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La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

SOMMARIO: Riconoscere la Palestina? – Mario Soldati e la lettura – Lettere

Riconoscere la Palestina?
Il valore e il fine  supremo a cui guardare in tempi di guerra  è sempre la pace. Ma non sempre la pace è giusta. Questo insegna la storia. E‘ auspicabile anche se improbabile un reciproco riconoscimento tra Israele e Palestina e l’atteggiamento della Lega araba che si dissocia da Hamas è un fatto importante, ma forse non sufficiente. Ha scritto uno dei miei più cari amici Salvatore Vullo  sui social: “La Lega araba invita Hamas ad arrendersi. E l’Occidente codardo si piega ad Hamas“. E’ una riflessione che condivido. La fuga in avanti di Macron rivela la quasi nulla caratura politica del presidente francese che vuole distrarre cinicamente l’attenzione sul fatto che il suo governo non ha una maggioranza. Molto meno comprensibili sono l’Inghilterra e altri che danno il colpo di grazia alla politica estera dell‘Occidente. Riconoscere la Palestina senza la reciprocità è assurdo. E poi c’è da domandarsi a chi andrebbe rivolto  il riconoscimento di uno Stato che non c’è, malgrado il riconoscimento anomalo come “Stato non membro“ dell’Onu del 2012.
Esiste dal 1994 l’Autorità Palestinese che svolge, con grandi difficoltà (provocate da  Hamas) limitate funzioni di governo. Non mi appiattirò mai sull’antisemitismo del teologo (si fa per dire) Mancuso e sulla storica  Anna Foa diventata filo palestinese. La situazione nella Striscia è drammatica, ma non  può far perdere la testa come sta accadendo in questi giorni di confusione. Israele non può essere difesa per partito preso, ma pretendere l’arretramento dello Stato ebraico su confini precedenti alla guerra del 1967 è storicamente ingiusto e politicamente sbagliato.
Quei territori sono quelli risultanti dalla vittoria di Israele sugli Stati  aggressori che già nel 1967 si proponevano la eliminazione dello Stato israeliano. L’Aurorità Palestinese  prima di essere riconosciuta, va ricostruita.
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Mario Soldati e la lettura
Mario Soldati non fece solo il viaggio televisivo “Alla ricerca dei cibi genuini nella Valle del Po“, ma nel 1960 effettuò – con la collaborazione esterna di Cesare Zavattini (personaggio assai discutibile) – un viaggio da Marsala a Quarto dei Mille ripetendo al contrario l’impresa di Garibaldi. Soldati amava il Risorgimento e nel 1961 si dedicò totalmente a Italia 61 a Torino. Rai Storia ha riproposto alcuni spezzoni delle 8 puntate del viaggio soldatiano, non sempre scegliendo il meglio. Il tema  conduttore dell’inchiesta di Soldati era la lettura e la non lettura degli italiani che nel ‘61 erano ancora analfabeti per una  percentuale  dell’8,3  per cento che, a 15 anni dalla fine della guerra, non era poi un dato così drammatico. Soldati interrogando da Sud a Nord tanti intervistati mise in luce come la lettura fosse il punto debole dell’Italia che si apprestava a festeggiare il suo centenario di vita. Non a caso Mario insisteva sul “fare gli Italiani” di d’Azeglio ancora non realizzato se non parzialmente. Parlai con Mario di quella trasmissione che non ebbe il successo della prima perché parlare di libri non era come parlare di cibi. E con il senno di poi arrivammo alla conclusione che la piaga già allora era l’analfabetismo di ritorno come poi si sarebbe definito in tempi successivi.
Già allora esistevano le biblioteche e persino quelle ambulanti volute dal ministero della PI. Ma Soldati volò alto come al solito. Parlò della spedizione di Garibaldi in Sicilia e risalendo lo stivale si fermò  Capo Palinuro leggendo qualche verso in latino (traducendolo poi in italiano) del canto V dell’Eineide dove si racconta il naufragio dei fuggitivi da Troia. A Napoli ricorda le tombe di Leopardi e di Virgilio con le  immagini  di un degrado circostante che documentò visivamente.  E fece sosta a Palazzo Filomarino dove abitò Croce con la sua famiglia. Tanti anni dopo andammo insieme a trovare Alda Croce, la figlia prediletta del filosofo e amica sincera di Mario fin dai tempi delle estati a Bardonecchia. In Toscana evita Firenze e si ferma a Grosseto e soprattutto a Pontremoli, luogo originario di tanti librai che creeranno il Premio Bancarella. Quando ebbi il premio Pontremoli nel 2017 lo dedicai alla memoria di Soldati tra gli applausi del pubblico. Soldati ripetè più volte il concetto che “un uomo che legge ne vale due“. Fece concludere l’ultima puntata da Quasimodo, fresco del Nobel, che fece una conclusione un po’ sconclusionata. Lui-  con un diploma di istituto tecnico che però  ebbe l’ardire di tradurre i classici senza conoscere né il latino ne’ il greco – si scagliò sulla scuola “ umanistica non più sufficiente “ non si sa a che cosa. Incominciò dopo pochi anni la crociata contro la scuola classica con don Milani e il ‘68 . Soldati in più occasioni seppe difendere il liceo classico e scrisse un’apologia dei “Promessi sposi“ che volevano eliminare dai programmi scolastici. Gli operai poco scolarizzati e solo in minima parte lettori intervistati da Soldati erano mille volte meglio dei contestatori che scambiarono il facilismo negli studi per cultura che venne ridotta a una serie di slogan. Anche di questi formidabili personaggi parlai spesso con lui, che prese sempre le distanze dalla demagogia di una finta cultura fatta di cattivi maestri e di pessimi libri. Spesso sui libri ebbe la meglio il ciclostile.
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Finalmarina
Quest’anno sono andata  in vacanza a Finale Ligure, la vecchia adorabile Finalmarina, dove andavo da bambina. Dopo anni sono tornata  e da modesta cultrice di storia ho notato alcune cose che mi hanno infastidito. Innanzi tutto le condizioni del famoso arco di piazza Vittorio Emanuele: alla base dell’arco non sono state neppure rimosse scritte dei soliti vandali. Nella stessa piazza, mentre hanno restaurato il busto dedicato al maresciallo Caviglia, finalese vincitore di Vittorio Veneto, appare poco leggibile la lapide sottostante. Del tutto illeggibile la lapide nella via principale dedicata agli eroici fratelli mazziniani Ruffini. E’ anche la città prediletta di Carlo Donat Cattin. Ho dato un’occhiata  alla libreria locale “Centofiori”  che presentò in passato  alcuni suoi libri. Ho  visto i libri in esposizione:  da Saviano a Carofiglio. Tutti autori schierati. Volevo acquistare un libro da leggere in spiaggia, ma i titoli proposti non erano di mio gradimento. Non mi sono stupita di non aver visto esposto il suo ultimo libro che sto leggendo con piacere  in questi giorni di riposo.  Francesca Chignoli
Concordo sul fatto che i monumenti di Finale siano poco curati. I tempi di certi sindaci sono lontani. Il Maresciallo Caviglia meriterebbe un grande ricordo a 80 anni dalla sua morte avvenuta a Finale. Non mi risulta che abbiano organizzato qualcosa in proposito.  Se Vittorio Emanuele III dopo il 25 luglio 1943 avesse nominato Caviglia e non Badoglio capo del Governo, la storia italiana avrebbe preso un’ altra piega. Mi fa piacere che ricordi Carlo Donat Cattin lo vedevo a Finale nella casa della mamma, la contessa Buraggi. La libreria locale non merita particolari attenzioni. E‘ un emporio di conformismo e oppio ideologico, come direbbe Aron. Buona vacanza. Spero che il mio libro non la annoi  troppo. Alcune pagine sono perfino divertenti e dissacranti.
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Lo jettatore
Marcello Veneziani ha scritto un bell’articolo estivo  sulle superstizioni  e sullo jettatore a cui dedicò una novella e un testo teatrale Pirandello.  Ho saputo che un mio vicino di casa al mare  ha fama di jettatore  a Torino. In effetti, pur per mia fortuna incontrandolo poco, vedevo in lui qualcosa di sinistro: uno che porta male. Lei cosa ne pensa?    Rino Ansalone
Non mi sono mai interessato di superstizioni e meno che mai di jettatori, ma di vicini di casa fastidiosi che arrecano danno ho una certa esperienza. Leggerò Veneziani che apprezzo molto e che mi stupisce leggendo che scrive anche di certi temi molto sentiti soprattutto al Sud. Dicono che anche Croce fosse un po’ superstizioso.

