

L’Università di Torino ha recentemente avviato un progetto dedicato all’arte e al benessere di studenti e studentesse, parte del Bilancio Partecipativo di Ateneo 2024, votato dal corpo studentesco.
Facciamo arte è un progetto dell’Università di Torino che ha come obiettivo la promozione della socialità e del benessere delle studentesse e degli studenti attraverso l’arte all’interno degli spazi universitari.
Tra novembre 2024 e giugno 2025 vengono attivati laboratori ed eventi artistici che spaziano dal teatro, alla danza e alla musica come danza di comunità, teatro sociale, laboratori di percussione.
Attraverso una rielaborazione collettiva e una strumentazione artistica e psico-sociale sono narrati i vissuti dei giovani di fronte a macro-eventi scioccanti come le pandemie o le guerre.
L’ultima parte del progetto è dedicata alle azioni per il mantenimento e il potenziamento delle capacità acquisite durante i laboratori: consapevolezza e gestione delle emozioni, comunicazione, resilienza, problem solving, creatività e flessibilità.
I laboratori si svolgono all’interno degli spazi dell’università, distribuiti tra i vari poli, in modo da ripopolare luoghi familiari associati allo studio con attività extra curriculari pensate per coinvolgere la comunità universitaria in nuove esperienze artistiche.
Il primo laboratorio di Danze Popolari a Palazzo Nuovo e il primo concerto di Sassofoni, hanno avuto un buon esito.
Il prossimo evento del 2025 sarà Marimba in Suono, concerto a cura di Cesare Fornasiero del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Torino, che si svolgerà il 31 gennaio dalle 18 alle 19,45, nell’Auditorium del Complesso Aldo Moro, in Piazzale Aldo Moro.
Oltre al concerto, a febbraio verranno avviati altri laboratori rivolti a studenti e studentesse:
Pause4Student: Laboratorio di Danza, dal 5 febbraio al 12 marzo, ogni mercoledì dalle 13,45 alle 15,15 allo StudiumLab a Palazzo Nuovo (Via Sant’Ottavio 20, Torino).
Hearts: Workshop Artistici per il benessere dell3 student3 universitar3, laboratori di teatro che verranno attivati a Torino, dal 19 febbraio al 9 aprile ogni mercoledì e dalle 13 alle 15 in Aula Magna del Rettorato (Via Po, 17, Torino) e a Grugliasco, dal 19 febbraio al 26 marzo, ogni mercoledì dalle 16,45 alle 18,45, nella Sala Eventi della Biblioteca Diffusa (Largo P. Braccini 2, Grugliasco).
Per iscriversi al concerto e ai prossimi laboratori si prega di compilare il seguente form: https://forms.gle/naoSRox9Lua7V4HS7
I laboratori sono aperti anche a partecipanti esterni all’Università di Torino, in base alla disponibilità di posti. Il calendario è in continuo aggiornamento e vi invitiamo a tenere d’occhio la pagina web di Facciamo Arte per informazioni aggiuntive sugli orari e sui luoghi di svolgimento: https://www.unito.it/ateneo/gli-speciali/facciamo-arte-laboratori-creativi-psicosociali
Non solo il latino ma anche la geografia, la storia con attenzione a quella dell’Occidente e, udite, udite, le famigerate poesie a memoria alle elementari. Insomma , dopo anni in cui la scuola ha visto smarrire sempre di più il suo ruolo, anche, appunto, a causa di programmi scolastici annacquati, ora si cerca di correre ai ripari per arginare il cosiddetto “analfabetismo funzionale”, quello, tra l’altro, di cui ci si accusa vicendevolmente nei commenti sui social, ignorando che frequentemente, chi attribuisce all’interlocutore questa condizione, ne è vittima egli stesso. Perchè gli analfabeti funzionali sono, insospettabilmente, fra noi. Ecco le nuove indicazioni del Ministro dell’Istruzione e Merito Valditara
Leggi l’articolo su lineaitaliapiemonte.it:
Il clutter, in inglese, è l’accumulo indiscriminato; viene utilizzato per indicare l’abitudine di conservare ogni oggetto, se non addirittura di raccoglierlo in giro, fino al punto di non potersi più muovere.
