SPETTACOLI- Pagina 131

In scena al Regio l’Aida ispirata alla regia del Premio Oscar Friedkin

E’ iniziata giovedì 9 febbraio la prevendita per l’anteprima giovani de L’Aida di Giuseppe Verdi, riservata al pubblico under 30, in scena venerdì 24 febbraio alle ore 20:00. I biglietti sono disponibili anche online e in biglietteria.

Reduce dal successo dell’anteprima del “Barbiere di Siviglia”, che ha visto protagonisti Rossini e gli Eugenio in Via di Gioia in una serata magica, il Teatro Regio è pronto a condividere una serata di musica, questa volta nel segno di Verdi, e dei torinesi Atlante & Baobab! Ospiti speciali del secondo appuntamento con Contrasti, progetto realizzato dal Teatro Regio e da The GoodnessFactory.

Venerdì 24 febbraio prossimo, il Teatro Regio aprirà le porte a partire dalle ore 19:00, condividendo un aperitivo nel foyer e permettendo di assistere a una breve presentazione spettacolo per entrare nel mondo di Aida, la più celebre storia d’amore ambientata al tempo dei faraoni. Alle ore 20:00 avrà inizio l’Anteprima Giovani di Aida, nel grandioso allestimento del regista William Friedkin, già Premio Oscar per “Il braccio violento della legge”. Si tratterà di un viaggio nel tempo capace di condurre il pubblico nell’antico Egitto. Al termine dell’opera, nel Foyer del Toro, “Contrasti” darà il benvenuto ad Atlante & Baobab, una band torinese formata da Claudio, Andrea e Stefano, capaci di unire l’alt rock all’elettronica, in un vortice febbricitante e introspettivo di suoni che si fonderanno con il pop languido e psichedelico, tipico della sonorità soul & rythm & blues di Gaia, alias Baobab!,cantautrice ventunenne. I primi trecento under 30,che acquisteranno il biglietto per l’anteprima di Aida, potranno assistere anche a “Contrasti”. L’ingresso per l’Anteprima Giovani è riservato agli under 30 e ai minori di 14 anni, accompagnati da un maggiorenne under 30.

L’Aida di Verdi sarà in scena per dieci recite dal 25 febbraio all’8 marzo prossimo. Sul podio dell’Orchestra del Teatro Regio salirà Michele Gamba, quarantenne direttore milanese, molto applaudito per la sua sensibilità dimostrata nella direzione delle opere verdiane e pucciniane.

Michele Gamba affronterà l’imponente partitura di Verdi nel celebrato allestimento del regista William Friedkin, la cui regia è stata ripresa da Riccardo Fracchia. Il cast vede protagonisti artisti italiani e stranieri di livello internazionale, tra cui Angela Meade e Erika Grimaldi, che si alterneranno nel ruolo di Aida; Silvia Beltrami e Anastasia Boldyreva in quello di Amneris; Stefano La Colla e Gaston Rivero in quello di Radames. Il Coro del Teatro Regio è preparato dal Maestro Andrea Secchi.

Negli ultimi dieci anni, in Italia, l’Aida di Verdi è stata allestita più di cento volte, andando in scena in ben 40 teatri di città grandi e piccole, spesso anche all’aperto, nelle piazze, negli anfiteatri e perfino in una cava, in un minuscolo comune della Val d’Ossola. 184 rappresentazioni sono state eseguite all’Arena di Verona, dove fu proposta per la prima volta nell’agosto 1913. La terz’ultima opera di Verdi gode di una popolarità consolidata. La sua prima rappresentazione avvenne al Cairo il 24 dicembre 1871, anche se Verdi considerò la sua vera prima di Aida la prima rappresentazione italiana e europea, che ebbe luogo al teatro La Scala l’8 febbraio 1872.L’opera fu commissionata al compositore da Ismail Pascià, Viceré d’Egitto, per celebrare l’apertura del Canale di Suez. Il soggetto originale fu scritto dal grande egittologo francese e primo direttore del Museo Egizio del Cairo Auguste Mariette.

Gli spettatori si emozionano e si commuovono per l’amore infelice e, alla fine, tragico del protagonista con il prode guerriero Radames, e attendono il kolossal nella “Scena del trionfo”, sfolgorante di tube egizie, fatte costruire apposta come desiderava il compositore, nella “Marcia” che tutti conoscono.

Si tratta della parte che Verdi chiamava, con la ruvida franchezza che gli era solita, “Bataclàn .

Gli amanti della lirica si lasciano avvolgere dalla sontuosità melodica che ha pochi eguali nell’intera produzione per il teatro di questo compositore.

Alla “prima” milanese il successo fu uno dei maggiori ottenuto da un musicista che, da tempo,era considerato una gloria nazionale e fra i più grandi protagonisti a livello mondiale. Julian Budden ricorda, nella sua monografia intitolata “Le opere di Verdi”, come l’attesa per l’Aidafosse talmente febbrile da determinare speculazioni in borsa sul prezzo dei biglietti. Verdi ebbe più di trenta chiamate e, alla fine del secondo atto, gli venne consegnato uno scettro d’oro tempestato di gemme.

