“No, non lo voglio un coso così”, s’impuntò, mettendo il broncio. “Com’è possibile giocarci? E’ talmente piccolo, fragile. No e poi no. Io adesso voglio un cane grosso, robusto. Voglio un cane che sia pronto a scattare ai miei ordini, che mi riporti il pezzo di legno quando lo scaravento lontano. Che mi faccia anche da cavallo quando voglio salirci in groppa. Un cane grosso, capito?”
Guardava fuori dalla gabbia con i suoi occhi da cucciolo. Occhi dolci, stupiti, grandi. Fin troppo grandi per quel batuffolo di morbido pelo. Sembrava uno di quei peluche per i quali vanno matti i bambini. Eppure, nonostante quella sua aria persa che avrebbe spezzato il cuore a chiunque, era stato rifiutato. Sì, proprio così: rifiutato. O, per meglio dire, scartato da quella famiglia di gente – ricca solo nel portafoglio – perché, in quanto a sensibilità, beh… ci sarebbe molto da discutere. Lui, stimato padre di famiglia, sposato con prole, banchiere di successo, aveva promesso al figlio un cane in regalo. Quest’ultimo, di nome Lorenzino, aveva fatto i capricci pur di averne uno tutto per se. Lo voleva piccolo, da coccolare ma, come tutti i capricciosi, era estremamente volubile e, alla vista di quel tenero batuffolo di pelo, cambiò idea. “No, non lo voglio un coso così”, s’impuntò, mettendo il broncio. “Com’è possibile giocarci? E’ talmente piccolo, fragile. No e poi no. Io adesso voglio un cane grosso, robusto. Voglio un cane che sia pronto a scattare ai miei ordini, che mi riporti il pezzo di legno quando lo scaravento lontano. Che mi faccia anche da cavallo quando voglio salirci in groppa. Un cane grosso, capito?”, disse con quella vocina isterica che faceva venire i nervi. E così suo padre, abbandonata l’idea del cagnolino, scelse un grosso alano che portava sulla piastrina già il nome:Bertone. Nulla da dire su quest’ultimo particolare. Ad un cagnone (e quello era davvero un cagnone) quel nome calzava a pennello. Lui, invece, solo e piccino, restò lì, nella sua gabbia. Si era illuso di poter andar via con quel bambino. Aveva un aspetto non proprio gradevole, grasso e pieno di foruncoli, ma era pur sempre meglio andare con lui che restare chiuso in quella gabbia. Si era fatto notare, scodinzolando allegro, tirando fuori la lingua, allungando la zampa. Ma quello, niente. Nemmeno una piega. Aveva detto qualcosa in quella sua lingua da umano che lui non aveva compreso poi, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo, aveva voltato le spalle e se n’era andato via. Da quando era nato, terzo di una cucciolata di quattro bastardini incrociati non si sa bene con chi, era sempre stato lì nel canile. I primi tempi, per lo svezzamento, era rimasto con la mamma e i fratelli, e poi – a due mesi – l’avevano messo lì, solo soletto, in quella gabbia che era diventata la sua cuccia. Aveva guaito a lungo, fino a sfinirsi, ma nessuno si era mosso in suo soccorso. Non si ricordava nemmeno quanto tempo fosse passato. Un paio di volte al giorno (ma qualche volta una sola…) un uomo, che doveva essere il guardiano del canile municipale, gli allungava una ciotola con dell’acqua e un pastone che non sapeva di nulla. Le prime volte l’aveva annusato, senza mangiarlo. Ma cos’era mai quella sbobba? Era insipida, insapore e persino incolore se si eccettuava un vago color grigiastro. Poi, nei giorni successivi, visto che il menù passato dal convento era sempre quello, vinte dalla fame le ultime resistenze, se lo fece andar bene, lasciando la scodella vuota. Le sue giornate passavano monotone in una noia terribile, fatta dei soli pochi gesti che gli erano consentiti: andare avanti e indietro in quella gabbia che ormai conosceva a memoria, dopo averla ispezionata centimetro per centimetro. Poteva seguire il suo percorso obbligato ad occhi chiusi ma, quando lo fece, sbatté il muso contro la rete e, da allora, decise di non fare altri esperimenti e