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Giulio Einaudi e lo Struzzo che non mise mai “la testa sotto la sabbia”

Lo spirito digerisce le cose più dure”, era il motto della casa editrice Einaudi. A raffigurarlo, nella marca editoriale, uno struzzo che stringe un chiodo nel becco e, sullo sfondo, un paesaggio con un castello.

A fondarla, il 15 novembre 1933, l’appena ventunenne Giulio Einaudi. La prima sede era a Torino, al terzo piano di via Arcivescovado 7, nello stesso palazzo che era stato sede del settimanale L’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci. Da lì la casa editrice si spostò in piazza San Carlo e, successivamente, al n.2 di via Biancamano. Nato a Dogliani, nella Langa cuneese, patria del Dolcetto ( il padre Luigi , fu il secondo presidente della Repubblica Italiana; il figlio Ludovico è il noto musicista e compositore), Giulio frequentò il Liceo classico Massimo d’Azeglio a Torino, partecipando in seguito alla “confraternita” di ex-allievi fra i cui membri figuravano Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Fernanda Pivano, Vittorio Foa, Giulio Carlo Argan, Ludovico Geymonat, Franco Antonicelli e molti altri. Quasi tutti collaborarono e pubblicarono per la casa editrice dello Struzzo, accanto ai nomi più importanti della cultura italiana del ‘900. Fu Einaudi, tra l’altro, a pubblicare nel dopoguerra  i  “Quaderni e le Lettere dal carcere” di Gramsci. Scriveva, Norberto Bobbio: “E’ uno struzzo, quello di Einaudi, che non ha mai messo la testa sotto la sabbia”. E come dar torto al filosofo del dubbio? Dopo più di sessant’anni di lavoro come editore, Giulio Einaudi andò in pensione nel 1997 (morì  due anni dopo, all’età di ottantasette anni) lasciando in eredità un lavoro immane che – nel tempo – ha fatto di Torino una delle capitali europee della cultura. Eppure non c’è un luogo, nella toponomastica della prima capitale d’Italia, che porti il suo nome. Tranne, come ricorda qualcuno, quella “E” sul citofono dell’ultima sua dimora, al n. 8 di via Pietro Micca.

Marco Travaglini

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Mazo de la Roche “I frutti di Jalna” -Fazi Editore- euro 19,50

E’ il quinto capitolo della monumentale saga canadese che la scrittrice Mazo de la Roche scrisse tra 1927 e 1960, con al centro le vicende della tenuta della famiglia Whiteoak (di origini inglesi), nella natura selvaggia dell’Ontario, e dei suoi abitanti che si succedono negli anni.

Il racconto riprende da dove si era fermato nel precedente “Il padrone di Jalna”, ora la famiglia cresce, mentre i rapporti tra i suoi membri, tra ritorni e partenze definitive, sono sempre complicati.

Tanti capitoli che ci aggiornano sull’evoluzione di tensioni che già abbiamo conosciuto nei volumi precedenti e che qui si sviluppano ulteriormente.

Renny e Alyne all’inizio del quinto capitolo sono ai ferri corti per il tradimento di lui con Clara, che però è pronta ad andarsene visto che Renny non le offre un futuro insieme.

Alyne -che di Whiteoak ne ha sposati ben due (Eden, prima del fratello Renny)- capisce di non appartenere veramente alla famiglia e se ne va a New York presso una zia, decisa a voltare pagina e mettere una distanza definitiva tra lei e Jalna.

Renny rimane con la piccola figlia Adeline da crescere.

Il piccolo di casa, Wakefield, ora maggiorenne, nel passaggio dall’adolescenza alla maturità rompe il fidanzamento con Pauline per farsi monaco, una decisione radicale e inaspettata per la famiglia.

L’altro Whiteoak, Finch, nonostante il successo come pianista ottenuto in Europa, lascia Parigi e torna a Jalna con la moglie Sarah.

La coppia è in crisi e minaccia di travolgere gli equilibri familiari. Inoltre si presenta con una sorpresa; ha con se Patience, la bambina che Eden aveva avuto da Minnie, ma ora non può occuparsene perché è ricoverata in un sanatorio svizzero.

E vedremo se andrà a fare compagnia alla viziata e coccolata Adeline.

Dunque personaggi che abbiamo già seguito nei romanzi precedenti, ma anche interessanti new entry, come Sarah la moglie di Finch, e Miss Archer, la zia newyorkese presso la quale Alyne si è rifugiata…. con in serbo pure una sorpresa….

Dunque lo scorrere complesso della vita, tra pressanti preoccupazioni economiche e il timore costante di perdere la casa e con essa le radici della famiglia, tempeste affettive con fughe, fidanzamenti in frantumi e nuove nascite…..la vita che va avanti.

 

Annalena Benini “Annalena” -Einaudi- euro 17,50

E’ una figura monumentale quella di Annalena Tonelli, missionaria laica che ha dedicato la sua vita agli ultimi della terra, per 30 anni in Africa, uccisa da un commando nel 2003.

A ricostruire la sua vita, unica e incredibile, è la giornalista, autrice televisiva e scrittrice Annalena Benini, nuova direttrice del Salone del Libro di Torino. Stesso nome e un legame di parentela con la sua lontana cugina.

Le due non si sono mai incontrate, ma la Benini sembra essere entrata nella testa e nell’anima della sua omonima, che porge al lettore un ritratto a tutto tondo di una donna che ha dedicato ogni sua fibra al prossimo, fino al sacrificio estremo.

Annalena Tonelli nasce a Forlì il 2 aprile 1943, seconda di 5 figli. E’ bella, intelligente, studiosa, vince una borsa di studio in America a 19 anni. L’aspetta una vita formidabile, ma non nel senso comune.

Non aspira all’amore di un uomo, né di una famiglia e dei figli.

La sua è una visione più ampia, una vocazione assoluta che la conduce a rinunciare a tutto per mettersi al servizio di chi non ha nulla. Il suo è amore cosmico per l’umanità e i suoi figli sono tutti i disperati della terra.

Dopo la laurea in Giurisprudenza (presa per accontentare i genitori) nel 1970 punta dritta verso l’Africa, nel Nord ovest del Kenya.