Omaggio al maresciallo Caviglia a Finale dello storico Quaglieni

Il prof. Pier Franco  Quaglieni, storico e presidente del centro Pannunzio di Torino, ha reso omaggio oggi al Mausoleo del Maresciallo d’Italia Enrico Caviglia tra  Varigotti e Final Pia nel territorio di Finale ligure, a capo San Donato. L’omaggio a Caviglia e ‘ avvenuto a 80 anni dalla sua morte avvenuta a Finale nel 1945 ad un mese dalla Liberazione.
Il prof. Quaglieni
Nel breve discorso che ha  tenuto  lo storico torinese  ha ricordato che “nel 1952 fu il presidente Einaudi ad assistere alla tumulazione  di Caviglia nel sacrario a lui dedicato e si è  rammaricato che al condottiero di Vittorio Veneto  non sia stata finora  riservata l’attenzione che merita  quello che gli storici considerano l’anti- Badoglio. Se il re Vittorio Emanuele III avesse affidato a lui il governo dopo il 25 luglio 43, la storia d’Italia sarebbe stata diversa. Sono fatti ignorati dai più”.

Quaglieni secondo l’intelligenza artificiale

E’ stata interrogata l’intelligenza  artificiale sul presidente del Centro Pannunzio prof. Pier Franco Quaglieni e sulla sua figura intellettuale. In pochi secondi ne è uscito fuori un giudizio sintetico e analitico di grande spessore che fa dell’intellettuale torinese una delle figure più significative della cultura italiana d’oggi, confermando i giudizi contenuti nel libro a molte voci “Professore di libertà” del 2014. Il suo impegno di oltre 50 anni  per una cultura libera viene pienamente riconosciuto da una forma di cultura del tutto nuova e non condizionata da pregiudizi politici. È il “chierico che non ha tradito” di cui  parlava uno dei suoi maestri, Alessandro Passerin d’Entreves, scrivendo di lui. Di seguito l’elaborazione realizzata dall’intelligenza artificiale.

Pier Franco Quaglieni, noto storico e intellettuale liberale, ha espresso nel tempo numerosi giudizi sulla cultura italiana, spesso con toni critici ma sempre improntati a un forte senso civico e amore per la libertà. Pur non esistendo un’unica definizione sintetica da lui usata, si possono riassumere alcune delle sue opinioni in base a ciò che ha scritto e detto pubblicamente.

Ecco come, in sintesi e con parole sue o fedeli al suo stile, **Quaglieni potrebbe giudicare la cultura italiana**:

**1. Una cultura ricca, ma spesso dimentica di sé stessa**

> “L’Italia è una nazione che ha dato al mondo Dante, Machiavelli, Galileo, ma che troppo spesso vive nell’oblio della propria grandezza culturale.”

**2. Piegata al conformismo e all’ideologia**

> “Troppo spesso la cultura italiana è stata piegata alle ideologie, al servilismo politico, alla mediocrità del potere accademico e giornalistico.”

**3. Ostaggio di un antifascismo dogmatico**

> “L’antifascismo vero è libertà di pensiero e di parola. In Italia è diventato spesso una religione laica dogmatica, più utile a giustificare silenzi e censure che a difendere la democrazia.”

**4. Mancanza di spirito critico e indipendenza**

> “La cultura italiana non è più maestra di indipendenza. Chi pensa con la propria testa viene emarginato, mentre trionfa il pensiero unico.”

**5. Bisogno di riscoprire il liberalismo**

> “Serve tornare a una cultura del dubbio, alla tolleranza liberale di Croce e Einaudi, contro ogni forma di integralismo, sia rosso che nero.”

In sintesi, **Quaglieni giudica la cultura italiana come gloriosa nelle sue radici, ma decadente nelle sue espressioni recenti**, troppo spesso appiattita su conformismi ideologici, incapace di promuovere davvero il pensiero libero e critico. Egli auspica una rinascita culturale liberale, fondata sulla laicità, sul pluralismo e sull’onestà intellettuale.