di tenere ben aperti gli occhietti. In poco tempo le gabbie vicine si svuotarono. Non erano molti gli “ospiti” lì dentro ma in breve furono molti di meno. Un pastore tedesco venne prelevato da una guardia giurata che si dilettava d’allevamento e che intendeva addestrarlo per il suo lavoro di vigilanza. Un giovane pitbull condivise un destino più o meno simile, finendo a fare la guardia nel parco di una villa signorile. Il pechinese con il quale, una volta, aveva abbaiato del più e del meno, già male in arnese, finì a fare da “dama di compagnia” ad una contessa che sembrava una vecchia megera con quel grosso naso arcuato sul quale svettava un orribile porro. Ansimava come un mantice, quella vecchia incipriata, ma non rinunciava alle sue sigarette infilate nel lungo bocchino di madreperla. Anche i due bastardini come lui, entrambi volpini mezzosangue, avevano trovato modo di accasarsi dal droghiere, che amava i cani e s’era subito affezionato ai due inseparabili animali dal pelo fulvo. Rimanevano solo lui, sua madre e gli altri fratelli, un vecchio Setter quasi cieco e ormai inibito alla caccia, un Rottweiler che sembrava, o voleva sembrare, cattivissimo e Pucci, un bassotto tanto grasso da strisciare la pancia per terra. Erano loro i superstiti del canile, i più sfortunati: relegati nelle gabbie in attesa che accadesse qualcosa o che, meglio ancora, qualcuno venisse a reclamarli. Intanto passavano i giorni e dalle finestre entrava una luce fredda e triste, riflesso di quel cielo d’inverno, color grigio cenere. Una mattina, quando ormai rassegnato e sfiduciato non aveva nemmeno voglia di tirarsi su sulle quattro zampe, standosene sdraiato e sonnacchioso, avvertì un certo trambusto. Dalle stanze degli uffici si udiva una discussione a più voci. Una di queste, cristallina e piuttosto acuta, era senz’altro di una giovane donna. Almeno, così sembrava. Di lì a poco, nell’ampio locale con le gabbie, comparì una ragazza dal piglio deciso e allegro. Non tanto alta, dai bei lineamenti, teneva i lunghi capelli raccolti dietro la nuca, a coda di cavallo. Dopo una rapida ricognizione s’accovacciò davanti alla sua gabbia. “Che bello che sei, con quel musetto”, disse, appoggiando la mano aperta alla rete. Lui, d’istinto, capì che era giunta la sua occasione e non poteva permettersi di sprecarla. Sì alzò e, con delicatezza, leccò il palmo della mano. “Che tenero. Sei proprio un amore”, sospirò la ragazza. Rialzatasi in piedi, si rivolse al signore che stava al suo fianco. “Papà, vorrei lui. Prendiamo questo piccolino? Che dici?”. L’uomo, cingendo con un braccio le spalle della figlia, sorrise e annuì. In pochi minuti, sbrigate le pratiche dell’affido, il cucciolo passò dalla condizione di recluso a quella di cane libero, felice e coccolato. Infatti, la ragazza l’aveva preso in braccio e gli stava lisciando il pelo con un’infinità di carezze. Gli diede subito un nome: Dantès. In fondo anche lui, come Edmond Dantès, il protagonista de “Il Conte di Montecristo” di Alexandre Dumas, aveva subito dei torti e sofferto, così piccolo e indifeso, una vita grama. Dantès venne rinchiuso nella tetra prigione del Castello d’If su una piccolissima isola dell’arcipelago di Frioul, nel golfo di Marsiglia. Lui, nel canile municipale, in una gabbia. “Dantès, piccolo mio, ti piace il tuo nome?”. Alle parole della ragazza, che si chiamava Carla, replicò guaiendo timidamente e leccando la mano che lo accarezzava, dimostrando la sua felicità. Nella bella casa di campagna dove vivevano Carla e suoi genitori, il piccolo Dantès si trovò a meraviglia. Coccolato e ben nutrito, era diventato la mascotte di quella famiglia. Anche i vicini e gli amici di Carla lo riempivano di coccole e lui, scodinzolando, non si tirava certo indietro. Gli unici momenti tristi li viveva quando il pensiero andava alla madre e ai fratelli che erano rimasti nel canile. Poverini, chissà quanto dovevano essere tristi! In quel periodo, a poche settimane dalle feste di fine ann