Se fino a 3-4 qualche decenni orsono il clutter riguardava oggetti tangibili, fisici che andavano a riempire cassetti, ripostiglio, cantina o altri angoli di casa, la diffusione di massa dei files digitali ha portato a clutterizzare anche, e soprattutto, il nostro pc.
Un tempo, quando la fotografia era analogica e sceglievamo con cura quelle che sarebbero diventate foto da stampare, riponevamo le foto in un album, o nei portafoto trasparenti, indicando in copertina il luogo o la data o l’evento cui si riferissero.
L’avvento della fotografia digitale ha aumentato in modo iperbolico la quantità di foto che annualmente scattiamo o riceviamo (anche tramite i social) al punto che catalogarle diventa impossibile o, quanto meno, richiede tantissimo tempo.
Pensate che, prima della diffusione della fotografia digitale, scattavamo una media di un centinaio di foto per ogni vacanza (3 rullini da 36); ora, tranne casi più gravi, i 100 scatti li abbiamo realizzati quando arriviamo al casello dell’autostrada (quello della partenza) perché dobbiamo compulsivamente fotografare ogni cosa incontri il nostro sguardo: ciclista, cartello, giocoliere, semaforo guasto, auto sportiva, alba, tramonto e luna.
Va da sé che, al ritorno, archiviare in modo “sensato” qualche centinaio (se non migliaio) di scatti diventa un’impresa epica: luogo, particolare (museo di….,, ristorante XY, ecc) e, dunque lasciamo tutto buttato in un’unica cartella. Ovviamente, quasi mai eliminiamo le foto palesemente inutilizzabili perché sfocate, scure, scattate involontariamente.
Lo stesso dicasi di files word, mail, video e, in generale, tutto quello che riponiamo nel nostro pc.
Esattamente come un ripostiglio senza scatole né etichette, un PC con documenti di ogni genere salvati alla rinfusa rende difficile ogni ricerca, specie se riveste carattere di urgenza.
In un’epoca in cui andiamo sempre di fretta, in cui c’è l’ansia di accumulare sempre più oggetti, in cui abbiamo sovrabbondanza di ogni oggetto (e le foto non fanno eccezione) sarebbe forse il caso di tornare al vecchio sistema di conservare solo il necessario, di eliminare subito il superfluo e di tenere traccia di tutto ciò che facciamo; fare pulizia ci permette non soltanto di eliminare il superfluo, ma anche di ripassare in rassegna ciò che abbiamo e avevamo dimenticato di avere e, ancora più, vedere come nel tempo siano cambiati i luoghi, la società, il modo di vivere e la nostra cultura in senso lato.
Una persona che fotografi durante 10 week end l’anno, durante le vacanze estive e in occasione di 6-7 feste (compleanni, Capodanno, ecc) accumula in un anno qualcosa come 5-6000 fotografie; quante credete che ne guarderà?
Sergio Motta
Prometeo, la nuova piattaforma del Politecnico di Torino, inaugura al Circolo dei lettori, in collaborazione con Universo, la piattaforma di eventi dell’Università di Torino, un ciclo di incontri per esplorare e affrontare insieme le sfide della nostra contemporaneità
Dieci incontri per discutere e affrontare insieme i cambiamenti e le sfide della nostra contemporaneità: prende avvio domani il ciclo di appuntamenti “Le Muse Sapienti. Geografie del presente”, iniziativa realizzata nell’ambito della nuova piattaforma di produzione di contenuti culturali per il public engagement del Politecnico di Torino, Prometeo, in collaborazione con Fondazione Circolo dei lettori e con Universo, il programma di eventi culturali dell’Università di Torino; una serie di dinner talks serali al Circoli dei lettori articolati in due momenti distinti, un primo di confronto tra gli ospiti sui temi che animano il nostro presente e un secondo di coinvolgimento del pubblico mediante la formula dell’aperitivo per continuare la conversazione in un contesto conviviale.
La scelta del nome, “Le Muse sapienti”, si ispira all’opera musicale Le muse galanti proposta nel 1743 da Jean-Jacques Rousseau e, attraverso una serie di confronti fra tecnologhe, tecnologi, scienziate, scienziati, umaniste, umanisti, artiste e artisti, vuole dimostrare che la tecnologia è umanità e che occorre riconciliare l’umanità con le sue creature.
