Ogni epoca ha avuto il proprio ideale di bellezza, i propri canoni ed il relativo maquillage; in questo articolo tratterò in particolare la bellezza femminile.
Nell’antico Egitto, e la scoperta della tomba di Tutankhamon lo dimostra, le donne conoscevano ed usavano l’eye-liner.
Nell’antica Grecia, per esempio, nelle donne erano apprezzate le forme sinuose, vengono raffigurate con fianchi larghi e con seno e glutei rotondi, sodi ma non troppo prominenti.
Arriviamo alla civiltà romana, dove la ricerca della bellezza riguarda anche gli uomini. Le donne devono avere occhi grandi e ciglia lunghe; anche qui troviamo testimonianze dell’uso dell’eye-liner ottenuto mescolando antimonio, fuliggine e piombo applicato con un attrezzo realizzato appositamente in osso o legno; un finto neo, nell’angolo superiore della bocca, era un’aggiunta ulteriore che, a seconda della posizione, comunicava qualcosa di preciso a chi lo guardava.
Attraversando i vari secoli, il concetto di bellezza ha subito profondi cambiamenti, particolarmente con la conoscenza di nuove civiltà con le loro tradizioni.
Mai come nella nostra epoca, però, la bellezza e, in generale, l’aspetto fisico hanno avuto tanta importanza da discriminare chi non rispecchi determinati canoni o non si adegui allo stile imperante.
Nell’immediato primo dopoguerra assistiamo ad una bellezza femminile quasi androgina, poco seno, capelli alla “garçonne”; i capelli lunghi sono fuori moda, compaiono i pantaloni anche per le donne.
Gli anni 30 del secolo scorso vedono un ritorno alla sensualità, alla femminilità: icone come Marlene Dietrich, anche se è vestita spesso da uomo e fuma, o Greta Garbo sono il modello cui molte donne si ispirano.
Via via attraverso i decenni assistiamo ad un cambiamento continuo di stili, di mode, di acconciature; il clima politico ed economico influenzano enormemente le tendenze: dalla minigonna degli anni 60, in pieno boom economico, alla gonna maxi nel periodo delle contestazioni femministe, per giungere ai jeans quando si comincia a parlare di parità).
Mai come ai giorni nostri, però, la bellezza è stata da un lato trascurata o travisata e, al contempo, usata come mezzo di discriminazione già in tenera età.
Con la complicità dei social, chiunque si discosti dalla bellezza ideale di quel momento viene additato come se fosse un untore, un individuo in grade di nuocere alla società, indegno di farne parte.
Nel film “Vacanze di Natale” la scena tra Billo (Jerry Calà) ed il proprietario del locale in cui Billo suona è diventata iconica. Billo è sempre circondato da donne molto belle e, per questo, spesso si distrae dal suo compito. Il proprietario del locale lo apostrofa “Ma cosa ci troveranno mai le donne in un pupazzo come te?” E Billo pacificamente risponde “Non sono bello, piaccio.”
Per definire questo disprezzo, questa discriminazione a seconda dell’aspetto fisico rispondente o no a determinati canoni è stato coniato il termine bodyshaming.
Questo senso di inadeguatezza, spesso inculcato dalle persone che ci sono più vicine, che noi consideriamo positive ma che, evidentemente, non lo sono affatto porta ad un vero e proprio distress, per risolvere il quale non di rado chi ne sia affetto ricorre a sedute di psicoterapia, prodotti cosmetici costosi, sedute in palestra o continui acquisti di nuovi abiti mentre la cosa, banalmente, più efficace sarebbe non curarsi di quelle critiche.
Chi ha stabilito cosa sia meglio? O cosa sia giusto? O cosa sia bello? Spesso una ragazza o anche una donna matura che mi chiede un servizio fotografico, soprattutto se sono sessioni di fotografia terapeutica, mi dice, con tono di domanda indiretta:“Dovrei perdere qualche chilo” oppure “Dovrei eliminare un po’ di cellulite”. solitamente rispondo che non è con me che deve parlarne ma col suo medico: se il sanitario ritiene che il suo sovrappeso sia dannoso per la salute (cuore, ginocchia, colonna vertebrale, ipertensione) allora adotterà i provvedimenti opportuni (dieta, attività fisica, ecc). Ovviamente giro la domanda alla ragazza: “perché vuoi dimagrire?” Quasi sempre la risposta è perché “mi sento grossa”, “perché sembro un baule”, “perché nessuno mi guarda”.
E’ evidente che sia una motivazione che nasce dalla modella stessa, perché si paragona con i modelli sbagliati che la pubblicità ci propina con ogni mezzo, perché associa la riuscita sentimentale delle sue amiche al loro aspetto fisico (trascurando che spesso hanno trovato un qualcuno che era stato scartato da tutte le altre) ed è altrettanto evidente che il mondo circostante rafforzi questa sensazione isolando chi non rispecchi determinati parametriperché sovrappeso, strabico, senza capelli perché calvo o sottoposto a chemioterapia, o patologicamente magro perché paziente oncologico.
L’attrice Martina Colombari ha posato di recente senza alcun makeup dichiarando che “È una lotta, quella all’aspetto ideale, che impegna con accanimento crescente le donne fin dall’età pediatrica e poco importa se questo feticcio di adeguatezza ad uno standard artificiale e malsano venga raggiunto a prezzo di un imponente disagio psicologico, minaccia all’identità sociale, dispercezionecorporea, disturbi della nutrizione, dell’alimentazione e dell’umore che lasciano strascichi nell’arco dell’intera esistenza. Questa idea di bellezza è il burqa dell’occidente dietro cui si nasconde tutto il resto che costituisce il vero valore di una donna: la sua essenza, unicità, i suoi talenti e capacità”
Secondo voi le compiante Rita Levi Montalcini o Margherita Hack, Maria Montessori o Anna Magnani, Nilde Iotti o Hannah Arendt sono diventate famose per il loro aspetto fisico, per la loro avvenenza?