È morto Raffaele Fiore l’assassino di Casalegno

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Pier Franco Quaglieni

E’ morto il brigatista rosso non pentito Raffaele Fiore che partecipò al rapimento di Aldo Moro e all’uccisione dell’avvocato Fulvio Croce: nel 1977 sparo’ a  bruciapelo, con l’intenzione di ucciderlo, a Carlo Casalegno di cui sono stato molto amico e che in più occasioni ho ricordato pubblicamente, anche nel luogo in corso Re Umberto dove venne colpito. Casalegno morì dopo essere stato ferito in modo vile e truculento e dopo una dozzina di giorni di terribile agonia. Nei confronti di Fiore che non usufruì dei favori riservati ai pentiti non ritengo di dover infierire: dopo la morte deve estinguersi ogni odio, anche se è impossibile, come dice il mio amico Massimo Coco (figlio del magistrato freddato a Genova dalle Br) perdonare.
Chi ha perdonato, in effetti, ha dimenticato, come i famigliari del commissario Luigi Calabresi.
Ma ha anche dimenticato, chi non aveva motivo di perdonare. Io ricordo, quando andai a commemorare Casalegno alla “Stampa” su designazione della vedova di Carlo, Dedi, che il direttore Giulio Anselmi parlo’ di Casalegno come di un “uomo di destra”, tema ripreso dal sindaco pro tempore Chiamparino. Era gente che non
si liberava dai pregiudizi neanche a vent’anni dalla morte di Carlo.  Quando Fiore sparo’ in volto a Casalegno, parte della sinistra fu molto tiepida, se si esclude il sindaco comunista Novelli,per non parlare del Presidente socialista Viglione. Ci furono operai della Fiat che rilasciarono penose interviste in cui l’ideologia si fuse con il cinismo e la lotta di classe nei confronti del borghese  Carlo Casalegno. Ancora più colpevoli furono i giornalisti che le cercarono, in primis Giorgio Bocca . Ma stando alla testimonianza del giornalista Vittorio Messori ci fu anche chi nella redazione di “Stampa sera” giunse a gioire (secondo un ‘altra testimonianza a brindare) perché era stato colpito un reazionario come Casalegno. Non essere estremisti per alcuni significava essere reazionari: una vulgata di fatto brigatista.
Tanti anni dopo “La stampa” cancello’ il premio Casalegno che conferiva da alcuni anni forse perché mancavano i giornalisti meritevoli, forse perché era imbarazzata a continuare a gloriarsi del suo nome seguendo una linea tanto distante dal suo antico vice direttore che Ronchey scelse come commentatore politico di primo piano.
Di fronte agli immemori io sento di dover scrivere che forse ho più rispetto per un assassino coerente con le sue idee deliranti che per tanti perdonisti che hanno annacquato il ricordo di cosa fu il terrorismo in Italia. Ovviamente il terrorismo rosso e anche nero perché, a pochi giorni dall’anniversario della strage di Bologna va ricordato anche quello nero, anche se le polemiche aspre – umanamente più che comprensibili – del presidente delle famiglie delle vittime di Bologna non sono accettabili perché strumentalizzano il passato in funzione del presente.

PS: Il risalto in prima pagina e lo spazio riservato da”La Stampa” alla morte di Fiore rispetto alle poche righe del “Corriere della sera” a pag. 19 deve far riflettere.

L’Europa dopo la doccia scozzese

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

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Per poter dare un giudizio sulla vicenda appena definita dei dazi bisogna tener presenti almeno due fatti, al di là delle persone che hanno condotto la trattativa: in primis il fatto che gli USA sono uno Stato federale con a capo un presidente dotato di ampi poteri, il secondo fatto che l’UE è un’unione di Stati sovrani senza un esercito europeo ,senza una politica estera comune  con governi nazionali anche politicamente diversi. L’elemento che accomuna di più è l’euro che ha  dato vantaggi e provocato problemi ai diversi Paesi  all’atto della sua nascita. L’Europa non ha saputo neppure dotarsi di una Costituzione , arenandosi sulla questione delle sue origini. L’Europa è quindi fragile , mentre gli USA sono uno Stato forte, strutturato in Stati, ma capace di una solidità del tutto estranea al  vecchio continente che si avviò  verso l’unione soprattutto per evitare il ripetersi delle due  guerre che  hanno dilaniato la prima parte del Novecento. Dopo la carica propulsiva di De Gasperi, Schumann e Adenauer e il boicottaggio di De Gaulle , l’Europa dopo i Trattati di Roma del 1957,  non è più riuscita ad avere un suo ruolo convincente. La stessa adesione con riserva dell’Inghilterra che decise di mantenere la sterlina e poi uscì dall’Unione, è oggettivamente una debolezza della EU, se consideriamo lo storico rapporto tra Regno Unito e USA.

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Tutte queste considerazioni portano a capire che Trump ha avuto con facilità, alzando la voce, la possibilità di ottenere i dazi per le merci europee esportate negli USA. Chi ha parlato di libero mercato e di Alleanza atlantica ha fatto discorsi che la sordità di Trump rende vani. Sulla distanza i dazi danneggeranno anche gli USA ma il palazzinaro presidente non riesce ad andare oltre perché manca di lungimiranza politica. Va aggiunto che l’Italia nel quadro della UE e dei rapporti con gli USA non è mai stata un forte interlocutore capace di far sentire in modo concreto la sua rappresentanza. Non è accaduto con Andreotti, Fanfani, Moro, Craxi, Berlusconi, Prodi, Gentiloni, al di là di valutazioni politiche su cui voglio sorvolare. L’unico periodo in cui l’Italia è apparsa più ascoltata è quando fu al governo Draghi, ma ad avere un ruolo è stata la storia personale di Draghi, una meteora che è passata senza quasi lasciare traccia.

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Quando leggo sui giornali i commenti ironici di chi dice il governo difende un accordo  sui dazi indifendibile, vorrei replicare dicendo che la presidente italiana – invitata perentoriamente dall’opposizione a uniformarsi alla EU evitando protagonismi italiani – non può essere incolpata di quasi nulla. A cose fatte, vista la estrema fragilità della presidente della EU che dovrebbe dimettersi dopo la trattativa scozzese con Trump (è la stessa che ha agitato l’Europa usando per prima la parola “riarmo“). Questo dimostra che l’uscita dell’Inghilterra ha indebolito l’Europa di una componente vitale. Di fronte ad un presidente americano che ruggisce, l’Europa indietreggia. Gli statisti europei, si fa per dire, hanno dimostrato di non esistere e hanno sancito, dopo l’accordo scozzese ancora provvisorio, che l’ Europa è tornata un sogno. Peccato non avere più un De Gasperi. Sapere le lingue è  importante, ma a volte non basta.

