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SPETTACOLI- Pagina 14

“Dentem pro dente”, pièce del Piccolo Teatro Comico 

Il quindicesimo appuntamento del Piccolo Teatro Comico è quello con Senza Meta Teatro nella pièce teatrale  intitolata “Dentem pro dente”, in scena venerdì 28 febbraio prossimo alle ore 21, in via Mombarcaro 99/B zona Santa Rita. Il pubblico sarà accolto in una atmosfera festosa, in cui a fare da guida sarà il protagonista del castello. Lo chaperon è però un dottore pazzo, probabilmente Mengele, collezionista di obbrobri umani, in parte sue creature, in parte insane di mente, in parte reietti. La festa sarà gioiosa e inquietante al tempo stesso, essendo il compleanno del dottore. Accadranno vari fatti che andranno a turbare l’apparente solarità della situazione. Poi inizierà il vero tour degli orrori, e si scoprirà che lo chaperon è un dentista cerusico, barbiere, figura ben presente e viva nel passato. Egli riassume in sé le tre professioni, come avveniva un tempo, ed è l’artefice di un diabolico intreccio sotto l’egida di horror filosofico e, quanto serve, anche splatter. Il fil rouge che lega le sue creature prigioniere e alleate nel compiere il male è, quindi, fisico e concreto. Si serve di reperti umani, denti, capelli, salasso e mutilazioni. Il pubblico incontrerà la spaventevole posseduta in sedia a rotelle , con relativa infermiera suora, l’aguzzina dei lager nazisti Irma La Morte, il tristissimo Uomo che Ride, l’inquietante Fatina dei denti. Tutti a loro modo cercheranno di stanare le paure che vivono nel nostro animo. Tutto lo spettacolo sarà attraversato dalla figura inquietante del servo, con Wklad, uno strano e misero essere dalla forma di un quarto di bue. Una figura che sembra marginale e che si rivelerà la chiave di volta di ogni orrore.

Il Piccolo Teatro Comico, costituito nel febbraio 2002, è la continuazione di un progetto artistico e di una poetica teatrale iniziata nel 1988 con lo stesso staff denominato “Canovaccio”. La rivalutazione del concetto teatro, partendo dalla commedia e dal classico, da proporre nella sua essenza primordiale, fino a performance di spettacolo eterogeneo, dalla danza al cabaret, al teatro multietnico di genere, creando uno spazio organico e vivo che possa raggiungere un pubblico vario che viva il mondo del teatro proponendo anch’esso idee e spettacoli per ogni fascia d’età, status e cultura.

Info: 339  3010381

Mara Martellotta

“Don Giovanni” e “Madri” in scena al Teatro Gobetti. Ultimi giorni

Al teatro Gobetti andranno in scena, dal 18 al 23 febbraio, il “Don Giovanni”, tratto da Molière, Da Ponte e Mozart, per l’adattamento e la regia di Arturo Cirillo, che ne è anche l’interprete principale. Nella sala Pasolini, sempre al teatro Gobetti, dal 18 al 23 febbraio andrà in scena “Madri”, di Diego Pleuteri, con Valentina Picello e Vito Vicino, regia di Alice Sinigaglia.

“La mia passione per il personaggio di Don Giovanni – spiega il regista Arturo Cirillo – e per il suo alter ego Sganarello (come Hamm e Cloy in “finale di partita”, o come Don Chisciotte e Sancho Panza) nasce soprattutto dalla frequentazione dell’opera di Mozart – Da Ponte. Sicuramente i miei genitori mi portarono a vederlo al San Carlo di Napoli, come vidi il film che ne trasse Joseph Losey nel 1979. L’incontro decisivo con questo personaggio avvenne nel periodo in cui frequentavo l’Accademia di Arte Drammatica di Roma. Uno storico insegnante di Storia della Musica ci fece lavorare sul Don Giovanni in una forma che potrei definire di “recitar cantando”, in cui ci chiese di interpretare il bellissimo libretto di Lorenzo Da Ponte, per poesia, musicalità e vivacità, ma anche perché è una delle opere più alte dal punto di vista linguistico della letteratura italiana. Oltre al libretto dapontiano, recitavamo rapportandoci con la musica di Mozart, con i suoi ritmi e le sue melodie. In quell’occasione questa irrefrenabile corsa verso la morte (l’opera si apre con l’assassinio del Commendatore e si conclude con lo sprofondare di Don Giovanni nei fuochi infernali) questa danza disperata ma vitalissima, sempre sull’orlo del precipizio, questa sfida al destino, mi è apparsa in tutta la sua bellezza e forza. Negli anni successivi si è imposto tra i miei autori prediletti Molière, quindi mi è parso naturale lavorare su una drammaturgia che riguardasse sia il testo di Molière sia il libretto di Da Ponte. Il discorso musicale mi coinvolge da sempre, quindi ho deciso di raccontare questo mito, che è Don Giovanni, usando forme e codici diversi, conservando di Molière la capacità di lavorare su una comicità paradossale e ossessiva che a volte sfiora il teatro dell’assurdo, e di Da Ponte sulla poesia e la leggerezza, a volte anche drammatica. Poi c’è la musica di Mozart, che di questa vicenda riesce a raccontare la grazia e la tragedia ineluttabile”.

