Pur se chiuso dentro un cartellone che porta la firma, ormai scolorita in questo finale di stagione, di Mario Martone, questo Don Giovanni – in scena sul palcoscenico del Carignano sino al 22 aprile nella produzione del Teatro Stabile di Torino/Teatro Nazionale – suona come il biglietto da visita di Valerio Binasco ad introdurre un percorso che per quattro anni lo vedrà nuovo Direttore artistico dell’ente, con scelte e programmi in libertà che stabiliranno una cifra esatta di lavoro (quali siano le scelte e i programmi lo sapremo dal 7 maggio, con la presentazione della nuova stagione, sua a tutti gli effetti, all’insegna di quel divertimento promesso al tempo della sua elezione). Quel di-vertimento ha ben salde, già in sede etimologica, le radici nell’affrontare il personaggio del Seicento di Molière, non lontano da una luccicosa aureola che viene a onorare quella che è stata definita una “sciagurata grandezza”, spinto a farci dimenticare ogni esempio precedente, a cancellare ogni trionfalismo spagnoleggiante, inventato sulla scia della Commedia dell’Arte, ogni aura tardoromantica imbevuta nella malinconia, componenti tutte cui più o meno ci hanno abituato i passati metteurs en scène del secolo che ormai ci siamo messo alle spalle. È un invito a liberarci di ogni vecchia sovrapposizione, ai limiti della menzogna teatrale, e a considerare Molière nostro contemporaneo, a stendere su un tappeto il borioso e giovane burlador per metterlo alla berlina, a snocciolare senza se e senza ma ogni malefatta, i mariti i fratelli e i padri picchiati o uccisi, le donzelle sverginate e riempite di promesse che non avranno mai un lieto fine. Don Giovanni non è più il gentiluomo sfrontato, senza legami e senza morale, colui che rimorchia senza fatica e abbandona: è, nell’adattamento di Binasco, che ogni tanto sa sfacciatamente di riscrittura, “un delinquente, un autentico delinquente”, violento ma pur capace di giocare sulla simpatia, mentitore ma pur efficace nel trasmettere ogni parola come somma verità, odioso ma pur sorridente nel tentare senza successo il povero mendicante con un luigi d’oro purché bestemmi, salvo concederglielo non per quell’”amor del cielo” con cui era stato poco prima pregato ma con un ben diverso e soppesato “amore per l’umanità”. Don Giovanni, nella ricerca continua del suo libertinaggio, incessante e pieno di sfide, non è il gentiluomo altero e anche raffinato in cerca di gonnelle, è il miserabile che con il proprio servo si ritrova accucciato su un pulcioso pagliericcio, da ricovero per sbandati, che se la spassa in un bar di paese, lucine accese e tavolini pieghevoli sotto gli alberi, a strusciarsi con una donna Elvira che ancora reclama un futuro. È il campione della ribellione, l’inseguitore per eccellenza dell’affermazione della libertà, una ribellione che senza pudore arriva sino ad accettare la cena con il silenzioso convitato, sino a Dio: mentre Sganarello, finora improbabile raisonneur intorno ai principi della religione e delle verità della fede, privato del suo signore e del suo sostentamento, reclama il proprio guadagno (“Chi mi paga?”), forse tutto alla fine può acquietarsi nella morte, in una insperata “pietà” tutta al maschile. Binasco, e gliene rendiamo sinceramente doveroso atto, mentre corre con intelligenza lungo la propria lettura, non pone il dramma sotto le moderne forche caudine della burla a tutti i costi, non si piega a una certa aria di distruzione facilona che circola a volte sui palcoscenici. Nelle scene di Guido Fiorato, preparate a vista al di là di un velo, che guardano all’oggi senza cancellare del tutto il passato, il regista rimescola e attualizza, immiserisce e sfronda e stracciona, ma in ultimo lo sberleffo di oggi non arriva in platea, arriva tutta la serietà di quell’attualizzazione, ripensata, inviata allo spettatore con un nuovo, concreto messaggio. Nella nuova drammaturgia convergono tutti gli attori, da Giordana Faggiano a Elena Gigliotti a Fabrizio Contri agli altri; la sensualità e l’assoluzione del peccato, la sfida e le menzogne arrivano dall’ottimo protagonista che è Gianluca Gobbi, corporatura ragguardevole e magliette non proprio di bucato, polvere e sudore, lontano dall’immagine di tombeur de femme che ci aspetteremmo in scena, una prova convincente filtrata attraverso il tessuto delle parole di Molière, il ritratto comunque possente e prepotente, mentre Sergio Romano è un contraltare tempestoso e perfetto nel suo Sganarello, nel suo svilire una religione confondendola con superstiziose credenze e nei suoi eterni confronti con un padrone che ha fatto propria come bestemmia la sfida al cielo.
Elio Rabbione
foto: Donato Aquaro