,del comandante dell’esercito popolare che unì serbi e bosniaci, croati e macedoni nella lotta contro i nazisti.Quanti erano? Centomila? Forse anche di più. Col passare del tempo tutto cambia e oggi anche l’antifascismo è poco più di un rito e persino l’inespugnabile bunker di Tito a sud di Sarajevo è stato aperto da qualche anno alle visite dei turisti per fare cassa. “La lezione della guerra non è servita”, confidò a Paolo Rumiz un serbo, Milutin Jovanovic, studente di   Scienze politiche in Italia , nato a   Niš durante il conflitto balcanico. “Trionfa tutto ciò che lui aveva bandito: vessilli, identità regressive, fascismi”. Ormai c’è chi celebra Draza Mihajlovic, acerrimo nemico di Tito e capo dei “cetnici”, gli ultranazionalisti e filo-monarchici serbi della seconda guerra mondiale. C’è persino chi va in pellegrinaggio sulla tomba di Slobodan Milosevic, tenendo in pugno una candela accesa, a rendere omaggio a colui che ha trascinato la ex-Jugoslavia nel disastro. Ancora Milutin, a Rumiz: “Pare quello che accade in Italia con Garibaldi. Anche il nostro mito unitario è denigrato con argomenti clericali e separatisti. Accusano Tito di avere odiato i serbi e di aver voluto unire ciò che era impossibile tenere assieme”. Appunto, sei nazionalità, quattro religioni, tre alfabeti e una decina di lingue diverse. Intanto, nel locale, un uomo di mezza età, dall’aspetto distinto, allunga una mano sul busto. Sembra quasi che accarezzi il volto scolpito. Guarda me e Goran e, prima di andarsene, ci dice in serbo-croato,sottovoce: “Che tristezza!”. Scuote la testa e aggiunge un “mala tempora currunt” che capisco anch’io. Ci dicono, poi, che è un professore di latino e filosofia all’Università di Sarajevo che, di tanto in tanto e a volte senza nemmeno consumare un bicchiere d’acqua, s’aggira sconsolato tra le reliquie del locale. Pensiamo che sia bene farci un’altra birra, brindando alla speranza di tempi migliori: živeli, alla salute.

Marco Travaglini

Il “rude” Arisio testimone di una pagina di storia

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Con Luigi Arisio scompare un testimone e un protagonista di una pagina di storia torinese e italiana. Era un uomo rude e un po’ incolto che veniva dal duro lavoro in fabbrica dove entrò giovanissimo dopo aver frequentato  la scuola allievi Lancia. Allora Fiat e Lancia avevano una scuola allievi che formava i giovani, così come avevano, con Valletta, il culto degli anziani. Si tratta di un mondo scomparso.

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Arisio rappresenta il testimone di un mondo che non c’è più perché la Fiat non c’ è più. Ho riletto nel corso dell’ estate la bella biografia  di Piero Bairati su Vittorio Valletta ed ho potuto ricostruire il durissimo lavoro per ricostruire dopo la guerra e creare il miracolo italiano.
Si trattava di  gente abituata a lavorare, dei gran  “ruscun” per dirla in piemontese. I sindacati, sull’onda della contestazione e e dell’autunno caldo, avevano devastato la Fiat, ricorrendo al sabotaggio interno. C’erano dipendenti che erano  contigui al terrorismo e che creavano sul posto di lavoro un clima di violenza Intollerabile.  il terrorismo stesso era entrato nel corpo dell’azienda. L’avv.Giovanni Agnelli, più abituato alla bella vita che all’ impegno alla guida dell’azienda, forse non si  era neppure accorto del clima che c’era a Mirafiori. Il mio amico operaio Salvatore Guerreri mi descrisse più volte come si stava in officina . Solo tardivamente Cesare Romiti si rese conto  di una situazione ingovernabile che incideva gravemente  sulla produzione aziendale. Il capo reparto Luigi  Arisio insieme a pochi  altri ebbe il coraggio quarant’anni fa nell’ ottobre 1980 di  promuovere la grande marcia dei quarantamila quadri ed operai  che rivendicavano il diritto di lavorare che il picchettaggio sindacale rendeva  impossibile. Furono 40 Mila “crumiri “ come dissero sprezzantemente i comunisti e la CGIL che arrivò all’idea di occupare  la Fiat sostenuta da Enrico Berlinguer in persona. Piero Fassino che fu un giovane dirigente del Pci a Mirafiori, ha ripensato onestamente a quegli anni di ferro e di fuoco. L’ex sindaco Diego  Novelli  ha di recente dileggiato, da par suo,  Romiti a cadavere caldo, sostenendo che, al massimo, i quarantamila erano quindicimila. C’ è da attendersi qualche  altra bordata dell’arzillo novantenne  per Arisio che rischio’ la sua incolumità personale per dare un segnale di cambiamento che inverti la storia della Fiat. Rischiò di essere ammazzato o gambizzato dalle Br che ancora non erano state sconfitte, Nel 1983 venne eletto deputato repubblicano e fece una legislatura senza brillare particolarmente. Lo incontravo qualche volta alle feste in Prefettura e lo vedevo impacciato, malgrado fosse diventato onorevole, Era un uomo che era rimasto semplice, che si era fatto da se’, sapendo rischiare la propria tranquillità personale e famigliare in un momento drammatico. Non entrò nella casta politica, alle elezioni successive non venne riconfermato. Resta il valore morale politico del suo coraggio civile di fronte alle pecore e agli agnelli che stavano subendo il ricatto della demagogia populista e sindacale di quegli anni. Fu un uomo coriaceo ,un piemontese duro e puro ,un esempio del valore che il vecchio Piemonte sapeva dare al lavoro. Oggi siamo  finiti nello stagno del reddito di cittadinanza, figlio lontano del marasma di quegli anni il cui il salario era una variabile indipendente dalla produttività.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com

