libri- Pagina 3

“In mezzo alle montagne c’e’ il lago d’Orta…”

Tra le più felici invenzioni del grande scrittore per l’infanzia, questa storia è ambientata nei luoghi cari alla memoria della sua infanzia

In mezzo alle montagne c’e’ il lago d’Orta. In mezzo al lago d’Orta, ma non proprio a meta’, c’e’ l’isola di San Giulio”. Così comincia uno dei più bei racconti di Gianni Rodari, “C’era due volte il barone Lamberto”. Tra le più felici invenzioni del grande scrittore per l’infanzia, questa storia è ambientata nei luoghi cari alla memoria della sua infanzia: il lago d’Orta e l’isola di San Giulio.

Infatti, Gianni Rodari, nacque ad Omegna, all’estremità nord del lago, il 23 ottobre del 1920. Lì, suo padre – originario della Val Cuvia, che domina la sponda “magra” del lago Maggiore – aveva un negozio di commestibili e gestiva un forno da pane, svolgendo il mestiere del prestiné, del fornaio. La casa e la bottega erano vicine al lago che, come ricordava Rodari, «giungeva a pochi metri dal cortile in cui crescevo». Leggendone le pagine prende forma l’immagine del più occidentale fra i laghi prealpini, originato dal fronte meridionale del ghiacciaio del Sempione. Che s’accompagna alla sua singolarità. Infatti, contrariamente a quanto accade con molti laghi alpini, che hanno un emissario a sud, le acque del lago d’Orta escono dal lago a nord. Attraversano la città di Omegna, dando vita al torrente Nigoglia che confluisce nello Strona il quale, a sua volta, sfocia nel Toce e quindi nel lago Maggiore.

E al centro del lago dove, dalle opposte sponde si guardano, una in faccia all’altra, Orta e Pella, si trova l’isola di San Giulio. Nel medioevo il lago era noto come “lago di San Giulio” e solo dal XVII secolo in poi cominciò ad essere conosciuto con l’attuale nome di “lago d’Orta”, acquisito dalla località di maggior prestigio e risonanza. La storia, se non vogliamo risalire al neolitico o all’età del ferro, quando il lago era abitato dai celti, ci dice che – alla fine del IV secolo – i due fratelli greci Giulio e Giuliano, originari dell’isola d’Egina fecero la loro comparsa sul lago e si dedicano con un certo accanimento(con il beneplacito dell’imperatore Teodosio)alla distruzione dei luoghi di culto pagani e alla costruzione di chiese. E qui la leggenda vorrebbe che San Giulio, una volta incaricato il fratello di edificare a Gozzano, all’estremità sud del lago, la novantanovesima chiesa, si mise alla ricerca del luogo più adatto per erigere la centesima. La scelta cadde sulla piccola isola ma, non trovando nessuno disposto a traghettarlo, Giulio avrebbe steso il suo mantello sulle acque navigando su di esso. Sull’isola dovette misurarsi con focosi draghi e orribili serpenti. Sconfitte e cacciate per sempre le diaboliche creature (ma erano poi così diaboliche? Mah…) , gettò le fondamenta della chiesa nello stesso punto in cui oggi si trova la Basilica di San Giulio. La storia s’incaricò poi di far passare molta acqua sotto i moli dei porticcioli del lago d’Orta. Dai longobardi fino all’assedio dell’ isola di San Giulio – in cui si era asserragliato Berengario d’Ivrea – furono secoli di guerre. Nel 1219 dopo una contesa ventennale tra il Vescovo e il Comune di Novara, nacque il feudo vescovile della “Riviera di San Giulio”. E ,più di 500 anni dopo, nel 1786, il territorio cusiano passò sotto la casa Savoia ( che videro riconosciuto il loro potere solo 31 anni dopo, nel 1817), trasmigrando così dalla Lombardia al Piemonte. Ma, vicende storiche a parte, il lago d’Orta – “ il più romantico dei laghi italiani” – è davvero un gioiello che ha sempre fatto parlar bene di se. Gli abitati rivieraschi d’Orta, Pettenasco, Omegna, Nonio, Pella, San Maurizio d’Opaglio, Gozzano.