Lo spettacolo “Madri” di Diego Pleuteri è il testo con cui il giovane drammaturgo, formatosi alla scuola per attori del Teatro Stabile di Torino, è stato selezionato per Eurodram 2022 e ha ottenuto la menzione al Premio InediTO 2020.

“Uno dei punti più interessanti del lavoro di Pleuteri su ‘Madri’ – spiega la regista Alice Sinigaglia – riguarda la riflessione sul pensiero, sulle sue modalità di entrare in circolo nelle vite delle persone e di descrivere la realtà. I due personaggi scritti da Diego hanno la testa bucata, i loro pensieri fuoriescono senza sosta in un fiume di ossessioni che senza sforzo diventano parola, una parola che di tango in tanto si attorciglia su se stessa, fino a sparire in un brusio di fondo, ma che altre volte, senza preavviso, diventa concreta e reale. I fatti che le parole descrivono sono tutti accaduti, e forse non è importante se siano accaduti davvero o solo immaginati. Il dialogare dei protagonisti è l’intreccio di due menti che diventano una sola, e si scambiano continuamente le parti di una vita interiore consumata. In questo eterno monologare, madre e figlio si finiscono le frasi, ma allo stesso tempo non riescono a finire quello frasi che sembrano importanti davvero. ‘Di intimo ci è rimasto solo ?’ Cercando la fine di una citazione, i due passeggiano a mezz’aria senza alcuna intenzione di scendere a terra. Sono insieme, ma profondamente soli. Di intimo cosa vi è rimasto…il pensiero? La solitudine ? La regia approfondisce queste domande lavorando sulla parola e sul suono, i più sfuggenti degli elementi scenici, come sfuggente è la tenera incertezza dei due personaggi. Polifonico o monolitico, sdoppiato, sovrapposto, si tratta di un complesso lavoro sulla sonorità che cerca di restituire tutti i livelli di stratificazione del pensiero”.

Gli spettacoli si svolgono al Teatro Gobetti di via Rossini 8, a Torino

Biglietteria presso il Teatro Carignano, piazza Carignano 6, a Torino

Telefono: 011 5169555

Mara Martellotta

“Operazione nostalgia” a firma di Vanzina e Brizzi

“Sapore di mare”, sino a domenica sul palcoscenico dell’Alfieri

È come con il maiale: non si butta via niente. Per questo, dunque, ci ritroviamo stasera, in questa immensa sala dell’Alfieri, quasi interamente gremita, a voltarci indietro e a guardare tra risate e sospiri del tipo “come passa il tempo” e “ti ricordi quando” a quei mitici anni Sessanta che tanti di noi hanno vissuto. A quei Sessanta che Enrico Vanzina e Fausto Brizzi – più autorizzato il primo (classe 1949) che non il secondo (classe 1968), comunque entrambi con l’inossidabile Jerry Calà applauditissimi tra il pubblico, con selfie d’obbligo – hanno fatto risaltare fuori dal cilindro del Tempo con questo “Sapore di mare” – con una scritturà che vivaddio non attualizza nulla ma lascia tutto così com’era, una vecchia fotografia che riscopri per caso in un cassetto, con la veloce regia di Maurizio Colombi, nella sala di piazza Solferino in prima nazionale, per il cartellone preparato da Fabrizio Di Fiore Entertainment – che affonda le radici nel film del grande Carlo (Vanzina), figlio di Steno, nel 1983 ad inseguire gli ultimi sprazzi della commedia (all’)italiana e attento a calamitare gli incassi che raggiunsero i dieci miliardi. Film fatto di cabine e di ombrelloni, di panorami di Forte dei Marmi ai bagni Marechiaro e del mare azzurro della Versilia, di serate alla Capannina, di amori di diciottenni, o giù di lì, che si inseguono o stanno alla finestra, di famiglie milanesi habitué e di quelle napoletane salite al nord per la prima volta, di frasi intramontabili e di caratteri, di mamme (ricordate Virna Lisi che con la sua Adriana vinse il Nastro d’Argento?) dal fascino maturo che non riescono a digerire i quaranta e più o meno inconsciamente s’incollano come l’edera al giovanotto che le farà scordare per un attimo il consorte ormai indaffarato e sbadato, magari rifugiandosi in esecrabili poesie, di rendez-vous sbiaditi, capitati ancora lì per caso dopo qualche anno, in cui nessuno ha più niente da dire a nessuno.

Li abbiamo vissuti noi, quei Sessanta, e non come quelli, tanti, che stasera ti stanno intorno e vanno giù a scherzare e a cantare così, “per sentito dire”. 