Un cortile tutto nuovo a Palazzo Arsenale

Restauro e Valorizzazione del Cortile d’onore dello storico palazzo

Con l’obiettivo di ridare splendore al Cortile d’onore, a giugno sono stati avviati i lavori che porteranno al completo rifacimento e ad una nuova illuminazione degli spazi. Il progetto è gestito dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, sostenuto grazie ai contributi della Fondazione Compagnia di San Paolo, di Intesa Sanpaolo e della stessa Consulta, e realizzato in regime di Art Bonus.

Il Palazzo dell’Arsenale, progettato e costruito tra il 1738 e il 1742, oggi ospita il Comando per la Formazione e la Scuola di Applicazione dell’Esercito.

Il maestoso Cortile d’onore, sede di importanti cerimonie militari, è tra i più grandi della città.

L’intervento di restauro e valorizzazione in via di realizzazione sotto la supervisione della Soprintendenza competente – sarà portato a termine entro il mese di novembre.

Secondo tempi e modalità che saranno definiti e comunicati, il Cortile sarà aperto a visite guidate e su prenotazione. Un importante bene storico-artistico, patrimonio della tradizione e della storia piemontese, sarà restituito alla pubblica fruibilità

Quaglieni, Gremmo e la strage di Torino del 1864

STORIA TORINESE / Roberto Gremmo commenta sul giornale “La nuova Padania” il pezzo di Pier Franco Quaglieni sulla strage di Torino del 1864 pubblicato nei giorni scorsi su “il Torinese”. Vi proponiamo l’articolo di Gremmo e una replica di Quaglieni

La replica di Gremmo
Non è “Vistoso e banale piemontesismo” ricordare la strage cittadina del 1864. Non ha atteso due giorni il gran maestro del laicismo Torinese per lanciare i suoi strali contro il “vistoso e banale piemontesismo”, imputato di aver voluto ricordare la strage cittadina del 1864, un tragico evento simbolico che segna la fine del nostro vecchio Piemonte. Con fastidio e disprezzo, sul quotidiano “Il Torinese”, Franco Quaglieni critica duramente la commemorazione dei 62 morti innocenti da parte del Comune e lo accusa di non avere il senso della storia per essersi dimenticato di festeggiare il 20 settembre, giorno dell’invasione militare del pacifico e neutrale, Stato sovrano del Papa. A me pare invece più che doveroso l’omaggio alle vittime d’una violenza militarista e semmai andrebbe biasimato il colpevole disinteresse della Regione, ancorché a guida semi-sovranista.   Ognuno ha i suoi “miti fondanti”, caro Quaglieni. Quello della “terza Roma” e’ stato alla base dell’isteria massonica che ha portato ai 600mila poveri popolani morti del primo conflitto mondiale ed al Fascismo mentre quello nostro, da lei bollato come “revisionismo piemontardo”, e’ il nostalgismo per un Piemonte unito a val d’Aosta, Nizzardo e Savoia, unico orizzonte di Casa Savoia prima dell’avvento del cadetto e caduco ramo Carignano che sconvolse la “Patria Cita” con guerre sanguinose di conquista, intrighi, avventure militariste e cancellazione delle identità culturali dei vari Popoli della Penisola.Celebrare il 20 settembre? Certo, ma solo la battaglia del 1860 a Caiazzo dove i fedeli armati di Francesco II e del duca di Caserta misero in fuga i “picciotti” di Garibaldi. L’ultima vittoria dei soldati meridionali prima di essere deportati a migliaia nel campo di concentramento di Lombardore, primo lager dell’Europa moderna.Un altra vergogna che nessun senso mitologico della storia scritta dai vincitori può cancellare.  Roberto Gremmo
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La risposta di Quaglieni

Di Roberto Gremmo apprezzo la coerenza fin dai tempi in cui su “Repubblica” lo difesi dall’egemonia dei Lumbard che voleva cancellare il suo movimento , l’unico davvero autonomista.