Nel deserto del Wajir inizia innamorandosi degli ammalati di tubercolosi delle tribù nomadi. La sua vita è decisa. Rinuncia a qualsiasi comodità, dorme per terra come i poveri che aiuta, mangia poco nulla e dedica tutte le sue energie a curare, istruire, costruire scuole e ospedali.

E’ inarrestabile, per 30 anni salva vite umane rischiando la propria e fa un lavoro immenso, impedisce massacri, tra Kenya e Somalia, e ovunque l’Africa abbia bisogno di lei.

Una vita di felicità assoluta perché dedicata a chi non ha nulla e appagata dal condividere le loro vite di stenti. Dedizione assoluta, sprezzo dei pericoli che corre; è stata maltrattata, rapita, picchiata, diffamata e odiata.

Ma il suo era un disegno molto più grande di tutto questo: era madre, sorella, figlia, medico, maestra, al servizio di quelli che chiamava brandelli di umanità ferita, amati da nessuno, se non da lei.

La sua vita quasi mistica viene fermata da proiettili vigliacchi alla nuca, a Borama, il 5 ottobre 2003 prima di riuscire a vedere completata la nuova ala dell’ospedale per malati di tubercolosi.

Non temeva la morte e ora le sue ceneri sono sparse intorno all’eremo di Wajir, in Kenya, dove sognava di tornare e dove ora starà per sempre.

 

 

Mavie Da Ponte “Fine di un matrimonio” – Marsilio- euro 19,00

E’ il primo romanzo della spumeggiante giovane scrittrice italo francese dal profilo Instagram con 35mila followers, e due anni fa ha aperto un blog letterario in cui pubblica racconti brevi. E’ subito chiaro che la sua passione è scrivere, tra Parigi e Bari che è casa sua. Ora ha appena pubblicato un corposo romanzo in cui narra il terremoto emotivo di un divorzio.

Berta è una donna prossima alla cinquantina che ha una galleria d’arte, è sposata da 15 anni con il ginecologo Libero; non hanno figli, bensì il loro consolidato tran tran quotidiano che però sta per finire. Una sera lui arriva e senza tanti giri di parole le dice di avere un’altra donna e di volere il divorzio.

Mai fulmine fu più a ciel sereno e per Berta è come ricevere uno schiaffone che la manda al tappeto. E’ l’inizio di un viaggio nell’inferno interiore tra delusione, senso di solitudine, metabolizzazione di un tradimento, rimessa in discussione della propria vita. Tutto avviene senza scenate o recriminazioni; lei reagisce quasi in silenzio, ripensando alla sua vita, a quel matrimonio appena sfracellatosi, e soprattutto a come ricostruirsi una vita.

Mavie da Ponte ha scelto di raccontare in modo estremamente lineare come una donna di 47 anni si trovi sull’orlo di un gigantesco burrone.

Cade, si spezza e si piega, poi scatta la volontà ferrea di risalire la china.

Rispolvera -anche se a fatica e sbagliando strada facendo- le dinamiche di un nuovo amore al quale dare la possibilità di una storia nuova.

Il romanzo racconta proprio il nuovo inizio che la protagonista si costruisce a piccoli passi, con coraggio e tenacia, cercando di stare bene…. anzi, possibilmente, meglio di prima.

 

 

Costanza DiQuattro “Arrocco siciliano” -Baldini+Castoldi- euro 18,00

Ha un po’ il sapore di altri tempi l’ultimo romanzo della talentuosa scrittrice siciliana (nata a Ragusa nel 1986) che oltre ad averci regalato altri libri bellissimi (il primo “La mia casa di Montalbano” nel 2019) dal 2008 si occupa anche del Teatro Donnafugata. Teatro di famiglia che dopo un lungo restauro è tornato in attività grazie a lei.

E la passione teatrale fa capolino anche in “Arrocco siciliano” che vanta uno scorrevole ritmo perfetto per una pièce sul palco.

La vicenda è ambientata nell’incanto barocco di Ibla, paesino siciliano dove si conoscono tutti e la vita scorre con una lentezza antica.

Pochi avvenimenti eclatanti e la consolidata abitudine di ruotare intorno a due luoghi di ritrovo prediletti, in cui incontrarsi e spettegolare di piccole cose del quotidiano.

Sono il Caffè 900 e la farmacia del paese, dove più che per pillole e sciroppi si va per curare anche l’anima con i rimedi forniti dalla saggezza del farmacista, personaggio strategico e punto di riferimento della comunità.

Il romanzo inizia nel 1912 proprio con il funerale dello storico farmacista Filippo Albanese che era stato l’uomo più affidabile del paese, stimatissimo e amato, al quale i compaesani avevano confidato segreti e stati d’animo da sempre.

Il dolore per la perdita accompagna la vedova, ma quello che più cattura l’attenzione dei compaesani è l’arrivo inaspettato di un giovane napoletano mai visto prima, Antonio Fusco, che il defunto avrebbe designato come suo successore.

Partono immediati curiosità, commenti, diffidenza, ipotesi e tanto altro riguardo al forestiero. La vedova Albanese lo accoglie come il figlio che non ha mai avuto, fiduciosa della saggezza delle disposizioni lasciate dal marito.

Ben diverso è l’approccio dei notabili del paese e dei cittadini che lo mettono sotto una spietata lente di ingrandimento… e si scatenano in pettegolezzi e illazioni.

Chi sia Antonio Fusco lo scoprirete poco a poco e con continue sorprese dosate con maestria dalla scrittrice, che mette in scena un certo clima di provincia, e ci svela per gradi la storia di quell’uomo in fuga dal suo passato, i suoi errori e debolezze.

Ancora una volta Costanza DiQuattro fa centro con un romanzo che scava sotto la superficie delle convenzioni e mette a nudo anfratti dell’anima.

