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Il Mammut e la vetta del Mottarone

Ale era un bambino vivace. Tanto vivace che in casa lo chiamavano “argento vivo”. Con la sua famiglia abitava sulla collina del Parogno, proprio in cima alla salita della Verzella, in un punto dove – con lo sguardo – si dominava tutto il centro della sua città. Era uno spettacolo, soprattutto di notte, nelle giornate di vento: Omegna stava lì sotto, punteggiata da centinaia e centinaia di luci che parevano fiammelle tremolanti. Già da piccolo era capace di stare – proprio lui, così irrequieto – anche più di un’ora al giorno incollato alla finestra oppure appoggiato alla ringhiera del balcone per guardare, affascinato, la montagna che aveva davanti: il Mottarone.

 

Quella montagna, per Ale, aveva qualcosa di misterioso che stuzzicava la sua fantasia. E ne aveva, oh se ne aveva, di fantasia. Mentre i suoi amici giocavano, si rincorrevano, lui – che non si tirava certo indietro – a volte veniva come rapito da quel monte. Non passava giorno che , almeno per un po’, non lo scrutasse in lungo e in largo, passando in rassegna tutti i contorni delle vette, scendendo – con lo sguardo – tra gli alberi fin giù, alle prime case di Omegna tra le Brughiere, Verta, Vignale e Borca segnavano il perimetro più basso della montagna. Almeno così era per quello che poteva vedere con i suoi occhietti vispi dall’osservatorio di casa sua. Persino a scuola, dove frequentava la quarta elementare, non staccava gli occhi dal Mottarone.

Per sua fortuna e per disperazione  della maestra che, di tanto in tanto, doveva chiamarlo più volte per nome al fine di ottenerne l’attenzione al lavoro della classe, il suo banco era proprio di fianco alla finestra che dava, guarda caso, sulla montagna. Ale si metteva a guardare, appoggiando la testa bruna sulle braccia incrociate, la “sua” montagna. Già, poiché lui aveva una montagna tutta per se. O almeno era ciò che pensava, correndo con la fantasia. Un giorno gli sembrò persino che si fosse mossa, proprio lassù sulla vetta, tra la baita-rifugio del Club Alpino e le antenne paraboliche  della televisione ( in realtà erano dei ripetitori radiotelevisivi che, una volta ricevuto il segnale, lo ritrasmettevano nella zona, in tutte le case: ma per lui erano “le paraboliche”, perché gli ricordavano delle specie di astronavi lunghe e snelle che puntavano in alto, verso il cielo, quasi a volerlo toccare con le loro punte dritte). Dove eravamo rimasti? Ah, sì…che cosa strana. Era durata poco più di un attimo, di un battito di ciglia. Eppure non si era sbagliato. Anche gli alberi – castagni e faggi dalle chiome fitte – erano stati scossi da un fremito , come  se degli orsi si fossero grattati la schiena sui loro tronchi, come aveva visto fare in un documentario alla TV. Un’ondeggiamento, una scrollatina, niente di più. Un terremoto ? No, non poteva essere. La maestra un giorno aveva spiegato che quella non era una terra sismica, non era “ballerina” come altre parti d’Italia. Eppure non si era sbagliato. L’aveva vista. Non se le inventava le cose, lui…almeno quando si parlava del Mottarone. Eh, no ! Con la “sua” montagna non si poteva proprio scherzare o raccontare bugie. Un giorno, rovistando tra i libri della biblioteca di papà, ne trovò uno che parlava proprio del Mottarone. Ale si mise a sfogliarlo, lentamente, rimanendo a bocca aperta davanti a tutte quelle belle foto. I paesaggi invernali , con la neve s scintillante e quei ghiaccioli che scendevano giù dai rami degli alberi, come tante candeline rovesciate; la primavera, con i prati di mezza costa striati di varie tonalità di verde e punteggiati da margherite, primule e viole; l’autunno dai caldi colori pastello, che trasformano i boschi cedui in luoghi magici, abitati da vispi animaletti e da piccoli folletti alla ricerca di funghi e di bacche, alle prese con un tempo che si stempera dolcemente in una vena malinconica quando gli occhi scendono giù, dai versanti della montagna fino alle acque appena increspate del lago d’Orta. Ale guardava le foto sgranando gli occhi, pieno di meraviglia. Con una certa fatica ma anche tanta buona volontà, si mise a leggere:“…La cima del Mottarone ha la forma di una soda polenta montanara. Pare anche uno dei buoni panettoni di una volta, cotti senza la costrizione degli stampi costruiti perché si alzassero cilindricamente. Sembra una grossa pagnotta, fatta in casa e ben lievitata nel mezzo..”.

Gli era venuta una gran fame . Tutti quei paragoni con cose da mangiare gli stuzzicavano l’appetito, rammentandogli che era quasi mezzogiorno e che la mamma – guarda caso – stava proprio preparando la polenta. Ma un’altra frase lo colpì, stuzzicandogli questa volta non l’appetito ma la fantasia: “..La strada sale dolcemente verso la vetta, come se risalisse il dorso di un grosso pachiderma addormentato “. Un “pachiderma”? E che cos’è un pachiderma !? Non riusciva proprio a farsene un’idea. Forse si trattava di un animale ma papà gli aveva spiegato che sul Mottarone c’erano scoiattoli, cinghiali, tassi, volpi, ricci, capre, mucche al pascolo, qualche cavallo, tanti uccelli. Si ricordava di averlo sentito parlare di un uccello strano, il cuculo, che veniva – a primavera, dopo le rondini –  a” cantare maggio” e di altri animali – forse le talpe – che scavano buche e gallerie sotto terra. Ma quei “pachi-non-so-bene-come-si-chiamano” non li aveva proprio mai sentiti nominare. Però, che bello pensare alla vetta del Mottarone come alla schiena di un grosso animale, se poi di animale si trattava. Era come se un qualcosa o un qualcuno, pensava, fosse salito fin lassù e poi di fronte a quel panorama che , in giro completo d’orizzonte, spaziava dal Monte Rosa alle vette ossolane e valgrandine e giù, a rotta di collo, verso la Svizzera e la pianura lombarda segnata dall’azzurro dei laghi per vedere ad ovest la punta aguzza del Monviso e risalire verso il Rosa dai contrafforti valsesiani, avesse deciso di rimanere lì per sempre. Ale chiuse il libro a malincuore. La mamma lo stava chiamando per il pranzo. Papà, come spesso accadeva, era via per lavoro e lui decise che , all’indomani, avrebbe chiesto spiegazioni al nonno Enzo che abitava a Baveno, sul lago Maggiore, ma che da giovane era vissuto con i suoi in montagna, all’Alpe Scerea, un po’ sotto la Vidabbia che, come in terrazzo naturale , era a un soffio dal Mottarone. Lui sapeva tante storie della montagna. Forse conosceva anche questa storia del pachiderma. Non pensò più ad altro e , sedutosi a tavola, ordinò alle mandibole l’attacco in grande stile alla polenta. Quel sabato i suoi genitori erano andati a trovare una vecchia zia che abitava in Val d’ Ossola. Lui era stato accompagnato dal nonno a Baveno. Scoccata l’ora di pranzo, davanti al suo piatto preferito,un invitante risotto con i funghi porcini, chiese: “Nonno, tu lo sai cos’è un pachiderma ?”. “Un pachiderma? Mah, se ricordo vengono chiamati così gli elefanti. Lo sai, vero che cosa sono ? “ ,rispose il nonno, sorridendo. ”Certo che lo so “,rispose pronto. ”Sono quei bestioni grossi che vivono in Africa, con le orecchie, il naso e i denti enormi..”.  ”Si chiamano proboscide e zanne, non naso e denti..e comunque sono più o meno quelli che dici tu”, corresse, paziente il nonno. “Ma, levami una curiosità: perché ti interessano tanto i pachidermi, gli elefanti ?”. Il nipotino non stava più nella pelle e disse, tutto soddisfatto: ”Nonno, lo sai che il Mottarone assomiglia a un pachi…., a un elefante ? L’ho letto su di un libro che ho trovato a casa“. ” A un elefante, cosa? Il Mottarone? Il Mottarone che assomiglia a un elefante? Ale, bambino mio, lo so che  hai tanta fantasia ma come fai a vedere nel Mottarone un elefante ?”, sorrise il nonno, scuotendo il capo ed accendendosi la pipa con delle lunghe tirate. ”Ma tu ,nonno, che hai vissuto sulla montagna, non hai mai sentito una storia che raccontava di un elefante sul Mottarone ? “ ,chiese ancora. Il nonno ci pensò su un po’ e poi, per non deluderlo, inventò una storia lì per lì, su due piedi. ”Vedi, tanti, tantissimi anni fa…”. ”Quanti,nonno?” l’interruppe Ale.