E’ un uomo intero che va avanti solitario per la sua strada , dimostrando che la cultura è più importante del successo politico. E’ uno, tanto per capirci, con cui è bello discutere perché si vede che è in buona fede  Detto questo, nel suo articolo in cui mi onora della sua attenzione polemica, scrive cose imprecise o infondate. Non sono il  gran maestro del laicismo piemontese, perché sono un cattolico laico e liberale che ha riscoperto le ragioni della fede.

Neanche in  passato sono stato gran maestro di nulla ed ogni richiamo alla massoneria mi è estraneo. Io mi occupo come studioso e docente da una vita di Risorgimento e in quella veste ho scritto. Io non sottovaluto i fatti di Torino del 1864 che condanno, ma ritengo che fosse necessario il trasloco della capitale a Firenze, prima tappa verso Roma , come volevano Cavour, Mazzini, Garibaldi. Io credo nel Risorgimento come grande pagina di storia e di riscatto nazionale.

Ho criticato il Sindaco perché  non ha ritenuto di far nulla per il 150 esimo del XX settembre che reputo data importante per la storia italiana. Invito Gremmo ad una discussione amichevole e ravvicinata. Abbiamo idee  molto diverse, ma il confronto ravvicinato è sempre utile per scoprire dei pezzi di verità.

Pierfranco Quaglieni

 I Musei Reali festeggiano le Giornate Europee del Patrimonio Sabato sera ingresso a 1 Euro

Un ricco calendario di iniziative, laboratori e performance dal vivo

 

Sabato 26 e domenica 27 settembre i Musei Reali celebrano le Giornate Europee del Patrimonio con visite, incontri, laboratori e un’apertura serale straordinaria. “Imparare per la vita” è il tema proposto dal Consiglio d’Europa e rilanciato dal MiBACT per questa edizione della manifestazione internazionale, che ogni anno coinvolge in tutta Italia i luoghi della cultura e i musei statali: un richiamo ai benefici che derivano dall’esperienza culturale e dalla trasmissione della conoscenza nella società contemporanea.

 

Sabato 26 settembre

 

Il ruolo educativo dell’arte e l’alleanza tra scuola e museo sono i temi centrali dei due appuntamenti che i Musei Reali dedicano nella giornata di sabato ai progetti didattici condotti nella primavera 2020.

Dalle 10 alle 12, è previsto l’Incontro conclusivo del progetto “Quante storie in Galleria!”, con gli alunni della scuola primaria Rignon di Torino pronti a narrare le storie che ruotano attorno a due capolavori della Galleria Sabauda.

Dalle 15 alle 16, webinar online “Qui si fa arte! scopro, gioco, creo, imparo”, per raccontare il progetto che ha visto i Musei Reali collaborare con la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo e la casa editrice Pearson Italia nell’ambito del programma Riconnessioni, con il coinvolgimento dell’Istituto IC Pertini di Torino. Protagonisti i bambini e le nuove tecnologie, in un’esperienza che permette di imparare l’arte attraverso il digitale e giocare con le opere della Galleria Sabauda mettendo in campo creatività e ingegno, con un approccio innovativo e inclusivo. Partecipazione gratuita iscrivendosi al link: https://attendee.gotowebinar.com/register/8829839642752113424.

 

La giornata di sabato 26 settembre è anche l’occasione per visitare la Biblioteca Reale e scoprirne il prestigio. Dalle 14 alle 18 il pubblico, guidato da alcuni esperti, potrà ammirare gli affreschi della volta del Salone Monumentale. Un’opera di straordinaria bellezza progettata per il re Carlo Alberto dall’artista di corte Pelagio Palagi, dipinta a monocromo con immagini che celebrano i diversi campi del sapere e i grandi protagonisti delle scienze e delle arti. Ingresso gratuito su prenotazione obbligatoria con almeno 24 ore di anticipo all’indirizzo: mr-to.bibliotecareale@beniculturali.it, e compilando il modulo presente alla pagina: https://www.museireali.beniculturali.it/scheda-di-registrazione-anagrafica-biblioteca-reale/.