 

Chiacchiere tra cadaveri etnicamente diversi

Quando la guerra bussa alla tua porta, non sai mai cosa potrà accadere. Lo scoprirai solo strada facendo. Forse lo potrai raccontare, se saprai sopravvivere all’orrore”. Così inizia la nota in quarta di copertina di Chiacchiere tra cadaveri etnicamente diversi ( Infinito edizioni, 2023), l’ultimo libro di Luca Leone, giornalista e scrittore tra i più attenti e profondi conoscitori della Bosnia e dei Balcani occidentali. Un libro diverso, una silloge poetica composta da versi asciutti, duri, essenziali dove pare che l’autore abbia scelto di riversare le emozioni e i ricordi di trent’anni di viaggi e di incontri nel cuore dell’Europa di mezzo, soprattutto in terra bosniaca ed erzegovese dove tutto sembra impastato con il sangue di un popolo martoriato da un conflitto che non ha mai cessato di produrre sofferenze e dolore anche dopo che le armi hanno taciuto. In Chiacchiere tra cadaveri etnicamente diversi sono i sommersi e i salvati della decade malefica dell’ultimo scorcio del secolo breve che animano le trentaquattro poesie, riesumando e rianimando storie di persone e paesi che hanno conosciuto guerre e violenze, fame e morte sotto il tiro dei cecchini, amputazioni per gli scoppi delle granate, la pazzia e l’odio del nazionalismo portato agli eccessi e la pulizia etnica, terribili miserie umane e incredibili lampi di generosità e condivisione. Una realtà che pesa come una sorta di maledizione per un paese, la Bosnia, tanto bello quanto disgraziato. Ha ragione Andrea Cortesi quando, nella sua presentazione, afferma che questo è forse “il più intimo, personale e sofferto libro che Luca Leone abbia mai scritto”. In poemi come E’ tempo si condensa la storia recente del paese che rappresentava il cuore più jugoslavo della Jugoslavia, una storia di conflitti e di terribile pace segnata anche dal fallimento dell’Occidente e dell’Europa, dove “i fantasmi del ’93 cercano attoniti un ponte che non c’è. A Mostar l’aria è grave d’esplosioni d’intonaci e tetti saltati e sbriciolati. Volano, danzano schivando granate che piovendo dilaniano popoli alla fame. A Mostar la Neretva è rosso sangue d’un odio sconosciuto ma eccitante. E gridano esaltati i generali: crepino i cattolici, schiattino i musulmani. E scannano sedotti i militari: a morte gli ortodossi, nel fiume i musulmani. E’ tempo di distruzione. Giacciono nuvole di sporco in superficie, gelide osservano le alte ciminiere. A Zenica è di nuovo blu la Bosna ma il cielo è un coperchio che isola e sconforta. Tremano le anime di donne oltraggiate, vittime impotenti di guerre programmate. Assolti e affrancati, soldati e mercenari banchettano coi corpi di civili ignari. Gridano assetati i generali: stuprate i cristiani, violentate i musulmani. E’ tempo di distruzione, di utile disperazione, di nuovi ricchi, di chierici contenti. E’ tempo di trasformazione, di nuova occupazione, di bui nazionalismi, di mafia e di fascismi”. La poesia di Luca Leone, come scrive Silvio Ziliotto nell’introduzione, è una risposta a un malessere quasi fisico, a un dolore morale lancinante dovuto ad anni di narrazione, confronto, scontro, denunce, amarezze, tante altrui bassezze nel raccontare e capire la Bosnia Erzegovina. Per questo si può comprendere perché i versi sembrano di carta vetrata, stridenti anche quando esprimono sarcasmo e sconcerto o diventano un urlo strozzato che cerca di riscattare le vittime di quella come di tutte le guerre. Un libro diverso ma non meno importante di Srebrenica, i giorni della vergogna, Višegrad o La pace fredda, dove ancora una volta si chiede e si reclama giustizia perché un popolo torni a sperare, per risollevare cuori intimoriti, per riprendere a vivere e a progettare il futuro. Una giustizia che deve partire dal cuore di ciascuno senza coprire quel sangue con lo sporco dei nazionalismi, dell’indifferenza, della distrazione, dell’oblio. Un compito difficile ma necessario perché come scriveva Predrag Matvejević, uno dei più grandi intellettuali jugoslavi del XX secolo, “i tragici fatti dei Balcani continuano, non si esauriscono nel ricordo, come avviene per altri. Chi li ha vissuti, chi ne è stato vittima, non li dimentica facilmente. Chi per tanto tempo è stato immerso in essi non può cancellarli dalla memoria”.

Marco Travaglini

Seguendo la stella

 