”Tanti quanti le dita tue e di tutti i tuoi amici moltiplicate per mille e forse anche di più..Ti stavo dicendo? Ah,sì..Tanti anni fa, ai tempi della preistoria, la terra era selvaggia. L’uomo viveva nelle caverne e da poco tempo aveva fatto una eccezionale scoperta: il fuoco. L’unico modo che aveva per poter sopravvivere era quello di cacciare. Ma purtroppo per lui gli animali erano enormi. E il più grande di tutti era il Mammut, l’antenato degli elefanti. In quel mondo non c’era nessuno che riusciva a tenergli testa. La sua mole imponente teneva lontana la  feroce Tigre con i denti a sciabola e persino l’enorme e coraggioso Orso delle Caverne non aveva mai osato sfidarlo a viso aperto. Eh, il Mammut era proprio un gran bel tipo…e forse uno di questi bestioni, nel suo girovagare, è arrivato fin su in cima al Mottarone e, addormentatosi, è rimasto lì per sempre”. Ale non era tanto convinto. Ma era anche molto curioso. Il dubbio lo rodeva. Quella del nonno era una storia inventata per non deluderlo oppure c’era qualcosa di vero? I pensieri gli si leggevano negli occhi. E il nonno Enzo se ne accorse. ”Tu vorresti saperne di più, non è vero ? Forse…forse ho qualcosa che ti può essere utile. Aspetta,però..dove l’ho messo?.. Ah, ora ricordo. E’ nell’armadio in soffitta”. Qualche minuto dopo Ale si trovò tra le mani un libro, un po’ vecchiotto e impolverato.  “Era di tuo papà. E se non ricordo male parla proprio di quell’epoca“, disse il nonno. La sera stessa, nel suo letto, Ale iniziò a leggerlo. Il titolo già l’aveva affascinato: “La guerra del fuoco”. Incredibile. Aveva ragione il nonno, era proprio la storia dei Mammut! Il ragazzino, una dopo l’altra,  divorava le pagine.

 

Il Mammut dominava invincibile. L’uomo non avrebbe mai potuto lottare contro di lui. Era agile, rapido, instancabile, capace di superare i monti;dimostrava d’essere riflessivo e dotato di una memoria tenace. Afferrava, lavorava e misurava la materia con la sua proboscide, scavava la terra con le enormi zanne, conduceva con saggezza le sue spedizioni e conosceva la propria supremazia. Il suo corpo sembrava una collina, le zampe grossi alberi; aveva zanne lunghe, capaci di trapassare una quercia; la proboscide sembrava un lungo serpente nero; la testa, una roccia. Si muoveva dentro una pelle grossa e rugosa come la scorza dei vecchi olmi, coperta di lunghi peli ruvidi. Le sue orecchie parevano dei giganteschi pipistrelli e quando si muoveva con il suo branco sembravano, tutti assieme, una colonna di giganti color dell’argilla. Quando, assetati, si allineavano sulla riva di un lago, bevevano in maniera così formidabile che il livello dell’acqua si abbassava.”. Ale chiuse gli occhi e si addormentò, sognando il Gran Mammut.  “Il Gran Mammut, dopo aver sostenuto mille battaglie vincendole tutte, si era stancato. Prese la decisione di lasciare il branco, dov’era da tutti riconosciuto come il capo e si incamminò verso la montagna che aveva di fronte, lasciandosi alle spalle il lago e le colline. Il sentiero era impervio, pieno ci cespugli e rovi, ma il Gran Mammut non se ne curava. Continuava a salire, puntando dritto verso l’alto. La sua mole enorme, di tanto in tanto, spariva dentro le nubi basse che avvolgevano i fianchi del monte e, dopo tanto camminare, giunse alla vetta che era ormai buio. Nel cielo era stesa una coperta di stelle che brillavano come tante fiaccole nella notte. Il Mammut alzò la proboscide più in alto che poté, per cercare di stringerle. Ma era fatica inutile : le stelle, che parevano così vicine, quasi da poterle sfiorare, restavano sempre al loro posto. Il Gran Mammut lanciò un tremendo barrito che scosse l’aria come una frustata e scese giù per le valli con il rumore di un tuono e l’impeto di un uragano. Poi, con la stessa foga , risalì sulla vetta, stanco del lungo viaggio ma soddisfatto per la scelta di vita solitaria. Si addormentò, pesantemente, coprendo con la sua mole immensa tutta la vetta”.

