STORIA- Pagina 126

Cultura e storia online dal forte di Bard

Dalla Valle d’Aosta / I Capolavori della Johannesburg Art Gallery in diretta sul sito del Forte, con la curatrice Simona Bartolena

Prosegue la programmazione culturale online del Forte di Bard. Il palinsesto si arricchisce di due appuntamenti di approfondimento della mostra Capolavori della Johannesburg Art Gallery. Dagli Impressionisti a Picasso.

 

La curatrice dell’esposizione Simona Bartolena tiene due conferenze  trasmesse in diretta sul sito e sul canale YouTube del Forte: il primo appuntamento si è svolto martedì scorso , dedicato ad una presentazione del progetto espositivo e della collezione che aprì al pubblico nel 1910, diventando il principale museo d’arte africano. Nel secondo appuntamento live, martedì 14 aprile 2020, sempre alle ore 18.00, la curatrice si soffermerà sulle opere della collezione dedicate all’arte africana.

 

Le dirette sono visibili dal sito www.fortedibard.it nella pagina dedicata all’interno della sezione Eventi o sul canale Youtube del Forte, raggiungibile sempre dalla homepage del sito istituzionale.

In cambio di carità il sig. Ravetti non denunciò la moglie per adulterio

Tra storia e cronaca torinese / ACCADDE IN APRILE

Era il 4 aprile 1947 quando il signor Giovanni Ravetti, 46 anni, residente a Torino in via Cibrario, si precipitò al commissariato di San Donato per avvisare gli agenti del fatto che sua moglie si trovasse in dolce compagnia in una camera d’albergo nei pressi di piazza Statuto. Gli agenti intervennero subito e sorpresero i due amanti nell’atto di compiere il reato di adulterio ma, a quel punto, la reazione del marito fu indubbiamente tra le più originali che siano mai avvenute. Sventolando minacciosamente il tradizionale foglio di carta bollata propose al rivale, un facoltoso macellaio di Torino, una curiosa alternativa: il signor Ravetti non li avrebbe denunciati per il reato di adulterio se il macellaio avesse versato la somma di 10 mila lire all’ospizio di carità di Pozzo Strada. L’amante accettò la proposta e firmò un assegno rendendosi un benefattore suo malgrado. [Gazzetta del Popolo]

Era il 10 aprile sempre del 1947 quando la piccola Ada Vindigni, bambina torinese di 9 anni, venne strappata alla morte. Per la prima volta in Italia la terribile meningite tubercolare (da cui nessuno si era mai salvato) venne curata tramite una sperimentazione in corso presso l’ospedale infantile Regina Margherita. L’esperimento, condotto dal primario dell’ospedale Prof. Filippo Madan, utilizzò come cura la streptomicina, antibiotico scoperto e largamente usato in America ma rarissimo in Italia. La cura a base di streptomicina, analoga alla penicillina ma con un’azione molto più vasta capace di curare sia tubercolosi che tifo, permise alla piccola Ada di guarire e di ritornare a condurre una vita normale. [Gazzetta del Popolo]

Il 22 aprile 1958 alle h. 11.00, una cameriera ed il direttore di un albergo nei pressi di Porta Nuova, trovarono il corpo della contessa di 75 anni Emma Malerba, distesa supina sul pavimento. Venne immediatamente chiamata la polizia che una volta giunta sul luogo, non sentendo più il battito del cuore e del polso, dichiarò la morte della donna a causa di un malore improvviso e chiamò il medico municipale per i consueti accertamenti di legge e i necrofori per il trasporto della salma. E proprio mentre il medico stava per sopraggiungere ed i necrofori stavano per deporre il corpo nella cassa, l’agente Gibelli si accorse che la contessa era ancora viva e che cercava di aprire gli occhi. Appena giunto il medico municipale confermò che l’anziana signora, nonostante le gravi condizioni in cui versava, era ancora viva; venne chiamata immediatamente un ‘ambulanza e la contessa venne trasportata d’urgenza all’ospedale Mauriziano. [La Stampa]

L’ 11 aprile 1973 fu una data molto importante per la città di Torino che vide, dopo 37 anni, la riapertura del il Teatro Regio. Rinato come l’araba fenice dalle ceneri del 1936, il Teatro Lirico torinese riaprì grazie alla collaborazione degli architetti Mollino, Morbelli, Morozzo e dell’ingegnere Zavelani Rossi. Nel 1937 infatti gli architetti Morbelli e Morozzo vinsero il concorso bandito per la ricostruzione del Teatro e nel 1965 subentrò anche il progetto firmato da Mollino e dall’Ing. Zavelani Rossi. Il melodramma scelto per la serata d’inaugurazione fu l’opera di Verdi, “Vespri siciliani”. Nella sala gremita c’erano diverse autorità, giornalisti provenienti da tutto il mondo ed era presente anche il presidente Leone insieme alla moglie Vittoria. Fu un fastoso spettacolo che riportò alla luce una delle meraviglie torinesi. [La Stampa]

Il 21 aprile 1979 vennero assunte per la prima volta dall’azienda municipale di raccolta rifiuti della città di Torino, sette donne con il ruolo di “donne-spazzino”, mestiere che fino ad allora era esclusivamente svolto da persone di sesso maschile. Lucia Masiello, Anna Maria Greco, Franca Chiariello, Anna Maria Di Maio, Michela Scaramuzzo, Luciana Zenetti e Florizia Romano, furono le donne torinesi, che dopo aver indossato la tuta arancione impermeabile e dopo aver preso la ramazza in mano, cominciarono a lavorare per la prima volta insieme ai loro colleghi uomini. [La Stampa]

Era il 17 aprile 1990 quando la piccola Patrizia Tacchella, dopo 78 giorni in balia dei suoi rapitori, ha potuto finalmente riabbracciare la sua famiglia. La bambina di 8 anni, figlia di Imerio Tacchella (il veronese “re dei jeans” Carrera) venne rapita nel pomeriggio del 29 gennaio a Gtravellona e portata in una villetta a Santa Margherita Ligure dove visse con i suoi rapitori fino all’arrivo delle forze di polizia.