Si intitola Seguendo la stella il libro di Federica Mingozzi e Laura Travaini pubblicato da Geo4Map. Un piccolo gioiello editoriale che, avvalendosi della grafica di Mariella Tavarone e delle fotografie di Fabio Valeggia, propone un originale percorso sulle tracce delle Natività nel cuore del Cusio, il più romantico dei laghi italiani, tra l’isola di San Giulio, il Sacro Monte dedicato a Francesco d’Assisi e il borgo di Orta. Le oltre trecento pagine corredate da illustrazioni, foto, disegni e mappe accompagnano il lettore alla scoperta di uno degli angoli più suggestivi del Piemonte, celebrato da poeti, narratori e artisti.  Le sei Natività che si incontrano in questo percorso tra arte e fede sono ospitate in quattro luoghi di culto. La Basilica di San Giulio che la tradizione vuole sia stata la centesima chiesa edificata attorno al 390 dal santo originario dell’isola greca di Egina proprio sull’omonima isola del lago d’Orta, ospita le prime tre Natività: l’affresco datato 1486 con Maria e Giuseppe in atteggiamento orante mentre guardano con devozione il Bambino, adagiato per terra su un lembo del manto della Vergine, vegliato da un angelo e adorato dai pastori; l’affresco del Presepe che risale alla prima metà del XVI secolo e l’adorazione dei pastori, un olio su tela datato XVII secolo di autore ignoto anche se si ipotizza si possa trattare del pittore piemontese Giuseppe Vermiglio o del lombardo Giovanni Mauro della Rovere, noto come il Fiammenghino Maggiore. Nella chiesa della Santissima Trinità, al centro di Orta, si può invece ammirare la Natività di nostro Signore, olio su tela datato XVII secolo , opera attribuita al varesino Federico Bianchi. La quinta Natività si trova nella chiesa di San Bernardino, piccolo scrigno di bellezza nel borgo ortese, e rappresenta la Nascita di Gesù, una ancona lignea policroma datata fine XV – inizio XVI secolo con San Bernardino in ginocchio mentre adora il Bambino. Per vedere la sesta e ultima Natività occorre salire al Sacromonte e visitare la chiesa di San Nicolao che custodice  il dipinto raffigurante la nascita di Gesù, un olio su tela realizzato ante 1618 dal bolognese Camillo Procaccini. In origine l’opera era posizionata sull’architrave della prima cappella del Sacro Monte, dedicata alla nascita di San Francesco, unico caso di dipinto su tela presente in questo percorso devozionale. Ma il volume curato da Federica Mingozzi e Laura Travaini , utilizzando questo percorso d’arte come un filo conduttore dell’anima più vera del progetto, propone anche molto altro con riferimenti letterari, digressioni storiche, suggerimenti per una vacanza intelligente, percorsi in un ambiente unico tra boschi e laghi, curiosità gastronomiche  e culinarie coinvolgendo altri autori. Così si ritrovano, all’inizio di ogni capitolo, le riflessioni di Matteo Albergante e Roberto Cutaia, Alessandro Defilippi, Giovanna Mastrotisi, Gianfranco Quaglia, Bruno Quaranta, e dell’ortese Luisella Mazzetti. Fanno da contorno le osservazioni psicologiche di Maina Mainardi, i vini di Filippo Larganà e di Giovanni Brugo, le cartine artistiche di Patrizia Genta, i presepi di Letizia e Oscar Pennacino, le merende della cuoca JoGuendalina, le indagini tra le memorie rodariane di Barone, le parole spiegate da Elena Mastretta e tanti altri protagonisti. Un insieme che si muove con garbo e misura, in punta di piedi, con ritmi piacevoli come la danza di Selene Bonetti e la musica di Roberto Storace. Così, tutto d’un fiato, l’incidere del viaggio va oltre il Cusio attraversando il Verbano, toccando il Novarese, sfiorando il Piemonte. Come confessa Laura Travaini, scrittrice e vulcanica organizzatrice di eventi letterari e culinari, fondatrice e presidente dell’associazione Scrittori e Sapori “ con uno stile guizzante è nato un libro scintillante di stelle, mosso da piacevolissime onde lacuali, ricco dei colori digradanti delle alture, percorrendo il quale cose rare e preziose potrebbero essere rivelate. Ci sono molti modi per conoscere Orta San Giulio. Uno può essere quello di percorrerne le vie, attraversarne la piazza e le piazzette, raggiungere con un’imbarcazione l’isola, spingersi fino al Sacro Monte seguendo l’itinerario che conduce alla scoperta delle raffigurazioni artistiche di Natività”. Ed è esattamente ciò che propone Seguendo la stella.

Marco Travaglini

I segreti della Sindone nel libro di Paolo Antinucci

“Vedere la Sindone”, autore Paolo Antinucci, è il titolo del volume che verrà presentato al Circolo dei Lettori lunedì 12 giugno prossimo, presso la Sala della Musica

 

Lunedì 12 giugno prossimo, alle 18, al Circolo dei Lettori, si terrà la presentazione del volume “Vedere la Sindone” JouvenceMimemis Edizioni. Il sottotitolo è “Indagini sul suo vero autore”.

Il volume è  a firma di Paolo Antinucci, studioso di Estetica e di Ermeneutica, autore di studi sui linguaggi artistici e gnoseologici, curatore di mostre e convegni. Con l’autore dialogheranno Andrea Nicolotti e Rodrigo Boggero.

La Sindone è da sempre stata oggetto di mistero.  Ciò appare all’autore incontestabile e, anzi, la maggior parte di coloro che la studiano ne alimentano ancor più il mistero. Si sono tramandate e dette molte falsità sulla Sindone. L’autore si chiede perché l’uomo continui a guardare la Sindone e cosa cogliamo quando la guardiamo.

Oltre un secolo di speculazioni sulla sua autenticità ne hanno disinnescato il reale potere e la vera funzione. Demolendo e svelando queste argomentazioni storiche e scientifiche, o pseudoscientifiche, l’autore ne elabora una concenzione nuova, ben lontana da uno sterile scetticismo, per la quale la Sindone ha valore proprio perché  falsa. Ha un potere in sé e per sé, in quanto oggetto artistico e non reliquia. Il suo fascino è potentissimo, il suo magnetismo forte e innegabile e l’assurdità della sua stessa concezione risiedono nella sua artisticità e non autenticità. Secondo Paolo Antinucci la Sindone è  un oggetto estetico per eccellenza, un artefatto, non una frode.

L’autore si interroga su chi possa esserne stato il misterioso creatore di cui si vagheggia già a partire dai documenti più antichi. Dall’indagine emerge prepotentemente un nome che getta una luce nuova sul Medio Evo.

MARA MARTELLOTTA

‘Il comandante restò sulla collina’, un avvincente “romanzo verità”

Il 4 maggio del 1949 l’aereo FIAT G.212 che riporta in Patria il Torino si schianta sul colle di Superga. L’urto è terribile e nessuno verrà risparmiato dalla Grande Mietitrice, né i giocatori, né i dirigenti, i tecnici e gli accompagnatori, né i componenti dell’equipaggio. Ai comandi dell’aereo c’è Pierluigi Meroni, ufficiale pilota con alle spalle moltissime ore di volo, pluridecorato di guerra e istruttore di volo cieco nell’Aeronautica Militare, secondo pilota è Cesare Bianciardi (per una singolare coincidenza in precedenza, in guerra, era stato superiore di Meroni), il motorista Cesare D’Incà e il radiotelegrafista Antonio Pangrazzi. Da quel dramma il Grande Torino entra nella leggenda ed è ancora oggi vivo nel ricordo collettivo. Sul comandante Meroni e sull’equipaggio, invece, è calato quasi un velo di obblio che si è ispessito nel corso degli anni. E quando di parla di Meroni per gli sportivi la mente corre a Gigi Meroni calciatore del Torino e della Nazionale, morto investito da un’auto mentre attraversava la strada. A squarciare questo velo di obblio arriva un bel libro di Luigi Troiani, ‘Il comandante restò sulla collina’, edito per i tipi di Morrone Editore. In quasi 270 pagine l’autore ricostruisce, sotto forma di romanzo (anche se in realtà di romanzato c’è ben poco) la vita e la carriera di Pierluigi Meroni e della sua famiglia, in particolare nei ricordi di Giancarlo, il primogenito, che quando perse il padre aveva nove anni e due fratelli più piccoli. Non si aspetti il lettore di trovare un libro tutto incentrato su quanto accadde a Superga. Certamente l’autore, che è amico da sempre di Giancarlo Meroni, ne parla nell’ultima parte facendo anche alcune considerazioni sull’aereo che ‘rimase sulla collina’ (dei 12 esemplari costruiti ne risultano caduti almeno 6), viene descritto il rito funebre alla presenza della moglie e dei figli, ma il racconto si sviluppa attraverso la storia della famiglia Meroni avendo sullo sfondo l’affresco di un’Italia che non c’è più, quella dell’anteguerra, della guerra e del dopo guerra, che nel corso dei decenni ha letteralmente ‘cambiato pelle’. E’ un libro dove di storia e di umanità ce ne sono tante, che rimette al giusto posto nella storia figure come quella di Meroni e del suo equipaggio che tanto diedero in guerra ed in pace. ‘Un avvincente e convincente romanzo-verità’ l’ha descritto il critico letterario ed ex presidente Rai Walter Pedullà.