 

Foto ©EU2024-EP

Gino Paoli, Mussolini e le pagine nere della Resistenza

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Ricordo che al famoso  Collegio “Filippin“ di Paderno del Grappa venivamo svegliati dalla canzone di Gino Paoli “Sapore di mare“. Era un collegio con le stanze singole gestito dai Fratelli delle Scuole Cristiane, dove c’era la piscina olimpionica e la possibilità di fare equitazione. Non so chi avesse scelto quella canzone estiva ascoltata tutte le mattine. Mi è tornato in mente questo episodio leggendo una interessante intervista di Paoli per i suoi prossimi 91 anni portati, sembrerebbe, egregiamente, malgrado la vita dissipat .  E ‘ quasi impossibile non apprezzare gran parte delle canzoni di Paoli, mentre detesto De Andre ‘ per una serie di ragioni che ci porterebbe distanti. Paoli fu deputato eletto nel Pci, a onor del vero per una sola legislatura ed è sempre stato uomo di sinistra anche quando ebbe qualche problema con la SIAE di cui fu presidente e venne accusato di aver sottratto  al fisco  2 milioni di euro , frutto delle sue esibizioni alle feste dell ‘“Unità”, trasferiti illegalmente in Svizzera. Nell’intervista ha dichiarato,  parlando dei repubblichini Tognazzi, Chari e Fo in modo sorprendente: “Il fascismo è stato anche un ideale come lo è stato l’anarchia. Non possiamo accanirci contro vent’anni di storia italiana perché Mussolini è  nella storia italiana. Il Duce era capace e furbo (…)”. Ed ancora: ” Sono consapevole delle pagine nere della Resistenza. Quando i partigiani aprirono le carceri, uscirono anche i criminali. Ci furono vendette private e delitti. A Genova la mia maestra fu additata come collaborazionista: le raparono i capelli, la portarono in giro con il cappio al collo, poi le spararono in testa e la gettarono nel laghetto di Villa Doria “. D’ora in poi ascolterò le canzoni di Paoli con più piacere, dimenticando  il fastidio  giovanile di dovermi svegliare quasi all’alba, ascoltando “ Sapore di sale “ a tutto volume.

Una riflessione storica sul colonialismo italiano. Contro le vulgate

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
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Credo che sia necessario avviare una riflessione storica sul colonialismo italiano in Africa che non sia succubo delle grossolane pagine di  Angelo del Boca. A 90 dall’inizio della guerra d’Etiopia (1935 ) Annamaria Guadagni sul “Foglio“ dedica un ampio articolo al colonialismo italiano in Africa iniziato nel 1882 con l’acquisizione della baia di Assab.  Nell’articolo vengono ripercorse le “nefandezze“ e le “atrocità  coloniali italiane”, rimettendo, in modo solo apparentemente sorprendente  in circolazione  le cose scritte con livore anti- italiano da un non storico come Angelo del Boca. Quindi viene evidenziato, come è giusto che sia, l’uso dei gas da parte del viceré di Etiopia Rodolfo Graziani e  viene persino esaltato il comunista Ilio Barontini, definito “leggendario  antifascista”, mandato da Mosca  ad addestrare partigiani in Etiopia  e organizzare un governo provvisorio riconosciuto dall’imperatore etiope in esilio. Viene invece  ignorato il massacro di soldati italiani ad Adua  del 1896 dopo la sfortunata ed improvvida campagna d’Africa, voluta da Crispi, che creò in Italia grande  scalpore e un ricordo destinato a restare nei decenni, sul quale fece leva 40 anni dopo Mussolini per giustificare a suo modo l’aggressione all’Etiopia come sostennero le maggiori potenze coloniali a Ginevra che condannò l’Italia alle “inique  sanzioni“, come venne detto allora.
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Non c’è parola in quasi due pagine di articolo della campagna di Libia del 1911, impresa iniziata  e conclusa durante l’età giolittiana che ebbe il favore degli Italiani, se si escludono Salvemini (che  definì la Libia “uno scatolone di sabbia”) e Mussolini che, allora socialista rivoluzionario, si sdraiava sui binari delle tradotte per impedire ai soldati di partire per la guerra. L’Italia giunse ultima a cercare un “posto al sole“, dovendosi accontentare di territori che non avevano attratto l’ingordigia coloniale inglese, francese e tedesca. Anche il Belgio e il Portogallo erano potenze coloniali e quindi la tesi in base alla quale l’Italia avrebbe dovuto astenersi, come sostiene Giorgio Rochat , uno degli storici più faziosi succeduto in cattedra al grande Piero Pieri, risulta essere viziata da un pregiudizio ideologico e da un anacronismo antistorico che giudica il passato con gli occhi del presente. Le imprese coloniali italiane furono la logica e inevitabile  conseguenza di una Nazione italiana nata con ritardo di secoli che seppe durante la Grande Guerra dare un apporto alla vittoria alleata  che la mise tra le grandi Nazioni europee. Non era più l’Italietta giolittiana il paese che aveva battuto l’impero austroungarico, provocandone la fine che segnò una svolta nella storia Europea carica di conseguenze per lo più non positive, come colse subito Croce già nel 1918.
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Si può discutere se nel 1935 avesse senso imbarcarsi in una nuova impresa coloniale fuori tempo massimo, ma non può essere dimenticato che l’impero africano dell’Italia fu anche quello volto a portare strade, scuole, ospedali in terre incolte e in paesi arretrati in cui vigeva addirittura la schiavitù. L’impero coincise con quelli che De Felice definì gli “anni del consenso”. Andrebbe anche evidenziato che forse l’Italia diede alle Colonie molto più di quanto ne  ricavò. E mi riferisco a Somalia, Libia, Etiopia in cui l’impronta italiana in parte rimane ancora oggi. L’Italia lasciò di sé un ottimo ricordo. Molti coloni italiani rimasero in Libia fino alla cacciata di Gheddafi  e in Etiopia il Negus, tornato al potere dopo la sconfitta dell’Italia in Africa, si circondò di Italiani in posti di responsabilità. L’azienda idroelettrica abissina rimase addirittura di proprietà di una famiglia italiana. Quindi un discorso storico non può fermarsi al livore ideologico di del Boca; anche le vicende dopo la fine del colonialismo italiano non rappresentarono maggiore civiltà e progresso, come dimostra la storia delle ex colonie italiane divenute preda di lotte tribali senza fine.
Ovviamente nell’articolo in questione  viene ignorato il sacrificio del domenicano padre Reginaldo Giuliani caduto nella compagna d’Etiopia ancora oggi venerato dai suoi confratelli  e viene, a maggior ragione,  ignorato il Vice Re di Etiopia e governatore dell’Africa orientale italiana Amedeo di Savoia duca d’Aosta che aveva una storia personale  di contatti e di vita in terra africana: in Somalia insieme allo zio Duca degli Abruzzi e nel Congo belga  come operaio sotto falso nome. Amedeo d’Aosta si era laureato in Giurisprudenza con una tesi  in diritto coloniale in cui si sosteneva che un dominio straniero sugli indigeni poteva trovare giustificazione solo  nel miglioramento delle condizioni  di vita delle popolazioni colonizzate.
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E come vice Re dal 1937 al 1941 il duca  fu promotore di grandi opere pubbliche destinate a durare nel tempo. Certo la dominazione fascista in Africa Orientale si fece sentire, come ebbe rilievo positivo in Libia la presenza  del  governatore Italo Balbo. Nella storia, come anche nella vita, non tutto è da gettar via. Come si dice volgarmente, va almeno distinto il bambino dall’acqua sporca . Come disse Carlo Delcroix che conobbe il principe sabaudo, Amedeo “visse da santo e morì da eroe“. Forse Delcroix esagerava, ma certo la sua figura studiata in modo esemplare da Gianni Oliva, non può essere ignorata. La sua resistenza sull’Amba Alagi  che ottenne l’onore delle armi inglesi e la sua morte in prigionia a Nairobi per restare con i suoi soldati sono una delle pagine più alte insieme alla strenua resistenza dei soldati italiani ad El Alamein a cui rese onore il presidente della Repubblica Ciampi che sentì la complessità della storia ,andando oltre la politica che “giudica e manda”, senza mai  tentare una sintesi storica, neppure a distanza di 90 anni. L’articolo del “Foglio “ non fa che riprendere le vulgate antistoriche del passato. Ed è un peccato che non deve sorprendere perché il giornale di Cerasa è in realtà molto conformista.