Anche sul Mottarone qualcuno dormiva e sognava. Era il Mammut che, caduto ormai da tantissimi anni in una forma di letargo, aveva il corpo coperto di terra e d’erba al punto d’aver preso le sembianze di una collina. La pioggia bagnava generosamente quello strano dosso, rendendolo sempre più fertile tant’è che vi erano cresciuto persino degli alberi. Molti anni dopo, a causa dell’ egoismo speculativo di uomini con pochi scrupoli su quel poggio vennero costruite prima una, poi due, poi tante costruzioni di legno, mattoni e cemento. Il Mammut dormiva e non sentiva sulle sue spalle il peso delle costruzioni, la ragnatela degli impianti sciistici e il fremito provocato dallo scivolare di discesisti e slalomisti che proprio in vetta al monte si divertivano d’inverno a scendere e risalire lungo le piste innevate. E nemmeno sentiva, durante le calde giornate estive, le grida di tutti quelli che passavano in quei luoghi ameni i loro pomeriggi d’ozio, in cerca di un refolo di vento che desse loro almeno l’impressione di un alito fresco. Erano tanti, troppi e spesso si lasciavano alle spalle una indelebile traccia di ignoranza e maleducazione, visibile in quei cumuli di rifiuti di ogni natura e volume. Ma lui non sentiva niente e nulla pareva potesse disturbarne il sonno millenario, quando un bel giorno operai e tecnici delle telecomunicazioni decisero di installare sulla vetta un’altra, potente, antenna televisiva. Gli scavi, piuttosto profondi, si concentrarono proprio nel punto dove il Mammut aveva la sua proboscide. Il solletico fece prudere l’enorme naso finché starnutì. La terrà tremò tutta. Gli addetti agli scavi, terrorizzati, fuggirono a gambe levate. Nei giorni successivi l’intera aera del Mottarone e la sua vetta furono meta di decine di esperti, tecnici, ricercatori,illuminati professori delle più importanti Università del paese. Vennero eseguiti studi accurati con sofisticate apparecchiature per cercare di capire cosa aveva originato quel fremito, quella scossa. Dopo un lungo consulto, durante il quale spesso il confronto degenerò in rissa al punto che, più di una volta, dovettero intervenire le forze dell’ordine per dividere quegli uomini di scienza che si stavano accapigliando, tutti convennero su di un punto fermo e preciso: non era successo nulla. Gli operai avevano sentito la terra ballare sotto i piedi? Fantasie. Erano scappati via di corsa , temendo un terremoto? Si erano sbagliati o forse avevano inventato questa storia per farsi un po’ di pubblicità. Del resto la scienza è scienza, e se afferma che non è accaduto nulla che si possa spiegare, significava  semplicemente che nulla era capitato. O forse qualcuno nutriva il coraggio di contraddire professori e cattedratici ? Passata anche quella bufera, sulla vetta della montagna venne finalmente innalzata una nuova costruzione d’acciaio. Il traliccio, formato da una miriade di pezzi di metallo intrecciati tra di loro, saliva slanciato verso il cielo per quasi quaranta metri. La terra non era più tremata. Comunque, per non  incappare in altri guai, i tecnici avevano scelto una diversa disposizione dell’antenna, a più di mezzo chilometro da quella pensata in un primo momento. Ma ormai il sonno di millenni era stato  disturbato. Il vecchio, grande Mammut era ormai sveglio. Non che si fosse destato subito, perché ci vollero alcuni mesi prima di averne piena coscienza. Dopo aver sbadigliato a lungo, l’enorme bestione si sentiva in piena forma. Quel lungo riposo gli aveva giovato. Se il giorno in cui si era appisolato sentiva le sue ossa cigolare e la grande massa dei muscoli era intorpidita ora , dopo il “sonnellino” , si sentiva come ringiovanito. Provò ad aprire gli occhi ma non vide nulla. In quello scuro immaginò fosse ancora notte. Una notte senza luna, nera come la pece, dove non s’intravvedeva  nemmeno una stella. Gli parve persino di sentirselo addosso quel cielo nero e opprimente quasi a dover sostenere sulle possenti spalle portare l’intero peso di quella cappa buia. Gli venne il dubbio di sognare ancora ma un istante dopo decise di muoversi. Zolle di terra grosse come aiuole saltarono in cielo come per effetto di una esplosione. Grandi alberi misero a nudo le loro radici, crepitando. Dal Santuario di Luciago alla strada Borromea, dalla Vidabbia all’alpe Grandi fino ai boschi che salivano oltre il Mastrolino, sopra Omegna , l’intero Mottarone  fu scosso da un formidabile e inaspettato evento. Un gigantesco animale, grande come il culmine della vetta, coperto da un pelo fitto, stava lì fermo su quattro enormi zampe, con due lunghe zanne e una impressionante proboscide che sferzava l’aria. Sulla groppa aveva tracce evidenti di terriccio, piccoli arbusti, muschi e radici. Nel mezzo del muso due occhi , grandi come scodelle, si guardavano attorno. Uno sguardo incuriosito, non spaventato. Si sarebbe quasi potuto azzardare anche l’aggettivo intelligente.