La tecnologia ha infatti assunto un ruolo sempre più decisivo nello sviluppo sociale e in tutti gli ambiti della vita umana, dalla formazione al lavoro, dall’ambiente alla salute. Per questo motivo, il Politecnico di Torino intende intensificare le proprie iniziative di condivisione di conoscenza con la cittadinanza, rafforzando con Prometeo l’azione di Biennale Tecnologia, la grande manifestazione culturale a cadenza biennale che l’Ateneo realizza e promuove con successo dal 2019.
L’idea è di produrre contenuti d’interesse per il pubblico, contenuti di volta in volta differenti: spettacoli teatrali, cortometraggi, libri di saggistica, pubblicazioni a fini didattici, ma anche podcast, video, lezioni per studenti della scuola e dell’università, e ancora contenuti per i social network, eventi di intrattenimento e dialogo con esperti, mostre, e molto altro.
Domani il primo appuntamento, “Pensare la fine”. Una riflessione sulla vecchiaia, pensiero spesso rimosso dalle nostre menti perché portatrice dell’idea, considerata da molti spaventosa, di non “essere più noi stessi”. Ma, si interrogano gli ospiti del talk – Agnese Codignola, Alessandro Chiarini e Paola Stringa – non sarebbe invece meglio prepararsi e affrontare la questione con pragmatismo? E allora il dialogo si concentra, nello specifico, sulle malattie degenerative e in particolare sull’alzheimer, con lo sguardo rivolto al futuro della ricerca e alla gestione della persona, a partire dalle conoscenze scientifiche e nella prospettiva di nuove soluzioni, in armonia con il modo in cui vogliamo pensare la nostra identità, gestendola fino alla fine.
Il secondo appuntamento si terrà il 30 gennaio prossimo e vedrà in dialogo tra loro, moderati da Guido Saracco, Giovanna Iannantuono e Andrea Prencipe. Dal titolo “Università generativa”, l’incontro esplorerà le opportunità offerte oggi da un mondo in costante cambiamento, con l’invito, rivolto alle nuove generazioni, di “imparare a disimparare” per lasciare il posto alle conoscenze associate ai cambi di paradigma in arrivo. Nel farlo, è necessario tuttavia conservare le qualità «umane» del pensiero, qualità sapientemente integrate con le nuove frontiere della rivoluzione tecnologica. Il monito è quindi di mantenere accesa la fiamma della creatività rispettando le tradizioni e il sapere ricevuto, ma al contempo di aprirsi alla diversità e al mondo intero. A tutto questo formeranno le università generative.
Il palinsesto degli incontri continuerà con i seguenti talk:
I dieci appuntamenti si svolgeranno presso la sede del Circolo dei lettori, in Via Gianbattista Bogino 9, Torino, e cominceranno alle 18.30, con ingresso libero fino ad esaurimento posti.
Chi possiede la Carta Io leggo di Più del Circolo dei lettori può prenotare il proprio posto (info@circololettori.it | 011 8904401).
Per l’aperitivo a seguire, è necessaria la prenotazione (Barney’s | 011 8904417 – 348 0570986 – barney@circololettori.it).
La vita, lo stato vitale con le sue esperienze sensibili, cioè fisiche, è l’unica esperienza di cui i vivi possono registrare il loro esistere (sia nel piacere, che nella sofferenza). Pur nell’ovvietà del pensiero, il dato può però essere motivo per una più elaborata riflessione. Normalmente si sente dire che l’appoggiarsi a una religione sia grande conforto per chi stia per chiudere gli occhi.
Si, no? Forse.
Secondo noi, l’angoscia per la fine della vita terrena non è sempre dipendente dall’idea spirituale che si ha del proprio ‘dopo-vita’.
L’essere religiosi, agnostici o atei non è garanzia per una totale serenità di fronte al Mistero dei Misteri. L’accettazione della fine, pur se esperienza da affrontare da ogni essere vivente, non è identica per tutti gli umani, variando infatti da cultura a cultura. Questo particolare timore della morte è particolarmente sentito presso le culture occidentali.