I sequestratori furono immediatamente identificati e si scoprì che facevano tutti parte della cosiddetta “Torino bene”. Gli arrestati furono cinque: Bruno Cappelli, imprenditore di 35 anni nato a Moncalieri e residente a Nichelino, sua moglie Ornella Luzzi, 36 anni, a cui apparteneva la villa dove la bambina era stata detenuta, Valentino Biasi, 52 anni, abitante a Poirino, la sua compagna Carla Mosso di anni 38 e infine Franco Moffiotto, uomo di 48 anni, residente nel centro di Torino. Un lunghissimo incubo per la piccola Patrizia che fortunatamente si risolse nel migliore dei modi. [La Stampa]

Il 2 aprile 2000 durante i lavori per il recupero della Reggia di Venaria, vennero riportati alla luce i resti del Tempio della dea Diana. I tecnici e gli operai dell’impresa consorzio Schiavina Adanti, mentre erano impegnati nei lavori per la “rimessa a nuovo” della Reggia, furono costretti a fermarsi di fronte a un basamento di muri spessi più di 70 cm. Pare che su quei muri poggiasse il “fonum Dianae”, padiglione costruito su un isolotto, nella metà del 600′, in onore della dea della caccia e poi distrutto una decina di anni dopo per allargare il parco. Una scoperta davvero affascinante quella dei resti del tempio, rimasto coperto per 3 secoli da alberi e terra e che venne alla luce solo grazie al lavoro involontario di alcune ruspe.

 

Simona Pili Stella

Quel 7 aprile 1979. La rivoluzione sbagliata fa i conti con la storia

Il 7 aprile del 1979, a Milano, venne arrestato il professore Toni Negri. Ordinario della cattedra di Filosofia Politica di Padova. L’accusa: essere il capo ideologico delle Br. Personaggio ondivago nel panorama della politica italiana fin dai primi anni 60. Cattolico e poi cattolico del dissenso, socialista e poi ideologo di Potere operaio ed in generale ideologo dell’estremismo politico di sinistra.

Diventato radicale, e diventato parlamentare  scappò in Francia. Dopo la rivoluzione, il suo secondo obbiettivo fu quello di non farsi 1 giorno di carcere. Operazione che in parte gli riuscì. Poi più che voler fare la rivoluzione , diceva agli altri che dovevano fare la rivoluzione. Fece diventare il suo istituto un covo di novelli terroristi e si difese sempre dicendo: un conto e dire fate la rivoluzione, un conto  sparate a qualcuno. Decisamente un cattivo maestro.

Aveva rapporti con tutta l’intellighenzia cosiddetta di sinistra, e l’ altro obiettivo  dire che il PCI era peggio dei padroni. Uno dei suoi punti di forza era l’ ateneo di Torino, in particolare Palazzo nuovo e le facoltà umanistiche. Alla fine degli anni 60 ed inizio anni 70 capitava spesso nella nostra città. Le sue riunioni- lezioni finivano sempre con la richiesta di un contributo per comprare armi per la rivoluzione. Tutto alla luce del sole e probabilmente sotto i vigili occhi di polizia politica in borghese e, magari perché no, dei servizi segreti italiani e non. A fine del 1976 Lotta Continua di Adriano Sofri si dissolse come neve al sole. E molti del cosiddetto servizio d’ ordine di Lotta Continua confluirono nel terrorismo con le loro diverse ramificazioni. Br , Senza Tregua, Prima linea, Nuclei armati Proletari e chi più ne ha più ne metta. Con Autonomia Operaia che teorizzava la violenza di massa per sovvertire questo nostro Stato. Ideologia? Eccolo di nuovo il loro Professore Antonio Negri. Anni difficili. Era scoppiato il 77 , il movimento del 77 con il suo carico di odio e di violenza, trovando terreno fertile in certe parti della società torinese. Da Palazzo Nuovo alle fabbriche si respirava odio, troppo odio. Era pure difficile frequentare le lezioni. Frequentavamo l’ Università in gruppo. Non si sapeva mai. Ebbi l’onore di essere immortalato in un manifesto. Con un impermeabile e l’immancabile toscano, ironicamente: Tenente Colombo. E fin qui nulla di male . Quando però sul disegno delle mie gambe venne tracciato un tiro a segno la cosa diventò inquietante. Venni anche circondato e minacciato in Via Po, verso le 10 di sera. Spintonato ebbi molta paura. L’apice della violenza nel marzo 77 per le elezioni universitarie. Gli epigoni del Professore Negri non erano  d’accordo e semplicemente tentarono di impedire le votazioni. Con tragicomici aneddoti. Un leader di Lotta Continua ebbe l’ infelice idea di presentarsi in giacca e cravatta per votare. Era reduce da un matrimonio. Fu preso a schiaffi dai suo stessi compagni che non lo riconobbero , del resto aveva tagliato barba e capelli. Cominciavano a capire che qualcosa stava cambiando anche a casa loro. Terroristi e violenti presi da un delirio di onnipotenza sbagliavano, con il risultato di un loro sempre maggiore isolamento. Dal rapimento all’omicidio di Aldo Moro all’uccisione del compagno sindacalista Guido Rossa o all’omicidio del vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno . E il figlio che era stato di Lotta continua non ebbe dubbi: con voi non voglio averci più niente a che fare. Per tutto ciò, arrestato Toni Negri e Oreste Scalzone, ne fui contento. Non andava di moda, almeno per quegli anni, essere dalla parte dei magistrati. Io viceversa lo ero. Mi accusarono di non essere garantista. Pazienza, non si è mai perfetti. In verità Negri e compagni furono processati e alla fine assolti. Non sempre. Il Professore si beccò dodici anni per concorso morale in omicidio. Riuscendo comunque a farsi pochi mesi di galera. Altra cosa toccò ad alcuni dei suoi epigoni che scontarono pene dai venti anni in su. Con una certezza: Tony Negri è stato un cattivo maestro senza se e senza ma. Magari l’ accusa di  essere il Grande vecchio delle Br non resse in tribunale. Visti gli atti processuali è prova incontrovertibile. Ma non davanti alla sua coscienza. Tony Negri ha molto di cui vergognarsi. E non mi risulta che ammettendo abbia lenito le sue indubbie colpe morali.

