“Tutta colpa di quel francese..”. Eriberto si era espresso in modo netto,deciso. La principale responsabilità di quant’era capitato a quei due disgraziati, a suo parere, era di Jules Verne. Del resto non tutti quelli che avevano letto i romanzi del fantasioso scrittore bretone, veri e propri capolavori immortali, si erano ispirati a tal punto da cimentarsi in qualche analoga impresa per conto proprio
Eriberto era convinto che Gilberto e Roncolino erano rimasti folgorati da “Il giro del mondo in ottanta giorni” a tal punto da volersi cimentare in qualcosa di simile, seppur su scala ridotta. Così era nata quell’idea balzana che recava discutere tutto il paese. Gilberto Treossi, lungo come una pertica e magro come uno stuzzicadenti, faceva coppia fissa con Marcello Ronconi,detto “roncolino”, basso e mingherlino. I due si barcamenavano con qualche lavoretto,guadagnando quel tanto che occorreva per assicurarsi almeno un pasto al giorno e un fiasco di vino per il piacere del palato. Vivevano d’espedienti, vestendosi con quanto veniva loro offerto dalle Dame di San Vincenzo.Le notti le passavano nel fienile del geometra Baroveri che, da persona generosa qual’era, non negò mai quel povero giaciglio, consentendo ai due di dormire anche nella larga mangiatoria della stalla quando veniva la stagione più fredda. Quando non erano impegnati nelle loro piccole attività e non avevano la testa annebbiata dalle bevute, si recavano nella piccola biblioteca dell’oratorio dove, seduti sulle due sedie impagliate vicino alla finestra,leggevano i libri a disposizione.Entrambi avevano frequento la scuola fino alla quinta elementare e sapevano leggere e far di conto. La vita per loro – come diceva Don Luigi, tirando un lungo sospiro – “non era stata benevola ma nonostante tutto erano due bravi cristiani”. Fu proprio la lettura del romanzo di Verne, uno dei più famosi del narratore di Nantes, a far scattare la scintilla nella testa di Gilberto. Roncolino, messo a parte della trovata, si dichiarò immediatamente d’accordo.
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Nella storia i due protagonisti, Phileas Fogg – tipico gentlemen inglese – e Passepartout, il suo cameriere francese, si erano impegnati per scommessa a compiere il giro del globo in ottanta giorni. Un’impresa che, tra colpi di scena e vicende a volte drammatiche e spesso grottesche, giunse a buon fine. Verne, nella stesura del racconto, si era ispirato ad una storia vera, che aveva visto protagonista l’americano George Francis Train nel 1870. E perché loro non potevano fare altrettanto, impegnandosi a fare il giro d’Italia con il triciclo del panettiere Delgradi che Gilberto di tanto in tanto usava per consegnare il pane a domicilio? Non era forse quella un’impresa degna di nota? Tanto più che al panettiere quel vecchio triciclo serviva ormai poco o niente, sostituito da un più moderno e rapido motorino. Assicuratisi l’assenso del Delgradi per l’uso del mezzo a pedali al quale aggiunsero un secondo sellino, così da poter star comodi in due, utilizzando il piano di carico della parte posteriore per caricarvi i necessari vettovagliamenti, i sacchi a pelo e una cerata con la quale ripararsi in caso di maltempo, mancava solo il “capitale” per l’avvio del viaggio. Era evidente che si sarebbero arrangiati, strada facendo, e che la forza motrice delle loro gambe non necessitasse di spese per i rifornimenti come per un auto o altro mezzo di locomozione a motore. Bastavano un pasto, un poco di riposo e una dose di vinello per garantire le pedalate che avrebbero eseguito a turni intervallati. L’idea questa volta venne a Don Luigi. Il parroco, per corrispondere alle necessità della chiesa e dell’oratorio, ricorreva a delle raccolte di denaro sotto forma di libera elargizione in cambio delle immaginette raffiguranti Santa Maria Assunta. Perché non stamparne alcune raffiguranti i due in posa davanti al triciclo con la scritta “Diamo una mano a due ardimentosi cicloturisti impegnati a portare il nome della nostra città in giro per l’Italia con coraggio, fede e passione” ? L’idea piacque, la frase un po’ meno. Alla fine venne scelta, per accompagnare la foto, una più sobria “Due concittadini sulle strade d’Italia. Sostegno popolare all’impresa sportiva”. Non fu facile raggiungere una discreta somma ma con l’aiuto di tante persone di buon cuore e con la benedizione di Don Luigi, “l’ardita impresa” poté contare su quasi trecento mila lire che per l’epoca non erano tantissime ma nemmeno una cifra disprezzabile.