Nonostante sia stata accusata da alcuni critici di essere un’opera diseguale e di “wagnerismo”, al centro dell’interesse di Verdi nel comporre l’Aida vi fu l’elemento che egli da tempo riteneva fondamentale: “la parola scenica”, che scolpisce e modella l’azione, determinandone essa stessa il dramma.

Forte di questa concezione, Verdi esercitò un controllo ravvicinatissimo sul lavoro di Ghislanzoni, il librettista, spesso stravolgendone le intenzioni originarie, piegando il testo all’urgenza drammaturgica che lo animava. Aida risulta un’opera eterogenea,divisa tra la magniloquenza del grand-opéra alla francese, con i suoi balli e le sue grandiose scene d’insieme, e l’eloquenza intima e bruciante delle storie private, che si agitano nel contesto politico, religioso e guerresco, sovrastandolo e rendendolo decorazione.

Sulla scena domina il confronto tra due donne: la schiava etiope Aida e la principessa egizia Amneris, accomunate dall’amore per lo stesso uomo e costrette a un confronto disperato e perdente, seppur diverso. Dal punto di vista drammaturgico e espressivo, la protagonista autentica è Amneris, in virtù del percorso psicologico che compie all’interno della storia. L’eroina eponima rimane un’icona patetica e sentimentale, dall’inizio alla fine uguale a se stessa, anche se più caratteristica dell’eroico Radames, il suo amato, che diversi critici hanno considerato generico e sbiadito, anche se Verdi ha a lui riservato alcune delle pagine vocali più celebri di tutta l’opera. Il momento più alto dell’opera rimane il terzo atto, grazie alla sintesi delle ragioni drammatiche e di quelle dell’espressione del sentimento, in cui compare il fiero Amonasro, il padre di Aida. Straordinaria è la pittura strumentale con la quale Verdi riesce a tratteggiare il notturno sul Nilo, in cui si svolge l’azione.

 

In occasione della messinscena di Aida, Teatro Regio e Museo Egizio hanno stretto un accordo per rendere più accessibili le proprie offerte culturali. Il Museo Egizio offrirà un ingresso scontato a 15 euro anziché 18 ai possessori del biglietto per lo spettacolo “Aida” o di un abbonamento al Teatro Regio che lo includa. Il Teatro Regio offrirà uno sconto del 10% sui biglietti delle recite di “Aida” a tutti i visitatori del Museo Egizio.

Il Teatro Regio devolve l’incasso della prova generale di “Aida” al sostegno del programma “Viva Verdi”, ricco di iniziative straordinarie in tutta Italia, al fine di acquisire e valorizzare la casa-museo di Giuseppe Verdi a Sant’Agata di Villanova sull’Arda.

MARA MARTELLOTTA

La città dei vivi Nicola Lagioia in scena con il suo romanzo

I tre porcellini Favole a merenda

“Gli spiriti dell’isola” di Martin McDonagh, una matura opera da vedere

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Una sceneggiatura e una regia perfette, due attori pronti per gli Oscar

C’è un’immagine suggestiva quanto emblematica ad aprire “Gli spiriti dell’isola” di Marrtin McDonagh – nato a Londra ma di origini irlandesi, drammaturgo, cui già lo Stabile genovese prestò negli anni a cavallo del nuovo millennio una precisa attenzione, prima che sceneggiatore e regista ormai consacrato che qui rischia di appropriarsi delle maggiori statuette ai prossimi Oscar (sono ben nove le candidature), ma già premiato per la miglior sceneggiatura originale ai Golden Globe, come era accaduto per “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” ormai cinque anni fa. Una tavolozza dove campeggia un bel verde compatto, una distesa di terreno ripresa dall’alto, immersa in un paesaggio quasi irreale di scogliere e rocce e sentieri impervi, un unicum che potrebbe dare al primo sguardo il senso della singolarità se non fosse per quella spezzettatura, per quei solchi neri e avvallati che la attraversano e che la rendono lo specchio della frammentarietà. Come frammentario è quel minuscolo villaggio sparso a guardare il mare della immaginaria isola di Inisherin, di fronte a quell’Irlanda del 1923 da cui arrivano come una eco le ultime esplosioni e gli spari della guerra civile; come frammentari, disuniti, lontani gli uni dagli altri sono quei personaggi (una bellezza di raffinata scrittura) che vivono nel chiuso delle proprie case, il cui unico ritrovo è il pub per una pinta di birra e un po’ di musica, che aspettano come la proprietaria della drogheria i pettegolezzi e le notizie che possono arrivare dai simili e dal mondo esterno.