Perché?
Per restringere il discorso, ci occuperemo della piccola parte di mondo che calpestiamo. Iniziamo dal luogo dove quasi sempre si nasce e molto spesso si muore. L’ospedale, insostituibile realtà per chi più non è in salute, ha come precursore il lazzaretto (anche se la coesistenza dei due enti è durata a lungo), antico ed estremo pubblico ricovero che si raggiungeva spesso prima del trapasso, se non era possibile morire nella propria casa.
Il lazzaretto era però un luogo pubblico, aperto, risposta razionale per evitare le nefaste conseguenze dei morti abbandonati sulle strade durante periodi di pandemie e particolari sofferenze sociali. Nel Lazzaretto (termine probabilmente proveniente da Lazzaro, morto lebbroso e resuscitato da Cristo) venivano tenuti in quarantena malati – sempre in gran numero durante acuzie di mortalità – e con alta probabilità destinati a morire in breve tempo.
Le condizioni igieniche precarie, la promiscuità e il sovraffollamento favorivano contagi che spesso coinvolgevano il personale di assistenza, che si ammalava a sua volta, peggiorando la capacità di sopravvivenza dei ricoverati (sporchi, troppo vicini, sdraiati spesso solo su paglia già usata da altri).
L’ospedale è il suo contrario: nasconde morte e sofferenza a chi vive in libertà il proprio quotidiano e – se non provvisoria esperienza da dimenticare quanto prima – è generalmente percepito come inevitabile stazione finale legata al ‘finis vitae’.
Questo ‘sentiment’ di forte radicamento alla vita è tipicamente occidentale (il 10% dell’umanità), perché proprio qui, nonostante anche grosse contraddizioni, si esperisce da tanto tempo una migliore qualità di vita, un attaccamento materiale ai suoi piaceri e ai suoi godimenti, spesso vissuti come compiutezza dell’essere.
La realtà contadina, dalla quale anche questo privilegiato 10% di mondo origina, viveva altri ritmi, percepiva una più naturale vicinanza con il trapasso, anche perché le esistenze erano generalmente più brevi, faticose, instabili, dure, non raramente violente, certo meno piacevoli di ora.
Quindi la morte può essere considerata un bene?
Questo è il fulcro di una realtà per noi alle spalle, ma reale. Per moltissime esistenze del passato ma anche per gran parte degli otto miliardi di umani che popolano il pianeta, la morte può rappresentare una LIBERAZIONE da affanni, miseria, sopraffazione, sofferenze.
Il suo timore cresce invece dove sussiste un’alta qualità di vita, un benessere materiale che sostiene il passare degli anni, dando forza a un corpo, per istinto portato al piacere e non al dolore. Quindi la presenza della morte, grazie al citato miglioramento della vita e alla realtà ospedaliera che nasconde chi se ne andrà, è lentamente uscita di scena, proteggendo la serenità di chi rimane.
I pochi bambini che vengono al mondo sono generalmente sani, la nonna non muore più in casa come una volta (ma una volta anche in casa si nasceva) e il lutto di chi rimane non è allargato alle comunità ma resta conchiuso in relazioni sparse in grandi e spersonalizzanti città. La sofferenza esiste ancora, non è totalmente eliminata ma è potentemente limitata dai progressi di chimica e medicina.
I drammi occidentali del fine-vita restano ormai circoscritti dietro le massicce mura di ospedali, case di cura, cliniche, Hospice ed RSA.
Quando siamo fuori da lì, restiamo avvolti da case confortevoli, automobili, vestiti, viaggi, comunicazioni multimediali, possibilità varie offerte a seconda del portafoglio e delle curiosità personali… (la qualità di vita di un normo cittadino europeo di oggi è stata considerata come migliore di re e regine del basso medio evo).
Insomma, lo show dei viventi va avanti, deve andare avanti perché la morte NON esiste più. O meglio … è bello illudersi che non esista!
