IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
Sono affezionato al Convitto Nazionale Umberto I di Torino dove ho insegnato per breve tempo, e dove il direttore generale del Miur Romano Cammarata (che venne a Torino ad insignirmi della Medaglia d’oro di benemerito della scuola) avrebbe voluto affidarmi la direzione del nascituro e sperimentale liceo europeo che continua ad avere un grande successo.
I miei impegni erano incompatibili con quella allettante proposta e declinai il generoso invito. Anima del Convitto che ricreo’ dopo un periodo di sbandamento, era il Rettore prof. Giovanni D’Inca’ con cui naturaliter divenendo molto amici anche sul piano personale. In occasione di un anniversario einaudiano D’Inca’ volle scoprire all’ingresso di Via Bligny una grande lapide in ricordo del primo Presidente della Repubblica che fu convittore illustre. Tocco’ a me dettare l’iscrizione della lapide e feci venire a inaugurarla il figlio Mario Einaudi, tornato in Italia dopo un lungo insegnamento negli Stati Uniti. Non riuscii a trascinare il mio amico Valerio Zanone che allora era sindaco liberale di Torino, ma stava ormai pensando di tornare in Parlamento, commettendo un grave errore politico che gli fu fatale.
Fu una bella cerimonia. Si fecero anche tante belle iniziative con il centro Pannunzio nell’Aula Magna del Convitto. Poi persi i contatti e D’Inca’ lascio’ il rettorato per ritirarsi a Parma. Passando in via San Tommaso ho avuto la bella sorpresa di vedere che il logo attuale del Convitto che fu Regio, e’ tornato lo stesso delle sue origini storiche con tanto di scudo sabaudo. Una scelta coraggiosa in una città che ha perso il senso delle sue origini e che va ad onore di chi attualmente regge il Convitto che è in pieno sviluppo, fino ad occupare una succursale in via San Tommaso. Con quel logo il Convitto che fu inizialmente convitto militare, indica ai suoi allievi la strada della memoria storica, un insegnamento molto importante soprattutto nella classica modernità degli insegnamenti che si impartiscono in quelle aule.
L’ Aranycsapat di Puskás era destinata a vincere, emblema di un regime – quello comunista ungherese – che l’aveva eletta a simbolo. Fino alla sconfitta nella finale della Coppa Rimet del 1954, unica partita persa dai magiari su cinquanta incontri disputati tra il 1950 e il 1956. Vale la pena ricordare la prima parte, la più esaltante, della “serie magica”: tra il 14 maggio 1950 (sconfitta in Austria per 3-5) e il 4 luglio 1954 (caduta nella finale del Mondiale a opera dei tedeschi, 2-3), collezionò 29 vittorie e 3 pareggi su 32 partite, con 143 gol fatti e 33 subiti. Un gioco offensivo, spumeggiante, irresistibile. Anche l’Italia ne fece le spese. Domenica 17 maggio 1953, a Roma, venne inaugurato lo Stadio Olimpico. Gli azzurri venivano da una tradizione favorevole: da 28 anni gli ungheresi non vincevano sul suolo italiano. Finì con un netto 0-3 per i magiari in maglia rossa ( gol di Hidekguti e “doppietta” di Puskás). Per la prima volta la radio ungherese trasmise un incontro di calcio in diretta e al termine si udirono distintamente gli applausi a scena aperta dell’Olimpico. La storia di questa compagine leggendaria è raccontata magistralmente da Bolognini ne “La squadra spezzata “, riportando il gioco del calcio alla sua essenza, prima che diventasse (purtroppo!!) solo business e denaro. “Il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti”, disse George Bernard Shaw.