 

Sabato sera, dalle 19.30 alle 22.30, l’apertura straordinaria con ingresso a 1 Euro offre la possibilità di riscoprire le architetture, gli ambienti, le collezioni dei Musei Reali e passeggiare nel Giardino Ducale, recentemente rinnovato e impreziosito da una scenografica illuminazione serale.

 

Laboratori

 

Sabato 26 settembre alle ore 14.30, il laboratorio “Dietro lo scavo, dentro il Museo” invita a immedesimarsi nel ruolo dell’archeologo e a collaborare con i professionisti dei Musei Reali. I partecipanti ripercorreranno tutte le attività che precedono gli studi ricostruttivi e l’esposizione dei reperti, al termine dello scavo: il lavaggio, la suddivisione dei materiali e la documentazione. Costo: 5 Euro adulti, 2 Euro 18-25 anni, gratuito 9-18 anni. Partecipazione fino a esaurimento dei posti disponibili (massimo 10 persone) con prenotazione obbligatoria al numero +39.011.19560449 (dal lunedì al venerdì: ore 9.00-13.00) e via mail info.torino@coopculture.it. Consigliato abbigliamento sportivo e calzature chiuse. L’attività prevede contatto con l’acqua.

 

Attività nei Giardini Reali

 

Sabato 26 settembre

 

Alle ore 9.30, in una cornice del tutto eccezionale come quella dei Giardini Reali, sarà possibile praticare yoga con una lezione all’aria aperta, della durata di un’ora. Un’occasione unica per riscoprire sé stessi, riconnettendosi con la terra e l’ambiente circostante. L’attività si terrà ogni sabato di settembre al costo di 15 Euro. Per prenotazioni e informazioni, 011.19560449 o info.torino@coopculture.it. In caso di maltempo, l’attività si svolgerà al secondo piano di Palazzo Reale.

 

Domenica 27 settembre

 

Dalle 10 alle 13, i Musei Reali propongono la visita “Dai Giardini ai Musei: incontri con curatori ed esperti tra storia, arte e natura”. Un interessante percorso, un’insolita chiave di lettura, attraverso il quale scoprire la stretta relazione tra gli elementi naturali dei Giardini e le opere d’arte custodite all’interno delle sale museali. Attività gratuita.

 

Dalle 14.30 alle 17.30, le famiglie sono invitate a partecipare all’attività “Tessendo i colori del re”, ispirata ai tessuti preziosi che rivestono le pareti e i mobili negli appartamenti reali: un laboratorio all’aria aperta in cui sbizzarrirsi con la fantasia, dove adulti e bambini verranno guidati da una restauratrice nella realizzazione di piccolo arazzo. Attività gratuita adatta a bambini dai 6 anni di età. Partecipazione fino a esaurimento dei posti disponibili (massimo 12 persone) con prenotazione obbligatoria al numero +39.011.19560449 (dal lunedì al venerdì: ore 9.00-13.00) e via mail info.torino@coopculture.it.

Dalle ore 14 alle ore 19, in collaborazione con le associazioni culturali Speculum Historiae, TerraTaurina, Okelum e Le vie del tempo, i Musei Reali propongono l’attività “Dai druidi al Grand Tour. Esperienze per imparare a vivere”. Il pubblico è invitato a riscoprire il ruolo che la formazione ha avuto nel tempo. Un viaggio nel mondo dell’istruzione attraverso canti e storie della tradizione orale, un excursus tra le figure dell’apprendista e l’insegnante, il pedagogo, il maestro artigiano o il mastro d’arme.

 

Sia sabato 26 sia domenica 27 settembre, in orario di apertura ordinaria, valgono le consuete tariffe d’ingresso. In caso di maltempo, le attività previste in giardino si svolgeranno in spazi alternativi, all’interno dei Musei Reali.

 

Domenica 27 settembre, inoltre, dalle 16.30 alle 18.30, nella Corte d’Onore di Palazzo Reale si terrà il concerto benefico a favore del service LIONS “Bambini Nuovi Poveri”. L’esibizione, promossa dal Lions Club International Distretto 108-la1, con il patrocinio della Città di Torino, vede la partecipazione dell’Orchestra Giovanile di fiati InCrescenDo e della Banda musicale del Corpo di Polizia Municipale della Città di Torino. Prenotazione obbligatoria all’indirizzo: lionsbambininuovipoveri@gmail.com o telefonando al numero: 3923673237.