C’è in questo rarefatto alveare il mandriano Pàdraic, uomo semplice e buono, che vive con la sorella Siobhàn pronta a sognare la fuga da quell’angolo scomposto di mondo, c’è il violinista Colm pronto a rivelarsi avaro di gesti e di parole, ci sono gli animali che vivono quelle case e quelle stesse strade, l’asina e il cane, le vacche e i vitellini che negli occhi sembrano commentare la stupidità dell’uomo, come pure i gabbiani che arrivano in volo. Senza dispute o fattacci che facciano presagire una tempesta, all’improvviso, Colm cessa quell’amicizia che da sempre nutre con Pàdraic, non vuole avere più a che fare nulla con lui, si chiude in un mutismo assoluto, motivando la decisione con la noia derivata dalle chiacchiere e dall’andazzo superficiale di ogni giorno e il tempo da utilizzare nel migliore dei modi, per esempio nella composizione di musiche nuove. Motivi futili, inspiegabili, che soprattutto non riportano il sorriso. Ci sono i dialoghi scarni, reiterati, le frasi stupidamente raddoppiate ma anche ripronunciate per darsi una ragione se possibile di quanto sta succedendo, le parole calibrate, dette con severità, a tratti rimbalzando contro un’ironia che McDonagh controlla con rara bravura. Colm minaccia di tagliarsi un dito della mano se Pàdraic gli rivolgerà ancora la parola: mentre il racconto, esempio chiarissimo di un assurdo che solo in una Irlanda patria di Samuel Beckett poteva trovare le proprie radici, continua a scavare nei silenzi che soltanto il cocciuto e amareggiato Pàdrain tenta di scardinare. Sino ad avanzare in una tragedia che vede altre mutilazioni, incendi, uccisioni.

Un fatto minimo e un’evoluzione sconcertante, addirittura un’opera quasi concepita e costruita nel nulla ma che al contrario, scena dopo scena, offre una vita più che convincente ai sentimenti, alla ricerca di amicizia e di solidarietà, al rifiuto degli altri e alla noia che con un cammino opposto dà spazio alla solitudine, alla volontà di guardare essenzialmente al presente o di gettare lo sguardo verso un futuro in cui lasciare qualcosa di se stessi: la guerra non è soltanto quella che si combatte là dove si perde l’orizzonte, è qui in mezzo a noi, ormai incapaci – e non è soltanto un discorso morale, parliamo anche di necessità fisica – di costruire rapporti duraturi, lontani del tutto dal rancore e dalla raddolcita franchezza umana.

Colin Farrell e Brendan Gleeson (bravissimi entrambi, per entrambi preparate le candidature che potrebbero portarli alle agognate statuette: del primo da sottolineare il lavoro sul corpo, la poesia e la rabbiosa determinazione, i piccoli gesti del quotidiano, il rapporto con gli animali che lo accompagnano, la perdita di ogni certezza nell’abbandono dell’amico, la scena nel pub con la tirata intorno alla bellezza antica della “gentilezza” per eleggerlo immediatamente a miglior attore dell’anno, dell’altro tutta l’asprezza, contrapposta alla dolcezza delle musiche e delle canzoni che l’attore stesso ha composto per il film) tornano a lavorare con McDonagh a circa quindici anni da “In Bruges”, storia di due sicari diversamente colpiti dalla noia e dai percorsi artistici della città belga. “Gli spiriti dell’isola” è una favola aspra e grottesca da segnare convintamente tra le pellicole da vedere in questo periodo, è una favola di insano realismo ai bordi della magia. Il titolo originale suona “The Banshees of Inisherin”, laddove le “banshees” sono le streghe che circolano tra quella nature, pronte ad apparire quando qualcuno deve morire.

“Il tour che gira dappertutto”, il nuovo giro musicale d’Italia di Darman

L’artista calabrese, ormai una certezza nel panorama rock e cantautorale italiano, porterà in giro per l’Italia il suo ultimo album “Rifugio”, uscito lo scorso 18 novembre, partito da Firenze il 13 gennaio 2023.

Il tour che gira dappertutto”, il nuovo giro musicale d’Italia di Darman, ha un sapore del tutto particolare. Il cantautore calabrese, infatti, porterà la sua musica nei Club di Progetto Itaca, Fondazione che promuove programmi di informazione, prevenzione, supporto e riabilitazione rivolti a persone affette da disturbi della Salute Mentale e alle loro famiglie. Darman suonerà per loro, in concerti intimi che sfoceranno in veri e propri laboratori musicali, dove la musica sarà il veicolo mediante il quale scoprire il bello che c’è in tutti noi e attorno a noi.

Le prime date confermate:

9/2 Torino

13/2 Bologna

14/2 Parma

15/2 Milano

24/2 Lecce

27/2 Rimini

9/3 Genova

14/3 Napoli

28/3 Palermo

Commenta l’artista il nuovo tour: “Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che mi ha regalato un’esperienza unica: quella di condividere la mia esistenza con due persone per me speciali, Zia Nice e Zio Gregorio. Grazie a loro, alla loro gioia di vivere e grazie all’amore che i miei familiari hanno sempre trasmesso loro, ho potuto constatare in prima persona quanto ogni singola esistenza sia importante e quanto ogni storia umana vada vissuta fino in fondo. Il rispetto e l’importanza della vita vanno ben aldilà della semplice e, spesso, superficiale percezione personale. La realtà è soggettiva, e ciascun essere vivente la vive appieno per come percepisce e si muove in quello spazio e in quel tempo. Questa mia esperienza mi ha insegnato quanto sia importante il rispetto e l’amore per la vita, quanto sia bello donare gioia a persone speciali. Spesso ho suonato per i miei zii e da sempre avevo in mente di realizzare un progetto di questo tipo e regalare momenti di gioia e bellezza a più persone possibili. Tutto questo ha preso forma grazie all’energia vitale con cui Leonardo Artini ha risposto alla mia proposta di realizzare il tour al Club Itaca di Firenze. Il nostro entusiasmo è stato talmente contagioso che l’idea si è allargata a tutti gli altri Club della Fondazione, diventando un vero e proprio tour italiano. Sarò onorato di realizzare questi laboratori musicali coi Soci dei Club e vivere momenti di piacere e scambio culturale ed emozionale.”