Luigi Troiani, l’autore, è docente di relazioni internazionali, conferenziere, opinionista (America Oggi, La Voce di New York), poeta e, amico da sempre di Giancarlo Meroni.

Il testo è stato presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino 2023.

Mi permetto in coda a questa breve nota su ‘Il comandante restò sulla collina’. Come viene ricordato nel testo, la famiglia Meroni abitava a Milano in via Carpi. Qui abitava anche un’altra famiglia, i Gindari. Dopo la tragedia di Superga, Francesco Gindari acquistò dalla signora Meroni la lambretta del Comandante. Il caso della vita vuole che la figlia di Francesco, Marisa, sposò Marco Iaretti nel 1972, rimasto vedovo di Lucia nel 1969, con due figli, che Marisa crebbe come suoi e che la considerarono sempre una seconda Mamma senza se e senza ma. E ai figli raccontò, senza aggiungere molto d’altro di quella lambretta. Uno dei figli scrisse un articolo tre anni fa su iltorinese.it ‘Superga, il comandante Meroni e quella Lambretta in via Carpi’ dicendo che gli sarebbe piaciuti incontrare, parlare con i figli o i nipoti del comandante. Ed è rimasto letteramente di stucco quando ha ricevuto una mail del professor Troiani in cui ha appreso del libro e del contatto. E’ proprio vero che la vita è una sorpresa continua.

Massimo Iaretti

Laura Sugamele, “Corpo femminile e violenza politica”. Lo stupro tra nazionalismo e conflitto etnico

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La scrittura di questo libro è il risultato di un lavoro di ricerca complesso

L’autrice

Laura Sugamele filosofa e dottoressa di ricerca. È docente in filosofia, storia e scienze umane. Si occupa di reificazione del corpo femminile, violenza sessuale come questione politica e relazioni tra patriarcato, nazionalismo e guerra, temi che l’autrice ha sviluppato nel libro “Corpo femminile e violenza politica. Lo stupro tra nazionalismo e conflitto etnico” (Stamen 2022 / Collana Studi).

Di cosa parla il suo libro?

Il libro è incentrato su una riflessione che tenta di mettere in connessione due questioni principali: il corpo femminile e lo stupro come violenza politica. La connessione tra corpo femminile e violenza politica viene esaminata, considerando quelle rappresentazioni patriarcali che, sin dalle fasi più remote della storia umana, hanno determinato una identificazione sociale e culturale della donna con il suo corpo, un corpo che, in una specifica “narrazione” maschile-patriarcale, è stato considerato in termini per lo più sessuali, riproduttivi e procreativi e proprio questo aspetto, nel libro, viene collegato alla questione dello stupro etnico in Bosnia.

Il suo libro è frutto di un lavoro di ricerca?

Si certamente. La scrittura di questo libro è il risultato di un lavoro di ricerca complesso e per la sua elaborazione ho deciso di adottare un metodo multidisciplinare, nel senso che l’approccio adoperato è stato diretto ad una integrazione di diverse linee teoriche, non collocabili esclusivamente nell’ambito della teoria politica femminista, a cui nel testo, comunque, viene fatto riferimento, ma che riguardano anche l’ambito filosofico piuttosto che storico-antropologico.

Nel libro, lei parla di corpo femminile collegando il tema alla connessione tra virilità sessuale, identità nazionale e guerra. Perché?

Come ho già sottolineato nella risposta precedente, il tema del corpo femminile, della reificazione sessuale e della violenza politica è piuttosto ampio, per cui ho compreso la necessità di adottare una prospettiva di riflessione più larga. Per tale ragione, la riflessione che ho affrontato nel libro, non poteva escludere ulteriori aspetti come la connessione tra virilità sessuale, identità nazionale e guerra (quest’ultima come dimensione patriarcale), i quali, in una prospettiva storica, hanno influito sul piano di una costruzione culturale e dicotomica, oltre che su una categorizzazione sessuale uomo-donna.

Negli ultimi capitoli, soprattutto nel quinto, lei collega la questione della reificazione del corpo allo stupro come “arma” politica di guerra. Cosa intende?

Nel quinto capitolo e in parte nel sesto, mi sono occupata della questione della reificazione del corpo femminile esaminando gli stupri etnici che hanno caratterizzato la guerra in Bosnia (1992-1995). Dalle ricerche che ho svolto per la scrittura del mio libro, ho potuto notare, quanto nella dimensione conflittuale e di guerra, legata alla contrapposizione tra i gruppi etnici, il corpo delle donne sia diventato, immediatamente, il centro delle azioni militari e delle violenze che, all’epoca del conflitto, erano finalizzate ad uno scopo politico ben preciso: quello della “purificazione” etnica, alla cui base vi era anche il riferimento ad una ideologia politica e nazionale che in ex-Jugoslavia, specialmente nella fase post-titina, ha prodotto un sostanziale incardinamento del ruolo femminile sulla sfera domestica e in particolare su quella sessuale.

In che senso le violenze sono politiche?

Il riferimento che io faccio nel libro, in merito agli stupri di massa contro le donne della Bosnia, mette in evidenza la profonda connessione che vi è tra stupro e ideologia politica, nel momento in cui “coloro che commettono gli stupri” affermano, in modo tangibile, l’intenzionalità dell’atto, che è politico e ciò, dal mio punto di vista, ha sempre caratterizzato la storia umana con i suoi conflitti e le sue guerre, poiché violentare la donna determina una lesione dell’onore sessuale e sociale del gruppo, della comunità o della nazione considerata nemica e a cui lei appartiene.