Ma è davvero “operazione nostalgia” quella compiuta dallo sceneggiatore delle “vacanze” a Natale o americane e dal regista di “Notte prima degli esami”? È riallestire per un’occasione che non andrebbe sciupata un nuovo, quasi commovente, presepino, mettendoci la sabbia e i sassi di mare e le onde, con le pastorelle in un bikini di cui con una contemporanea sfrontatezza inimmaginabile si butta all’aria il pezzo che sta sopra e con i vogliosi pastori che fanno a gara a chi le agguanta per primo. Si rispolverano i fratelli Carraro, il Luca cotto di Marina (qui Fatima Trotta) e il Felicino dove acchiappo acchiappo, il timido Gianni che s’intrufola in un vecchio cuore  scambiando batticuori per sesso, i marchesini Pucci, l’inglesina tutto pepe e grandi libertà, si costruisce sulla carta il fotografo Cecco, affidato all’estro toscano di Paolo Ruffini, che raccoglie le fila delle tante storie e furbescamente riscalda e coinvolge la sala e ci dialoga, ogni cosa in salsa rétro e ye ye, tra doverose contorsioni di shake e di twist e cadenzati passi di hully gully; circolano le battute che tutti ma proprio tutti s’incollarono nella memoria, “per quest’anno, non cambiare: vengo al mare per ciullare e, come l’anno scorso, c’è il pirla del bagnino” o “questo biglietto vale per tutte le lettere che non ti ho scritto. A proposito, sei sempre la più bella” o “mamma, che pere” o “devi imparare a socialize, a socializzare… come un’ape che vola su tanti fiori: prende qua, prende là… e poi diventa migliore”. Piccolo vocabolario che ci avrebbe fatto compagnia per tanti estati. 

Nel riallestire, il divertimento rimane, innegabile e contagioso, ma tutto pare – inevitabilmente – un po’ lontano, sbiadito, legato a un’epoca che è stata, morta e sepolta, anch’essa con le sue grandi gioie e i piccoli dolori, con i sorrisi, con l’estate (magari eguale a mille altre, pensate a Maurizio Arena e Renato Salvatori a inseguire Marisa Allasio pochi anni prima!) che sta finendo e con i Righeira che su quelle stesse spiagge imperversavano: nonostante sul buon Johnson – come sui Duran Duran un ventennio appresso, e allora ti sei chiesto per un attimo sere fa se il fascinoso Simon Le Bon l’abbiano lasciato a casa, a salvaguardarsi con impacchi di naftalina – il pubblico sanremese abbia fatto scrosciare applausi su applausi, in mezzo ai mille “cuoricini”, e quindi qualcosa ancora circoli con buona pace dei troppo troppo boomer, fai fatica a ritrovare quei caratteri, freschi giovanili ma incisivi, capaci di disegnare un’epoca, di stabilire ancora una volta la loro esatta importanza, non giocattoli tante volte inespressivi come la Barbie di Greta Gerwig. Nascono episodi, piccoli piccoli, che a volte s’ingolfano e si sgonfiano, s’intrecciano personaggi che sudano le sette camice (tralasciamo le voci, affaticate alcune oltre il dovuto, disinvolte sì ma falsate, bruttarelle come le tante ascoltate al Festivalone: ma non si può essere tutti Giorgia) ma quei caratteri è difficile ritrovarli e riscaldarli nuovamente. Sapete quel che fa gioia ritrovare? quei costumi con trucco e parrucco firmati da Diego Dalla Palma, le scenografie di Clara Abruzzese fatte di godibili siparietti (c’è anche posto laggiù in fondo per la band tutta da apprezzare) e le coreografie sbarazzine di Rita Pivano, soprattutto quel bignami della musica leggera dell’epoca che ti accompagna per tre ore, quei cinquanta brani cinquanta che ti riempiono ancora il cuore: tanto Morandi (corse ai cento all’ora e piogge che scendono e ritorni all’amata in ginocchio) e Pavone (cuori che soffrono, e geghegé, balli sulla stessa mattonella e martelli da dare in testa alla smorfiosa di turno che tenta di fregartelo), Edoardo Vianello a spandere come Mina e Pino Donaggio, il Modugno immancabile e l’Endrigo di “Io che amo solo te”, la bambola della Patty e una spruzzata di Bobby Solo e di Rocky Roberts, il giusto contributo di Caselli e di Celentano, di Paoli per cui esistono un cielo in una stanza e quel sapore di sale stampato sulle labbra della Sandrelli, il mondo di Fontana e anche quei giorni che hanno fatto la felicità di tal Santino Rocchetti. Un mondo da guardare col cannocchiale, dalla poltrona rossa, tutt’intorno la leggerezza degli autori: dice Vanzina che la leggerezza non è una sciocchezza, “è la profondità della gioia quando è vera”. E in questo, dopo anni, ha ancora ragione lui.

Elio Rabbione

Le foto dello spettacolo sono di Laila Pozzo.