o, era difficile che qualcuno li adottasse. A lui era andata bene, anzi benone. Ma erano ormai poche le persone che regalavano dei cani ai bambini. Soprattutto d’inverno, quando avrebbero dovuto tenerli in casa gran parte del tempo, almeno fino ai primi tepori della primavera. Oggi vanno di moda solo i videogiochi. Non si lamentano, non sporcano, non si ammalano e quand’anche si rompessero, si buttano nella spazzatura e se ne acquista di nuovi. Un cane, per di più se cucciolo, è delicato, ha bisogno di cure, attenzioni. Bisogna prestare ascolto ai consigli del veterinario, seguire una certa dieta alimentare. Eh, già… erano proprio questi i motivi per cui era pessimista sulla sorte della sua famiglia, quella d’origine. Una vena di tristezza velava i suoi occhietti e diventata mogio, mogio quando, sdraiato sulla sua copertina di lana, vedeva scorrere sullo schermo televisivo le immagini di cani che si rincorrevano, giocando. Carla, da ragazza intelligente qual era, non ci mise molto a comprendere le ragioni di quegli sguardi languidi e malinconici. Così, parlandone più volte con i genitori, finì per convincere anche il padre e la madre che la famiglia di Dantès andava in qualche modo riunita. La casa era grande e ampio era il giardino che la circondava. Ospitare più cani non era un’impresa così impossibile. Tornarono al canile ma lì trovarono solo due cuccioli. “ E gli altri?”,chiese Carla. “Che fine hanno fatto gli altri due? Sono stati affidati? ”. Il responsabile del canile tranquillizzò la ragazza. La madre e il terzo componente della famiglia erano stati trasferiti momentaneamente in un altro canile, insieme a vecchio Setter e al bassotto Pucci, a causa di alcuni lavori che si erano necessari. Se volevano prelevarli là, non c’era problema. La documentazione necessaria l’avrebbe preparata subito. E così fece. Iniziavano a calare le prime ombra della sera quando l’auto del signor Casolare varcò il cancello di casa con a bordo, insieme a lui e alla figlia, i tre cuccioli e la madre. Ispirata dai racconti di Dumas, Carla non esitò a trovare i nomi per tutti. Così i cuccioli diventarono Athos, Porthos e Aramis, come i tre più famosi moschettieri del Re di Francia, e alla cagnetta che li aveva partoriti assegnò un bel Regina Margot, a parziale risarcimento delle sue umili origini di trovatella. Dantès non stava nella pelle dalla gioia e saltellava felice, giocando a rincorrersi con i suoi fratelli che, più che tre moschettieri, erano tre piccole pesti. La Regina Margot, dalla sua cesta, guardava felice, con una finta aria di distacco, le evoluzioni della sua cucciolata. E non si stupirebbe nessuno se pensasse “Che belli, i miei figlioli. E che fortuna che abbiamo avuto, tutti insieme, ad incontrare queste brave persone”. Una fortuna che, evidentemente non è da tutti. Bastava guardare fuori dalla finestra, verso i prati al limitare del bosco, per capirne il perché. La neve, caduta in abbondanza, si era trasformata in pioggia, rendendo ancora più infido e scivoloso il terreno. Un ragazzino grassoccio stava correndo dietro ad un grosso cane che, a dire il vero, lo stava letteralmente trascinando. Tentava di trattenerlo con il guinzaglio, ma non aveva forza sufficiente. Piangeva, imprecava, supplicava il cane di fermarsi. Aveva il fiato grosso, incespicò e cadde. Si rialzò, ansimando. Ma le suppliche non servirono a nulla. Il suo Bertone aveva voglia di muoversi, correre e non prestava ascolto a quel lagnoso ragazzetto. Dantès e tutti gli altri guardavano la scena divertiti dalla finestra, al caldo. Si direbbe, dalle smorfie, che stessero sorridendo. In fondo, non era quello che voleva tanto, quel ragazzino piagnucoloso, tutto bagnato e sporco di neve fangosa? Un bel cane grosso, robusto, scattante…
Marco Travaglini