Spiega Leonardo Artini, responsabile comunicazione di Progetto Itaca Firenze: “Ogni mattina a Club Itaca (nostro progetto di riabilitazione per lo sviluppo dell’autonomia socio-lavorativa) leggiamo tutti insieme le mail e lo scorso maggio siamo stati meravigliosamente colpiti da questa proposta di Darman. Ci ha subito unito la passione per la musica, elemento che ci accompagna in molte fasi della giornata, il suo modo di scrivere e le parole utilizzate ci hanno fatto capire che ci fosse qualcosa di speciale in lui. Proprio come in ognuno di noi. Colpito da questo forte entusiasmo ho coinvolto subito Lorenzo (responsabile comunicazione di Fondazione Progetto Itaca) ed in seguito ad una call con il cantautore calabrese, ci siamo subito attivati per coinvolgere le altre sedi di Progetto Itaca. Le adesioni non hanno tardato ad arrivare. Adesso tutti i Soci (ragazzi con disagio psichico che aderiscono gratuitamente al Club) stanno aspettando il momento di conoscere Darman, le sue canzoni e di condividere piacevoli momenti insieme, ognuno con la sua storia. Tutto questo mi riempie di orgoglio e sono certo che la voce di Darman (con le sue note), da Milano a Palermo, possa amplificare il nostro messaggio a sostegno della salute mentale. Grazie ancora e stay tuned!”

Progetto Itaca nasce nell’ottobre del 1999 con l’obiettivo di promuovere programmi di informazione, prevenzione, supporto e riabilitazione rivolti a persone affette da disturbi della salute mentale e alle loro famiglie. Ciò che ha spinto alla fondazione di Progetto Itaca è stato sperimentare personalmente il dolore che colpisce un’intera famiglia quando una persona, quasi sempre molto giovane, si ammala di un disturbo mentale. Spesso il grave ritardo della diagnosi e della cura porta un danno grandissimo alla sua vita. Per il recupero del benessere, però, accanto alle terapie farmacologiche, altrettanto importanti sono un ambiente favorevole e una società più accogliente, sensibile e informata che possano attivare una forte rete di supporto. È trasversale, inoltre, per tutte le iniziative di Progetto Itaca la sensibilizzazione della comunità per superare stigma e pregiudizio, diffondendo una corretta informazione per favorire la prevenzione e l’orientamento alla cura. Nel corso degli anni, la piccola squadra iniziale di Progetto Itaca adesso conta più di 600 volontari attivi in ben 17 sedi in tutta Italia, e solo nell’ultimo anno ha sostenuto più di 12.300 persone, formandone più di 800 e sensibilizzandone più di un milione.

Rifugio” è il “quarto album di inediti di Darman composto da 9 brani scritti e arrangiati dal cantautore calabrese (ad accezione del testo di “Come la mente sempre più assisa”, di Umberto Alcaro). Darman sorprende ancora una volta con un disco acustico, che si discosta dalle tre precedenti produzioni alternative rock. Con Rifugio siamo in una dimensione più minimale negli arrangiamenti, in cui è preservata l’idea l’anima intima dei brani, impreziosita da scelte stilistiche di finezza e dolcezza.

Il filo conduttore che lega trasversalmente tutti i brani dell’album è la ricerca di un percorso di interiorità che possa condurre agli altri, al mondo. Il vero “Rifugio” è inteso come un senso di apertura e non di chiusura. Nella copertina, infatti, trova spazio un “ossimoro visivo”, è come se il titolo fosse apparentemente contrapposto alla figura iconica del guscio d’uovo. Infatti, molto spesso, il rifugio è interpretato come un luogo nel quale chiudersi ed estraniarsi da ciò che ci circonda; nel significato di Darman, invece, il concetto è stravolto: qui si è davanti a un’apertura totale verso la scoperta del mondo, della vita vissuta a 360°, della conoscenza di sé stessi e, di riflesso, degli altri.

Biografia

Darman, volto nuovo dell’alternative rock italiano prossimo a lanciare il suo quarto album in studio “Rifugio“, è attualmente impegnato con l’Eunomos tour 2022, col quale sta portando in giro per l’Italia la sua musica intima e luminescente.

Il cantautore calabrese di base a Torino ha già all’attivo tre lavori discografici, tutti pubblicati per l’etichetta Ayawasca Sciamani Musicali: “Four-Leaved Shamrock” 10 novembre 2015, “Segale Cornuta”; 20 aprile 2017 e “Necessità Interiore”, 3 aprile 2020.

“Necessità Interiore”, registrato ed editato da Christian Lisi al Not Brushing Dolls di Castel San Pietro Terme (Premio Tenco con “Il Grande Freddo” di Claudio Lolli), mixato da Dirk Feistel allo Studio X Berlin e masterizzato da Kai Blankenberg allo Skiline Tonfabrik di Dusseldorf, (entrambi freschi collaboratori per il live a Berlino dei Black Rebel Motorcycle Club) fa sbarcare Darman nei negozi di dischi grazie alla collaborazione con AudioGlobe.