 

Visite speciali

 

Sabato 26 e domenica 27 settembre alle ore 15 l’itinerario “Benvenuto a Palazzo!” è visitabile con le guide di CoopCulture, alla scoperta delle sale di rappresentanza del primo piano di Palazzo Reale, con l’Armeria e la Galleria della Sindone, per scorgere il restauro “a vista” dell’altare della Cappella. Il percorso, della durata di circa un’ora, è visitabile in gruppi composti al massimo da 8 persone ciascuno, al costo di 7 euro oltre al biglietto di ingresso ridotto ai Musei Reali. Per una visita individuale, è possibile scaricare MRT, l’app ufficiale dei Musei Reali, comprendente l’audioguida completa con oltre 35 ascolti oppure acquistare al Museum Shop la nuova guida a stampa I Musei Reali di Torino pubblicata da Allemandi Editore e realizzata in collaborazione con CoopCulture.

 

Sabato 26 settembre il percorso prosegue nelle Cucine Reali al piano interrato di Palazzo Reale e nell’Appartamento della Regina Elena, al piano terreno, ogni ora dalle 10 alle 17. Le visite, della durata di un’ora, sono condotte dai volontari dell’Associazione “Amici di Palazzo Reale”. Il biglietto è acquistabile in cassa il giorno stesso al costo di 7 euro.

 

Le attività del Caffè Reale

 

All’interno della suggestiva Corte d’Onore di Palazzo Reale, è possibile rigenerarsi con una pausa al Caffè Reale Torino, ospitato in una cornice unica ed elegante, impreziosita da suppellettili in porcellana e argento provenienti dalle collezioni sabaude. Sabato 26 settembre, in occasione dell’apertura straordinaria serale, sarà possibile gustare un aperitivo o una cena accompagnati da un sottofondo musicale. Informazioni e prenotazioni al numero 335 8140537.

 

TOward2030. What are you doing?

 

Fino al 17 gennaio il pubblico potrà visitare l’esposizione dedicata al progetto TOward2030. What are you doing? Ideato da Lavazza e dalla Città di Torino per diffondere la cultura della sostenibilità attraverso il linguaggio della street art, il progetto ha previsto la realizzazione di 18 opere murali ispirate ai Sustainable Development Goals elaborati dall’ONU, 17 obiettivi di sviluppo sostenibile più il Goal Zero, pensato da Lavazza per divulgare gli obiettivi stessi. La mostra, curata da Roberto Mastroianni e Filippo Masino, presenta nello Spazio Confronti della Galleria Sabauda fotografie e filmati degli artisti al lavoro, mentre nel Boschetto dei Giardini Reali sono riproposti gli scatti delle 18 opere d’arte urbana presenti a Torino, oltre ai lavori di alcuni artisti dei collettivi Il Cerchio e le Gocce, Monkeys Evolution e Truly Design, realizzati durante il live painting inaugurale con il coordinamento di MurArte Torino.

 

Le iniziative TOward2030. What are you doing e Cinema a Palazzo sono inserite nel programma “Torino a Cielo Aperto” (torinoacieloaperto.it).

 

 

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MUSEI REALI TORINO
museireali.beniculturali.it

Il senso della storia

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni/ Andando a fare piacevolmente shopping  in centro, mi sono imbattuto in un gruppetto di persone attorno ad un assessore,  il gonfalone comunale e due bandiere piemontesi che ricordavano in piazza San Carlo i caduti dei moti di protesta contro il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, in vista di essere portata a Roma come avvenne 150 anni fa

C’era anche un Tenente dei Carabinieri che assai poco c’entrava con quella celebrazione che implicitamente ed anche esplicitamente coinvolgeva l’Arma benemerita in termini negativi. E‘ incredibile che Sindaco e Comune abbiano ignorato la data del 20 settembre e ricordino invece una data negativa e brutta della storia torinese, seguendo i luoghi comuni del più vistoso e banale piemontesismo ,incapace di guardare, andando oltre ai propri occhi, alla nuova Italia nata dal Risorgimento. Sono atteggiamenti che ricordano la virulenza antitirisorgimentale della Lega di Bossi.
Io a palazzo Carignano ho detto domenica scorsa, ricordando la Breccia di Porta Pia del XX settembre 1870, che noi viviamo nel mito del Risorgimento, opposto al mito e alla vulgata antirisorgimentale e antipatriottica di chi ha demonizzato la pagina più importante della nostra storia che segno’ il nostro riscatto nazionale. I pochi torinesi di piazza San Carlo dovrebbero leggersi qualche pagina di Croce, di Omodeo,  di Romeo per capire cosa fu il Risorgimento che Salvemini definì ciclopico. Ogni Nazione ha un suo mito e per noi il primo mito fondante, come diceva Luraghi, è il Risorgimento . Poi a debita distanza viene il mito resistenziale.
I facili revisionismi piemontardi e neo borbonici che si elidono a vicenda, riprendono cose non vere o enfatizzano alcuni errori che di fronte al grande disegno cavouriano, garibaldino e mazziniano di unire l’Italia sono davvero piccole cose.
E‘ strano o, al contrario, è  ovvio che Appendino non capisca il senso della storia, come diceva Omodeo.