In scena al teatro Astra il Faust di Goethe di Leonardo Manzan

Leonardo Manzan e Rocco Placidi hanno firmato l’originale adattamento del Faust di Goethe, con l’obbiettivo di avvicinare con un linguaggio contemporaneo anche il pubblico più giovane. Faust di Goethe è inteso come un’opera monumentale che rispecchia la modernità nella figura del suo protagonista, un eroe incapace di essere felice, eternamente insoddisfatto, che vuol possedere l’assoluto e l’eternità e non si accorge che si può godere solo nel limite dell’attimo.

Faust stesso afferma :”All’attimo direi, sei così bello, fermati”.

La pièce teatrale è una produzione della Fabbrica dell’Attore- Teatro del Vascello TPE Teatro Piemonte Europa LAC Lugano Arte e Cultura.

La storia è piuttosto semplice. C’era un uomo che aveva fatto un patto con il diavolo. Eppure si dice che la storia del Faust sia irrappresentabile, perché, per farlo, bisogna credere nel diavolo. Lo spettacolo prende avvio davanti a un sipario chiuso, con una conferenza sul Faust tenuta da Faust. La sua opera non si può fare, se ne può solo parlare. Faust è talmente autoconsapevole da non poter più agire. E soprattutto lui al diavolo non crede più. Non fa in tempo a finire la frase che il diavolo appare al tavolo dei relatori.

Nessuno crede più nel diavolo come nessuno crede più nel Teatro. Con l’arrivo di Mefistofele il sipario si apre e inizia il viaggio della strana coppia. Mefistofele ha bisogno che Faust creda in lui per esistere, Faust ha bisogno di credere nel diavolo per ritrovare sé stesso e le possibilità del teatro.

Anche a Leonardo Manzan, Andrea De Rosa ha rivolto la consueta domanda su chi o che cosa sia il fantasma nel suo spettacolo.

“Potrei rispondere con una battuta – ha affermato Leonardo Manzan – e dire che il fantasma rischio di essere io che ho scelto di misurarmi con un testo che il suo autore definisce incommensurabile. Il Faust di Goethe è un mondo, un’opera letteralmente piena di fantasmi, evocazioni dall’oltretomba, festini di streghe, trasformazioni, viaggi nel tempo e mostri di vario genere. Ma la cosa che mi piace da matti è che questa storia così spaventosa si può riassumere così: c’era una volta un uomo che fece un patto con il diavolo. Il Faust incombe su di me come una montagna incantata. Se mi vedrete riemergere da questa foresta di simboli sarà perché sono riuscito ad arrivare al nocciolo e a fare uno spettacolo di una semplicità incommensurabile. Altrimenti sì sarà vera la battuta, il fantasma sono io”.

 

Teatro Astra via Rosolino Pilo 6

Martedì, venerdì ore 21, mercoledì ore 19, giovedì ore 20, sabato ore 19, domenica ore 17

 

Mara Martellotta

Al via la decima edizione di Seeyousound Music Film Festival

L’inaugurazione odierna di Seeyousound Music Film Festival verrà introdotta presso gli spazi del Recontemporary Magazzino sul Po da una mostra dell’artista Luis Braddock Clarke, con l’esibizione dei Lamita!

Ritorna, dal 21 al 28 febbraio, il Seeyousound Music Film Festival, con in programma 65 film e videoclip che esplorano l’universo musicale in tutte le sue sfaccettature, 15 live, una exhibition, un djset afterscreening, masterclass e una varietà di eventi collaterali che renderanno per 8 giorni Torino un punto di aggregazione tra cinema e musica. La manifestazione continuerà a proporre il meglio della produzione internazionale che intreccia musica e cinema. La formula vincente non viene cambiata, ma vengono rinnovati i contenuti con sempre nuovi ospiti e tanta musica, oltre che tanta voglia di vivere la festa di Seeyousound. Più nel dettaglio, vi sarà un film in anteprima assoluta, uno internazionale, una europea, 19 anteprime italiane suddivise tra le tradizionali sezioni competitive: Long Play Doc, Long Play Feature, Sette Inc, Soundies e Frequencies. Saranno presenti anche le rassegne Rising Sound e Into the Groove, sezione mainstream che inaugurerà a Seeyousound con l’anteprima italiana di “Blur-To the end” del regista Toby L. Lo scorso anno Seeyosound ha celebrato il suo decimo anniversario, e ora inizia il compito più difficile, quello di garantire al Festival una nuova decade con passione immutata e grande sforzo, definendo un programma capace di abbracciare sensibilità diverse in un mondo contraddistinto dall’incertezza e spesso lacerato dalle tensioni. La musica deve rimanere un punto di riferimento essenziale, un rifugio, una guida, e per questa ragione gli 8 giorni di Seeyousound saranno di grande intensità edizione storie appassionanti da vivere. I dati di vendita dimostrano il successo della rassegna. Tra i titoli più attesi dei documentari sulle leggende del rock e dell’elettronica, e di storie di scena underground, ricordiamo la prima italiana di My Way, di Thierry Teston, Eliza Azuelos, seguita da uno speciale tributo del live dei Blue Beaters, “Googoosh Made of fire” del regista Milow Far Taghizad, segue “Soundtrack – to a coup d’Etat” di Johan Grimonprez, fresco di nomination all’Oscar come Miglior Documentario, Omar and Cedric, “If this ever gets weird” di Nicolas Jack Davis, regista pluripremiato e nominato ai Grammy.