Sono molti i singoli che Darman ha lanciato in questi primi cinque anni di carriera da solista. Come non citare “Strana Creatura”, attualmente il suo brano di maggior successo, primo singolo estratto da Segale Cornuta e pubblicato in anteprima su Fanpage il 30 marzo 2017 (il videoclip su YouTube ha ricevuto oltre 210.000 views). O “Pubblicità Riflesso”, primo singolo estratto da Necessità Interiore e pubblicato in anteprima italiana su Rockerilla e mondiale su Vents Magazine.

Il nome e il seguito che è riuscito a creare attorno a sé ha portato Darman a realizzare quattro tour italiani e uno europeo (il secondo sarebbe dovuto partire nella primavera del 2020, poi annullato per via della pandemia da Covid-19), oltre che a presenziare su palcoscenici importanti; ne sono un esempio il Concerto del Primo Maggio 2012 in Piazza Maggiore a Bologna, le due anteprime in Expo Milano 2015 e la partecipazione da headliner al festival italiano Musaic-On 2017 e al The Sound Festival 2018 in Olanda.

Anticipato dai brani “Agay” ed “Elle”, venerdì 18 novembre esce il nuovo album “Rifugio” disponibile in tutti i negozi di dischi in versione cd e vinile e su tutte le piattaforme di streaming digitale distribuito da Audioglobe, prodotto dallo stesso Darman per Ayawasca Sciamani Musicali (Edizioni di Riccardo Rinaldi).

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Ufficio stampa Progetto Itaca: BOVINDO – Maria Cira Vitiello (mc.vitiello@bovindo.it)

Al Teatro Astra di Torino “Frankenstein”, la nuova produzione TPE “Buchi Neri”

Dall’8 al 12 febbraio prossimo sarà di scena ,lo spettacolo che indaga il rapporto con la verità scientifica. Previsto un incontro anche con il meteorologo Luca Mercalli al Circolo dei Lettori

 

Dall’8 al 12 febbraio prossimo andrà in scena al Teatro Astra una nuova produzione dal titolo “TPE Buchi Neri”, che si inserisce nell’ambito della tematica che accompagna la stagione teatrale 2022/2023, quella del rapporto con la verità scientifica. Verrà messo in scena il celebre “Frankenstein” di Mary Shelley, scritto da un’autrice ancora adolescente, che anticipa l’ansia climatica contemporanea, dando origine a un nuovo genere letterario: l’horror fantascientifico.

Ad andare in scena sarà l’OHT Office for a Human Theatre, per la regia e scene di Filippo Andreatta, con suoni e musica di Davide Tomat e la performance di Silvia Costa.

Per la prima volta OHT si confronterà con un classico della letteratura occidentale, ovvero “Frankenstein o il moderno Prometeo”.

Pubblicato nel 1816, esso non soltanto rappresenta un’icona letteraria, ma anche una reazione estetica all’eruzione del vulcano Tambora in Indonesia, una delle più potenti mai registrate dall’uomo.

Sorprendentemente vicino alle sfumature politiche della ricerca di OHT, Frankenstein rappresenta un mito in cui i paesaggi esteriori si confondono con quelli interiori. Gli strapiombi del Monte Bianco diventano vertigini intime e personali nell’incontro fra il mostro e il suo creatore; luoghi inaccessibili come le Alpi si trasformano in rifugio determinante per una creatura inafferrabile, che in queste montagne impara a conoscersi, attraverso i fenomeni naturali che vi si manifestano.

La radicalità del lavoro di Mary Shelley si materializza nell’emancipazione della creatura, in quanto il demone e il paesaggio diventano un tutt’uno, mentre Victor Frankenstein non sembra più in grado di controllare ciò che lo circonda. Frankenstein si rivela come un veemente romanzo contemporaneo di formazione; incastrato dai limiti della tassonomia culturale, l’essere – più che-umano per eccellenza della letteratura occidentale non ha avuto una lettura distaccata dal contesto in cui veniva interpretato. Questo ha sempre rappresentato un limite che ha imprigionato il libro tra i lacci di un’interpretazione imbrigliata dai lettori normali. L’immaginario di Frankenstein ha sempre prevalso sulla realtà del libro e è proprio da questo scarto che nasce il lavoro di OHT. Per la prima volta è il mostro a parlare e prendere la parola, non come un soggetto escluso, ma come un concittadino, un nostro pari mostruoso che si rivela neonato della letteratura occidentale e capace di creare un nuovo immaginario.

La nuova produzione di OHT si muove dall’esperimento del Dottor Victor Frankenstein e, scartando la narrazione, opera affondi parziali e verticali nel testo, senza alcun limite di forma, linguaggio e durata. L’opera di Mary Shelley diventa un materiale prezioso da esaminare, da sezionare, ricucire e un corpo disponibile per esperimenti scenici diversi. Una reading session, un radiodramma, un’installazione, una release musicale e un libro verranno generati come parti di una stessa sperimentazione che avanza nel romanzo orizzontalmente per poi indagarne le molteplici ramificazioni.