Il Museo Pietro Micca alle Giornate europee del patrimonio

Sabato 26 e domenica 27 settembre anche il museo Pietro Micca partecipa alle Giornate Europee del Patrimonio, sul tema “Patrimonio e informazione. Imparare per la vita per richiamare i benefici che derivano dalla esperienza culturale e dalla trasmissione delle conoscenze tra le generazioni.

Il museo Pietro Micca e i suoi siti collegati del Pastiss e del Rivellino degli Invalidi invitano a condividere il loro patrimonio sotterraneo, storico, artistico e valoriale.

INGRESSO GRATUITO E A PRENOTAZIONE

  • museo Pietro Micca aperto in entrambe le giornate di sabato 26 e domenica 27 settembre nell’orario 10,30 – 12,30 e 14,30 – 16,30 (ultimo ingresso)

  • domenica 27 settembre orario:15-19

Area archeologica del Rivellino degli Invalidi di corso Galileo Ferrari 14 e Fortezza del Pastiss di via Papacino 1

Per informazioni e prenotazioni: 011 0116 7580 e info@museopietromicca.it

Sito: www.museopietromicca.it

“Torino non dimentica la prima strage di Stato del settembre 1864”

STORIA / Riceviamo e pubblichiamo un intervento di Roberto Gremmo

Il 21 e 22 settembre 1864 la nuova Italia unita e imperialista che aveva regalato alla Francia Nizza e Savoia, dopo aver invaso Stati sovrani e colonizzato le loro popolazioni, mostrava il suo volto più sanguinario massacrando a Torino decine di popolani inermi che stavano manifestando pacificamente contro lo spostamento della capitale a Firenze.

Quelle tragiche giornate di sangue torinesi non sono state dimenticate e sono una ferita ancora aperta. Segnano la dolorosa frattura fra un Popolo che aveva per secoli seguito con disciplina la Dinastia Sabauda, e i regnanti del ramo Carignano che indegnamente e spregiudicatamente aveva avuto la corona reale, dopo la morte dell’ultimo discendente diretto di Emanuele Filiberto che proprio Torino aveva voluto come capitale. Le ragioni della protesta popolare del 1864 sono note. Traevano motivo dal sicuro impoverimento economico della città che veniva “scippata” delle sue più importanti funzioni, ma prendevano forza dal rancore giustificato dei piemontesi che si sentivano, a giusta ragione, traditi, abbandonati e impoveriti. Di fronte al malcontento, una classe politica straniera almeno nella mentalità, capeggiata dal toscano Peruzzi e sostenuta dai politicanti nostrani già pronti a trasformarsi in “italianissimi”, aveva fatto brutalmente ricorso alla maniera forte, ordinando a poliziotti, carabinieri e soldati di sparare ad altezza d’uomo sulla folla inerme. Restarono sul selciato almeno una sessantina di morti, e nel fuggi fuggi generale diversi poveracci rimasero più o meno gravemente feriti. Senza colpa alcuna. Con loro moriva il nostro Piemonte. Ogni anno Torino commemora la strage del 1864.

 

 