L’ultimo capitolo è incentrato sulle iniziative femminili nella Bosnia post-bellica. Potrebbe spiegarsi meglio?

Nell’ultima parte del libro, rispetto alla questione dello stupro, le cui conseguenze hanno impattato sulla vita delle donne non solo sul piano fisico, bensì su quello psicologico laddove, stupro ed eventuale gravidanza sono sinonimi di stigmatizzazione sociale, mi sono focalizzata sulla possibilità dell’elaborazione del trauma e ciò è avvenuto, grazie alla mobilitazione di associazioni come “Donne in Nero” di Belgrado che, all’epoca del conflitto e in fase post-conflitto, ha dato un contributo importante per aver sostenuto le donne vittime di violenza, dando loro non solo la possibilità di un reinserimento nel tessuto sociale di appartenenza, ma facendo comprendere alle stesse donne, anche la necessaria e personale rielaborazione del dolore rispetto all’esperienza e al trauma vissuto. In ambito internazionale, passi decisivi sono stati compiuti dal Tribunale delle donne di Sarajevo e, in tal senso, vanno citate anche le conferenze sui diritti umani di Vienna del 1993 e di Pechino sulle donne del 1995. Tali eventi hanno spinto infatti, in favore della protezione dei diritti, della formazione dell’empowerment femminile e della “sicurezza di genere”, tuttora, nozione cardine su cui stabilire iniziative rivolte alla sicurezza e alla tutela delle donne in situazione di confitto armato.

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Maria Elena Romano,”Un pomeriggio per caso”: le cose accadono per un motivo

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IL ROMANZO

Elisa è una trentenne come là fuori ce ne sono tante…Piena di sogni, di energia e voglia di vivere. Ha tanti sogni e pochi cassetti in cui riporli, al punto che alcuni di essi sono stati spediti nell’angolo più remoto dell’anima, in una zona poco illuminata e fredda, posti sotto la stretta sorveglianza della Paura.


Elisa è una ragazza fragile e forte, spigliata, ma anche tanto introversa. È una di quelle persone che si perdono alla vista di un bel fiore, o un profumo sentito per caso sulla metro o sull’autobus; una di quelle persone che amano fino allo sfinimento e annaspano tra le loro paure perché in fondo temono terribilmente la sofferenza. Una sofferenza che Elisa già conosce fin troppo bene.

Non soffermarti ad osservare il mondo dalla finestra…”, le disse suo padre prima di morire. Avrebbe tanto voluto seguire il consiglio dell’uomo più importante della sua vita, ma, ora che non c’era più lui a farla sentire amata e protetta, era ancora più complicato mantenere quel monito. Si sentiva come un randagio rannicchiato sotto un’auto durante un temporale: sola e indifesa. Sarà lo zio Mario a curare le sue ferite e carezzare le sue cicatrici. Mario non è davvero lo zio di Elisa, è un amico di famiglia, ma se ne prende cura come se lo fosse. Ben presto un trovatello farà capolino nella vita di Elisa e sarà per lei un importante e “silente” compagno, un particolare buffo animaletto che le donerà un amore indescrivibile.

Attraverso i suoi pensieri, i suoi sogni e le vicende che si susseguiranno, faremo compagnia ad Elisa nel suo cammino alla ricerca di una felicità che ad oggi le appare soltanto come una mera illusione data dai media e dalla religione. Le faremo compagnia all’interno della sua soffitta, mentre passeggerà nel viale dei ricordi di una famiglia sgretolata, disciolta come un castello di sabbia colpito dalle onde inesorabili del mare. Ciò che, però, nasconde quella soffitta è ben più di ciò che la stessa Elisa si aspettava.
Non tutto passa per il libero arbitrio, spesso nella vita di tutti i giorni veniamo posti in situazioni singolari, che fanno echeggiare nella nostra mente “…E se fosse stato destino?”.

Questo romanzo ci ricorda che ci sono cose che accadono per un motivo. Il caso non esiste.

 

L’AUTRICE

Maria Elena Romano nasce a Reggio Calabria il 3 Settembre del 1986. Scrive fin da piccolissima e divora libri come fossero caramelle, spaziando di volta in volta tra diversi generi. Anche nei generi di scrittura non si è mai risparmiata, ha diverse stesure incomplete nel cassetto, ma, per adesso, gli unici scritti che hanno raggiunto la pubblicazione, oltre ad “Un pomeriggio per caso”, sono un racconto breve, “Belinda”, e una fiaba, “Le avventure di Ninni e del bruco Arturo”. Sono il risultato della vittoria conseguita in due competizioni differenti, entrambi concorsi pubblicati da Idrovolante Editore, rispettivamente “L’automobile” e “Fiabe della buonanotte”.

«Mi sono avvicinata anche al teatro nel corso degli anni. Credo che tra teatro e scrittura ci sia ben poco che li separi. L’una è il momento della creazione, dei personaggi e della storia, l’altro è il momento dell’esposizione di tutto ciò che tu o qualcun altro avete precedentemente creato. Probabilmente il ponte tra queste due passioni è il motivo per cui recitare a tutt’oggi mi manca così tanto.»

Durante i suoi anni trascorsi all’Accademia dei Bardi di Roma, ha avuto il piacere di vestire i panni di Elena nel “Sogno di una notte di mezz’estate” di W.Shakespeare. Ha anche partecipato e vinto al concorso “Comic’aria” del 2018 come miglior testo comico, da lei scritto e interpretato.

«C’è molto di me in Elisa, soprattutto quella scalpitante voglia di vivere che è rimasta per un certo periodo imprigionata tra le quattro mura di casa. “Un pomeriggio per caso” ha visto la fine della sua stesura durante i mesi di lockdown, e lì la solitudine si è avvertita parecchio. Nel libro non nomino volontariamente il covid, né faccio menzione a pandemie o simili, nonostante la storia sia ambientata in questi anni. Il motivo è uno soltanto. Scrivevo anche per evadere da tutto quello che mi accadeva intorno e, se avessi permesso al covid di contagiare anche il mio romanzo, sarebbe stata una sorta di sconfitta, considerato l’obiettivo iniziale: evadere. Ancora oggi non me ne pento.»