O l’immediato entroterra di Miasino, Ameno, Armeno, Bolzano Novarese, Madonna del Sasso, sono state località meta di viaggi ed oggetto di cronache e racconti. Non è un caso che nell’Ottocento fosse quasi d’obbligo considerarlo come una delle più suggestive tappe del “Grand Tour” di molti aristocratici d’Oltralpe. Honoré de Balzac, che c’era stato, lo descriveva così nella “Comédie humaine”: “Un delizioso piccolo lago ai piedi del Rosa, un’isola ben situata sull’acque calmissime, civettuola e semplice, (…). Il mondo che il viaggiatore ha conosciuto si ritrova in piccolo modesto e puro: il suo animo ristorato l’invita a rimanere là, perché un poetico e melodioso fascino l’attornia, con tutte le sue armonie e risveglia inconsuete idee….è quello, il lago, ad un tempo un chiostro e la vita….”. E’ il lago che, soprattutto in autunno, riflette i colori della stagione e diventa un po’ malinconico, suggerendo a poeti come Eugenio Montale di dedicargli delle composizioni o ad Ernesto Ragazzoni di scrivere questi versi: «Ad Orta, in una camera quieta / che s’apre sopra un verde pergolato, / e dove, a tratti, il vento come un fiato / porta un fruscio sottil, come di seta, / c’e’ un pianoforte, cara, che ti aspetta, / un pianoforte dove mi suonerai / la musica che ami, e che vorrai: / qualche pagina nostra benedetta». Territorio ricco di fascino e di riferimenti letterari, meta ideale di artisti e scrittori, le località attorno al lago appaiono sovente nelle opere di altri importanti autori. Per Mario Soldati, grande regista e scrittore, Orta è uno dei luoghi di riferimento, visto che sul lago – nella frazione di Corconio –  iniziò a scrivere i suoi primi libri importanti come “America primo amore” e “L’amico gesuita”, oltre ad ambientarvi alcune pagine de “I racconti del maresciallo”.

Per non parlare poi d’Achille Giovanni Cagna ( con il romanzo “scapigliato” dedicato agli “Alpinisti Ciabattoni”), Mario Bonfantini( La tentazione ), Carlo Emilio Gadda (Viaggi di Gulliver), Laura Mancinelli con il suo dolcissimo “La musica dell’isola”, Carlo Porta, Friederich Nietzsche. Un altro “scrittore di lago”, ma di un lago “diverso” come il Maggiore – il luinese Piero Chiara – scrisse: “Orta, acquarello di Dio, sembra dipinta sopra un fondale di seta, col suo Sacro Monte alle spalle, la sua nobile rambla fiancheggiata da chiusi palazzi, la piazza silenziosa con le facciate compunte dietro le chiome degli ippocastani, e davanti l’isola di San Giulio, simile all’aero purgatorio dantesco, esitante fra acqua e cielo“.  Il lago d’Orta è un piccolo gioiello azzurro in mezzo ai monti, chiuso ad est dal Mottarone e riparato ad ovest dalle cime che dividono il Cusio dalla Valsesia. Certe mattine, appena s’accenna l’alba, la nebbiolina sospesa sull’acqua lo rende misterioso, affascinante. Tanto quanto se non addirittura più di quelle giornate d’autunno, nitide e terse, quando riflette i mille colori dei boschi nello specchio delle sue acque tranquille.

Marco Travaglini

Collodi e l’invenzione di Pinocchio

Collodi, all’anagrafe Carlo Lorenzini, nacque a Firenze il 24 novembre del 1826 e divenne celebre come autore del romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. Il padre Domenico era un cuoco e la madre, Angiolina Orzali, una domestica, entrambi a servizio dei marchesi Ginori. Angiolina era originaria di Collodi , frazione di Pescia, nel  pistoiese.