Un aspetto interessante è quello dell’unico film in concorso intitolato “Going underground”, dedicato alla parabola della band post punk Gaznevada, che verrà proiettato domenica alle 21.15. Seeyousound non vive solo di pellicole, il suo fitto programma è arricchito da molti eventi collaterali e anche da una quarantina di ospiti che spazieranno dalla Beat Generation, rappresentata da Shel Shapiro, a quella pop anni Ottanta di Johnson Righeira, oltre a una quindicina di altre esibizioni, tra cui quella di Tormento.

MARA MARTELLOTTA

Tutto il programma dettagliato sul sito www.seeyousound.org

“Yo Yo Piederuota”. Una “storia di amicizia e diversità” allo “Spazio Kairòs”

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Con la Compagnia dei “Santibriganti Teatro” e l’organizzazione di “Onda Larsen”

Domenica 23 febbraio, ore 16,30

Uno spettacolo per famiglie, pensato per tutte le età, dai 5 anni in su. Estremamente toccante ma non privo di umorismo e soprattutto teso a trasmettere importanti principi di vita, incentrati sul tema, con cui tutti dai più grandi ai più piccini quotidianamente ci confrontiamo: il tema della “disabilità”.

Lui, Giovanni, da tutti chiamato Yo: troppo alto e con due grandi piedi per correre/ Lei, Giorgia, da tutti chiamata Yo: troppo orgogliosa e con due grandi ruote per forza/

C’è un cortile asfaltato, c’è un canestro mezzo scassato e un quartiere di una città/

C’è una stanza, c’è una lavagna e la scuola di una città …/

 

Prima di incontrarsi erano un po’ più soli/

Yo lui, troppo alto, chi ci arriva   a parlargli fin lassù? E poi se ci arrivi non ti parla: un orso/

Yo lei, troppo orgogliosa. Anche perché prima non era così, sopra una sedia a rotelle, era come gli altri: “normale”…/

 

YoGiovanni probabilmente vive con i suoi genitori in quella città e in quel quartiere da sempre … /

YoGiorgia ci è arrivata da poco tempo …

 

In estrema sintesi, questo lo spaccato narrativo e ambientale – raccontato dagli organizzatori – di “Yo Yo Piederuota”, lo spettacolo teatrale a cura di “Santibriganti Teatro” (nata come Cooperativa a Torino nel 1992, sotto la direzione artistica di Maurizio Bàbuin, e dal 2002 “Associazione Culturale”), ospitato sul palco di “Spazio Kairòs” di via Mottalciata 7, domenica prossima 23 febbraioalle 16,30.

Organizzato dalla Compagnia Teatrale “Onda Larsen”, lo spettacolo esplora, attraverso le vicende di Giovanni e Giorgia, il tema assai delicato della “disabilità”. Ricca di emozioni e avvincenti colpi di scena, la storia, al di là della pura e semplice narrazione di fatti e circostanze, vuole indicarci, in qualche modo, la strada, quella giusta da seguire in ogni istante e in grado di porci nella condizione di superare ogni qualsivoglia genere di ostacoli: la strada dell’amicizia e della ragionata accettazione di sé.

Lo spettacolo vede in scena Arianna Abbruzzese e Marco Ferrero, con la regia di Maurizio Bàbuin, e circuita da anni in vari teatri italiani, senza mai interrompere la sua corsa e conquistando vari riconoscimenti. Ha, infatti, vinto il primo premio al “Festival Internazionale Enfanthéâtre Aosta 2023/24”, il primo posto Giuria “100 ragazzi” al Festival Internazionale “I Teatri del Mondo 2015” e una menzione speciale Giuria esperti al Festival “G.Calendoli Padova 2012”. Si è, inoltre, aggiudicato il terzo posto tra gli spettacoli più votati dai bambini sempre al Festival “G.Calendoli Padova 2012”, oltre ad una menzione speciale Giuria adulti e una per Giuria bambini in “Giocateatro Torino 2012”.

Il tema della “disabilità” viene sempre affrontato “con un linguaggio – sottolineano gli interpreti – semplice e diretto, promuovendo l’inclusione e il rispetto per le differenze”. E soprattutto cercando di far vivere ai bambini e alle famiglie un’esperienza assolutamente coinvolgente: l’interazione con il pubblico e l’uso di elementi scenici dinamici rendono, così, lo spettacolo un’esperienza unica.