Attualmente l’autrice sta nel bel mezzo della stesura del suo secondo romanzo, il seguito, che si chiamerà “Un mattino per caso”, e di un altro lavoro di cui preferisce ancora mantenere un certo riserbo.

 

Il libro, edito dalla casa editrice BookSprint Edizioni, sita in Salerno, è disponibile in versione cartacea e in formato e-book e può essere acquistato su Amazon, Google Libri, Feltrinelli e altre librerie online. Può anche essere acquistato sul sito della casa editrice BookSprint al seguente indirizzo: https://www.booksprintedizioni.it/libro/romanzo/un-pomeriggio-per-caso.

 

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Brigitte Giraud “Vivi veloce” -Guanda- euro 18,00

Con questo romanzo la scrittrice, traduttrice, giornalista ed ex libraia, Brigitte Giraud, (nata in Algeria nel 1960), ha vinto il premio Goncourt nel 2022. Un libro sul destino, dove in poco meno di 200 pagine ha ripercorso tutti i micro eventi che hanno portato al fatale incidente di moto in cui ha perso la vita il marito.

Storia di una perdita avvenuta 22 anni fa, il 22 giugno 1999, con la quale ha fatto i conti senza autocommiserazione e con una lucidità razionale sorprendente.

Ha ricostruito quello che definisce «…puro movimento coreografico», ovvero la sequela dei tanti “se” che scandiscono ogni capitolo del libro, nel tentativo di mettere in fila ordinata e cronologica le coincidenze che hanno portato Claude su quella strada, in quel preciso momento e a bordo di una moto maledetta che non era nemmeno sua.

Non si dà risposte, ma semplicemente rivive tappe, minimi avvenimenti e imprevisti che, col senno di poi, sembrano essersi concatenati fino ad invertire quel destino che sembrava pieno di prospettive. E ragiona sui tanti minuscoli segnali che non ha saputo cogliere.

Aveva insisto con Claude per comprare a tutti i costi una nuova casa, da ristrutturare . Lei stava per pubblicare il suo secondo romanzo; lui aveva il suo lavoro come direttore della sezione musicale della biblioteca di Lione, inoltre scriveva articoli come esperto di musica. Avevano un figlio di 8 anni che crescevano con una precisa e armoniosa condivisione di compiti. Tra i quali andare a prendere il bimbo a scuola, Claude a bordo della sua «mansueta Suzuki che guidava pian pianino».

Ma un brutto giorno, il destino beffardo, gli mette davanti la moto del fratello di Brigitte: un pericoloso modello di Honda, una moto da corsa che in Giappone è proibita, mentre viene venduta all’estero, dove miete vittime.

Il caso ci ha messo lo zampino, lei aveva fatto un favore al fratello ospitando il bolide nel garage della nuova casa. Ed è per caso che Claude una mattina cambia la sua solita routine e inforca il bolide del cognato per andare a prendere il figlio. Rispetta l’ultimo semaforo rosso della sua vita, ma quando riparte perde il controllo delle due ruote e quella sarà la sua impennata definitiva.

Brigitte, che al momento era a Parigi per incontrare il suo editore, ospite di un’amica, scoprirà al ritorno la tragedia sulla quale non smette più di interrogarsi con tutta la sequenza dei “se” che costellano la vita di tutti noi.

Banalmente, basta trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato…..e una frazione di secondo può fermare il nostro percorso per sempre, stravolgendo tutto. Un bellissimo romanzo su cui meditare.

 

John Galsworthy “La saga dei Forsyte” -Bompiani- euro 24,00

L’editore Bompiani riporta in libreria “La saga dei Forsyte”, il monumentale ciclo narrativo pubblicato tra 1906 e 1921 dallo scrittore e drammaturgo inglese John Galsworthy; nato in una ricca famiglia del Surrey nel 1867 a Kingston upon Thames e morto ad Hampstead nel 1933, l’anno dopo aver ottenuto il Premio Nobel.

Figlio di un avvocato, era destinato seguire la carriera di famiglia, ma quello che ama di più è viaggiare ed è proprio al ritorno da un tour in Australia che sulla nave il suo destino incrocia quello di Joseph Conrad, ed è la svolta. Tra i due si crea un’amicizia che durerà nel tempo; soprattutto, al cospetto del grande scrittore, Galsworthy mette a fuoco quello che vuole veramente fare nella sua vita.

E’ così che si scopre scrittore, iniziando a pubblicare a proprie spese e sotto pseudonimo; poi l’idea della trilogia che lo renderà famoso e immortale.

La saga è costituita da tre romanzi: “Il possidente”, “Nella ragnatela” del 1920 e l’anno dopo “Affittasi” ultimo capitolo, più due racconti intitolati “Interludi”.

E’ la complessa storia di una ricca famiglia inglese che scivola dal successo al declino, sullo sfondo della tarda società vittoriana fino al primo dopoguerra.

Un mosaico di personaggi che si muovono imbrigliati tra rivalità, rancori, inimicizie, tradimenti, ed incarnano i valori borghesi dell’epoca. Una famiglia in cui ardono volontà di intraprendenza, individualismo, senso di appartenenza all’élite, accentuato attaccamento alla proprietà e all’idea che tutto si possa ottenere comprandolo.

Nel primo volume di oltre 800 pagine è tracciata la struttura del nucleo familiare: i primi 10 capostipiti generano 21 eredi che a loro volta ne mettono al mondo solo 17.

A contare sono i maschi, mentre le donne hanno poco peso, anche se poi le loro vite incideranno parecchio sul destino familiare.

Galsworthy li osserva tutti in modo meticoloso e li mette in scena lungo un’infilata di capitoli scanditi da improvvisi salti di scena, passaggi temporali repentini e dialoghi spesso serrati e altamente rivelatori delle varie personalità.

La narrazione inizia in un pomeriggio del 1896 in cui la famiglia si trova riunita per il fidanzamento della piccola di casa, June, con l’architetto spiantato Philip Bosinney.

A osservare dall’alto la scena c’è il patriarca 80enne Jolyon, dubbioso sull’opportunità di quel matrimonio.