Turin arcòrda ël prim ravagi dë Stat dël 1864

El 21 e 22 dë stèmber dël 1864 la neuva Italia unìa e amperialista ch’a l’avìa ofrì a la Fransa Nissa e Savàja dòp avèj debordà at djë Stat andipendent e s-ciavisà soa gent, a fasìa vëdde soa fàci pì sagnosa casand vàire desen-e ‘d përson-e ch’a fasìo ‘na tranquila dimostrassion contra ‘l tramudament dla capital a Firense. Cole tràgiche giornà ‘d sangh turinèis a son nen stàite dësmentià e a son ‘na blëssura ancora duverta. A marco l’angossosa rompura anta ‘n Pòpol ch’a l’avìa për sècoj andà da press sensa banfé ij Sovran Sabàud e ‘dcò coj dij Carignan che nen meritèivolentement  e sfaciatament a l’avèa pià la coron-a real, dòp dla mort dl’ùltim dla sëppa ‘d Manuel Filibert che pròpi Turin a l’avìa vorsù për capital. As conosso le rason dla reclam dla gent. A fongavo andrinta a la sicura tribulassion dla vita sitadin-a ch’ai gavavo soa valevòila mansion ma a piavo fòrsa da la pì che scusabil rancugna dij Piemontèis ch’as sentìo, nen a tòrt, tradì, bandonà e ampovrì. Dëdnans a la dëscontentëssa, ‘na cracia ‘d traficant strangé almanch ant la manèra ‘d pensé, con cap-testa ‘l toscan Peruzzi, e tenùa su da politicant nostran bé-le che pront a trasformesse an “italianissimi”, a l’avìa brutalment butà man a la manèra fòrta, dand man lìbera a plissiòt, carabigné e bajèt ‘d fé feu contra la maraja sens’armi. A l’era finì ch’a restavo an sël pavé almanch ‘na sessanten-a ‘d mòrt e ant lë scapa scapa general vàire povrass a l’ero restà blëssà.
Sensa gnun-e colpe. Con loraotri a morija nòstr vej Piemont.

Roberto Gremmo, dalla rivista Etnie

 

La strage di Torino del 1864

PAGINE DI STORIA TORINESE / Le cose andarono più o meno così. Correva l’anno 1864, i Savoia si erano annessi da poco tempo l’Italia e Torino, capitale del Regno, contava duecentomila abitanti

Nel mese di gennaio il Consiglio comunale approvava il progetto di Piazza Arbarello e la sistemazione di Piazza Statuto. Ai primi di febbraio una nevicata di sessanta centimetri bloccava i treni provenienti da Genova e Pinerolo. Il 13 aprile aveva luogo l’ultima esecuzione capitale, giustiziato il ventitreenne Savio Carlo di Filippo nato a Incisa Balbo. Il 3 giugno gli operai del Regio Arsenale di Borgo Dora proclamavano uno sciopero che cessò dopo che una delegazione venne ricevuta dal Ministro della Guerra. Il 18 settembre i giornali pubblicarono una notizia bomba. Con la firma della Convenzione di Settembre, avvenuta tre giorni prima a Fontainebleau, le truppe francesi si sarebbero ritirate da Roma e l’Italia s’impegnava a non invadere lo Stato Pontificio. Fin qui nulla di che. Fidandosi poco degli italiani, però, Napoleone III aveva ottenuto come garanzia il trasferimento della capitale da Torino a Firenze entro sei mesi. Il protocollo aggiuntivo doveva restare segreto ancora per un po’, ma l’informazione divenne presto di pubblico dominio. Il 20 settembre la filogovernativa Gazzetta di Torino pubblicò un articolo, suggerito personalmente da Vittorio Emanuele II, a favore al trasferimento e che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto placare il previsto dissenso. Lo spostamento della capitale non rappresentava soltanto una grave perdita di prestigio per la città: la borghesia imprenditoriale stava investendo ingenti capitali nell’edilizia, i ministeriali non sarebbero stati propensi a un cambiamento di sede, la nobiltà subalpina avrebbe dovuto rinunciare ai privilegi legati alla presenza della corte sabauda. Ma dopo l’Unità i tempi avevano rapidamente mutato corso, erano entrate in gioco consorterie affaristiche e politiche che miravano a creare una nuova classe dirigente lontano da Torino.