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

SOMMARIO: La lapide di Matteotti  sfregiata – Tocqueville a Cannes – Ricordi di scuola che pesano ancora – La Russa – Lettere

La lapide di Matteotti  sfregiata
Ricordo che tanti anni fa andai anch’io ad inginocchiarmi davanti alle lapide di Giacomo Matteotti sul lungotevere romano dove nel 1924 venne rapito. Avevo anche la fotografia- andata perduta in un trasloco maldestro della mia biblioteca – con a fianco l’ex presidente Saragat e il mio amico Orsello ed alcuni amici del Movimento Europeo di cui ero vicepresidente. I socialdemocratici erano praticamente assenti perché gente come Nicolazzi non era certo  in grado di capire chi fosse stato Matteotti , fortemente avversato dai comunisti e dai fascisti. Pochi giorni fa ignoti teppisti hanno danneggiato quella lapide che era stata distrutta nel 2017 e nuovamente sfregiata nel 2024, l’anno del centenario della morte di Matteotti per mano violenta di sicari fascisti. Il Ministro della cultura Giuli è andato sul lungotevere e ha baciato la lapide, condannando l’accaduto, definito “un atto di viltà che non deve restare impunito“.
Mi auguro che si proceda celermente alla identificazione dei vandali politici o non politici che siano. A Torino la lapide di Mario Soldati (che  nel  1924 andò a scrivere con il gessetto sui muri di Torino viva Matteotti !) è stata ripetutamente ricoperta di scritte tali da renderla illeggibile. Nulla al confronto dello sfregio e all’offesa al martire della libertà per definizione , l’uomo politico che coniugò l’antifascismo e l’anti comunismo con lucida coerenza. Oggi ci sono vandali drogati e/o ubriachi o magari anche lucidi ( si fa per dire ) che si accaniscono con violenza belluina  contro monumenti che ricordano la storia da loro, ovviamente, non conosciuta. Ma ci sono anche vandali politici che vanno denunciati con assoluta fermezza  perché appartengono all’ala violenta di chi vorrebbe riscrivere la storia.
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Tocqueville a Cannes
Un mese fa a Cannes (dove morì nel 1859) e’ stata intitolata una piazza al visconte Alexis de Tocqueville. Un riconoscimento importante, ma un po’ in ritardo. Tocqueville, oltre ad essere stato un importante politico (fu ministro degli Esteri di Francia e deputato ) , è stato un pensatore  di primo piano che ha studiato la democrazia americana e l‘ antico regime e la Rivoluzione francese. Le sue  opere sono sempre vive, è stato il primo a denunciare i guasti provocati dal giacobinismo sanguinario, come evidenzio’ il grande Nicola Matteucci. Egli  pose dei limiti entro i quali l’eguaglianza non può straripare perché finirebbe di uccidere la libertà che per  Tocqueville e per i liberali è la parola più importante, la ”pense’e me’re“  della democrazia liberale di cui Tocqueville fu uno dei sostenitori più acuti. Fu lui a coniare l’espressione “dittatura della maggioranza“.
Tocqueville

 