Patrizio Tosetto

Valdo Fusi: “Fiori rossi” per un cattolico coerente e tollerante

Questo articolo esce  in memoria dei Martiri del Martinetto di cui ricorre oggi il ricordo e di cui Valdo Fusi ha raccontato la tragica e nobile storia  Il Sacrario del Martinetto è un luogo simbolo di una religione civile di grande importanza che si mescola con la testimonianza umana e religiosa dei Caduti sotto il piombo di sicari fascisti

Di Pier Franco Quaglieni

È impossibile cercare di “commemorare” Valdo Fusi, l’uomo che, come osservò Luigi Firpo, si sarebbe giocato la carriera per il gusto della battuta. In effetti, quella carriera se la giocò per una cosa molto più seria: l’amore per la verità e il coraggio di andare contro corrente. Sempre e ovunque. Si può al massimo “ricordare” Valdo, anche se è impossibile far rivivere le ore trascorse con lui, parlando, scherzando, passando dall’ironia più bonaria all’invettiva più feroce. Su tutt’altro versante e in modi molto diversi, io ricordo solo Longanesi, Flaiano, Maccari, ma in Fusi c’era una tensione morale, un rigore civile che rendono sbagliato ed improprio questo accostamento. Egli ci appare, nello stesso istante, lontano e vicino: lontano perché appartiene ormai a quella “Torino civile”, di cui si sono perdute le tracce; vicino perché è proprio a uomini come lui che bisognerebbe guardare per cercare di uscire dalla palude del conformismo.

Partigiano, membro del Comitato militare del Cln piemontese in rappresentanza della Dc, subì l’arresto e il processo che condusse nell’aprile 1944 gli uomini del gen. Perotti davanti al plotone d’esecuzione al Martinetto. Fusi fu assolto per insufficienza di prove e ritenne quella sorte come una missione: ricordare gli eroi del Martinetto. Nel dopoguerra fu deputato, consigliere comunale, presidente dell’EPT e dell’Ordine Mauriziano, ma lo stesso Fusi considerò tutto ciò una “parentesi” perché tornò a fare l’avvocato come prima della guerra, senza farsene un problema. Era un uomo inadatto alla politica intesa in modo settario e meno che mai per l’“affarismo”: si rivelò incapace persino di praticare la politica al fine di soddisfare pur legittime ambizioni. Pari a lui fu solo Silvio Geuna, anche lui partecipe e vittima della tragedia, dopo un fulmineo processo-farsa, in cui si offrì di sostituire il generale Perotti davanti al plotone di esecuzione, essendo il generale padre di tre figli e lui celibe.

Ci ha lasciato due libri, il già citato Fiori rossi al Martinetto e Torino un po’, uscito postumo, che, a parere di molti critici, ci possono far parlare anche di un Fusi scrittore. Sono testimonianze preziose, libri che vanno letti e che soprattutto si è portati naturaliter a rileggere, per il modo in cui sono stati scritti e per le cose importanti che contengono. Fiori rossi al Martinetto è, anche sotto il profilo letterario, un libro importante. Esso non è solo la testimonianza storica di ciò che capitò al Comitato militare del Cln piemontese nell’aprile 1944 a Torino e che ebbe il suo epilogo eroico al poligono del Martinetto. Valdo Fusi è stato uno scrittore autentico. Nel convegno voluto dal Centro “Pannunzio”, tenutosi nell’Aula Magna dell’Università di Torino il 24 novembre 1977 su Valdo Fusi scrittore in modo particolare Lorenzo Mondo e Riccardo Massano lo dimostrarono con totale evidenza. Lorenzo Mondo sostenne che Fiori rossi è uno di quei libri unici che si scrivono una sola volta nella vita. Evidenziò «la limpidezza della scrittura» che lo caratterizza. Secondo Mondo, Fusi ha in parte guardato a Le mie prigioni del Pellico, ma è andato anche molto oltre l’esempio della letteratura carceraria perché in quel libro si sente «il fiato di nomi grandi, di nomi alti […]». Riccardo Massano affermò: «[…] Fusi è uno scrittore nato, perché per lui lo scrivere è come respirare. Non che non avesse una straordinaria cultura che nelle pagine affiora ed è consegnata persino a quelle epigrafi straordinarie che costellano tutti i suoi libri […] e che non sono solo letture fuggevoli e frivole» […]; è uno «scrittore nato, ma non in senso stretto uno scrittore letterato o, almeno non uno scrittore letterario. Per lui questo nodo di vita e di scrittura diciamo pure di vita e d’arte, era qualcosa di così intenso, che per un certo momento la sua vitalità ha travolto la sua stessa possibilità di scrittura».

Ed ancora: «Fiori rossi al Martinetto sarebbe potuto essere un libro di memoria e invece è un libro di vita, un libro vivo».Un altro critico, Giorgio Calcagno, nel convegno promosso sempre dal Centro “Pannunzio” il 9 marzo 1985 sostenne: «Fiori rossi al Martinetto non è un’epopea; e nemmeno, a rigore, un libro di cronaca, sia pure di un episodio fra i più importanti della guerra partigiana. È una testimonianza personale per scorcio con il segno, e meglio l’unghiata, inequivocabile del suo autore. Fusi gioca tutto il proprio racconto su una duplice prospettiva incrociata quasi avvalendosi di un cannocchiale che capovolge in continuazione: per ingrandire gli altri, per rimpicciolire sé stesso. L’atteggiamento dominante è quello dell’understatement, il tenersi sotto tono, quasi sorridendo di sé per abbassare il tragico, spegnere la tentazione dell’epico». Si tratta di un libro esente dal “reducismo” che tanto danno ha provocato alla memoria storica della Resistenza, nel quale rivive lo spirito migliore che animò quegli uomini che decisero di riscattare l’infamia dell’8 settembre 1943, impegnandosi in prima persona nella guerra partigiana e patriottica. Lo scrittore Piero Chiara colse solo in modo parziale la figura di Fusi quando osservò: «Valdo era un irriducibile. Voleva, come tanti allora, un’Italia libera, cristiana, democratica, onesta e dignitosa […]. Fusi era di quelli che non tollerano l’indifferenza e si votano all’impegno». Infatti va anche precisato che Fusi non conobbe mai l’engagement di tanti intellettuali, perché rimase un uomo libero, totalmente svincolato da discipline che non fossero quelle dettate dalla sua coscienza morale. Uno scrittore che scriveva anche per il piacere di scrivere, di comunicare con gli altri con quello spirito che Luigi Firpo ha giustamente così sintetizzato: «un eterno giovane vivacissimo, ilare, segnato da un umorismo schietto, non di rado tagliente, al quale, in fondo, egli sacrificò anche il successo».