Un’esperienza che porta attori in scena e pubblico in platea ad una positiva convinzione. Positiva e, in qualche modo, rasserenante. Una convinzione che, dentro, coltiva, e sempre deve coltivare, i semi della speranza.

Per YoGiovanni e YoGiorgia, concludono, infatti, gli organizzatori “non c’è molto che possa aiutarli a farli diventare amici / se non quella palla che si butta dentro un canestro e poco altro / Ma a volte, si sa, basta poco per fare accadere tanto”.

Per ulteriori info: tel. 351/4607575 o www.ondalarsen.org

G.m.

Nelle foto: Immagini di scena

Le realtà futuribili e il grande sogno di un maestro del cinema

In attesa della mostra “The Art of James Cameron”

Io sono il padrone del mondo!”, James Cameron con una manciata di Oscar stretta nelle mani a godersi nel ’98 un successo planetario mentre il mondo si commuoveva attorcigliato all’amore e alla tragedia di Rose e di Jack, sentimenti da preparate i fazzoletti e lo sguardo ben fissato sul botteghino, se è vero come è vero che “Titanic” fu sino a quell’anno il film più costoso della storia del cinema (200 milioni di dollari di budget sommati agli 85 per la promozione, mica noccioline!), filone confermato, dal momento che buon sangue non mente, dalla mente e dall’industria cameroniane – sì, ancora lui -, capaci di replicare e di superare l’operazione: nel 2009 “Avatar” si portò a casa, tradotto in dollaroni, circa 2,8 miliardi, con le foreste pluviali di Pandora e gli umanoidi denominati Na’vi, con Jake ex marine invalido che vi approda in sostituzione del fratello Tommy e con gli occhioni dolci della principessa Neytiri, pronta a tutto pur di salvarlo dall’attacco notturno del branco di Lupivipera, che hanno un fiuto capace di individuare la propria vittima a una distanza di otto chilometri, figurarsi quando il bel soldatino è a due passi dalle loro fauci. Mentre Cameron si ritrovava con la sua bella stella sulla Hollywood Walk of Fame. Successi, incassi da capogiro, Oscar da mettere sui ripiani di casa sino a non trovar più posto, nel ’22 a rimpolpare il malloppo l’arrivo del sequel “La via dell’acqua”, altre diavolerie costruite negli Studios, altra infornata di premi, la famiglia che Jake ha messo su con la sua principessa, altro successo, altri quattrini.

Questi tre della novena di titoli che il Museo del Cinema torinese ha messo in piedi, dal 21 al 28 febbraio, in attesa di quell’”Art of James Cameron”, una sorta di “autobiografia attraverso l’arte” per cui è parlato di un milione di euro d’investimento, si inaugura il 26 del mese (e si chiuderà il 16 giugno), con tanto di micione azzurro e occhi manco a dirlo gatteschi che accompagnano come logo l’appuntamento che che sta da tempo solleticando il palato dei tanti cinefili e degli appassionati all’avventura e al fantasy. Genio creativo, uno dei più grandi registi, sceneggiatori, produttori contemporanei, una gioia per gli occhi. E per le orecchie di quanti, fortunati mortali, si sarebbero incantati dentro una conferenza stampa, il giorno precedente, alle preziose parole di quell’uomo che avrebbe raccontato, spiegato, riandato con la memoria nell’anfratto più nascosto di ogni sua singola storia. E invece? Rumors annunciano che, con gran disappunto, “uno dei più grandi registi” del cinema odierno non sarà presente all’inaugurazione, sì verrà, si forse verrà, ma chi sa quando. Lo aveva promesso, lo scorso dicembre, dallo schermo piantato nella grande sala della Mole quando a Zoe Saldana era stata consegnata da Ghigo e collaboratori la Stella della Mole, e invece, almeno per quel giorno, se ne starà a casa. O al gran lavoro, impegnato com’è nella postproduzione di “Avatar 3” nell’antro magico e nella fucina della Lightstorm Entertainment. Tegola non leggera, come tagliare d’improvviso una gamba a chi sta facendo i 100 metri, ultima dopo l’incrocio di spade con la Cinémathèque Française che, in vena di supremariato e di grandeur, aveva tentato di cancellarla al di qua della corona alpina, 300 pezzi tra disegni, dipinti, oggetti di scena, fotografie, costumi e curiosità varia – compreso il “Cuore dell’Oceano” al collo della Winslet, assicurano – che avevano tutta l’aria di andare in fumo. Adesso tutto è pronto e adattato alla particolare struttura verticale della Mole, sei aree tematiche – “Sognare a occhi aperti”, “La macchina umana”, “Esplorare l’ignoto”, “Titanic: viaggio nel tempo”, “Creature” e “Mondi indomiti” – per dare vita a un processo creativo che non ha eguali.