Quel giorno Ale era andato, come faceva di solito, a passeggio nei primi boschi che salgono sulla “montagna dei milanesi”, alla ricerca di funghi e piccoli frutti del sottobosco. In una radura in mezzo al bosco, incontrò l’enorme animale che dalla vetta era sceso in basso cercando di evitare strade e sentieri. In silenzio, il vecchio e grande Mammut e il ragazzino dalla testa bruna, si guardarono negli occhi. Era difficile stabilire chi dei due fosse più stupito per lo strano incontro. All’animale preistorico mancava solo il dono della parola. Cosa, del resto, superflua poiché durante il lungo sonno aveva sviluppato le sue capacità di pensiero a tal punto da poter comunicare attraverso gli impulsi che la sua enorme mente era in grado di trasmettere. Il suo cervello, enormemente evoluto, ospitava un grande archivio di memoria, paragonabile a un  potente computer. Fatti, luoghi, situazioni erano stati immagazzinati con un ordine perfetto, tale da far invidia ai più moderni e sofisticati sistemi infornatici. Bastò che Ale pronunciasse le sue prime parole ( “E tu,chi sei ?” ) perché il suono della voce del bambino gli rammentasse i suoni di quegli animali che sembravano scimmie ma camminavano su due zampe e con la schiena diritta: il modo di esprimersi, di comunicare attraverso suoni gutturali degli uomini che aveva conosciuto prima di lasciarsi andare al lungo sonno aveva qualcosa in comune. Il suo cervello, in un attimo, aveva già trovato il modo di stabilire un contatto con quel minuscolo essere che aveva davanti e che, con tutta probabilità, doveva essere proprio un cucciolo d’uomo. E dunque, al “chi sei?” pronunciato da Ale, rispose articolando delle parole lentamente, quasi sillabando: “Sono il Gran Mammut, signore delle immense foreste. Chi sei tu, piuttosto..”. Ale rimase a bocca aperta. Quella montagna di muscoli e peli che aveva davanti aveva parlato. E nonostante non avesse emesso il benché minimo suono, aveva sentito la sua “voce”. “Io..io sono Ale…” , rispose , tradendo  qualche incertezza. “Che strano nome. Non l’ho mai udito prima d’ora. Eppure, a prima vista, mi sei parso un cucciolo d’uomo. Ale.. Mah.. e che razza di animale saresti, allora ? –, borbottò il pachiderma. “Ma scusa, te l’ho appena detto:sono Ale, ho dieci anni e vivo ad Omegna. Se per cucciolo d’uomo intendi un bambino allora sì, sono proprio così. Ma tu, che sembri un Mammut, cosa ci fai qui sul Mottarone ?Non eri un animale preistorico e come tale ormai estinto ?”. Per nulla intimorito, Ale non intendeva rinunciare alla sua curiosità. Figurarsi poi in questo caso, dal momento che si trovava davanti proprio un bel Mammut in carne e ossa. E per di più sulla vetta della sua montagna. Non stava più nella pelle dalla contentezza. Altro che storie!n Quel libro diceva il vero quando lesse “ ..la strada sale dolcemente verso la vetta, come se risalisse il dorso di un grosso pachiderma addormentato..”. Chiese allora al Mammut se conosceva quel signore che aveva scritto il libro ( perché,pensava, dovevano per forza conoscersi altrimenti , lo scrittore, come avrebbe potuto sapere che la sommità del Mottarone nascondeva proprio il Gran Mammut?). Il pensiero dell’animale incontrò quello del bambino, dialogando per un po’. Al termine di quell’incredibile colloquio, seppure a grandi linee, Ale apprese la storia del Mammut, scoprendo  che ci aveva scritto quelle cose era all’oscuro di tutto. Aveva tirato a indovinare, usando la fantasia. E gli  era andata bene.  Dopo di che toccò al bambino raccontare la sua di storia e così tra i due nacque una forte simpatia. Fu a quel punto che Ale pensò di far conoscere al vecchio Mammut il mondo che stava attorno. Disse all’animale: “Sai, credo che le cose, dai tuoi tempi, siano cambiate un po’. Forse è bene che ti accompagni giù dalla montagna, così te ne renderai conto da solo. Ma non andiamo da questa parte. E’ meglio passare dall’altro versante”. Con buon passo – il Mammut, con la sua enorme mole ed il bambino in groppa, dove si teneva ben stretto alle grandi orecchie – presero a risalire il monte attraverso boschi di castagni, robinie e  faggi per poi ridiscendere. Raggiunsero una strada e quella terra, liscia e dura, color antracite, era già una novità per l’animale. L’asfalto, come lo chiamava Ale, non c’era ai suoi tempi e il Mammut nutriva seri dubbi sulla bontà di quella terra. Comunque, in breve tempo , a dispetto del suo considerevole volume, il Mammut si era già lasciato alle spalle molti tornanti, tant’è che potevano già intravedere le prime case di Cheggino, sopra Armeno. Non incontrarono anima viva. Il Mammut si stupiva vedendo quei blocchi di pietra con delle aperture chiuse da assi di legno e Ale ebbe il suo bel daffare a spiegargli che erano case e che lì dentro vivevano gli uomini. Il Mammut aveva memoria di uomini primitivi che dimoravano nelle caverne e pareva scettico ma non insistette per non dare dispiacere a quel suo piccolo amico così gentile e premuroso. Ad Armeno non incontrarono nessuno. Il paese era come vuoto. Le strade deserte e le case con gli usci sbarrati. Anche il bar sulla piazza del Municipio,quasi sempre aperto, aveva calato la serranda. E così pure i negozi. Ale era sorpreso. Gli sembrava di attraversare uno di quei villaggi fantasma dei film western. Ignorava che, appena segnalata la presenza di uno strano, enorme animale,  somigliante a un elefante, che stava scendendo la Mottarone, la voce si era sparsa in un battibaleno e la gente, spaventata, si era chiusa in casa , chiudendo porte e finestre. Così, dopo Armeno, fu anche a Bassola, al Pescone, ad Agrano. Solo a Borca incontrarono le prime auto che, alla vista del Mammut, fecero dei rapidi dietrofront, con manovre convulse quanto azzardate. Nonostante Ale gli avesse parlato delle auto, la vista di quei strani animali colorati, rumorosi , veloci e puzzolenti  (si lasciavano alle spalle una scia odorosa e acre che irritava la sua proboscide) turbò non poco il vecchio Mammut. Non più con passo spedito ma con andatura incerta, dubbiosa, il bestione imboccò la statale del lago d’Orta, dirigendosi verso il centro di Omegna. Ma lì i pochi curiosi che, sfidando la paura, si erano nascosti dietro le colonne di granito del Municipio per spiarne le mosse, non lo videro mai arrivare. Il Mammut sparì nel nulla. Di quella montagna di carne e peli preistorici non c’era traccia. Svanita, quasi non fosse mai esistita se non nei sogni e nell’immaginario dei cusiani. Anche quel bambino che alcuni giuravano di aver visto in groppa al Mammut ma che nessuno poteva dire di aver riconosciuto, era sparito con lui. Alcuni automobilisti, qualche abitante di Borca, il gestore dell’Agip, giuravano che i due stavano andando verso Omegna. Ma lì, come già sappiamo, non erano mai giunti.

Nei giorni che seguirono furono indette assemblee, riunioni, tavole rotonde, consigli comunali a “porte chiuse” e in sedute aperte al pubblico. Corsero fiumi di parole,un bla-bla-bla impressionante, tanto monumentale quanto inutile. Tutti dicevano la loro, chi aveva visto e chi no. Scomodarono  scienziati, storici e biologi, antropologi e paleontologi, filosofi e medici, impiastri e ficcanaso, letterati e analfabeti. Giornali e riviste pubblicarono articoli, saggi, inchieste, indiscrezioni, fotomontaggi. Un mare d’inchiostro sommerse l’opinione pubblica. Alla fine di tutto questo chiassoso guazzabuglio il “caso” venne chiuso con una rassicurante presa di posizione di Sua Eccellenza il Prefetto che così sentenziò: “Non è successo nulla. Dopo aver analizzato e ponderato il problema siamo giunti, con assoluta certezza e senza difetto alcuno, alla decisione di comunicare che si è trattato solo di uno scherzo dell’immaginazione. Tutto, dunque, è sotto controllo: parola di Prefetto“. E quindi? Era stato solo un sogno, un’illusione ottica? La gente si guardava, scettica. E se nessuno, pubblicamente, osava mettere in discussione il Prefetto, in cuor proprio agli abitanti dei paesi attorno al lago d’Orta quelle parole suonavano poco convincenti per non dire addirittura false. Non erano per nulla convinti. Dopotutto, passati la paura ( ma era poi davvero paura ? O non era forse una bella e forte emozione di quelle che si provano davanti a qualcosa di nuovo e inaspettato!) l’idea di un Mammut in giro per la città non dispiaceva affatto. Qualcuno , con uno spiccato pallino per gli affari,aveva già pensato di cambiare nome a un noto ristorante per ribattezzarlo “ Al vecchio Mammut “ o di aprire un locale notturno in stile preistorico, con arredamento alla “Flinstone” oppure il Caffè “Delle due clave”. Tutto sommato, quell’elefante vecchio di  milioni di anni , alla gente piaceva. Anche a scuola, tra i bambini, si parlò per molto tempo solo di questo. E tutti si impegnavano a far supposizioni su dov’erano andati a finire il Mammut ed il bambino. C’era chi li aveva visti prendere il volo e sparire tra le nuvole, in direzione delle alture dei “Tre Gobbi”, suscitando un coro di risate. Chi invece li aveva visti nuotare nel lago verso il lido di Gozzano, lasciandosi alle spalle una scia come la motonave Azalea. Solo Ale non parlava. Dal suo banco guardava fuori dalla finestra, su verso la vetta del Mottarone. Il Mammut era tornato là, considerando quella del letargo la miglior soluzione. Si era scavato una comoda tana in una valletta isolata e con la proboscide si era coperto di foglie e terriccio. Era un segreto pattuito con il suo piccolo amico. Di tanto in tanto, senza farsi vedere dagli altri, Ale agitava la mano, accennando un timido saluto in direzione del rifugio segreto tra gli alberi, pensando intensamente al Mammut. Chissà se l’animale lo  percepiva il saluto? Non ne era del tutto certo ma, di tanto in tanto, seppure l’aria era immobile, senza un benché minimo alito di vento,  là in alto le chiome degli alberi  parevano scosse da un leggero, appena percettibile, fremito. E i suoi occhi sorridevano di una felice complicità.