Nel 1970 il Teatro Stabile di Torino commissionò a Davide Lajolo, il mitico “Ulisse” della Resistenza, la riduzione teatrale di Fiori rossi al Martinetto. Lajolo intese ispirarsi al libro di Fusi troppo liberamente con un taglio politico e persino ideologico che Fusi non poteva condividere. Ha scritto Nuccio Messina, direttore del Teatro in quegli anni: «Il tentativo – forse ingenuo – di mettere d’accordo un democristiano storico e fervente come Valdo Fusi e un comunista rigoroso come Lajolo era fallito. […]. Erano tempi di divisioni profonde. Nel nostro caso i protagonisti erano Fusi e il suo libro: li avevamo scelti e ad essi dovevamo riferirci. E Fusi aveva ragione». Forse Messina enfatizza un po’ il “radicalismo” democristiano di Fusi che già alla fine degli Anni Sessanta era molto deluso dal suo partito, ma appare fuor di dubbio (e chi scrive può testimoniarlo) che Fusi avesse detto chiaramente che la Resistenza come lotta di classe era quanto di più estraneo ci potesse essere rispetto al suo libro in cui la pietas cristiana (e, quindi, il valore della fratellanza umana e del perdono) era l’elemento prevalente. Lajolo, a sua volta, operò in anni successivi una sorta di revisione critica delle proprie posizioni, ma resta il fatto che lo spettacolo teatrale non si poté realizzare perché Fusi, andando contro i suoi interessi materiali anche in questa occasione, mise il veto ad un’operazione che avrebbe sicuramente giovato ad un ulteriore successo del libro.

In particolare, sono da ricordare due tratti della sua personalità che mi sembrano importanti e che forse non sono mai stati abbastanza messi in luce. Fusi fu cattolico di fede indiscussa, ma certo fu anche il più laico e il meno clericale dei cattolici militanti. La civiltà a cui si richiamava era quella fondata sulla tolleranza e sul rispetto per le idee degli altri, come aveva appreso anche da Augusto Monti al Liceo “d’Azeglio” di Torino. Per altri versi, si differenziò anche rispetto a molti ex “dazeglini” perché nel 1968 sentì fortemente la sua distanza ideale e morale rispetto alla contestazione, vedendo in essa una sbornia ideologica intollerabile e un che di «belluino», come disse quando venne la prima volta al Centro “Pannunzio”. Egli aveva colto assai bene che il problema della tolleranza era da vedersi anche rispetto alle ideologie presuntuose e invadenti ed ebbe il coraggio di dissentire pubblicamente da Primo Levi che non aveva accettato di venire a un incontro promosso dal Centro “Pannunzio” nel 1972 perché altri invitati «non erano abbastanza di sinistra». Ed ebbe il coraggio di metterlo nero su bianco, pur non facendo nomi, per altro desumibili dal biglietto di invito. Nella esperienza tragica del processo davanti al Tribunale Speciale e nel corso della Resistenza, aveva imparato a conoscere e ad apprezzare uomini di diverso orientamento politico come il comunista Eusebio Giambone, i partigiani di G.L., delle Brigate Matteotti e delle formazioni autonome, con cui collaborò lealmente. Egli fu amico, ad esempio, di Enrico Martini Mauri e ci fu chi ritenne un suo errore aver mantenuto l’amicizia con una medaglia d’oro della Resistenza caduta in disgrazia per il suo anticonformismo. Andrebbe anche detto che negli anni dopo la fine della guerra civile finì di far prevalere – pur nel suo fermissimo antifascismo – il valore del perdono cristiano. Egli era un cattolico che leggeva “Il Mondo” di Pannunzio, tanto per citare un esempio.

Il senso dell’impegno cristiano, umano e politico di Fusi trova la sua sintesi in questa lettera che indirizzò a “La Stampa” nel 1955: «[…] Ignoravo un problema a cui non avevo pensato mai. Dove sono sepolti ceux d’en face, i combattenti di Salò? Il dottor Catalano mi ha risposto: non hanno sepoltura. Dovremmo essere noi resistenti a provvedervi. Se sul piano delle idee nessuna conciliazione sarà mai possibile, se noi rifiuteremo sempre l’equivalenza tra fascismo e antifascismo, nei rapporti tra uomo e uomo è necessaria la più illuminata apertura dell’animo, e magari l’indulgenza. Indulgenza del resto che ha trovato nelle leggi della Repubblica la sua consacrazione. Dobbiamo cancellare ogni traccia della guerra civile, sul piano umano. È dovere nostro concedere, e subito, quell’onorata sepoltura che a molti dei nostri amici negarono questi nostri nemici. Se non sarò il solo resistente a pensare così, verserò il mio contributo alle spese occorrenti. Altrimenti, provveda il Comune. Suppongo di avere le carte in regola per avanzare siffatta proposta e non dubito che i Geuna, i Passoni, i Coggiola, i Grosa, l’accetteranno». Nel trentennale della Liberazione nel 1975 si rifiutò di tenere commemorazioni, dicendomi: «Sai, non credo più in queste manifestazioni: stanno imbalsamando la Resistenza». Quando nel 1975 salii a Isola d’Asti per dargli, insieme a tanti altri, l’estremo saluto, Mario Bonfantini, che era vicino a me in macchina, disse – e successivamente lo scrisse – che quella collina astigiana era «un paese di dolce grazia fantasiosa che sottende un duro fondo eroico» ed aggiunse che tutto ciò gli faceva pensare all’intima personalità di Valdo, che solo noi, suoi amici, abbiamo avuto modo di conoscere ed apprezzare.