Ferruccio Capra Quarelli
Nella giornata di venerdì 10 gennaio, presso l’istituto Valsalice di Torino, si è svolto un importante incontro con il dott. Franco Berrino, che ha parlato con sapienza, simpatia e passione in un’aula gremita di studenti della scuola media. L’evento è stato moderato dal prof. Andrea Olivazzo, docente di Tecnologia che, da diversi anni, dedica una parte di tempo delle sue lezioni ad affrontare un discorso sempre più significativo all’interno delle scelte di vita consapevoli: quello dell’alimentazione quotidiana.

“Il tema dell’alimentazione – ha dichiarato il prof. Andrea Olivazzo – l’ho sempre ritenuto importante, ed è giusto che i ragazzi possano riflettere e prendere consapevolezza di quanto le scelte alimentari influiscano su corpo, mente e ambiente. La presenza del dottor Berrino è la dimostrazione di quanto l’intero istituto Valsalice abbia a cuore la salute e il futuro delle nuove generazioni”.
Il dott. Franco Berrino, laureatosi in medicina e chirurgia all’Università di Torino e specializzatosi in anatomia patologica, si è poi dedicato soprattutto all’epidemiologia dei tumori. Dal 1975 al 2015 ha lavorato all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dove ha diretto il Dipartimento di medicina preventiva e predittiva. Volto noto della lotta a un’industria alimentare che produce cibi sempre più sterili, raffinati, trattati chimicamente e potenzialmente pericolosi per la salute, è anche tra i fondatori de La Grande Via ETS, una Fondazione che promuove la consapevolezza di essere artefici della propria salute, fisica ed emotiva, e il benessere duraturo conquistato attraverso la scelta del cibo che viene mangiato e dell’attività fisica che viene compiuta. Un percorso finalizzato a divenire partecipi dell’armonia e della salute della comunità umana e del pianeta.

Proprio in questa direzione si è svolto l’intervento del dott. Berrino, che ha saputo catturare da subito l’attenzione dei giovani studenti spiegando due ricette sane e gustose di biscotti da preparare velocemente in casa, proponendo contemporaneamente una riflessione divenuta centrale all’interno dell’incontro.
“Tornare a cucinare e scegliere cosa mangiare è importante per noi e per il pianeta – ha dichiarato il dottor Berrino – oggi, purtroppo, è il cibo a scegliere noi. Questo succede a causa dei bombardamenti pubblicitari da parte dell’industria alimentare”.
“Dobbiamo sempre tenere a mente che scegliere cosa mangiare è una scelta che influisce non soltanto sulla nostra salute, ma anche sulle sorti del pianeta, sulle sue risorse – ha continuato il dottor Berrino – una delle cause della fame in Africa è dovuta alla coltivazione sterminata, voluta dal mondo occidentale, di soia, legumi e cereali finalizzati a diventare cibo per ingrassare gli animali in allevamento, in modo da ottenere più carne, più latte, più “prodotto da vendere”. A quale costo, però? Gli animali si ammalano a causa di un’alimentazione innaturale e, di conseguenza, ci ammaliamo tutti noi che consumiamo il prodotto in forma di carne, latte, formaggi e derivati. L’uomo si è abituato oggi a mangiare cibi che non hanno mai fatto parte della sua dieta nel corso dell’evoluzione, alimenti sempre più raffinati come la farina 00, pieni di conservanti e trattati chimicamente per garantire una maggior durata, lo zucchero della pasticceria industriale, che posso definire “veleno”, vista la quantità di studi scientifici che lo collegano a molte gravi patologie sempre più presenti nella nostra società”.
“Il mio consiglio – ha concluso il dott. Berrino – è quello di tornare in cucina, di preparare con le vostre mani ciò che andrete a mangiare. Noterete anche dei benefici a livello economico. Tornare a mangiare il cibo dell’uomo, ovvero verdura, legumi, cereali, frutta fresca e secca come base fondamentale della nostra dieta significa allontanarsi dal consumismo imposto dall’industria alimentare. Cercate di mangiare cibo biologico, integrale, consapevoli della preparazione che l’ha portato fino al vostro piatto”.
Gian Giacomo Della Porta
Chi sia nato tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ‘70 ricorderà l’avvento dei primi PC, l’M24 Olivetti in particolare o, seppure più limitato, il Commodore 64 che portarono una innovazione, impensabile solo qualche anno prima, nella nostra vita e nella nostra società.