Mary Shelley, i cui genitori erano filosofi, la madre femminista, il padre un politico anarchico dalle idee illuministe, fu influenzata profondamente da loro nello sviluppo del suo pensiero, e decise di prendere i loro due cognomi fino al matrimonio con il poeta Percy B. Shelley. La sua vita fu segnata dalla perdita dei suoi figli e da un aborto spontaneo che le risultò quasi fatale. Oltre a “Frankenstein” scrisse, tra gli altri, “The last man”, considerato uno dei primi testi post apocalittici e ambientato negli ultimi anni del XXI secolo, che, attraverso la voce dell’ultimo uomo, narra di una pandemia che annienta l’intera umanità e le sue istituzioni sociali.

All’origine del mito di Frankenstein è presente la vulcanologia. Nell’aprile del 1815 il monte Tambora, nell’isola di Sumbawa, in Indonesia, eruttava emettendo circa duecento km al cubo di materiale nell’atmosfera. Il Tambora diventava così il primo Supervulcano, ovvero un vulcano la cui eruzione toccava il valore più alto della Scala VEI (indice di esplosività vulcanica). L’eruzione fu sentita a più di 2500 km di distanza e abbassò la cima del monte Tambora di 1499 metri, provocando un’anomalia climatica chiamata “L’anno senza estate”, nel 1816, che coincideva con l’anno della pubblicazione di Frankenstein. Nelle parole di Mary Shelley, Frankenstein nasce a Napoli, vicino ai Campi Flegrei che, come il Tambora, è uno dei rarissimi Supervulcani del mondo.

 

Sabato 11 febbraio, alle ore 17:30, al Circolo dei Lettori di Torino, sarà presente uno spunto letterario intorno al tema del cambiamento climatico, con “I Dialoghi” con Luca Mercalli, una collaborazione tra TPE Teatro Piemonte Europa e Fondazione Circolo dei Lettori.

Questa lezione, a cura del climatologo, meteorologo e divulgatore scientifico Luca Mercalli, avrà come titolo “Dall’anno senza estate all’anno senza inverno – spunti letterari sul cambiamento climatico”. Lo studioso parlerà della grande anomalia climatica dell’era moderna, avvenuta durante la stesura del romanzo Frankenstein da parte di Mary Shelley, eruzione che coprì di cenere il cielo, causando un oscuramento globale, carestie e un drastico calo delle temperature. Luca Mercalli tratterà anche il tema del surriscaldamento globale dell’epoca contemporanea, per esplorare accadimenti reali e riflettere su spunti letterari nell’ambito del cambiamento climatico.

L’incontro si inserisce nell’ambito de “I Dialoghi”, che accompagnano la stagione TPE “Buchi Neri”.

Ingresso libero

Consigliata la prenotazione, scrivendo a dialoghi@fondazionetpe.it

O tramite form su circolodeilettori.it

Negli spazi del Teatro Astra è anche stata pensata un’installazione, uno scarto architettonico omesso dai disegni esecutivi del teatro stesso. Un affondo nell’architettura del teatro che si manifesta attraverso la sua aporia intellettuale. Si tratta di un luogo precluso, omesso alla vista, capace di evocare la presenza del mostro e di scatenare un dialogo incomprensibile, con la necessità di rimanere nascosti e capace di rendere l’invisibilità. Siamo di fronte a un incontro sentimentale fra l’oscenità architettonica e l’evocazione del mostro di Frankenstein.

Mara Martellotta

Fondazione Teatro Piemonte Europa

Via Rosolino Pilo 6, 10143 Torino

Sede organizzativa: Via Santa Teresa 23, 10121 Torino

 

Le 3Chic Atmosfere e sonorità vintage

Osteria Rabezzana, via San Francesco d’Assisi 23/c, Torino

Mercoledì 8 febbraio, ore 21.30

Le 3Chic

Atmosfere e sonorità vintage per il trio vocale al femminile che si esibisce cantando e danzando coreografie in stile Trio Lescano e Quartetto Cetra

Le 3Chic sono un trio vocale al femminile composto da Marinella Locantore, Martha Umana e Cristina Geremias: cantanti, ma anche ballerine jazz e musical style. Il loro spettacolo è un vero e proprio “vintage show” con un set di abiti, trucco e acconciature progettati ad hoc. Il loro repertorio spazia dagli arrangiamenti vocali anni ’40 in stile Trio Lescano e Quartetto Cetra a quelli americani in stile Andrews Sisters, ai brani degli anni ’50 e ’60 stile The Supremes, The Chordettes, fino ad arrivare alle canzoni odierne riarrangiate in stile vintage, stile Puppini Sisters, o in chiave blues.

Formazione

Marinella Locantore, voce

Martha Umana, voce

Cristina Geremias, voce

Emanuele Olivetti, contrabbasso

Alex Sorel, batteria

Riccardo Chiara, chitarra

Ora di inizio: 21,30

Ingresso:

15 euro (con calice di vino e dolce) – 10 euro (prezzo riservato a chi cena)

Possibilità di cenare prima del concerto con il menù alla carta

Info e prenotazioni

Web: www.osteriarabezzana.it

Tel: 011.543070 – E-mail: info@osteriarabezzana.it

“Video Killed The Radio Star”

MUSIC TALES, la rubrica musicale

“la tv ha ucciso la stella della radio

la tv ha ucciso la stella della radio

sono arrivate le immagini e ti hanno spezzato il cuore”

Per la serie … ci si ricorda di loro per una canzone che resta nel cuore e nelle orecchie del mondo, oggi si parla di: “Video Killed The Radio Star”.