È significativo che la Giunta di sinistra andata al governo della città di Torino con toni trionfalistici e obiettivi vistosamente egemonici, abbia deliberato, a pochi mesi dalla sua morte, di dedicargli una piazza torinese che è diventata il mostro orribile che è ora il piazzale. C’è stato chi ha affermato che il Sindaco Diego Novelli avesse dovuto affrontare l’opposizione da parte di esponenti del suo partito all’intitolazione per motivi che non fanno loro onore. Novelli tirò dritto per la sua strada e intitolò la piazza che poi divenne un parcheggio di auto, sia pure ombreggiato da molti alberi. Quando una Giunta successiva decise di costruire sotto la piazza un parcheggio sotterraneo, eliminò gli alberi e si affidò ad un concorso internazionale per ridisegnare la piazza sovrastante. Ne derivò quello che divenne un mostro. Fusi si sarebbe rivoltato nella tomba, se avesse potuto vedere quel piazzale incredibile, un vero pugno in un occhio, anzi una ferita inferta alla città a cui nessuno ha voluto in qualche misura porre rimedio, neppure il Comitato che si fregiò del nome di Fusi e quasi subito si arrese.

Il «solito Fusi»

Di fronte a Fusi non contano le distinzioni di parte, vale soltanto la stima per un uomo che non smise mai di desiderare un’altra Italia, diversa da quella in cui era vissuto, un’Italia più limpida sotto il profilo etico-politico e più libera rispetto ai pregiudizi, alle faziosità e alle asprezze del “secolo breve”.

A tanti anni di distanza forse posso lasciarmi andare a una confidenza. Molti di noi erano preoccupati per l’avvento di una Giunta di sinistra al Comune di Torino, frutto anche del modo dissennato – un vero e proprio cupio dissolvi – con cui la Dc gestì le amministrazioni dal 1970 al 1975. Dopo la fine del mandato affidato a Giovanni Porcellana nel 1970, ci furono risse interne alla Dc che portarono al paradosso del socialista Guido Secreto a capo di una Giunta monocolore democristiana. Dopo, arrivò un galantuomo come il sindaco Giovanni Picco che chiuse il quinquennio, cercando di recuperare il terreno perduto, ma dovendo affrontare infinite difficoltà. Si trattava di candidare nel 1975 un uomo limpido, capace, credibile, come si direbbe oggi. Un candidato sindaco quasi super partes, un grande torinese come fu Peyron. Io partecipai ad alcune riunioni “clandestine” a cui presero parte amici liberali, socialdemocratici, repubblicani e democristiani. Sono tutti morti, ma preferisco non farne i nomi, essendoci scambiata la parola d’onore che mai avremmo rivelato chi partecipava agli incontri. Rassicuro subito: non eravamo una loggia coperta o, come si diceva allora, un piccolo “superpartito”. Tutti pensammo a Valdo Fusi come Sindaco di Torino. Non trovammo il tempo neppure di parlarne con l’interessato. In una pausa del Consiglio comunale ne accennai al conte Edoardo Calleri di Sala, potentissimo e capacissimo leader della Dc, che mi disse: «Il solito Quaglieni che propone il solito Fusi. Voi sognate, non fate politica». Confesso dopo molti anni che quell’abbinamento tra Fusi e me, giovane assistente universitario, fu uno dei più bei complimenti che mi fecero e di cui vado orgoglioso. Come ci sarebbe bisogno anche oggi, di tanti «soliti Fusi»!

 

(Valdo Fusi: Pavia 1911 – Isola d’Asti 1975)

La Venaria Reale ha ospitato il Liberty: Mucha e Grasset

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato

È l’uomo a costruire il tempo e il tempo quando si specchia, si riflette nell’arte.

L’espressione artistica si fa portavoce estetica del sentire e degli ideali dei differenti periodi storici, aiutandoci a comprendere le motivazioni, le cause e gli effetti di determinati accadimenti e, soprattutto, di specifiche reazioni o comportamenti. Già agli albori del tempo l’uomo si mise a creare dei graffiti nelle grotte non solo per indicare come si andava a caccia o si partecipava ad un rituale magico, ma perché sentì forte la necessità di esprimersi e di comunicare.Così in età moderna – se mi è consentito questo salto temporale – anche i grandi artisti rinascimentali si apprestarono a realizzare le loro indimenticabili opere, spinti da quella fiamma interiore che si eternò sulla tela o sul marmo. Non furono da meno gli autori delle Avanguardie del Novecento che, con i propri lavori “disperati”, diedero forma visibile al dissidio interiore che li animava nel periodo tanto travagliato del cosiddetto “Secolo Breve”.
Negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale nacque un movimento seducente ingenuo e ottimista, che sognava di “ricreare” la natura traendo da essa motivi di ispirazione per modellare il ferro e i metalli, nella piena convinzione di dar vita a fiori in vetro e lapislazzuli che non sarebbero mai appassiti: gli elementi decorativi, i “ghirigori” del Liberty, si diramarono in tutta Europa proprio come fa l’edera nei boschi. Le linee rotonde e i dettagli giocosi ed elaborati incarnarono quella leggerezza che caratterizzò i primissimi anni del Novecento, e ad oggi sono ancora visibili anche nella nostra Torino, a testimonianza di un’arte raffinatissima, che ha reso la città sabauda capitale del Liberty, e a prova che l’arte e gli ideali sopravvivono a qualsiasi avversità e al tempo impietoso.