“Eroina dei due mondi”, il 30 agosto del 1821 nasceva in Brasile, a Morrinhos (frazione di Laguna, nello Stato di Santa Catarina), Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, meglio conosciuta come Anita Garibaldi. Aninha, come la chiamavano in famiglia e il generale nizzardo (che invece la chiamò sempre Anita) si videro per la prima volta il 22 luglio del 1939 nella chiesa di Laguna, dove il popolo si era radunato per rendere grazie al Signore dopo la riconquista della città a seguito della rivolta dei farroupilha (straccioni) contro il pugno duro dell’impero. Fu un autentico, come suol dirsi, coup de foudre. Bastò uno sguardo e un giorno ad intrecciare per sempre le loro vite. Da quel momento, dopo aver lasciato il marito molto più grande di lei e impostole dalla famiglia, Anita sarà la compagna, e dal 1842 la sposa, di Giuseppe Garibaldi, la madre dei suoi figli e presenza costante e partecipe di tutte le sue battaglie. Fino al 4 agosto del 1849, quando durante la fuga estenuante con il marito alla volta di Venezia (dopo la caduta della Repubblica Romana), incinta e stremata per la febbre, Anita gli morirà fra le braccia nella fattoria dei marchesi Guiccioli, presso Mandriole di Ravenna. Aveva soli 28 anni. E la Storia la ricorda proprio così. Grande donna, grande moglie e madre; ma anche pugnace combattente, infermiera, abilissima amazzone, audace e ribelle. Fra le pochissime figure femminili già allora all’avanguardia nella ferma volontà di rivendicare e ritagliarsi uno spazio pubblico al di fuori del privato. E proprio in questa veste, in occasione del bicentenario dalla nascita, il Museo Nazionale del Risorgimento di Torino ha inteso dedicarle la mostra “Anita e le altre. Storie di donne del Risorgimento”, visitabile fino al 22 gennaio del prossimo anno. Anita e, con lei, altre 18 donne, scelte fra le figure femminili che più hanno contribuito a una nuova definizione del ruolo delle donne nel corso del Risorgimento. Figure talora distanti fra loro per ceto, per cultura o per educazione, ma sempre accomunate dalla volontà di “trasgressione” e superamento di ruoli sociali predefiniti, fermamente decise a lottare per l’affermazione di valori e ideali anche patriottici, in allora per il “gentil sesso” decisamente assai rari. E poco condivisi e apprezzati. Vite che ritroviamo narrate nei dipinti, nelle stampe e nelle fotografie esposte nel Corridoio della Camera Italiana e provenienti dalle Collezioni del Museo di piazza Carlo Alberto, così come dal Museo Glauco Lombardi di Parma, dall’Opera Barolo di Torino, dal Castello di Masino e dal Museo del Risorgimento di Milano. Ecco allora, accanto all’omaggio ad Anita, il ricordo, fra gli altri, di Luisa Sanfelice (icona della rivoluzione antiborbonica, giustiziata nel settembre del 1800 a Napoli), accanto a quello di Giulia Colbert Falletti di Barolo (benefattrice illuminata della migliore intelligentia torinese ottocentesca), insieme a Costanza Alfieri D’Azeglio. Per continuare con Cristina Trivuzio di Belgioioso, Olimpia Rossi Savio, Virginia Oldoini Verasis Contessa di Castiglione (la “divina Castiglione”, contesa fra intrighi amorosi e diplomatici e scomparsa in un triste e volontario isolamento a Parigi nel 1899), accanto a Giuseppa Calcagno e alla regina Margherita di Savoia. E ad altre ancora. Vere chicche pittoriche, oltreché storiche, della mostra sono due ritratti di Anita, opere mai esposte finora a Torino e arrivate dal
Museo del Risorgimento di Milano: “Anita morente” del milanese Pietro Bouvier (allievo di Francesco Hayez e fra i più prestigiosi interpreti del romanticismo lombardo), raffigurata esanime fra le braccia di Giuseppe Garibadi accanto al fido Giovanni Battista Culiolo, detto “Leggero”, e il ritratto – l’unico ripreso dal vivo e che dunque ci svela il vero volto di Anita – realizzato a Montevideo nel 1845 dal genovese, fervente mazziniano, Gaetano Gallino. La mostra si chiude con il video “Il vero volto di Anita”, a cura della professoressa Silvia Cavicchioli, docente all’“Università degli Studi” di Torino che racconta la straordinaria storia dell’unico ritratto dal vero di Anita Garibaldi.
Questa mostra era stata anticipata dalla presenza dei sei pittori alla Biennale di Venezia del 1928 dove, oltre a un omaggio a Matisse, vi era una sala dedicata alla Scuola di Parigi. La vita del Gruppo fu di breve durata: soltanto 3 anni. Il 1929 fu indubbiamente l’anno più importante: si tennero sei mostre tra Torino, Genova e Milano. Nel marzo 1929, quattro artisti del Gruppo (Chessa, Galante, Menzio e Paulucci) partecipano alla seconda Mostra del Novecento italiano, al Palazzo della Permanente di Milano. All’inizio del 1930 i Sei ripetono l’esposizione nella Sala Guglielmi di Torino per mostrare “i risultati di un anno di lavoro assiduo e coerente, e confermare la loro fede nella pittura europea” (Menzio). Nella primavera il Gruppo espose alla XVII Biennale di Venezia, appuntamento che li fece notare a livello nazionale. Tra i sei si distinsero per originalità le sei opere di Chessa, pittore di grande talento destinato a spegnersi giovanissimo a causa della tisi. Proprio dopo la Biennale, tuttavia, iniziò la crisi interna al Gruppo dal quale si distaccarono la Boswell e Galante, mentre Chessa fu costretto a una pausa a causa di un nuovo attacco della malattia. Nel novembre 1930 Menzio, Levi e Paulucci presero parte a una mostra alla Bloomsbury Gallery di Londra, dando inizio a un periodo di stretta collaborazione che culminò nell’esposizione di opere, insieme a Galante, alla I Quadriennale di Roma. Il Gruppo ristretto dei Sei rappresentava Torino insieme a Casorati, Sobrero, Italo Cremona e ai neofuturisti e i quadri vennero collocati vicino agli Italiens de Paris (Magnelli, Tozzi, De Pisis, Severini, Campigli) per sottolineare, ancora una volta, lo stretto legame con i movimenti pittorici francesi.