Processo creativo contraddistinto, sin dall’inizio – “Pirana Paura” è del 1982 – dalla meticolosità e dalla passione che devono averlo sempre contraddistinto, sin da quando nella piccola città canadese di Kapuskasing, dove è nato settant’anni fa, la madre gli faceva saltare la scuola per portarlo nei musei e lui all’uscita a disegnare animali e mostri, ben fissati sul foglio di carta e nella memoria. Esercizi di ragazzo sino a quando l’incontro con “Guerre stellari” convinse Cameron a rendere concrea ogni intenzione e a passare dietro la macchina da presa.

Un ciclo di proiezioni, allora, un inizio con i dentuti pesci mutati geneticamente e dotati di ali, un passo oltre il primo capitolo di Joe Dante (ven 21 ore 16 e dom 23 ore 21), seguito da “Terminator”, anno di grazia 2029 allorché l’indistruttibile cyborg che ha i tratti di Schwarzenegger giunge in una Los Angeles di quarantacinque anni prima allo scopo di eliminare l’indomita Sarah Connor (ven 21 ore 18,15 e mer 26 ore 16); ancora “Aliens – scontro finale” dove l’ufficiale Ellen Ripley, scampata al mostro di Ridley Scott è mandata su Acheron dopo che si sono perso i contatti con i coloni presenti su quel pianeta (sab 22 ore 15,30 e mer 26 ore 20,30) e “The Abyss” (sab 22 ore 18,15 e lun 24 ore 15,15) dove presenze misteriose cercheranno d’impedire ad un gruppo di sommozzatori il recupero di un sommergibile nel mare dei Caraibi. “Terminator 2” sarà, come gli altri titoli, sullo schermo del Massimo sab 22 ore 20,45 e mer 26 ore 18, con tutte le apprensioni di mamma Linda Hamilton verso il pargolo senzapaura e minacciato dall’attivo di un T-1000 e ancora con il palestrato Arnold a difenderlo a tutti i costi, come l’immancabile “Titanic”, strenuo strappacore nelle giornate di dom 23 ore 15 e mar 25 ore 16. Passando per “True Lies” (dom 23 ore 18,30 e lun 24 ore 17,45, si faranno spazio i due “Avatar” nelle giornate di lunedì, martedì e venerdì. Effetti speciali quanti se ne vuole, abissi paurosi e ghiacciati, mondi futuribili insidiosi e ricostruzioni d’epoca, ma anche affetti e apprensioni, protezioni e passioni, amori giovanili oppure al di qua e al di là di ogni età, sogni, enormi e incantati, a cui Cameron in una attività ormai quarantennale ha dato un immortale soffio di vita.

Elio Rabbione

Nelle foto, momenti di “Titanic”, “Avatar” e “Terminator 2”, tutti diretti da James Cameron

“Il mio Doc” di scena al Teatro Superga

Lo spettacolo della Compagnia C’è Trippa per gli Atti, tratto da “Toc Toc”, debutta al teatro Superga il 22 febbraio prossimo

“Il mio Doc”, della Compagnia C’è Trippa per gli Atti, debutterà sabato 22 febbraio, alle ore 21, al teatro Superga di Nichelino. È uno spettacolo tratto da “Toc Toc”, commedia francese del 2005 di Laurent Baffie, riadattata e rielaborata da Davide Piconese. La commedia si svolge all’interno della sala d’attesa del Dottor Palomero, famoso psicologo e psichiatra, un luminare che a causa di un errore da parte della sua segretaria Jennifer si troverà contemporaneamente nel suo studio sei pazienti affetti da Doc, disturbo ossessivo compulsivo, vittime del disguido che ha dato appuntamento a tutti loro alle 16,30. Il Dottore è in grave ritardo, motivo per cui i sei personaggi cominceranno a interagire tra loro, a conoscersi, a presentarsi e non solo. “Il mio Doc” è una commedia in cui si ride molto e a cui non manca il colpo di scena finale.

Biglietto: 15 euro

Biglietteria: 011 6279789 – biglietteria@teatrosuperga.it

Mara Martellotta

La Torino oscura di Profondo Rosso

Cinquant’anni fa, nel settembre del 1974, iniziavano a Torino le riprese di Profondo Rosso, un film che sarebbe diventato un riferimento classico per gli appassionati di cinema, uno dei migliori thriller italiani di sempre. Il regista Dario Argento per la terza volte sceglieva la prima capitale d’Italia e le sue atmosfere magiche dove si scorgono, oltre alle piazze e alle vie più note del centro, il Teatro Carignano, la Galleria San Federico e piazza CLN, dove si riconoscono le fontane di fronte alle quali Gabriele Lavia e David Hemmings assistono al primo terribile delitto del film, quello della sensitiva Helga Ullman ( l’attrice Macha Méril). Hemmings (che nel film interpretava il pianista inglese Marc Daly ) incrociò sulla collina torinese alcune dimore importanti come Villa della Regina (residenza storica dei Savoia), lungo la Strada Comunale Santa Margherita, per poi raggiungere l’obiettivo della sua ricerca: Villa Scott, in Corso Giovanni Lanza, 57.