 

Torino Liberty

Il Liberty: la linea che invase l’Europa
Torino, capitale italiana del Liberty
Il cuore del Liberty nel cuore di Torino: Casa Fenoglio
Liberty misterioso: Villa Scott
Inseguendo il Liberty: consigli “di viaggio” per torinesi amanti del Liberty e curiosi turisti
Inseguendo il Liberty: altri consigli per chi va a spasso per la città
Storia di un cocktail: il Vermouth, dal bicchiere alla pubblicità
La Venaria Reale ospita il Liberty: Mucha e Grasset
La linea che veglia su chi è stato: Il Liberty al Cimitero Monumentale
Quando il Liberty va in vacanza: Villa Grock

 

Articolo 8. La Venaria Reale ha ospitato  il Liberty: Mucha e Grasset

“Chi a ved Turin e nen la Venaria, a ved la mare e nen la fija”.
La reggia di Venaria ha ospitato  nella Sala dei Paggi la mostra “Art Nouveau. Il trionfo della bellezza”. La mostra è a cura di Katy Spurrel e Valerio Teraroli, in collaborazione con Arthemisia. L’esposizione vuole rendere omaggio allo spirito rivoluzionario dell’Art Nouveau, che scalza la tradizione e le regole accademiche e stravolge architettura, pittura, arredamento, scultura, musica e ogni altro aspetto della vita e dell’arte, traendo ispirazione dalla natura e proponendo un’immagine nuova della figura femminile. L’esposizione propone un percorso alla scoperta di questo movimento artistico e filosofico che si sviluppa tra la fine dell’Ottocento fino allo scoppiare del primo conflitto mondiale. Un corpus di 200 opere che testimoniano la straordinaria fioritura artistica che ha cambiato il gusto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.  Sono presenti in mostra manifesti, dipinti, mobili, ceramiche che illustrano come da una parte l’Art Nouveau rompa con il passato, rifiutando il realismo e il pensiero scientifico, e dall’altra come tale corrente sia andata alla ricerca di mondi onirici e visionari restituiti poi attraverso l’eleganza decorativa di linee dolci e sinuose. Tra gli autori in mostra ci sono due tra le più importanti personalità della corrente dell’Art Nouveau: Eugène Grasset e Alfons Mucha.

Eugène Grasset, nato a Losanna nel maggio 1845, dall’ebanista e scultore Joseph Grasset, frequenta inizialmente le scuole nella città natale. In seguito lavora presso la bottega del padre e prosegue gli studi di architettura al Politecnico di Zurigo. Dopo un periodo di viaggi che lo portano anche in Egitto, torna a Losanna, e si dedica alla scultura e alla pittura. Qualche anno dopo decide di trasferirsi a Parigi, dove affina la sua modalità artistica che unisce tecniche xilografiche e litografiche, preferendo una composizione più formale, colori sfumati, tenui e pallidi. Le sue opere aprono le porte a una moltitudine di artisti, tra i quali Alfons Mucha.

Figlio di un usciere del tribunale e della seconda moglie di quest’ultimo, Alfons Mucha nasce a Ivancice il 24 luglio del 1860. Fin da adolescente dimostra interesse e abilità nel disegno e nel 1879 entra nel laboratorio di pittura di Kautsky-Brioschi-Burghardt, che produce scenari teatrali e sipari. Nel 1882 incontra il suo primo mecenate, il conte Eduar Khuen-Belasi, che gli finanza gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera e un viaggio a Parigi, città in cui Mucha rimane per i successivi diciassette anni. Improvvisamente, nel 1889 il conte smette di sostenere gli studi del giovane, che si ritrova quindi a dover cercare in fretta un lavoro: inizia come illustratore e collabora con importanti riviste e case editrici francesi. Ottiene il suo primo vero successo nel 1894, quando si ritrova a disegnare un manifesto per Sara Bernhardt, in occasione dello spettacolo Gismonda di Victorien Sardou. È l’inizio di una fortunata e duratura collaborazione che lo decreta come uno degli autori più ricercati di arte applicata, manifesti pubblicitari e illustrazioni.

 

Nel 1897 Mucha inaugura la sua prima mostra personale, alla Galerie de la Bodinière di Parigi e negli anni successivi continua a collezionare successi, e incontra personalità che lo vogliono come collaboratore. La fortuna lo segue fino al giorno della morte, avvenuta a Praga nel 1939. In quello stesso anno la rivista parigina di grafica “Arts e Metiers” dedica un numero alla commemorazione dell’artista. Mucha ha il merito di aver costruito un universo iconico immortale, le donne che compaiono sulle sue locandine sono diventate icone dell’Art Nouveau, con i loro sorrisi delicati e la loro bellezza disarmante. Possiamo dunque dire che è stato proprio Mucha a trasformare la pubblicità in arte, un grandissimo artista grazie al quale ancora oggi guardiamo con nostalgia e ammirazione i manifesti di inizio Novecento.

Alessia Cagnotto

Buon compleanno Museo Egizio

Il Museo Egizio di Torino compie cinque anni. Si tratta, naturalmente, del primo lustro trascorso dal nuovo allestimento, inaugurato il 1 aprile 2015. Perché il celebre museo torinese di anni ne ha parecchi di più

E’  addirittura il più antico museo del mondo dedicato totalmente alla cultura egizia, il secondo per importanza dopo quello del Cairo. 

La fondazione vera e propria avvenne nel 1824, quando il re il re Carlo Felice acquistò una  collezione di reperti egizi (allora diventati molto “di moda” a seguito delle campagne napoleoniche nella terra delle piramidi) per la modica cifra di 400.000 lire di allora. Il sovrano vi aggiunse altri reperti di antichità classiche appartenenti ai Savoia e il museo poté iniziare la sua attività. Oggi le sale sono chiuse a causa  dell’emergenza sanitaria, ma sul sito del museo è possibile effettuare interessanti visite virtuali. Buon compleanno!

 

museoegizio.it

La tentazione ricorrente di riscrivere la Costituzione

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / Il Sindaco di Milano Sala che aveva dimostrato i suoi evidenti limiti politici all’inizio dell’epidemia, sottovalutandola totalmente, propone oggi  un’assemblea costituente per riscrivere la Costituzione. Pur non essendo mai stato convinto della perfezione della nostra Carta, ritengo la proposta di Sala del tutto intempestiva e sbagliata  