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La pubblicazione dell’articolo rappresentò la scintilla che scatenò i fatti drammatici dei giorni successivi. Il 21 e il 22 settembre i numerosi cittadini torinesi scesi in piazza (con sabauda compostezza) contro lo spostamento della capitale furono attaccati a diverse riprese dalla forza pubblica, che non esitò a far fuoco. Rimasero sul terreno 52 morti e 187 feriti. L’inaudita carneficina destò scalpore in Italia e all’estero. La successiva inchiesta parlamentare appurò che l’ordine era partito da Silvio Spaventa, segretario generale del Ministero dell’Interno, nonché braccio destro del presidente del Consiglio Minghetti, il quale diede le dimissioni. La repressione era stata resa ancora più crudele dagli esecutori materiali: soldati, agenti di polizia e allievi carabinieri, sobillati da provocatori prezzolati, avevano tirato alla sans-façon sulla folla disarmata. Le autorità di Pubblica Sicurezza, il questore Chiapussi per primo, furono destituite. Al termine dell’inchiesta, tuttavia, il Parlamento decise di non attribuire ad alcuno la responsabilità di quelle tragiche giornate: i mandanti rimasero perciò impuniti. Un mese più tardi, il 30 ottobre, Massimo D’Azeglio scrisse su L’Opinione un articolo che si concludeva così: “Io credo vi sia molto da dire sul trattato ma che, date le circostanze presenti, visto che è stato acclamato dalla Nazione, visto che noi torinesi ne veniamo particolarmente a soffrire, visto che in Italia la questione capitale non è quella della capitale ma quella della concordia, opino che noi per primi dobbiamo rassegnarci ad accettare il trattato. Soltanto che non vorrei sentire parlare di compensi. Al sacrificio mi sento disposto, a presentare il conto no”. L’orgoglio tutto piemontese espresso da tali parole non celava – anzi, paradossalmente sottolineava – che la Ragion di Stato doveva prevalere su ogni altra questione. Il 16 novembre il Senato approvò la Convenzione di Settembre con 134 voti, tra cui quello dello stesso D’Azeglio, contro 47 (e due astenuti). Tre giorni dopo, stessa schiacciante maggioranza alla Camera dei Deputati: 305 voti a favore, 68 contrari e altri due astenuti. Il 15 dicembre la Gazzetta Ufficiale pubblicò la legge che trasferiva la capitale da Torino a Firenze. Il primo gennaio 1865, in occasione del Capodanno, Vittorio Emanuele II si recò come consuetudine allo spettacolo offerto dal Teatro Regio e qui ricevette un’accoglienza a dir poco gelida. La faccenda si ripeté il 30 successivo, quando né il sindaco né il Consiglio comunale parteciparono a un ballo di corte. La situazione, già tesa di per sé, fu aggravata dal comportamento nuovamente violento che le guardie inviate dalla questura tennero contro una folla di manifestanti scesa in Piazza Castello per commemorare le luttuose giornate del settembre precedente.

 

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Mostrando regale sdegno per (a suo dire) tanta ingratitudine, Vittorio Emanuele lasciò Torino per la tenuta di San Rossore e, infine, raggiunse Firenze. Gli avvenimenti che seguirono rasentano il ridicolo, ma raccontano bene l’ambiguità in cui la politica italiana si barcamena da sempre. Informato del risentimento del re, il sindaco di Torino Emanuele Luserna di Rorà non trovò di meglio che partire di gran carriera alla volta di Firenze, latore di un documento in cui il consiglio comunale si profondeva in mille scuse per la dimostrazione ostile del 30 gennaio. A svolgere opera di mediazione tra le parti fu incaricato il ministro Lanza, peraltro organizzatore del gran ballo che aveva scatenato gli incidenti tra forze dell’ordine e manifestanti. In tempi strettissimi fu emanata un’amnistia generale riguardante anche i fatti del settembre precedente, a condonare pilatescamente tanto i militari responsabili delle violenze quanto i civili rimasti coinvolti. Sistemata alla spiccia la faccenda e archiviato il malumore, Vittorio Emanuele II fu nuovamente a Torino il 28 febbraio per partecipare al corso carnevalesco. È in quest’occasione che s’inserisce il noto episodio di Gianduja il quale, in maniche di camicia, si avvicinò alla carrozza reale che transitava in Piazza San Carlo esclamando: << Maestà, l’hai già daje la camisa, per chiel j daria anche la vita! >>. Suppongo che l’episodio sia stato maneggiato per benino dai giornali governativi, e infatti venne unanimemente considerato come suggello dell’avvenuta riconciliazione tra popolo e casa regnante. Il 26 aprile 1865 il trasferimento della capitale diventò ufficiale ed a questo punto nessuno ebbe più da ridire: l’accordo diplomatico con i Francesi era salvo e la cittadinanza aveva ingoiato il rospo tutto intero. Il 7 maggio, all’Hotel Trombetta, si tenne un gran banchetto in onore di cinquantanove deputati che davano l’addio alla vita parlamentare subalpina. Come sempre capita in Italia, tutto si conclude a tarallucci e vino. E il torinese, quando viene sottoposto a un sopruso, non capisce (o finge) ma infine si rassegna e si adegua educatamente allo stato delle cose. Il 12 settembre l’opinione pubblica fu scossa dal furto sacrilego di una lampada votiva in argento avvenuto nella cappella della Sindone. Per giorni e giorni in città non si parlò d’altro. Poi, come sempre capita, nuovi accadimenti si susseguirono: la morte di Massimo D’Azeglio, la consacrazione della chiesa di San Pietro e Paolo alla presenza della futura regina Margherita, un incendio nei magazzini di Porta Nuova… E anche il furto finì per essere dimenticato.

Paolo Maria Iraldi