Un po’ di bon ton per tutti

A cura di: https://quantabellezzainquestomondo.com/blog/

Esistono mille regole per un cameriere che deve servire un potage a tavola, o preparare una mise en place; anche il suo abbigliamento e’ codificato con cura. Ci sono persino scuole che insegnano ad impilare piatti e posate senza farli mai cadere.

Io credo che ci vorrebbero anche un po’ di regole per essere dei buoni clienti. Ci avevate mai pensato? Molti ritengono che basterebbe rispettare la buona educazione, ma secondo me non e’ sufficiente.

Cio’ che va aggiunto in dosi adeguate, proprio come nella preparazione di un buon piatto, sono tre ingredienti essenziali: rispetto, gentilezza e collaborazione.

Rispetto. Di fronte a noi abbiamo una persona che sta lavorando; non solo: sta lavorando per farci star bene, ci serve pietanze e piatti che dovrebbero soddisfare il nostro palato e lo fa con dedizione, attenzione e grazia. A tale proposito mi ricordo il butler dell’Andros Boutique Hotel a Cape Town, un uomo di colore che aveva trasformato la sua vita in arte del servizio: vi posso garantire che avrebbe potuto insegnare grazia, attenzione, perfezione e generosità a tanti di noi.

Gentilezza. Quando siamo al ristorante ci aspettiamo di essere serviti mentre discutiamo con i nostri commensali, e di rado ci rendiamo conto che il sommelier che sta versando il vino è una persona; e’ importante ricambiare la sua attenzione con un sorriso ed un grazie e interrompere per un attimo una conversazione che sicuramente non lo/la riguarda. Recentemente siamo stati a pranzo da Stratta in piazza San Carlo a Torino: un locale in cui si respirano tanta esperienza e superba professionalità; uno dei camerieri a cui ho fatto proprio questo complimento mi ha ringraziato dicendomi che le mie parole valevano più di una mancia, perché ormai pochi sono in grado di apprezzare la qualita’ del suo lavoro.

Il tea delle 17 all’Andros Boutique hotel

Collaborazione: avete mai notato la fatica cui a volte sottoponiamo chi ha il compito di raccogliere le ordinazioni oppure i piatti? Io credo sarebbe bellissimo se al nostro tavolo all’arrivo del cameriere si smettesse di parlare (abbiamo tutta la vita per farlo) e si ascoltasse attentamente la persona che sta descrivendo i piatti da gustare… anche se si tratta della solita lista di “…profitterol, tiramisù, panna cotta, creme caramel e chipiùnehapiùnemetta”.

Ah che hotel favoloso! ❤️

Regole molto semplici che costituiscono gli ingredienti segreti per un’esperienza di vera bellezza, e che renderanno straordinari anche i piatti piu’ banali.

Gta, Giulia con grinta

Il Mirafiori Motor Village di Torino, primo flagship store del gruppo FCA, si dimostra ancora una volta un catalizzatore di esperienze uniche per i propri clienti. Infatti nella settimana scorsa ha fatto tappa in Piazza Cattaneo l’Alfa Romeo Giulia GTA, la berlina sportiva più performante mai prodotta dal brand Italiano.

“Per celebrare Giulia GTA – dichiara Massimo Dallara, Dealer Manager del Mirafiori Motor Village – abbiamo curato un allestimento speciale, affiancando il nuovo modello ad una Giulia GTA d’epoca. Un selezionato numero di collezionisti e appassionati ha così potuto ammirare i due modelli”.

La nuova Giulia GTA si ispira tecnicamente e concettualmente alla Giulia GTA del 1965, la “Gran Turismo Alleggerita” sviluppata da Autodelta a partire dalla Giulia Sprint GT che collezionò successi sportivi in tutto il mondo. Giulia GTA è costruita in una serie limitata di 500 unità, numerate e certificate, pronte ad affiancare la progenitrice del 1965 tra gli oggetti da collezione più desiderati, non solo da ammirare ma preparate per sprigionare su strada una grande potenza, fruibile grazie alle raffinatissime soluzioni tecniche.

“Al Mirafiori Motor Village cerchiamo di rendere unica ogni esperienza e mai come in questo caso l’occasione ci ha permesso di creare per i clienti un momento davvero unico”, continua Massimo Dallara. “L’esclusività di Giulia GTA e Giulia GTAm è caratterizzata da una customer experience dedicata. La vettura è stata presentata individualmente a un ristrettissimo gruppo di selezionati clienti, direttamente da Francesco Flamini (Alfa Romeo Marketing Manager) che ha illustrato agli ospiti tutte le caratteristiche della straordinaria vettura”.

Giulia GTA deriva da Giulia Quadrifoglio ed è equipaggiata con una versione potenziata del motore Alfa Romeo 2.9 V6 Bi-Turbo, da 540 CV. Grazie all’adozione estesa di materiali ultraleggeri beneficia di una riduzione di peso pari a 100 kg rispetto a Giulia Quadrifoglio, raggiungendo un rapporto peso/potenza eccezionale di 2,82 kg/CV che la rende best in class.

Il progetto Giulia GTA beneficia della consolidata partnership con Sauber Group AG e sfrutta il know-how del comparto Engineering e Aerodynamics. Forte di 50 anni di esperienza nel motorsport, di cui 27 in F1, Sauber Group ha maturato una grande competenza sulla progettazione e sull’utilizzo del carbonio, oltre ad un know-how approfondito sull’aerodinamica. Il team svizzero è, infatti, uno dei pochi team di F1 ad avere una galleria del vento di proprietà. Una struttura, a Hinwil, Svizzera, tra le più avanzate in Europa.

L’esperienza d’acquisto di Giulia GTA non si esaurisce con il processo di vendita dedicato. È previsto infatti un experience package personalizzato, che comprende un casco Bell in livrea speciale GTA, abbigliamento racing completo Alpinestars (tuta, guanti e scarpe) e un telo coprivettura Goodwool personalizzato, per proteggere la propria GTA o GTAm. Oltre ad altri equipaggiamenti da vero appassionato, la customer experience Alfa Romeo comprende anche un corso di guida specifico realizzato dall’Accademia di Guida Alfa Romeo.