Dalla lettura dei floppy disks (e poi dei CD) all’esecuzione di calcoli piuttosto complessi, la redazione di testi memorizzabili, i primi fogli di calcolo (Lotus 123®) e molto altro, nel giro di 40 anni la tecnologia si è evoluta in modo esponenziale giungendo ad offrirci, al costo di un televisore, un computer ed una tecnologia in grado di accendere a distanza la caldaia o il forno, controllare le telecamere disseminate nell’appartamento, comandare una o più prese di corrente e molto altro.
Negli ultimissimi anni ha fatto la sua comparsa l’intelligenza artificiale, meglio conosciuta col suo acronimo AI, che sta realmente cambiando la nostra vita, e non necessariamente in meglio; uno dei primi esempi è quella offerta da programmi di fotoritocco o di video editing che, basandosi su una nostra semplice stringa di testo, sono in grado di creare l’immagine o il video da noi richiesto (Santa Claus donna qui sotto, per esempio)
L’AI altro non è che lo sviluppo logico del percorso iniziato, appunto, con i primi PC che almeno in teoria dovevanosemplificarci la vita. In realtà, ogni innovazione moderna ha solo in apparenza migliorato lo status, il modus vivendi delle popolazioni che quelle innovazioni hanno fatto proprie. Pensiamo solo alla robotica: nata per migliorare la precisione nell’esecuzione delle mansioni da parte degli operai, in realtà si è dimostrata un mezzo, accettato dai sindacati, per permettere alle aziende di licenziare gli operai. Anche nei servizil’informatizzazione ha portato agli stessi risultati: dove prima occorrevano quaranta impiegati ora ne basta la decima parte, ove prima c’erano due filiali bancarie per ogni Comune, ora c’è un solo sportello Bancomat ogni 3-4 Comuni.
L’avvento di whatsapp, che permette di lasciare messaggi audio, viene osteggiato dai più per motivi che sfuggono all’umana comprensione, preferendo sterili messaggi di testo che potrebbero essere stati inviati dal primo che prende in mano lo smartphone.
Non parliamo, poi, dei siti di incontri che permettono a perfetti sconosciuti, sé dicenti Pippo o Mimmo, di incontrare Mimì o Lulù, salvo poi fare retromarcia di fronte alla realtà, vista l’incapacità di incontrare, conquistare e sedurre una persona realmente.
L’AI, inoltre, è (o, meglio, sarebbe) in grado di scegliere per noi ilpartner più idoneo sulla base di ciò che abbiamo inserito nel nostro profilo.
E’ evidente che la nostra società meriti solamente l’estinzione, vista la volontà (o la tendenza) all’autodistruzione.
Quello che parrebbe essere un miglioramento della qualità di vita, alla luce dei fatti risulta essere un enorme autogol che ci allontana sempre più dal benessere, nell’accezione originale del termine, e dalla felicità.
Pensiamo di essere felici avendo (quasi) tutto sotto controllo con un semplice tasto dello smartphone, potendo in ogni momento stare in contatto con amici, parenti, amanti, ecc, ma chissà perché,ora più che mai, ci rivolgiamo allo psicologo o allo psicoterapeuta perché qualcosa in noi non va.
Una tecnologia che, in modo subdolo, lento ma inesorabile mette in evidenza tutti i nostri problemi, le nostre fragilità e che ci toglie la serenità, il sonno, la privacy, il riposo.
Con l’AI geni della musica come Beethoven o Mozart saranno messi alla pari con qualsiasi cretino che urla contro le donne, i poliziotti o il proibizionismo; quelli che una volta venivano derisi al bar fin quando non gli si toglieva il mezzo litro davanti verranno venerati come un Nobel o un laureato Honoris Causa.
Che senso avrà ancora studiare se basterà un’occhiata in rete per diagnosticarsi la patologia acuta da cui siamo affetti, per recensire un libro premiato, per valutare causa ed effetto del riscaldamento globale o per giudicare un film senza neppure averlo visto?