La celebrità di questo brano la si deve soprattutto al fatto che il videoclip, diretto da Russell Mulcahy, andò in onda per inaugurare le trasmissioni di MTV il 1º agosto 1981.

Tale scelta non fu casuale, sia perché all’epoca pochi artisti avevano l’abitudine di realizzare videoclip dei propri brani, e i Buggles erano tra questi; sia perché la canzone e le immagini del video (in cui, tra l’altro, si vedono esplodere delle radio) parlano di una “stella della radio” che perde popolarità con l’avvento dell’era della “musica da vedere”.

Sono certa che ognuno di voi ricordi la canzone, perchè è un vero “cult”della musica di inizio degli anni ’80.

Forse non tutti sanno che la nota versione pubblicata dai Buggles, può essere considerata una cover di un’incisione precedente; infatti, nello stesso anno, una versione diversa fu registrata da Bruce Woolley (autore del brano con Horn e Downes) e dal suo gruppo “Camera Club” (che comprendeva anche Thomas Dolby) e pubblicata nel loro primo ed unico album English Garden.

Ve la linko qui se voleste andare ad ascoltarla

https://www.youtube.com/watch?v=1HLwljnmzR8&ab_channel=puske1990

Sebbene tecnicamente “Video Killed the Radio Star” appartenga per diritto anagrafico agli anni settanta, sul piano puramente musicale esso è di fatto il capostipite degli ottanta, dei quali anticipa lo stile: sofisticata elettronica, accenni di utilizzo del “Wall of Sound” (che verrà poi usato a piene mani per spruzzare di effetti sonori i brani di quel decennio) e quel tono vagamente romantico che fa da ponte sentimentale e cronologico tra il passato e le nuove tecnologie.

Una canzone che, forse al di là di ogni intenzione degli autori, ha costituito praticamente la porta d’ingresso verso un mondo dominato dagli epigoni del sintetizzatore elettronico, e un brano techno-pop ante litteram.

La batteria è suonata da Warren Cann,

co-fondatore e batterista del gruppo new-wave Ultravox.

“La televisione. La televisione è la cosa più sinistra del nostro pianeta. Va’ subito a prendere la tua TV e buttala dalla finestra o vendila e compra uno stereo migliore.”

Kurt Cobain

Oggi vorrei proporvi (so che a molti non piacerà n.d.r.) una versione del brano se fosse stato sulla bocca di Freddy Mercury

Buon ascolto

https://www.youtube.com/watch?v=N26_hRITlsU&ab_channel=PostmodernJukebox

Chiara De Carlo

scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

Ecco a voi gli eventi da non perdere!

Un coloratissimo van Gogh, tra la sua arte e un improbabile “cafè” parigino

Oggi ultima replica dello spettacolo scritto, diretto e interpretato da Andrea Ortis