La Maratonina è rinviata ma non la felicità

Riceviamo e pubblichiamo / Elisa Inga e Luca si sono aggiudicati l’iscrizione omaggio alla alla 7^ Maratonina della Felicità, evento ispirato alla guida al buon senso scritta da L. Ron Hubbard, intitolata appunto “La Via della Felicità”, “con la loro simpatia contagiosa hanno colto in pieno lo spirito dell’iniziativa. ”

Un’iniziativa lanciata sulla pagina Facebook della Maratonina della Felicità, con il desiderio di dare continuità alla manifestazione sportiva che è stata rinviata al 2021 e che si sarebbe dovuta svolgere proprio domenica 1 novembre.
“ Non è facile sforzarsi di sorridere in un periodo così lungo di estrema difficoltà – spiegano gli organizzatori – ma siamo convinti che il nostro atteggiamento nei confronti delle cose possa fare la differenza. Essere di buon umore non vuol dire essere irresponsabili, tutt’altro. Mostrarsi fiduciosi non vuol dire ignorare i problemi.
Cercare reciprocamente di tirarsi su di morale è importante, perché è anche così che si possono vincere le sfide. E quella che stiamo vivendo è una sfida per ogni singola persona. Tutte le persone che hanno partecipato inviandoci la loro fotografia e stando al gioco, sono state simpatiche e coraggiose e le ringraziamo moltissimo.”
Chi volesse continuare ad inviare fotografie e scatti nello spirito di diffondere felicità e buon umore, può farlo allegandole via email all’indirizzo procivicos@yahoo.it oppure via whatsapp al 347 98 11 901. Intanto l’associazione promotrice PRO.CIVI.CO.S. OdV assieme al partner tecnico Team Marathon, informano che la data della Maratonina della Felicità 2021 verrà comunicata non appena superata la situazione di emergenza: il più presto possibile, come ci auguriamo tutti.

«Il Piemonte che non ti aspetti»: al rush finale il concorso su Instagram

Entro novembre il verdetto della giuria per il contest foto-video  nato dalla partnership VisitPiemonte-Lonely Planet

 

Chi saranno i sette più bravi a rappresentare il “Piemonte che non ti aspetti” su Instagram? Lo sapremo entro novembre, quando la qualificata giuria renderà nota la classifica del concorso nato con la partnership VisitPiemonte-Lonely Planet nell’ambito della campagna “#Ripartiturismo”.

Con 1955 contributi, tra fotografie e video, il 21 ottobre si è chiuso il termine di partecipazione alla competizione avviata il 7 settembre scorso. La proposta: postare sul proprio profilo Instagram una fotografia, un video, un collage o una gallery fotografica, esprimendo in modo originale e divertente la propria vacanza ideale in Piemonte. Elementi fondamentali per partecipare: una didascalia di massimo 200 caratteri, il più possibile appassionata e coinvolgente, e l’hashtag #ilpiemontechenontiaspetti.

Anche se non lo hai ancora visitato, dovrai riuscire a raccontare il Piemonte che ti immagini, che vorresti vedere, che conosci”, recitava la call to action invitando a lavorare sui quattro temi-guida della campagna di promozione turistica regionale: ‘Libertà’, ‘Bellezza’, ‘Gusto’, ‘Spirito’. “La libertà che ti farebbe spalancare le braccia al cielo, l’enogastronomia che vorresti gustare, l’esperienza che ti darebbe serenità, la bellezza di cui vorresti godere”.

Gli elaborati premiati verranno pubblicati sul sito di lonelyplanetitalia.it e sul sito di VisitPiemonte.com, in palio ci sono i sette ambìti soggiorni di due giornate nelle diverse aree regionali, offerti dai Consorzi Turistici Piemontesi.

Chi sono i partecipanti al contest? L’analisi dei profili rivela che il 51% sono donne e il 49% uomini, con un’età compresa tra 25 e 44 anni, in prevalenza milanesi e romani, seguiti da torinesi, napoletani, bolognesi e fiorentini. E, da un primo sguardo, tra le migliori immagini si scoprono punti di vista inconsueti su architetture e scorci cittadini, angolazioni inedite sui paesaggi collinari, su laghi, e montagne, interpretazioni di prodotti e ricette, scatti e vedute insolite tra sogno e realtà.

La giuria al lavoro sulla selezione è composta da: Marzia Baracchino, Direttore dell’area Cultura, Turismo e Commercio della Regione Piemonte; Andrea Cerrato, Presidente di Piemonte Incoming, la Federazione dei Consorzi Turistici del Piemonte; Piero Contaldo, Presidente dell’Associazione IgersItalia; Umberto La Rocca, Direttore del quotidiano online Open; Luisa Piazza, Direttore Generale di VisitPiemonte; Angelo Pittro, Direttore di Lonely Planet Italia.

 

Aggiornamenti su visitpiemonte.com e lonelyplanetitalia.it

San Martino, ricordiamoci anche di lui!

La classica estate di San Martino, con sole e temperature miti, ci rasserena un po’ l’animo in questo nuovo angoscioso lockdown

E gli esperti meteolini ci dicono che questo periodo di bel tempo durerà anche oltre l’11 novembre, giorno in cui si festeggia il santo. Tutto merito dell’alta pressione che scalda i nostri cuori e illumina il bel paese. Ma come nasce l’estate di San Martino? Il nome ha origine dalla tradizione del mantello, secondo la quale Martino di Tours, vescovo del IV secolo, noto in seguito come San Martino, vedendo un poveraccio infreddolito e seminudo patire il freddo gli donò metà del suo mantello militare, poco dopo incontrò un altro mendicante e gli regalò l’altro pezzo del mantello. Ma ecco che ad un tratto il cielo diventò chiaro e la temperatura divenne mite come se improvvisamente fosse tornata l’estate. Questo “miracolo estivo”, secondo un proverbio, dovebbe durare solo “tre giorni e un pochino” ma quest’anno ci sta regalando un novembre con temperature piuttosto gradevoli. San Martino nacque nel 317 in Pannonia, l’attuale Ungheria, ed è venerato dalle chiese cattolica, ortodossa e copta. È stato chiamato Martino in onore del Dio della guerra. La famiglia di Martino si trasferì a Pavia dove il futuro santo fu costretto dal padre a fare carriera nell’esercito. E proprio durante un giro di pattugliamento notturno Martino incontrò un povero disgraziato che chiedeva l’elemosina. All’età di 40 anni decise di farsi monaco e lasciò l’esercito. Si recò a Tours dove nel 371 divenne vescovo della città francese nella regione della Loira. Il santo dell’estate novembrina morì nel 397.

Filippo Re

“Voglio tornare a sentire il profumo della vita…”

Qualche giorno fa, prima del nuovo #dpcm, ho comprato questa rosa.

È stato lampante come non solo la mascherina mi impedisse di annusarne il profumo ma anche l’involucro di plastica che la avvolgeva. E così ho deciso di scattare questa foto che non ho avuto tempo di pubblicare perché nel mentre mi son ritrovata in ospedale per una bronchite, i tamponi fortunatamente erano negativi.

Stiamo vivendo un’epoca difficile, soprattutto noi giovani, noi che dovremmo vivere nella speranza di un futuro roseo. Tutti ci chiediamo perché ci ritroviamo a vivere una situazione così drammatica ma molti ormai hanno già capito (e tutti dovrebbero esserne consapevoli) che solo cambiando le nostre abitudini potremmo avere una vita migliore.