Fu proprio il nome del paese natale della madre ad ispirare a Carlo lo pseudonimo che lo rese famoso in tutto il mondo come autore di Pinocchio. A diciotto anni il giovane Lorenzini  entrò in contatto con il  mondo dei libri come commesso nella libreria Piatti a Firenze e un anno dopo, nel 1845, ottenne una dispensa ecclesiastica che gli permise di leggere l’Indice dei libri proibiti . La passione per la lettura lo indusse a cimentarsi con la scrittura e iniziò a redigere recensioni e articoli per La Rivista di Firenze.

Allo scoppio della Prima guerra d’indipendenza, nel 1848, Lorenzini si arruolò volontario combattendo contro gli austriaci al fianco di altri studenti toscani a Curtatone e Montanara. Tornato a Firenze fondò una rivista satirica Il Lampione che subì ben presto la censura, cessando le pubblicazioni. La passione non venne meno, impegnandolo in un’intensa attività culturale nel campo dell’editoria e del giornalismo, dove si occupò di letteratura, musica e arte. Trentenne, nel 1856, durante la sua collaborazione con la rivista umoristica La Lente, iniziò a firmarsi con lo  pseudonimo di Collodi e a pubblicare i primi libri. Allo scoppio della Seconda guerra d’indipendenza non si tirò indietro, partecipandovi come soldato regolare piemontese nel Reggimento Cavalleggeri di Novara. Terminata la campagna militare fece ritorno a Firenze, occupandosi di critica teatrale. Invitato dal Ministero della Pubblica Istruzione a far parte della redazione di un dizionario di lingua parlata, il “Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze”, si impegnò con slancio e  passione in questa nuova impresa culturale. Il suo approccio al mondo delle favole iniziò all’alba dei cinquant’anni quando ricevette dall’editore Paggi il compito di tradurre le fiabe francesi più famose. Collodi non si limitò ad una pura e semplice opera di traduzione, effettuando anche l’adattamento dei testi integrandovi una morale. Un lavoro di grande interesse che venne poi pubblicato sotto il titolo I racconti delle fate. Nel 1877 apparve Giannettino, il primo di una lunga serie di testi per l’educazione dei più giovani che spaziavano dalla geografia alla grammatica e all’aritmetica .

Questa serie di libri faceva parte della Biblioteca Scolastica dell’editore Felice Paggi: un libro era venduto a due lire e, se era legato in tela con placca a oro, il prezzo saliva a tre. Sia questa serie che il successivo Minuzzolo anticiparono di fatto la nascita di Pinocchio. Il 7 luglio 1881, sul primo numero del periodico per l’infanzia Giornale per i bambini (praticamente l’archetipo dei periodici italiani per ragazzi) uscì la prima puntata de Le avventure di Pinocchio con il titolo Storia di un burattino. Due anni dopo, raccolte in volume e arricchite dalle illustrazioni di Enrico Mozzanti, le vicende del burattino che voleva diventare un bambino in carne e ossa vennero pubblicate quasi in contemporanea con la sua nomina a direttore del periodico che ne aveva anticipato il testo. Carlo Lorenzini, ormai per tutti Collodi, morì a Firenze nel 1890 dove riposa nel cimitero delle Porte Sante. Pinocchio, nonostante abbia compiuto il suo 140° compleanno, è ben vivo e vegeto: pubblicato in 187 edizioni, tradotto in 260 lingue o dialetti, protagonista di film, cartoni animati e sceneggiati, riprodotto in mille maniere. In molti hanno provato a catalogarne significati e morali per spiegarne l’incredibile longevità e freschezza. Per Italo Calvino Pinocchio è stato l’unico vero protagonista picaresco della letteratura italiana, proposto in forma fantastica; le sue avventure rocambolesche, a volte scanzonate, a tratti drammatiche, rimandano alla letteratura di genere che ebbe origine in Spagna con  Lazarillo de Tormes e il Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, l’opera che segnò la nascita del moderno romanzo europeo.