L’unico vero risultato dell’AI sarà di permettere ai decerebrati ditenere il passo con i più intelligenti; i minus habens, avendo molto tempo libero perché nessuno li assumerà più, avranno tempo a volontà per pontificare, convincere il mondo delle loro tesi, elaborare tesi fantasiose su qualsiasi argomento o cercare di dimostrare che la Terra è piatta.
Da ragazzino andai con i miei genitori a vedere il film “2001 Odissea nello spazio” nel quale, oltre alla regia impagabile di Stanley Kubrick, la musica di Richard Strauss ci conduceva alla scoperta della prima forma di AI, il computer HAL 9000 in grado addirittura di leggere il labiale dell’equipaggio. Considerando che parliamo di un film uscito nel 1968 possiamo dire che avremmo avuto, volendo, il tempo per prepararci e, ove necessario, correre ai ripari ma evidentemente così non è stato.
Dunque, che senso ha programmare un’intelligenza artificiale destinata agli imbecilli naturali?
Sergio Motta
A partire dagli anni ’80 si sono diffusi i termini coach, coaching e, in un delle varie declinazioni, sex coaching.
Il coaching è a tutti gli effetti una disciplina, condotta da un maestro (coach) che offre il suo aiuto ed il suo supporto professionale, occupandosi di colmare e chiarire tutti quei dubbi che ognuno di noi può avere e rimasti senza risposta.
Oggi tratterò, in particolare, in sex coaching. Di cosa si tratta?
Letteralmente è l’allenamento al sesso ed i sex coach ne sono gli allenatori, che aiutano a risolvere le lacune in materia di sesso, permettendoci di giungere ad una sua diversa percezione (tabù, convinzioni limitanti).
Il sex coaching è una disciplina che punta a risolvere le problematiche legate al mondo del sesso come pure ansie e blocchi legati alla sfera sessuale.
Il sex coach è, a tutti gli effetti, una figura professionale che si occupa di insegnare tanto a singoli individui quanto alle coppiecome vivere e salvare la loro vita sessuale, sia personale che nella relazione, portando i soggetti ad esprimersi in modo più aperto, sia nelle fantasie che nelle prestazioni vere e proprie.
Una disciplina che permette a chiunque viva un disagio nella sfera sessuale di confrontarsi col coach per arrivare a prendere conoscenza di sé e della propria sessualità, con l’obiettivo di rimuovere alcune cause ostative o di raggiungere un maggior benessere ed una consapevolezza di se stessi.
Tutti noi, chi più chi meno, particolarmente agli inizi della propria vita sessuale o all’arrivo della menopausa e dell’andropausa, ma anche in periodi di sovraffaticamento psichico, possiamo incontrare disagio o incomprensioni nella sfera intima. Il sex coach ha il compito di ascoltare chi si trovi in tale situazione fornendogli gli elementi per superare eventuali blocchi e disagi e vivere consapevolmente la propria vita sessuale.
L’incontro con il sex coach vede affrontati tanti argomenti, con il paziente che palesa i propri problemi o dubbi e formula domande, ed il coach aiuta chi si rivolge a lui/lei fornendogli i giusti strumenti per comprendere le tematiche e rimuovere i blocchi.
Si parla di ogni sfaccettatura della sessualità, dalla soluzione di problemi come l’eiaculazione precoce a come prolungare il piacere, dal vaginismo alla disfunzione erettile. Insieme, coach e paziente permettono al paziente di disattivare quel meccanismo mentale che privilegia la parte razionale a svantaggio di quella istintuale, che blocca ogni tentativo di cambiare, di seguire desideri e realizzare fantasie.
Tutti noi ci portiamo dietro dall’infanzia alcuni blocchi, qualcuno più di altri, dovuti all’imprinting genitoriale, all’ambiente, all’educazione, alla religione; compito del sex coach è aiutarci a vivere il sesso più liberamente ed in modo appagante.
In un periodo in cui siamo tutti presi dalla frenesia della vita quotidiana, dove stress, preoccupazioni, ansie e lavoro minano seriamente la nostra felicità e la nostra vita sessuale rivolgiamoci al sex coach senza timore e, lavorando insieme a lui/lei, riportiamo la felicità tra le mura domestiche e sotto le lenzuola.
Conditio sine qua non, però, è essere consapevoli di avere un problema.
Sergio Motta
Sex coach