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La riscrittura in tempi normali la tentò Renzi che aveva colto l’opportunità di alcuni cambiamenti, ma si rivelò un pessimo costituente, proponendo un testo pasticciato e confuso. Oggi non siamo
e non saremo  in futuro in tempi normali. L’assemblea Costituente venne eletta il 2 giugno 1946, ad oltre un anno dalla fine della guerra, in un clima comunque non sereno perchè per troppi la scelta di quella data era motivata dal desiderio impellente  di dare il benservito alla monarchia, considerata colpevole della dittatura fascista e della guerra perduta. Superato l’ostacolo della liquidazione della monarchia, anche per l’atteggiamento del re che preferì l’esilio ad una guerra civile, i Costituenti seppero mettere da parte gli egoismi settari di partito e trovarono il modo per stendere un testo tra il 1946 e il 1947 che sapeva guardare avanti, al futuro della democrazia italiana. In quell’assemblea costituente ci furono i migliori uomini politici dell’’Italia novecentesca, come ci furono solo  nel Risorgimento. Si realizzarono dei compromessi evidenti, ma nel complesso la democrazia italiana ebbe una carta costituzionale di grande rilievo storico – politico, con riferimenti etici di primissimo livello.
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Se si pensa a quale classe politica ha oggi l’Italia e alle condizioni economiche in cui saremo ridotti dopo l’emergenza sanitaria, appare davvero impossibile pensare di accingersi a scrivere una nuova Costituzione. Sono possibili tra il resto gravi conflitti sociali che sarà difficile prevenire e forse reprimere. L’attuale Costituzione appare oggi preziosissima ed è anche un baluardo rispetto ai sempre possibili conati autoritari di un governo inadeguato che non sa guidare il Paese, ma rincorre con affanno i problemi . L’esempio autoritario dell’ Ungheria  ci fa apprezzare la nostra Carta, sempre che i suoi tutori istituzionali sappiano salvaguardare le prerogative del Parlamento, come ha messo in evidenza con coraggio l’ex presidente del Senato Marcello Pera, una delle poche grandi risorse della Repubblica. Sala pensi a fare il sindaco , se è  ancora in grado di farlo, alla democrazia e al suo futuro penseremo noi cittadini.
Scrivere a quaglieni@gmail.com

A Tonco d’Asti tra pitu e cavalieri di Malta

A Tonco d’Asti il virus ha sconfitto anche il prode tacchino. Anche il Pitu è finito nella morsa dell’emergenza sanitaria facendo saltare la tradizionale Giostra equestre del tacchino che ogni anno, ad aprile, porta migliaia di persone sulle colline di questo paese di 800 anime a nord ovest del capoluogo

Era stata fissata per domenica 19 aprile ma naturalmente non si farà nulla. Sarà per la prossima volta…ma di Tonco si continuerà a parlare lo stesso, per sempre, non solo per la sua Giostra, ma perchè in paese abitava un personaggio molto importante, più famoso del pitu, che i tonchesi ben conoscono, ne vanno fieri e soprattutto non vogliono farselo portar via da certi storici.

Stiamo parlando nientemeno che del fondatore del glorioso Ordine di Malta, il più antico, più potente e più nobile di tutti gli Ordini cavallereschi della storia. Ebbene, fra Gerardo, vissuto nell’XI secolo, sarebbe nato (il condizionale è d’obbligo) proprio a Tonco d’Asti e quasi mille anni fa creò l’Ordine ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme che diventerà in seguito il Sovrano Ordine Militare di Malta. Nella festa del Pitu, antico rito popolare propiziatorio contadino, compare anche lui: la giostra equestre è preceduta dal corteo storico dei nobili che vanno a trovare Gerardo e sono seguiti dai carri dei borghi, dai fantini, da scene di vita contadina e dal povero Pitu (oggi un fantoccio di tessuto) che rappresenta il feudatario locale sul quale il popolo scarica tutta la rabbia accumulata durante l’anno. Nel sito del Comune astigiano si legge che “attualmente tutte le prove dimostrano che Gerardo da Tonco è di famiglia monferrina, uscito dai Signori di Tonco, i quali signori feudali compaiono in numerose carte della regione”. Bufale, fake news? Niente affatto. Gerardo si era trasferito a Gerusalemme per dare una mano ai cristiani e ai pellegrini e, secondo una leggenda, durante l’assedio di Gerusalemme nel 1099 da parte dei crociati gettò loro del pane dalle mura ma quando fu scoperto il pane si trasformò all’improvviso in pietre. Quindi anche il nostro Gerardo, che ha fatto conoscere il nome di Tonco in tutto il mondo, è volato nel Vicino Oriente anticipando le gesta dei celebri marchesi del Monferrato, da Corrado a Bonifacio.

Ma qui divampano le polemiche che dividono gli storici molti dei quali sostengono che fra Gerardo Sasso (e non di Tonco), superiore dell’Ospizio per pellegrini nella Città Santa, nacque ad Amalfi o nei pressi della cittadina, da dove partirono, intorno al 1050, i primi mercanti diretti a Gerusalemme per costruire una chiesa e un ospedale per accogliere e curare i malati. Tra questi studiosi spiccano l’inglese Ernle Bradford, Claudio Rendina e lo stesso Ordine di Malta nel suo sito ufficiale. Gerardo nato sulla costiera amalfitana? I tonchesi non ci stanno e mostrano invece le tesi sostenute dagli storici piemontesi che la pensano ben diversamente. Tanto più “che la partenza di Gerardo di Tonco per Outremer rientra nel quadro della partecipazione di tante famiglie feudali monferrine alle Crociate…” precisa Aldo di Ricaldone nella rivista “Note di storia” della Camera di Commercio di Asti. Lo scrittore e studioso casalese auspica inoltre che “in una prossima edizione della Storia dell’Ordine di Malta si provveda ad inserire un’opportuna appendice dimostrante che Gerardo di Tonco non è né amalfitano né provenzale ma piemontese, dei signori di Tonco Monferrato”. Il mistero continua.

Filippo Re

I musei sono sui social, li visiti da casa

Fondazione Torino Musei: GAMPalazzo Madama e MAO sempre visitabili, anche se in remoto

 I musei sono chiusi, ma la Fondazione Torino Musei continua a lavorare con nuovi progetti digitali per rendere le opere, gli spazi, le collezioni e le mostre visitabili anche se #iorestoacasa.

GUARDA

Sui canali Youtube di GAMPalazzo Madama e MAO sono disponibili playlist speciali, con video realizzati dai direttori, dai conservatori, da colleghi e da professori universitari che approfondiscono le collezioni e le esposizioni temporanee:

Con la playlist #AppuntidalMAO, nei giorni precedenti la chiusura del museo sono stati invitati alcuni professori dell’Università degli Studi di Torino affezionati al MAO a scegliere e raccontare le loro opere preferite dalle collezioni del museo. I video sono pubblicati giornalmente anche sui canali Instagram e Facebook, con curiosità sulle opere raccontate.