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Terminati gli ultimi preparativi, recuperate due tenute da ciclista d’antan che il negozio di articoli sportivi, caccia e pesca del commendator Rutigliani teneva in cantina, l’allampanato Treossi e l’esile Roncolino decisero di iniziare il viaggio con un giro tra i paesi limitrofi per far conoscere se stessi e soprattutto l’onerosa e impegnativa avventura alla quale, baldanzosamente, si apprestavano. Ne avrebbero approfittato anche per qualche bevuta d’incoraggiamento.La signora Rosa,titolare della merceria sulla piazza,ciondolò il capo con aria sconsolata:“Oh, cara Madonna; se iniziano così più che partire finiranno piegati sulle gambe, vedrete..”. Roncolino e Treossi in quanto a ciucche dure e perse erano dei veri intenditori e conoscevano bene l’ebbrezza, quella sensazione d’instabilità, di tremore alle gambe e giramento di testa che dà il vino delle osterie quando si alza troppo il gomito. Capitava abbastanza spesso di sentirli raccontare di quando, per esaudire un voto dopo un lungo ricovero in ospedale di Roncolino, erano saliti alla chiesetta della Madonna della Neve, sul sentiero che dalle ultime case del paese s’inerpica sul monte. Doveva essere una toccata e fuga, giusto il tempo di un padrenostro per poi ridiscendere in città e invece erano stati via tre giorni e due notti. Lo stesso Don Luigi, passate le prime ventiquattrore, ne aveva denunciato la scomparsa ai carabinieri, temendo il peggio. Le ricerche durarono quasi due giorni, battendo palmo a palmo i boschi della zona quando, per scrupolo, la squadra di volontari guidata dal sacrestano Sisto li aveva scovati in una cascina, ubriachi come una botte, intenti a ronfare come due locomotive a vapore. Si erano scolati tre bottiglioni di quel vinello asprigno,ottenuto dalla spremitura dell’uva americana di Costante del Brich. Quest’ultimo li teneva nascosti nel sottotetto del fienile, da anni in disuso dopo aver vendute le sue due vacche a un allevatore di un paese vicino. Limitandosi a fare la vita del pensionato, si recava di tanto in tanto a meditare nella vecchia stalla, accompagnando i pensieri con qualche bicchiere. Aver confidato quel piccolo e innocente segreto al Treossi gli costò il prosciugamento della riserva di “carburante”. A risvegliare i due, in quell’occasione ci pensò il sacrestano con un bel secchio d’acqua in testa , gelida come la mano di un morto, e una randellata ciascuno sulla schiena, di quelle che lasciano i lividi per un bel po’. Dunque, come si diceva, di stravizi e libagioni lo spilungone e il mingherlino se ne intendevano.
Caricato a dovere il triciclo, eseguiti gli scatti di rito alla partenza secondo i desideri di Franchino che teneva molto ad esibire le sue qualità nel fissare gli eventi sulla pellicola in formato 6×6 della sua fotocamera Rolleiflex, partirono. Dal piccolo pubblico formato da conoscenti e curiosi partì un applauso e i due, visibilmente commossi, ricambiarono con ampi sorrisi.