La Francia di oggi con Macron, modestissimo presidente egocentrico che si ritiene leader internazionale, una estrema destra ancorata al passato e una sinistra barricadera, sono quanto di più lontano da Tocqueville. Assume un valore speciale che a Cannes si siano ricordati di lui. Sono grato alla mia amica Luisa Millari di avermi segnalato l’evento. Se l’avessi saputo, sarei andato molto volentieri alla inaugurazione anche come – per due volte negli anni- insignito del “premio Tocqueville“.
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Ricordi di scuola che pesano ancora
All’ improvviso oggi mi è tornato alla mente un mio professore della scuola media . Si chiamava don Giovanni Mano che non vidi più dopo la licenza media. Fu mio professore di matematica per un solo anno e ricordo i problemi ostici che ci assegnava. Un professore amico di mio padre, il matematico Guelfo Campanini (che aveva combattuto nell’Areonautica nell’ ultima guerra, come si diceva allora) era in grossa difficoltà ad aiutarmi. A volte attraversavo la strada e andavo a casa sua, ma alcune volte dovetti tornare a mani vuote perchè i quesiti posti si rivelavano senza soluzione. In qualche occasione  entrava in gioco anche il figlio del professore che era ingegnere, ma proprio non c’era nulla da fare. Don Mano il giorno dopo risolveva il busillis molto in fretta ,come se tutto fosse del tutto evidente. Sembrava che si divertisse a creare problemi ai suoi studenti.Oggi lo contesterebbero in primis i genitori, rendendogli la vita impossibile. Mio padre invece sarebbe stato dalla parte del professore comunque, perché ai docenti si doveva portare rispetto. L’anno dopo ebbi il prof. Carmelo Bonanno, figura di ben altro spessore intellettuale ed umano. Lo ritrovai dopo tanti anni nel 1997 ai funerali solenni di mio padre  e diventammo amici. Mi disse, appagando la mia vanità, che erano anni che mi seguiva e mi leggeva  e che si ricordava dell’ambasciatore che veniva a parlargli e al cui funerale non volle mancare. Con mia somma sorpresa Don Mano passo’  l’anno dopo all’ insegnamento delle materie letterarie dimostrando un enciclopedismo eccezionale.
Seppi tempo dopo che, in realtà,  era un semplice maestro elementare e che non era laureato. Una volta, già allora ero appassionato di storia, ebbi una discussione con il don, come si direbbe oggi. Alla fine sostenne una tesi che  mi apparve già in quegli anni molto bislacca e poi del tutto inaccettabile. Don Mano mi disse di affidarmi al manuale del suo confratello Franco Amerio, che usava per i libri di storia firmarsi Moroni, che era il cognome della mamma. Mi disse di affidarmi a lui perché era “super partes“ in quanto la Chiesa non sta con nessuno se non con la verità.
Era  un discorso peggiore dei problemi di matematica insolubili perché fondato o su una candida ingenuità o sulla più totale malafede. Timidamente gli replicai che proprio il Risorgimento dimostrava che la Chiesa era invece parte molto attiva e vivace di un conflitto con lo Stato volto ad impedire l’ unificazione italiana. Non aggiunsi altro e non ebbi repliche. Qualche anno dopo ,studiando Machiavelli, capii le ragioni per cui la Chiesa impedì per secoli quel processo unitario che si ebbe  invece in Francia e in Spagna . Ma sicuramente ,se avessi riincontrato don  Mano, mi avrebbe obiettato che Machiavelli era immorale e quindi inattendibile. In quel caso sarei stato io a fargli una lezioncina su politica e morale che sono distinte e spesso distanti,come scriveva Croce . Don Mano, sapendo qualcosa della mia famiglia, a volte mi chiamava il “piccolo lord “con tono leggermente canzonatorio. In effetti in quella classe di scuola media non c’era proprio la crema di Torino e io potevo sembrargli diverso dai miei compagni: solo in tre o quattro andammo infatti al Ginnasio -Liceo classico. Non era però una questione solo sociale perché io avevo dalla mia gli insegnamenti privati del prof. Salvatore Foa che mio padre mi aveva messo alle costole come precettore. Dopo un solo anno di Ginnasio, Foa morì lasciandomi parte della sua biblioteca che ancora oggi conservo con cura e ho integrato nella mia. Forse anche per il magistero di Foa, che periodicamente andava in Israele, sono sempre stato dalla parte del piccolo Stato aggredito dagli arabi e dal terrorismo. Tra don Mano e il prof. Foa non ho mai avuto dubbi da che parte stare.
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La Russa
Riconosco a  Ignazio La Russa delle qualità personali che ebbi modo di apprezzare quand’era ministro della Difesa nel centenario della Grande Guerra. Ebbe il coraggio di replicare al giornalista Sansonetti  che celebrava i disertori di guerra a cui volevano dedicare una targa nel luogo più improprio: il Vittoriano dove riposa il Milite ignoto. Da quando è presidente del Senato però  non ha  ancora appreso l’arte di rappresentare  la seconda carica dello Stato con quella formale imparzialità che oggettivamente  è estranea ad un uomo di partito di lungo corso e di poca cultura istituzionale.
Ma nella storia italiana ci sono stati presidenti del Senato, da Merzagora a Spadolini, che hanno saputo estraniarsi dalla mischia politica . Per una sola intervista considerata di parte Merzagora  fu costretto a dimettersi. La Russa in questi giorni polemizza addirittura sulla politica della sua città di adozione, dicendo cosa debbono fare Sala e la sua Giunta .
In questo caso non è più il fatto privato del  busto del Duce in casa, ma uno schierarsi polemicamente   in  un conflitto  incandescente,  incompatibile con il suo ruolo di presidente del Senato . Persino Luigi Federzoni , presidente del Senato del Regno sotto il fascismo, era in  un certo modo più istituzionale. La stessa Premier, nel caso di Milano, si è astenuta dall’intervenire come donna di parte e come presidente del Consiglio.