Nella playlist #StoriedaPalazzo, sono i conservatori di Palazzo Madama che guidano il pubblico ad approfondire opere e spazi del museo situato nel cuore della città.

I video vengono pubblicati giornalmente anche sui canali Instagram e Facebook del museo.

In #GAMconTE, una serie di clip riguardano le opere della collezione permanente, insieme a temi legati alle esposizioni temporanee “Pittura Spazio Scultura” e “Helmut Newton. Works”.

Anche in questo caso i video sono ogni giorno proposti anche sui canali Instagram e Facebook, della GAM.

CERCA

Il catalogo della maggior parte delle opere dei musei è consultabile online. È possibile cercare gli artisti e le  opere preferite nelle collezioni di Palazzo Madama, della GAM e del MAO.

SCOPRI

Grazie al progetto Google Arts & Culture, al quale i musei di Fondazione hanno precocemente aderito, sono on line tante mostre virtuali che portano alla scoperta delle nostre collezioni da punti di vista insoliti e curiosi

Per scoprirle tutte:

Mostre virtuali di Palazzo Madama

Mostre virtuali della GAM

Mostre virtuali del MAO

 

www.fondazionetorinomusei.it

www.gamtorino.it

www.palazzomadamatorino.it

www.maotorino.it

La storia non si ripete mai

IL COMMENTO  / di Pier Franco Quaglieni – La storia non si ripete mai. Per questo motivo non è magistra vitae, come credono quelli che non  conoscono i meccanismi complicati ed a volte tortuosi della storia

Fino ad un mese fa – ma oggi tacciono – c’erano giornalisti e politici che affermavano che si stava ripetendo ciò che accadde cent’anni fa con il fascismo, sostenendo che l’Italia stava scivolando verso un regime involutivo di estrema destra. Antonio Scurati con il suo romanzo “M.” è stato  l’ispiratore di queste cassandre che, non conoscendo la storia, non consideravano le oggettive diversità tra quella  italiana di cento anni fa e quella di oggi.
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Basterebbe pensare che cent’anni fa uscivamo  dalla Grande Guerra e c’era in Italia un movimento operaio che pensava di ripetere anche qua la rivoluzione del 17 in Russia. Oggi l’ Italia vive in una stagione politica e storica totalmente diversa e quindi certi paralleli erano totalmente errati se non politicamente strumentali. Ma la storia e’ anche imprevedibile . Sono cose chi ha letto Guicciardini e Machiavelli, capisce immediatamente. La “fortuna“ di Machiavelli è l’ imprevedibilità’. La non ripetitività della storia è una constatazione che lo storico Guicciardini oppone all’ “ideologo“ Machiavelli che si illudeva di trarre dalla storia romana insegnamenti validi per la politica dell’oggi. La imprevedibilità della storia è oggi rappresentata drammaticamente  da una pandemia  imprevista ed imprevedibile che ha sconquassato il mondo è l’Italia. Anche Tucidide analizzo ‘ il ruolo della peste nella guerra tra Spartani ed Ateniesi ed alcune sue riflessioni andrebbero rilette. Oggi la notizia è data dal numero superiore di morti in Italia  rispetto alla  Cina ,come titola crudelmente “ La stampa” ,una debacle terribile di cui pure qualcuno dovrà rendere conto e di cui qualcuno, nelle alte sfere, dovrà parlare. Oggi in Italia si guarda con simpatia ai sistemi” cinesi” per uscire dal disastro. Abbiamo davanti ai nostri occhi stralunati  una democrazia sospesa , quasi in ginocchio, con un Parlamento che sta perdendo sempre di più la sua centralità, senza che nessuno abbia da obiettare qualcosa.
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L’ ho già scritto un’ altra volta, Primum vivere, deinde philosofari,ma qui non sono in gioco gli inutili gargarismi filosofici di qualche utopista   ,ma le basi stesse della Costituzione che non sento più  invocare da nessuno,mentre un mese fa era citata e difesa dalle minacce in atto da parte di  pericolose congiure neofasciste. Le Sardine tacciono e sembrano  essere finite sigillate in una scatoletta: sono diventate improvvisamente afone. La storia è imprevedibile  e nessuno può immaginare che piega possa avere il nostro futuro. Comunque il Coronavirus ha portato ad una crisi economica senza precedenti che potrebbe provocare delle gravi proteste sociali di cui non possiamo  neppure prevedere le conseguenze. Certamente l’entrata drammatica in scena  del virus ha già comportato una svolta  evidente anche nella politica: i tempi della politica sono cambiati radicalmente  e il bombardamento ossessivo dei media finisce di stordirci come uomini pieni di ansie, ma anche come cittadini sbandati ,pronti, potenzialmente pronti,  ad affidarci  a chiunque possa salvarci. Ricompare l’uomo forte, ma in tutt’altra veste rispetto a quello armato di manganello e di olio di ricino.
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Il fatto, ad esempio, che i  nostri movimenti vengano controllati attraverso i nostri telefonini ci fa inevitabilmente pensare al Grande Fratello. E’ certo  vitale contenere il virus, anzi è indispensabile sconfiggerlo e i pazzi che girano per le strade vanno fermati. Ma il dubbio critico ,il dubbio kantiano, non deve mai abbandonarci.Altrimenti ne verrebbe meno la nostra civiltà a cui difficilmente  come uomini di cultura potremmo rinunciare. Per difendere la libertà c’è stato, nella storia delle diverse epoche, chi ha sacrificato la propria vita. Un discorso macabro e difficile che oggi cerchiamo di scacciare  giustamente dalle nostre menti atterrite da una prova durissima che non  ha precedenti  nella nostra storia unitaria ed  è proprio per questo  che ci allarma e ci rende fragili e suggestionabili. La democrazia e ‘ sempre fragile e la  libertà, come ci ricordava Calamandrei, è come l’aria di cui sentiamo l’importanza ,quando facciamo fatica a respirare.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com
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(Nell’immagine in alto Niccolò Machiavelli)