Abbiamo tanti problemi da risolvere e la pandemia, qualunque origine essa abbia avuto, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ora cerchiamo di uscirne il più indenni possibile iniziando da subito a pensare e a cambiare quelle abitudini che non sono più sostenibili. Mi auguro in futuro di non dover portare più la mascherina e di comprare una rosa avvolta da un involucro che non inquina o, ancora meglio, dopo tanti anni di impegno e sacrifici vorrei non ritrovarmi più a fine mese coi soldi contati e poter così fare una scelta più ecologica comprando una pianta, simbolo di vita, anziché un fiore reciso.

Fonte Instagram: @irene.cane

Icone di stile: dalla Regione novità per le auto storiche

La Commissione Trasporti del Consiglio Regionale del Piemonte ha approvato il Disegno di Legge 111 per la “Valorizzazione dei veicoli di interesse storico e collezionistico”, grazie al quale i veicoli con oltre 40 anni di età e con il riconoscimento di storicità riportato sulla carta di circolazione sono esclusi dai provvedimenti di limitazione alla circolazione;

tale esclusione vale per gli stessi veicoli di interesse storico con età compresa tra i 20 ed i 39 anni nelle giornate festive e prefestive.
Con questo provvedimento (anticipato dal presidente della Regione Alberto Cirio e dall’assessore regionale all’ambiente Matteo Marnati), la Regione Piemonte ha accolto le istanze avanzate dall’Automotoclub Storico Italiano per salvaguardare un settore importante – a livello economico, sociale e culturale – e per mantenere in vita realtà produttive altamente specializzate: in Italia, infatti, il motorismo storico crea un indotto di 2,2 miliardi di euro l’anno (123,4 milioni dei quali generati nel solo Piemonte).

“Questo nuovo Disegno di Legge ha commentato Alberto Scuro, presidente dell’ASI è il risultato del confronto concreto e trasparente che abbiamo instaurato da mesi con la Regione Piemonte, in particolare con l’Assessorato all’Ambiente, ed è l’effetto delle tante iniziative che la Federazione ha perseguito per dimostrare come i veicoli storici certificati non impattino sull’ambiente e come costituiscano una leva di sviluppo per l’indotto economico ed occupazionale, oltre ad essere una grande opportunità per il turismo, in particolare proprio in Piemonte. L’Automotoclub Storico Italiano, con la collaborazione dell’Istituto Superiore di Sanità e della Motorizzazione, si è prodigato nella ricerca e nella trasmissione di dati riferiti al reale impatto ambientale dei veicoli storici, che in Piemonte producono lo 0,000595% dei PM10 globali e lo 0,00234% degli NOx. Numeri che dimostrano l’assoluta inconsistenza degli agenti inquinanti prodotti dai veicoli di interesse storico e collezionistico: sostanzialmente perché sono pochi e fanno poca strada. Alla base di tutto, resta quindi fondamentale il principio di distinzione tra i veicoli vecchi di uso quotidiano e quelli certificati di interesse storico e collezionistico.”

“L’obiettivo – ha sottolineato il presidente della Regione, Alberto Cirio – è valorizzare i veicoli di interesse storico e collezionistico, che in una terra come il Piemonte non rappresentano solo una tradizione ma sono anche un’importante opportunità di promozione turistica”.

“Le auto storiche certificate – ha aggiunto l’assessore all’ambiente, Matteo Marnati – sono un museo viaggiante, un patrimonio da tutelare e preservare. Così manteniamo viva la storia di un mondo automobilistico del passato che oggi si può ancora apprezzare su strada. Un valore, quello delle auto storiche non solo collezionistico o storico-culturale, ma anche dagli importanti riflessi turistici in termini di manifestazioni itineranti”.

Testo integrale del DISEGNO DI LEGGE 111
“Valorizzazione dei veicoli di interesse storico e collezionistico”

Art. 1.
(Disposizioni sui veicoli di interesse storico e collezionistico)

1. Al fine di valorizzare il segmento turistico collegato al settore dei veicoli di interesse storico e collezionistico in Piemonte, gli autoveicoli e motoveicoli che rientrano in questa categoria, per i quali il riconoscimento di storicità è riportato sulla carta di circolazione e la data di immatricolazione è superiore ai quaranta anni, sono esclusi dai provvedimenti di limitazione alla circolazione adottati ai sensi dell’articolo 7 comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), fatte salve ulteriori o differenti valutazioni dei sindaci, in qualità di autorità competenti, in relazione alle esigenze di prevenzione degli inquinamenti.

2. Gli autoveicoli e motoveicoli di cui al comma 1, con data di immatricolazione compresa tra venti e quaranta anni, sono esclusi dai medesimi provvedimenti di limitazione alla circolazione nei giorni festivi e prefestivi, fatte salve ulteriori e differenti valutazioni dei sindaci, in relazione alle esigenze di prevenzione degli inquinamenti. Tali esclusioni non si applicano ai veicoli adibiti ad uso professionale utilizzati nell’esercizio di attività di impresa o di arti e professioni.

Art. 1 bis
(Clausola d’Invarianza finanziaria)
1. Dalla presente legge non derivano nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio regionale.

Art. 2
(Dichiarazione di urgenza)
1. La presente legge è dichiarata urgente ai sensi dell’articolo 47 dello Statuto ed entra in vigore il giorno della sua pubblicazione sul Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte.

Il bello e il buono: arte e cibo con il “Classico brunch”

La colazione della domenica diventa un’esperienza nuova che fonde arte, gusto e musica grazie alla sinergia fra Fuzion Food, il laboratorio gastronomico di chef Domenico Volgare e Casa Fools, dinamico teatro di Vanchiglia. Un percorso tematico ispirato all’oriente dove i piatti dialogano con un’accurata selezione musicale commentata da Luigi Orfeo, regista teatrale e lirico

 Parte domenica prossima 8 novembre l’ultima iniziativa torinese per rispondere al lockdown: entro le ore 20 di sabato 7 novembre sarà possibile ordinare “Il Classico Brunch” innovativa proposta di food delivery “culturale” nata dalla collaborazione fra due laboratori creativi di Torino: Fuzion Food il ristorante fusion dello chef Domenico Volgare e Luigi Orfeo di Casa Fools, teatro di quartiere gestito da due anni dall’intraprendente compagnia dei Fools.

La colazione domenicale diventa infatti un’occasione unica e nuova per saziare il palato e la mente: non un semplice brunch in delivery, ma una vera e propria esperienza gastronomica e culturale da vivere in casa e in tutta sicurezza. Uno speciale menù di sette piatti (5 salati e 2 dolci) ispirati alle tipicità servite a colazione in Oriente ed elaborati per l’occasione da Domenico Volgare sarà consegnato assieme a un Qr code. Attraverso il codice si potrà accedere a una specialeplaylist “raccontata”, con cui accompagnare le sette portate del bruchfrutto dell’attenta selezione di Luigi Orfeo, attore e regista di Opera Lirica che da alcuni anni porta avanti un accurato lavoro di studio e ricerca musicale. I brani della playlist che, attingendo dal repertorio classico fino al contemporaneo, richiamano i paesi asiatici di cui si stanno assaporando ricette e ingredientisaranno intervallati da audio introduttivi in cui Luigi Orfeo racconterà dettagli, curiosità e aneddoti legati ai pezzi, per far scoprire tesori “nascosti” della musica Coreana o cantanti italiani dalle sorprendenti origini vietnamite e celebri intermezzi lirici presenti in alcuni capolavori del cinema.Un modo per avvicinare il grande pubblico a frammenti della musica italiana e internazionale, continuando a vivere se pure dentro le mura di casa un’esperienza all’insegna del relax e del gusto.