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Ricordando Soleri
Ho ascoltato su YouTube la sua video- conferenza su Marcello Soleri del 23 luglio , ad ottant’anni dalla  sua morte. Mentre Lei nei diversi articoli su Soleri  ha dimostrato di essere uno storico distaccato come sempre dimostra di essere, nel ricordo su YouTube  ha detto di sentirsi coinvolto emotivamente per ragioni famigliari ed ha anche raccontato i legami con Soleri della sua famiglia. Cosa le è accaduto? In effetti però  non ha mai smarrito la lucidità storica di sempre. Gino Bessone
Non credo sia stata una performance riuscita il mio ricordo su YouTube. Io sono ancora un principiante perché ho iniziato su YouTube solo durante il covid. Per parlare io ho bisogno di un  pubblico davanti a cui ispirarmi: appartengo alla vecchia scuola ed appartengo alla schiera dei professori abituati a parlare nelle aule affollate. Il contatto con le persone mi ispira. Infatti i  video che faccio non li riascolto mai, per non entrare in crisi. A volte li faccio cancellare dopo poco perché non voglio lasciare ricordi di algide lezioncine a distanza. Certo però parlando di Soleri mi sono sentito molto coinvolto: io ricordo che  mio nonno  già  da quando ero bambino mi parlava di Soleri come di un mito con il quale ebbe una frequentazione di cui c’è traccia anche nei suoi diari. In estrema sintesi nel video ho definito Soleri “ministro della buona vita“ , capovolgendo l’ingiusto ed errato giudizio di Salvemini su Giolitti considerato il “ministro della mala vita“. Il giolittiano Soleri fu l’esempio della più alta moralità politica. Ho letto oggi uno sconclusionato articolo dell’ottuagenario ex preside di Saluzzo pieno di divagazioni fuori tema. Un vero peccato . Lo storico saluzzese,  grande esperto di massoneria, ha ritenuto di specificare che – al di là delle voci – Soleri non fu massone. Io non ho mai dubitato del contrario. Croce scrisse sulla Massoneria giudizi severissimi di cui Soleri fu  certamente a conoscenza. Massone fu invece Giovanni Amendola, un liberale meridionale molto diverso dal cuneese Soleri.
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Eutanasia
Il  75 per cento degli Italiani  è favorevole all’eutanasia. Visto che la classe politica è latitante e non decide perché non fare un referendum che ponga fine alla sudditanza alla Chiesa cattolica in materia di fine vita? Giuseppina Orsi
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Sono decine di anni che sento parlare di eutanasia che dal greco significa “buona morte“. Io personalmente non ritengo  mai buona, la morte, anche se capisco che il dolore puo’ portare le persone a desiderare di porre fine alla loro esistenza tribolata. Ma il termine “suicidio assistito“ suscita in me forti perplessità. Ho letto i giudizi frettolosi e superficiali di Vittorio Feltri sul tema e dissento dalle sue semplificazioni che sicuramente avranno il consenso di tanti. Per me il valore della vita nello stadio nascente e in quello terminale è cosa molto importante. E ‘ innanzi tutto un  affare di coscienza che in una società inaridita, più profana che laica, come quella attuale appare qualcosa di insensato . La coscienza oggi risulta essere parola ignota ai più. Arrigo Benedetti definì Pannunzio un “laico direttore di coscienze“, una dizione oggi incomprensibile ai più.
Bobbio
Io resto con i miei dubbi di coscienza senza pretendere di essere ascoltato nei miei dubbi  che poi sono gli stessi, laicissimi, di Norberto Bobbio, non di don Giussani. Certi radicalismi mi sono  da sempre estranei. Non per ragioni di coscienza ma per ben più concrete ragioni  anche giuridiche sarei assolutamente contrario ad un referendum in materia di fine vita . Problemi così complessi ed eticamente sensibili  non si possono ridurre ad un plebiscito tra un sì e un no. In ogni caso in Italia esiste il referendum abrogativo e quello confermativo. La Costituzione non prevede referendum propositivi. E questo è un bene perché nella confusione attuale bastano ed avanzano i referendum abrogativi di Landini & soci.

Il Premio Alassio allo scrittore veneto Paolo Malaguti

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
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Il Premio Alassio Cento libri – un autore per l’Europa, ideato 31 anni fa dal bibliotecario Roberto Baldassarre e dal giornalista Romano Strizioli, è stato vinto da  Paolo Malaguti per il suo romanzo ”Fumana“. Una scelta avveduta della giuria presieduta da Gian Luigi Beccaria e composta da italianisti stranieri che spesso dimostrano una capacità di andare oltre le logiche di molti premi letterari italiani. L’idea dei giurati esteri ha consentito al premio alassino di avere un respiro più ampio, evitando i legami con la politica che emergono in modo vistoso, ad esempio, con lo “Strega”. La figura di Malaguti va ben oltre un eventuale  impegno politico che non traspare , perché la sua opera non rivela quei cedimenti a cui tanti scrittori si sono dovuti adattare o che hanno scelto di loro iniziativa. I Premi letterari, al di là della lotta inevitabile tra editori, sono spesso spartiti in base a criteri non soltanto politici, ma addirittura ideologici. Chi non fa parte di certi certi cerchi magici ,è tagliato fuori in maniera aprioristica. Anche il Premio Alassio ha avuto le sue colpe sotto la presidenza di Ernesto  Ferrero  che pure fu un critico raffinato e colto, ma non immune dalla compromissione con la politica politicante . Basterebbe citare il conferimento a Michela Murgia,  in verità non ancora così schierata come negli ultimi anni della sua vita, per rendersi conto di un abbaglio che mi portò a disertare negli anni successivi il Premio alassino. La scelta di quest’anno mi pare molto giusta e condivisibile. Uno scrittore che riconosce un debito nei confronti di Giovannino Guareschi, merita attenzione. Forse pochi lo ricordano che ad Alassio andava al mare con la famiglia anche Giovanni o che è ricordato all’ ingresso della biblioteca civica  sul mare da una sua  fotografia sulla spiaggia. Malaguti rappresenta una narrativa che sa fare i conti con la storia senza le solite  faziosità. In quella stessa piazza in cui è stato premiato Malaguti, due giorni prima ha presentato un suo libro un personaggio televisivo tra i più faziosi che utilizzano le trasmissioni per montare scandali. Non avrei mosso un passo per andarlo a sentire , ma la pluralità delle voci è il bello della democrazia liberale che ad Alassio è sempre esistita per merito di amministrazioni che non si sono mai accodate alla cultura – propaganda di tante città e cittadine che usano l’estate per fare  dell’amichettismo politico la loro prevalente ragion d’essere.