È stato forte l’affetto che ha legato Vincent van Gogh a suo fratello Theo, più giovane questo di quattro anni, sopravvissutogli sei mesi soltanto. Una figura di riferimento e d’appoggio, il primo a riconoscerne la grandezza, una figura di pace interiore e
serenità entro cui rifugiarsi in ogni momento, al riparo delle contrarietà e delle tragedie della vita, la mente sconvolta, la quasi totale povertà, lo scarso
riconoscimento della sua epoca verso un’arte che sino alla morte tardò ad affermarsi.
Di quell’affetto raccontano le lettere scambiate tra i due fratelli, gli accadimenti, le psicologie e le confessioni, un mezzo altresì per gli storici per gettare una luce dettagliata e profonda su circa vent’anni di storia – la prima lettera data all’agosto del 1872, le ultime con la morte di Vincent nell’estate del 1890 -, 668 lettere del pittore al
fratello, la maggior parte in olandese, molte in francese, un paio in inglese. Un patrimonio che la vedova di Theo, Johanna Bonger, pensò a pubblicare nel 1914, soltanto poco più di una dozzina di anni fa il Van Gogh Museum di Amsterdam ha dato una veste completa all’importante, unico carteggio.
È stato altrettanto forte l’affetto che un uomo di teatro come Andrea Ortis ha riversato
sull’artista, creando grazie a quelle lettere, in occasione del 170mo anniversario della
nascita, uno spettacolo come “Van Gogh Cafè”, tutto suo nella scrittura, nella regia e nell’interpretazione. Ma non so se gli abbia reso un omaggio del tutto convincente. C’è il segmento “Van Gogh”, i primi disegni, il lavoro all’estero, il maldestro rapporto con il padre e la vocazione religiosa che lo porta ad essere predicatore laico e ad assistere in
una regione carbonifera del Belgio minatori e ammalati, secondo il più puro spirito francescano, condividendo la casa e il cibo e persino gli indumenti; c’è tutta la passione per l’arte e per la vita artistica, ci sono gli innamoramenti tutti naufragati, c’èl’amore caritatevole verso Sien, ex prostituta già con un bambino al collo e in attesa di
un altro, che Vincent ospita e spinge alla redenzione, pur nel mezzo di ogni privazione
quotidiana: la donna, stanca di quella vita di stenti, tornerà al vecchio mestiere. Ci sono i primi capolavori e la scoperta della pittura giapponese, l’incanto di Parigi, tra i tetti di rue Lepic e il Moulin de la Galette, e l’incontro e la frequentazione (con
qualcuno, anche l’amicizia, con Paul Signac e con Gauguin, non sempre al riparo da forti incomprensioni) di altri artisti, c’è la “casa gialla” di Arles e la camera in cui visse, c’è la terrazza del caffè o la notte stellata, ci sono gli autoritratti non ultimo quello dell’orecchio mozzato avvolto in una benda chiara, ci sono i soggiorni negli ospedalipsichiatrici, c’è l’ultimo soggiorno a Auvers-sur-Oise e il colpo di pistola fatale. C’è il mondo onirico della bellezza (“sogno di dipingere, poi dipingo i miei sogni”), e quello della quotidianità ritrovato nelle lettere.
Che dovrebbe essere la spina dorsale dello spettacolo . Che invece si perde spesso in una lettura scolastica, nel frastuono di un passaggio di un treno, nella cattiva chiarezza di chi è incaricato alla lettura. Troppe cose vanno perse e quel che dovrebbe chiarire e approfondire non fa altro che creare
confusione. Altro è al contrario ridondante: per cui, se da un lato è bello vedere un’attrice entrare nelle vesti di Agostina Segatori, con il suo buffo cappellino rosso, o della Mousmé, con la sua camicetta a righe rosse e blu, non credo che abbia pieno merito per entrare in una “commedia” musicale un approfondimento come quello
ascoltato sui “Mangiatori di patate”.
Dall’altro lato, poi, altra area del tutto autonoma, che coltiva una vita tutta sua, c’è il “cafè”. Dove capita un antiquario di fine ottocento che per inspiegato caso tiene tra le
mani, e sfoglia con l’intero personale, un libro che racchiude la lunga corrispondenza
tra i due fratelli; c’è la cantante (Floriana Monici, gran bella voce) che non vuole
essere seconda a nessuno e c’è la ragazza (Chiara Di Loreto, eccellente anche lei)
dell’infaticabile corpo di ballo che senza sgomitare troppo rappresenta la volontà di
emergere e il nuovo futuro, c’è l’orchestra di cinque elementi, bravissimi, capitanati da Antonello Capuano autore degli arrangiamenti e delle composizioni, ci sono le coreografie di Marco Bebbu e i costumi di Marisa Vecchiarelli, ci sono le scene diGabriele Moreschi, vere protagoniste dello spettacolo, dispensatrici d’immagini che
vanno dirette all’occhio dello spettatore e soprattutto a chi sia un patito di tutta l’opera di van Gogh.
Ma questo è tutt’altro, un mondo a sé, la creazione perfetta per un’altra produzione. Ortis è alla ricerca di un’atmosfera? Ma allora a che serve
infarcire di exploit canori fuori epoca l’intera serata? Che senso ha accomunare attraverso  le traversie del pittore le voci di Edith Piaf e di Charles Aznavour e di Yves Montand? Che centra “Milord” se da un momento all’altro ti può venire in mente la
rossa criniera di Milva? Nonostante tutta la personale convinzione dell’onesta drammaturgica di Ortis, siamo obbligati a portarci a casa alcuni brani soltanto dello spettacolo e nell’intenzione di un omaggio è davvero un peccato. Comunque un Alfieri
gremitissimo e plaudente, per l’emozione di tutti gli attori raccolti in proscenio. Ultima replica oggi, domenica 5 febbraio, alle ore 15,30.
Elio Rabbione
Le immagini dello spettacolo sono di Giulia Marangoni

Made in Ilva con gli Instabili Vaganti il 4 febbraio a Piossasco

Sabato 4 febbraio, alle ore 21,00, il Teatro Cinema Il Mulino di Piossasco (To) ospiterà la compagnia degli Instabili Vaganti, un duo artistico composto da Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola che opera da anni a livello internazionale, con lo spettacolo “Made in Ilva”.

 

L’evento fa parte della rassegna teatrale Mulino ad Arte. La trasposizione artistica, di grande suggestione e attualità, fa riferimento alla vicenda ILVA di Taranto, acciaieria che condiziona la vita dell’intera città pugliese a causa del disastro ambientale che sta provocando e delle continue morti bianche che si verificano nel complesso siderurgico più grande d’Europa. Il punto di vista espresso nello spettacolo è quello degli operai, intervistati dalla compagnia dal 2009 ad oggi, e dei cittadini, intrappolati tra il desiderio di fuggire per le condizioni di lavoro dannose e la necessità di continuare a lavorare per la sopravvivenza quotidiana. La compagnia ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti nazionali e internazionali per la sua capacità di trattare temi di scottante attualità attraverso un linguaggio poetico e di forte impatto emotivo, in grado di veicolare importanti messaggi a livello globale, grazie all’universalità del linguaggio fisico dei performer e alla drammaturgia originale tradotta o creata direttamente in più lingue.

M.Tr.