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L’accordo prevedeva che ai pedali si sarebbero alternati e il primo turno toccò a Gilberto che, in fase di spinta, mise in mostra una bella pedalata rotonda.Dopo qualche centinaio di metri, lasciatesi alle spalle le ultime case del borgo, puntarono l’erede del velocipede verso la prima osteria. La “tappa” era motivata dal bisogno di farsi, prima del viaggio, uno o due bicchieri da Gino, all’osteria dei Passeggeri. “Non si può partire a stomaco vuoto, no?!”, affermò Treossi con un’aria sorniona, aumentando il ritmo. Evidentemente i bicchieri furono ben di più di quelli pronosticati e bastò un rapido sguardo per capire in che stato erano i due all’uscita dall’osteria. Sostenendosi uno con l’altro, malfermi sulle gambe e in precario equilibrio, s’appollaiarono sul triciclo e con qualche difficoltà si rimisero in cammino. L’intenzione dei “gemelli del litro”, prima d’intraprendere la loro avventura ciclistica, era di compiere una sorta di via crucis delle osterie, con partenza da Gino per poi visitare, a seguire, tutti i ritrovi canonici. Le papille gustative e l’olfatto erano da sempre la loro bussola. Così, alternando il vino ai piatti tipici ( “se non si mette qualcosa sotto i denti, viene il brucior di stomaco”, teorizzò Roncolino) lasciarono evidenti tracce del loro passaggio alla Casa del Popolo (barbera e salame affettato), all’omonima istituzione del paese vicino (ancora barbera ma con bruschette e sottaceti), alla Società operaia( dolcetto d’Alba e trippa in umido), nei circoli del Gallo, degli Imbianchini e di San Carlo ( barbera nei primi due, Fara e un goccio di Gemme nel terzo, accompagnati da salumi e formaggi). Passato il ponte sul fiume,nei pressi della vecchia ciminiera del cotonificio, parcheggiarono il triciclo accanto al muro di cinta, entrando con passo sempre più incerto al Dopolavoro dei ferrovieri, una sorta di “cima Coppi” del loro giro alcolico. All’uscita, i due professionisti del mezzolitro, traballanti e insicuri, inforcarono il tre ruote e sbandando pericolosamente a destra e sinistra, sparirono in direzione della provinciale. Gli abitanti del paese non tardarono molto ad avere loro notizie. Per l’esattezza il giorno dopo la partenza, a meno di una decina di chilometri dall’ultima sosta al Dopolavoro, furono trovati in fondo a un fosso da un metronotte che aveva finito il suo turno di lavoro. Completamente ubriachi, erano usciti di strada e solo l’erba alta e la poca profondità della roggia in secca avevano ridotto al minimo i possibili danni della caduta. I più pensarono che comunque, nella malaugurata ipotesi che fossero finiti nel lago, non avrebbero corso il rischio di affogare per la semplice ragione che erano tanto “pieni” che nei loro corpi non ci sarebbe stato posto neppure per una goccia in più. Soprattutto se , conoscendoli bene, si fosse trattato – vade retro Satana – di quel liquido inodore, insapore e incolore chiamato acqua.Finì così l’avventura di Gilberto e Roncolino che, a parte il denaro speso in libagioni, dovettero restituire quanto avevano in tasca a Don Luigi che si affrettò a versarlo nelle esangui casse della parrocchia, accompagnando l’obolo con tre Avemarie e due Paternostri. Ripresisi dagli eccessi alcolici e dai postumi dei brutti mal di testa, Treossi e Ronconi tornarono a frequentare la biblioteca dell’oratorio ma abbandonarono la lettura dei romanzi di Verne. Avevano scoperto un altro autore interessante, un tal Emilio Salgari che narrava di corsari delle Antille e delle Bermuda, pirati della Malesia e avventure ai quattro angoli dal mondo. Chissà se ne trassero qualche spunto in seguito. Noi non lo sappiamo e a essere del tutto sinceri non lo vogliamo nemmeno sapere.
Marco Travaglini