 

È quella, infatti, la lugubre “villa del bambino urlante” che si trova in Borgo Po, sulle colline della città: un edificio bellissimo, uno degli esempi più straordinari dell’art decò. “L’avevo scoperta per caso — confessò il regista — mentre giravo in auto in cerca di posti interessanti dove girare il film. La villa era in realtà un collegio femminile diretto dalle monache dell’Ordine delle Suore della Redenzione e, siccome ne avevo bisogno per un mese, offrii alle occupanti una bella vacanza estiva a Rimini, dove si divertirono tantissimo. Con noi restò una monaca-guardiano, che sorvegliò le riprese con austerità”. Un’ulteriore curiosità merita di essere segnalata. Quando Marc, nel film suonò al campanello di casa del suo amico Carlo, si trovò di fronte la madre di lui (Clara Calamai) che lo fece entrare in un appartamento ricco di cimeli e foto d’ogni sorta. La casa era davvero quella dell’attrice e, quindi, ciò che si vede nel film era probabilmente in gran parte ciò che davvero c’era in quell’appartamento nel 1974, diventato set per l’ultima avventura cinematografica della grande interprete del cinema italiano. Il film, quinta prova dietro la macchina da presa per Dario Argento, uscì nelle sale il 7 marzo 1975 e lo consacrò, grazie al successo, come il vero maestro del brivido made in Italy.

Marco Travaglini

“Tutto Strauss” diretto da Marc Albrecht con la pianista Maire-Ange Nguci

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 Per il concerto di giovedì 20 febbraio con l’Orchestra RAI all’Auditorium Arturo Toscanini di Torino

Tornano ospiti della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai il direttore d’orchestra tedesco Marc Albrecht e la pianista franco albanese Marie-Ange Nguci, protagonisti del concerto in programma all’Auditorium Rai Arturo Toscanini di Torino giovedì 20 febbraio, alle 20.30, con replica venerdì 21 febbraio anche in live streaming sul portale di Rai Cultura. Già direttore principale dell’Opera Nazionale olandese di Amsterdam e delle orchestre filarmoniche e da camera olandesi, già direttore musicale dello Staatstheatre di Darmstadt e direttore artistico e principale dell’Orchestre Philharmonique di Starsburgo, Abrecht è particolarmente apprezzato nel repertorio tardo romantico tedesco e austriaco, da Wagner a Strauss, a Zemlinsky, Schreker e Korngold. Vincitore agli International Opera Awards 2019 come miglior direttore, estende abitualmente la sua attività anche alla musica contemporanea. Per il suo ritorno sul podio dell’OSN Rai, ha scelto un programma interamente dedicato a Richard Strauss. In apertura la Burlesque in Re minore per pianoforte e orchestra, scritta dal compositore tedesco a soli 21 anni. La Burlesque fu scritta nel 1886, e la prima esecuzione avvenne il 21 giugno 1890 al festival di Eisenach. Il brano venne eseguito dal pianista Eugène D’Albert, che esortò Strauss a riprenderlo dopo una parziale interruzione compositiva. A interpretarla è chiamata Marie-Ange Nguci, che ha debuttato con la compagine Rai nel febbraio 2023 ed è stata ospite l’ultima volta nel febbraio 2024. Nguci ha suonato in sale come il Musikverein di Vienna, il Concertgebouw di Amsterdam, la Suntory Hall di Tokyo, la Tonhalle di Zurigo, ma anche all’Opera House di Sydney e di Oslo, e in festival come quelli di La Roque d’Anthéron e di La Grange de Meslay.

Nella seconda parte della serata è in programma la Symphonia Domestica op.53 di Strauss. Composta tra la primavera del 1902 e il 31 dicembre del 1903, segue il gruppo dei poemi sinfonici che vedono la luce nel ventennio 1878 – 1898, e precede i grandi successi del teatro musicale inaugurati nel 1905 da Salomè. In quel periodo la vita famigliare del compositore si era fatta più serena, e rappresentava una sorta di rifugio dagli impegni mondani che il raggiunto successo professionale comportava. La dimensione domestica era in entrata sulla figura del figlio Franz, soprannominato Bubi, che aveva 6 anni, e su quello della moglie Pauline. Il ritratto musicale di questa serenità casalinga esprime però anche aspetti ironici e autoironici di Strauss, attraverso un consapevole gusto per l’esagerazione, incarnato da un’orchestra di dimensioni mastodontiche. Il poema sinfonico venne eseguito per la prima volta il 21 marzo 1904 a New York, con la Carnagie Hall Wetzler Symphony Orchestra, diretta dallo stesso compositore.

Biglietti: da 9 a 30 euro, in vendita presso la biglietteria dell’Auditorium e online sul sito dell’OSN Rai. Telefono 011 8104996

Mara Martellotta