Il Classico Brunch è un’iniziativa per far vivere pillole di gusto e poesia. Un percorso degustativo mentre si ascolta musica classica. Con questo brunch voglio continuare il format dell’experience che i miei clienti vivevano nel mio locale, portandola nelle loro case e facendo vivere loro un momento in cui l’arte, la cultura e il bello del cibo si fondono insieme. Sono andato a scovare delle ricette orientali legate alla colazione che non avevo mai sperimentato per rendere ancora più unica l’esperienza. Tutto questo ovviamente è stato possibile grazie alla collaborazione con Luigi Orfeo e Casa Fools, una sinergia che ci ha permesso di trasformare la difficoltà attuale in una risorsa.” commenta Domenico Volgare, a cui si aggiungono le parole di Luigi Orfeo: “In un momento di estrema difficoltà e arresto abbiamo voluto mettere in atto una reazione proattiva alla stasi che ha investito tutte le attività della Città: chiusi teatri e ristoranti non si ferma il desiderio di diffondere e condividere la bellezza e la creatività”.

Per prenotare “Il Classico Brunch”
Chiamare il +39 346 2124 341 (prenotazioni entro le ore 20:00 di sabato 07 novembre)
Servizio di consegna disponibile dalle ore 11:00 alle 15:00 di domenica 8 novembre
costo €25 a persona, comprende:
– 5 piatti salati + 2 piatti dolci + thé macha in omaggio
– servizio fruibile in modalità take away o delivery

L’indimenticabile gioco del trenino nella Barriera di mezzo secolo fa

Il gioco dei trenini è sempre stata la mia passione

Responsabili sono stati i miei genitori e zii paterni. Nel 1961 per Natale un grande regalo: trenino Marklin, fabbricazione e tecnologia tedesca,  il massimo. E per rendere più allettante la sorpresa dormii dagli zii.  In serata padre e zio lo montavano a casa. Arrivato per il pranzo a momenti svenni.
Accattivante la galleria dove il trenino passava. Risultato pratico: non mangiai e stetti ore ed ore ad osservarlo. C’erano piccole levette . Precisamente tre: una che avviava, una per gli scambi ed una per ridurre la velocità. Fermata tecnica in stazione e operazioni di aggancio dei vagoni.
Così quando mia madre andava a trovare i parenti in via Bra la costringevo all’andata e ritorno a fermarsi nel negozio di collezionismo in corso Giulio Cesare 110.
Appunto,  Artuffo. Partenza da via Cherubini 64. Tutto corso Giulio Cesare fino in via Bra al 9. Nelle puntatine più interessanti fermata nel negozio di libri e fumetti usati di Becutti.
Ex operaio della Grandi Motori licenziato per rappresaglia. Penso di non averlo mai sentito parlare in italiano. Tra un sigaretta e l’altra raccontava della sua attuale libertà. Erano due fratelli e Laura Becutti fu tra le prime interpreti di russo di tutta Italia. Rimase nubile e si favoleggiava di uno struggente ed impossibile amore con un Maresciallo dell’Armata Rossa. Crrscendo chiedevo e desideravo sempre nuovi accessori per il trenino. Sempre a Natale regalone da parte Fiat. Mio padre arrivava a casa con dei buoni per giostre e giochi. Anche qui scarpinata fino in corso Giulio Cesare angolo via Palestrina, tram n. 15 e fermata in via Nizza all altezza di Torino Esposizioni. Sulle giostre ero indeciso sulla scelta. Tot buoni tot giri. Non si poteva e doveva sgarrare. Infine il pacco dono. Eccolo li’ un nuovo trenino marca Lima. Non era tedesco ma andava bene lo stesso. Nei giorni successivi misi in croce mio padre perché stavolta il plastico lo volevo costruire io. Sabato pomeriggio partimmo a piedi,  obbiettivo il falegname di fiducia al fondo di via Palestrina. Direi 2 km ad andare ed altri due al ritorno che mio padre si fece con il grezzo del plastico. Che impresa, ovviamente una sua impresa. Ed io non volevo essere da meno. Per la prima volta ( forse l’unica) decisi un metodo di applicazione e lo perseguii. Il lunedì ( come il cacio sui maccheroni ) arrivo’ la proposta dell’ insegnante di applicazione tecnica. Chi si offriva  volontario per realizzare un plastico con trenino? Mi proposi entusiasta. Una  settimana di tempo per presentare il progetto per l’approvazione e 2 mesi per realizzarla. Indubbiamente diedi il meglio. Adattai il trenino Lima al progetto: Far West. Unico atto di mio padre il calcolo della pendenza per superare un guado con ponte. Lavorando ogni serata dalle 20,  in poi. Manco la televisione vedevo più. In compenso ascoltavo la radio e mi dilettavo. Materiali: pongo cikiratoto Dask ( mastice ) e il Traforo annesso con seghetto. Un esempio era la costruzione della palizzata o dei muri,  diciamo così, simile al legno. Incollavo stuzzicadenti ad un rettangolo di compensato. Tagliavo le punte e poi pitturavo di marrone testa di moro. Fatti i muri montavo piccole casette. Geniale no?
Il Dask per gallerie e monti. Il pongo per collinette ed addobbi. Sotto casa, in piazza Crispi c‘era l’ elettricista, il  decoratore e la cartoleria. Fantastico no? Nel plastico c’erano anche linee telefoniche e l’ illuminazione a gas in città. Far West, meta’ ottocento. Giuro sono stato preciso fino all’ eccesso. Purtroppo i grandi amori a volte vengono spazzati via da grandi delusioni. Puntavo al voto 10. Appunto la perfezione.
Ottenni solo 8. Per il Professore c’erano delle sbavature. Ammetto, tutto sommato, dopo oltre cinquant’anni mi brucia ancora.  Brucia ancora ma sono convinto che molto mi ha insegnato. Aveva ragione mio padre : un modo di sviluppare l’intelligenza è quello di sviluppare le attività manuali. Sbaglierò ma si imparava meglio in questo modo che non solo davanti ad un video. Non mi ha mai abbandonato l’idea di cercare andando in biblioteca per scrivere una ricerca didattica. So perfettamente dI essere, almeno in questo caso, un uomo d‘altri tempi.  Concedetemi di non riconoscermi in questo tempo , dove in cinque minuti si è già consumato tutto. Mi si lasci (cortesemente) la dolcezza dei ricordi di oltre 50 anni fa.

Patrizio Tosetto