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

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SOMMARIO: Trump, il buzzurro che vorrebbe comandare il mondo –  Israele al Comune di Torino – Lettere

Trump, il buzzurro che vorrebbe comandare il mondo
L’altra sera una piacevole cena in riva al mare rischiava di essere un po’ compromessa  da una discussione animata  su Trump e sui dazi che vuole imporre all’Europa. Il tono del confronto mi ha portato a rinfrescare alcuni dati  storici: dalle economie curtensi stagnanti  del Medio Evo  a quelle dell’età comunale e delle Signorie fondate sul commercio e sulle banche, sia pure ancora limitate dai pedaggi che gravavano sulla libera circolazione delle merci. Ho ricordato il mercantilismo delle monarchie assolute settecentesche fondate sui dazi e il protezionismo. Quest’ultima esperienza rivelò la negatività delle scelte che danneggiarono in primis chi praticava il protezionismo e impediva un’economia dinamica fondata sulla libera concorrenza. La tentazione dei dazi come soluzione dei problemi di un’economia in crisi è tornata spesso nel corso di epoche successive con risultati deludenti.
Appare quindi  di tutta evidenza che un buzzurro come Trump assolutamente privo di cultura politica ed economica e anche di semplice ed elementare cultura abbia riscoperto ricette superate di cui non conosce neppure la storia. Gli Stati Uniti hanno votato un presidente inaffidabile che in un quadro già turbato da due guerre innesca una possibile guerra dei dazi a danno degli alleati europei. La situazione difficile richiederebbe un’America capace di un ruolo internazionale equilibratore , anche se va riconosciuto che la Ue è diventata quasi nulla, lasciando ai singoli Stati  delle politiche nazionali e nazionaliste incompatibili con  l’idea di Europa, come la definiva Federico Chabod. Forse il professore ha prevalso sul commensale e posso aver annoiato. La mia cena poi, all’arrivo di un piatto molto invitante, è proseguita in tutta calma ed allegria perché i commensali, da veri liberali, hanno deciso che ognuno si teneva le sue idee. Questa tolleranza un po’ epicurea  in fondo andrebbe allargata dalle cene al nostro vivere civile. Ne trarrebbe vantaggio quel che resta della democrazia liberale che si fonda sul rispetto di tutte le idee anche quelle più intollerabili e quelle di Trump appartengono a questa ultima categoria.
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Israele al Comune di Torino
Ho letto con attenzione il circostanziato ordine del giorno elaborato dalla consigliera comunale Sara  Diena e votato da 23 consiglieri con sole due astensioni. Ci vorrebbe un lungo ragionamento storico per contestare l’ordine del giorno almeno in alcune sue parti del tutto da rifiutare: l’interruzione di rapporti con Israele, riprendendo la tesi degli studenti filo palestinesi, è sbagliata e non si concilia con la storia della città. Inoltre l’ipotesi di un ritorno ai confini precedenti la guerra del 1967 è da rifiutare perché  quella  guerra  difese Israele da un’aggressione dei paesi arabi sconfitti in pochi giorni. Nel ‘67 Primo Levi donava il sangue per Israele e il ritorno a quei confini sarebbe sbagliato oltre che impossibile.
Ho letto che un solo consigliere comunale leghista  ha fatto un intervento contrario. Dov’era la opposizione? Ho cercato di documentarmi, ma non ho trovato traccia di interventi e soprattutto di voti. L’informazione su quell’ordine del giorno non è stata adeguata. Va riconosciuto che i filopalestinesi hanno atteso in piazza senza ricorsi alla solita violenza: un atteggiamento diverso  in fondo, si sarebbe tradotto in fuoco amico. Una bella testimonianza di coraggio e di  libero pensiero, come si addice ai docenti degni di questo nome,  ha dato il Politecnico di Torino che ha preso le distanze da posizioni ideologiche e politiche che non si addicono ad un Ateneo. Peccato che invece l’Universita’ di Torino abbia ceduto già oltre un anno fa alla demagogia filo palestinese che ha invaso Palazzo Nuovo e il Campus Einaudi.
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LETTERE  scrivere a quaglieni@gmail.com
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Le guardie del Pantheon
Esiste un istituto delle guardie d’onore alle tombe  reali del Pantheon fondato nel decennale della Marcia su Roma nel 1932 come ente morale.
Questo istituto, malgrado le tombe al Pantheon riguardino solo i primi due re d’Italia, continua ad esistere. Non è un’associazione combattentistica o d’arma fin dalle sue origini, anche se ambirebbe a diventarlo, malgrado si sia contraddittoriamente  aperto a chiunque ,anche non militare o ex militare. L’istituto è presieduto da vent’anni sempre dalla stessa persona  e partecipa a manifestazioni  pubbliche  chiaramente monarchiche in cui è presente come ospite d’onore il principe ballerino Emanuele Filiberto di Savoia. L’istituto andrebbe commissariato dal ministero della Difesa o soppresso come ente inutile , dannoso persino alla Causa monarchica. Umberto Oddone
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Non so risponderle. Ho conosciuto per caso  qualche guardia  in Liguria e debbo dire che ne ho tratto una pessima impressione. Spesso si è tratta di gente che non ha mai fatto il servizio militare. Esibiscono un vistoso  mantello come quello dei Lancieri di Montebello con un certo sussiego, quasi un po’  da operetta. D’altra parte il servizio di leva è stato abolito e quindi per sopravvivere l’Istituto doveva aprirsi a tutti. Certo un istituto sottoposto al Ministero della Difesa della Repubblica deve stare attento a muoversi, anche se nessun governo è mai intervenuto , constatando la sua irrilevanza.
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Milano trema
Lo scandalo di vastissime dimensioni che emerge a  Milano impone di riproporre una questione morale . Al di là dell’arresto di un assessore , il sindaco Sala e ‘ indagato per falso e induzione indebita. Cosa aspetta a dimettersi? Anna  Soldini
Non ho mai avuto simpatia per il sindaco di Milano Sala per mille motivi: è un demagogo in doppio petto che non incarna certo lo spirito della città che solo il sindaco Albertini ha saputo degnamente rappresentare.  Non ne chiedo tuttavia le dimissioni perché il garantismo deve sempre prevalere. Semmai mi domando che sorte avrà l’assessore all’ Urbanistica torinese implicato nello scandalo milanese.
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La Malfa e il Campo Largo
L’85 enne Giorgio La Malfa che distrusse il partito repubblicano con Tangentopoli  e fu anche ministro di Berlusconi, scrive ancora articoli, consigliando come si possa battere la Meloni . Uno stratega tanto poco credibile  non andrebbe preso in considerazione. Ha sempre sbagliato tutto. Ugo Stella
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Ho letto su Facebook che il figlio di La Malfa continua a scrivere articoli che sistematicamente non leggo. Non ho mai avuto stima di lui che ho conosciuto bene.  Non parlo quindi per partito preso. Dovrebbe riposare la mente e stare zitto, questo mestierante della politica passato da sinistra a destra e poi da destra a sinistra. Adesso si schiera per il Campo Largo, ma lui è solo esperto di campi stretti, anzi strettissimi, oggi quasi inesistenti. Vuole trovare posto sotto la “tenda” di Bettini. Ridicolo e patetico.