Al giovane povero in canna viene comunque affidato un incarico di tutto rispetto: progettare e costruire fuori città una casa per Soames, Forsyte di seconda generazione e la sua irrequieta moglie Irene. Un matrimonio senza figli e con parecchie sorprese……

 

 

Sana Krasikov “I patrioti” – Fazi Editore- euro 20,00

L’autrice è nata in Ucraina nel 1979, ma poi si è trasferita con la famiglia negli Stati Uniti nel 1987, e in questo corposo romanzo racconta la storia familiare di una migrante americana nella Russia degli anni 30. Fondamentalmente tenta di dare una risposta al quesito: se sei immigrato a quale patria ti senti di appartenere e sei fedele?

Protagonista è Florence Fein, figlia di genitori ebrei e con una nonna lituana. L’America è attanagliata nella morsa della Grande Depressione e lei a 23 anni rincorre un uomo che l’ha stregata, sognando un grande futuro che pensa possa realizzarsi solo nel sistema sovietico. Finirà per ritrovarsi pericolosamente intrappolata nell’Urss di Stalin.

Il libro copre la storia di tre diverse generazioni sullo sfondo di avvenimenti storici ricostruiti con grande serietà e frutto di scrupolose ricerche. Un mosaico narrativo che parla di vari retroscena poco noti, totalitarismo che soffoca le vite private, corruzione, inganni, delusioni, promesse mancate e grandi passioni.

Il sogno di Florence, planata a Magnitorsk, finisce per incrinarsi e travolgerla.

Quasi 75 anni dopo, il figlio Julian, che lavora in America per una Compagnia Petrolifera, coglie l’occasione di un viaggio di lavoro a Mosca per ricostruire il passato materno. Vuole sapere cosa è successo alla madre sopravvissuta alla prigionia e ai campi di lavoro per 7 anni, mentre il figlio finiva nell’ orfanotrofio di Saratov.

Chiede di consultare i dossier del terribile Kgb, disponibili per chi annovera parenti arrestati, uccisi o deportati durante la spietata dittatura staliniana.

Anche la vita del figlio di Julian, Lenny, oscillerà sospesa tra due paesi diversissimi, due società e due culture opposte e in conflitto tra loro. Un romanzo che ci porta a riflettere su temi complessi come identità e libertà.

 

Alicia Giménez Bartlett “La presidente” -Sellerio- euro 16,00

Solo momentaneamente la famosa scrittrice spagnola ha lasciato in panchina la sua eroina per eccellenza Pedra Delicado, e ha fatto scendere in campo, a Valencia, due giovani ragazze, fresche di Accademia di Polizia.

Sono le poco più che 30enni sorelle Berta e Marta Miralles, diversissime tra loro. Una musona dopo una delusione sentimentale e attenta alla dieta, l’altra decisamente più leggera e capace di godersi la vita. Battibeccano spesso, ma in realtà sono molto affiatate.

Alle due protagoniste viene subito affidato un caso che è un’autentica mina vagante. Devono indagare, ma sottotraccia, sulla misteriosa morte della presidente della Comunità Valenciana, l’ex sindaca Vila Castelli, trovata senza vita in una camera d’hotel a Madrid, avvelenata da un caffè al cianuro.

Era stata una donna con un grande potere, poi caduta in disgrazia e coinvolta in un’indagine per corruzione.
La versione ufficiale è morte naturale, ma forse è stata messa a tacere perché qualcuno temeva che potesse rivelare segreti scomodi.

Tra le pagine serpeggia anche un certo sospetto maschile verso le colleghe femmine e le loro presunte competenze. Forse la scottante indagine è affidata alle due novelline, proprio perché ritenute opportunamente inesperte e incapaci di scavare troppo a fondo.

Inutile dire che Berta e Marta vi sorprenderanno e che ancora una volta Alicia Giménez Bartlett ci regala un noir trasudante ironia e -come nel caso dei divertenti scontri ironici tra Pedra Delicado e il suo braccio destro Fermin- anche qui sono gustosissimi i contrasti tra le sorelle.

Una formula collaudata che è il marchio di fabbrica della scrittrice spagnola. Ed ora che Pedra è sugli schermi televisivi, dove ha preso forma in una strepitosa Paola Cortellesi e un altrettanto grande Andrea Pennacchi, non possiamo che apprezzarla ancora di più. E aspettare il prossimo libro con lei al centro, al quale la Bartlett sta lavorando.

Intanto gustiamoci le due sorelle alle prese con un caso ispirato da un fatto di cronaca vero. Il coinvolgimento in un’indagine per corruzione di Rita Barberà che era stata sindaca di Valencia per un ventennio: donna molto popolare, dichiaratamente gay, imprevedibile e autoritaria, ma di grande humor.

“Segnali in codice” Il romanzo di Barberis è un viaggio nei misteri della Repubblica

Roma, anni Settanta. Alessandro Maccari e Cesare Fontanelli sono due ragazzi dell’alta borghesia capitolina, che hanno scelto la militanza nella lotta armata.

GABRIELE BARBERIS

Quarant’anni più tardi, le loro vicende si intrecceranno con quelle di Luca Boursier, uno svogliato studente universitario, figlio ribelle del più importante banchiere italiano. Per una serie di circostanze, il giovane inizia a collaborare con un’agenzia giornalistica di Milano contigua al mondo della politica. Sotto la guida di un direttore controverso e dell’enigmatica collega Giulia Tembassi, Luca riesce a mettersi in evidenza a livello nazionale dimostrando di possedere il fiuto del reporter investigativo di razza. Ma pian piano Boursier si avventura in un crescendo di intrighi fino a entrare in possesso di un documento sconvolgente che potrebbe riscrivere gli ultimi decenni della Storia d’Italia e compromettere i vertici della Repubblica.
Dietro una fitta cortina di inganni che tutto distorce e confonde, gli apparati occulti dello Stato scenderanno in campo per custodire un segreto da proteggere a qualsiasi costo.
Segnali in codice è un viaggio mozzafiato al termine della notte della Repubblica, un’immersione in apnea nei misteri di una stagione ancora tragicamente aperta, che ci ricorda come l’Italia non sia mai stata innocente.
Gabriele Barberis Vignola (1965), biellese di nascita, torinese di adozione, milanese per lavoro. Giornalista e opinionista, da oltre trent’anni segue giorno per giorno la politica italiana. Questo è il suo romanzo d’esordio.