Personalmente, e so di non essere l’unico, ritengo che chi affida unicamente al proprio fisico il compito di renderlo famoso, lo faperché non possiede altro; inoltre, e mi rivolgo soprattutto alle donne, pensate che il fisico prima o poi ci abbandona per l’età, un infortunio, le gravidanze o fattori epigenetici: come pensate di vivere quando il vostro fisico non attrarrà più gli sguardi di chi incontrate?
Ora mi rivolgo ai maschietti: quando non potrete più valorizzare opportunamente il fisico della vostra compagna, sarebbe opportuno che cultura, dialogo, ironia occupassero i vostri momenti; pensateci, quando scegliete una compagna o criticate la compagna di qualcun altro; non soppesate la vostra compagna per ciò che può darvi, esteticamente o culturalmente; pensate a ciò che avete da offrirle voi.
Sergio Motta



Case che dovevano ospitare l’imponente marea di immigrati dal Sud (ma non solo; molti a Vallette anche i profughi istriani e giuliano-dalmati), attratti in questa estrema periferia nord-ovest della città, dalla speranza di un lavoro che, sotto la Mole, era soprattutto garantito in quegli anni da mamma Fiàt…Quartiere operaio, quartiere dormitorio, via via Le Vallette hanno poi negli anni conquistato terreno (con buona pace dell’ingegner Gino Levi – Montalcini che nel 1957 ne firmò il piano urbanistico, curando anche la progettazione dei vari edifici) fino a spingersi oggi alla parte nord del verde Parco Carrara, noto più comunemente come Parco della Pellerina e fino a fregiarsi, in un’area di stretto confine, di un’autentica magia urbanistico-sportiva come il complesso dello Juventus Stadium e della Cittadella bianconera, così come di un’imponente centrale per il teleriscaldamento entrata in funzione nell’inverno 2012 e che sembrerebbe fare di Torino la città oggi più teleriscaldata d’Europa. A vent’anni dalla sua progettazione, le Vallette in cui mi trovai a lavorare e che mi trovai a vivere dagli Anni Settanta alla fine degli Ottanta, incutevano, per i “forestieri”, un certo senso di reverenziale rispetto. E anche appena appena – a voler giocare di ottimismo – un po’ di panico. Del resto erano quelli, anche per Torino, gli anni bui del terrorismo, delle Brigate Rosse e di Prima Linea: 19 morti e 130 feriti si contarono in città fra il 1977 e il 1982. Erano quelli anche gli anni di un’accesa contestazione studentesca, figlia o figliastra del ’68. Quella che molti di noi giovani (allora) insegnanti avevano fatto propria o comunque vissuta – direttamente o indirettamente- sulla propria pelle e che ora si trovavano a confrontare con le nuove proteste di ragazzi che non avevano molti anni meno di loro, che okkupavano scuole e organizzavano cortei e manifestazioni anche di forte impatto sulla vita della città, ma poco recepite, se non per farne spesso uso strumentale, dalle istituzioni e da quelle forze politiche cui si chiedeva maggiore attenzione e maggiori risorse per la scuola italiana nel suo complesso. Eventi però che, per valenza politica, sembravano interessare solo marginalmente le Vallette, dove il “buco nero” era fatto principalmente di ribellione e rabbia sociale. Ebbene, in quelle Vallette, a cavallo degli Anni ’70-’80, dove anche la Scuola, così come le Comunità Parrocchiali non meno che la presenza di Enti socio-assistenziali, assumevano un ruolo determinante nell’accompagnamento dei ragazzi e delle loro famiglie, io arrivavo tutte le mattine con un’“affannata” Fiat 127 bordeaux, che avevo battezzato, non so perché ma mi sembrava un nome simpatico, Carolina . Partivo (ero quasi sempre in ritardo) da via Spano, Mirafiori Sud (all’altro capo della città); attraverso corso Sebastopoli, arrivavo a tutta birra in via De Sanctis – via Pietro Cossa per poi imboccare via Sansovino e corso Toscana e ritrovarmi in quel dedalo di strade impreziosito – come detto – dalla soavità di graziosi nomi floreali: via dei Gladioli, via dei Glicini, viale dei Mughetti, via via fino a via delle Magnolie. Qui al civico 9, mi trovavo ogni mattina di fronte a quella media statale, titolata allora al grande “Carlo Levi” (oggi a David Maria Turoldo), che, nel corso degli anni, sarebbe un po’ diventata la mia “seconda casa”. Avevo fatto pochi chilometri e mi sembrava, ogni giorno, d’essere atterrato, con la Carolina fumante, su un altro pianeta. Ero al mio primo incarico diurno. Dall’atrio, volavo ogni giorno due rampe di scale, strappavo al volo dal cassetto personale della sala insegnanti il registro e m’infilavo, con l’irruenza di un vigoroso centometrista ma insieme con la silenziosa leggerezza di una libellula – per non offrire al pubblico ludibrio il mio vituperabile e sempre più proverbiale ritardo – nell’aula di mia competenza. Chiudevo alle spalle la porta, mi dirigevo alla cattedra e mi buttavo, pancia a terra, nella mischia. Calmavo con non poca fatica gli animi e iniziavo ‘a mattinata…