A noi che lo incontrammo da piccoli e che imparammo ad amarlo piace pensarlo all’Osteria del Gambero Rosso, seduto in compagnia del Gatto e della Volpe, mentre fugge con Lucignolo nel paese dei Balocchi e finisce per trasformarsi, dopo cinque mesi di cuccagna, in un asinello. Mastro Ciliegia, Geppetto, il Grillo Parlante, Mangiafuoco e la Fata Turchina lo accompagnano fin quando smette di essere un burattino e diventa un ragazzo in carne ed ossa. Pinocchio è ben più che un libro per bambini perché ci aiuta a non perdere il contatto con la fantasia, nutrendo la creatività. Come ricordava Gianni Rodari, non vi è nulla di più sbagliato che etichettare la fantasia come “roba da bambini”; al contrario, dovremmo accoglierla, svilupparla ed utilizzarla per conoscerci e vivere meglio.

Marco Travaglini

La rassegna dei libri del mese

Il Libro del Mese – La Scelta dei Lettori

 

Il più discusso tra i titoli presenti sul nostro gruppo FB visto quello che sta succedendo nella Striscia di Gaza non poteva che essere Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite della Palestina, di Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per il territorio palestinese, ora sanzionata dal governo americano ma anche proposta per il Premio Nobel per la Pace

 

Settembre, tempo di letture: che siate già tornati alla quotidianità della vita lavorativa o siate appena andati in vacanza, un buon libro non può mancarvi e, allora, ecco qualche consiglio per scegliere la prossima lettura.

E’ già uscito in Italia Il Tempo Degli Eroi (Nord, 2025) nuovo atteso thriller storico di Frank Schatzing che ci riporta nell’Inghilterra del secolo XIII.

 

Per chi ama il melodramma, Garzanti ha da poco pubblicato Il Loggionista Impenitente, guida  all’ascolto dell’opera lirica di Alberto Mattioli.

 

Torna in libreria Ann Tyler con Tre Giorni Di Giugno (Guanda, 2025) la storia di un nuovo inizio per chi ama i romanzi dall’umorismo velato di malinconia.

 

 

Consigli per gli acquisti

 Questa è la rubrica nella quale diamo spazio agli scrittori emergenti, agli editori indipendenti e ai prodotti editoriali che rimangono fuori dal circuito della grande distribuzione.

Asimmetrie Dei Giorni Pari (Bertoni, 2025) è il nuovo romanzo di Valentina di Ludovico (Comuni-CareLa Vertigine Del Tutto) un romanzo che fa sentire lo scricchiolio dell’esistenza e apre una riflessione sulla salute mentale e la sua influenza sui ruoli che siamo chiamati a interpretare nella vita di tutti i giorni.

 

Una storia di rinascita che nasce dalla lotta contro una malattia rara e l’isolamento è Un Amico Invisibile (Bertoni, 2025) il nuovo romanzo di Gina Scanzani: un libro che tocca il cuore e dimostra come, anche nei momenti più bui, sia possibile trovare la luce.

 

 

Incontri con gli autori

Sul nostro sito potete leggere le interviste agli scrittori del momento: questo mese abbiamo incontrato: Elisabetta Flumeri e Gabriella Giacometti e abbiamo discusso del loro recente romanzo, Nessun Perdono (Guanda, 2025) che inaugura una nuova serie di gialli.

 

Alice Bassoli ci parla, invece de Le Streghe Non Dormono (Corbaccio, 2025), il suo nuovo romanzo che appartiene al genere, tutto italiano, del  “gotico rurale”.

 

Infine, Gian Marco Griffi ha pubblicato un romanzo di tipo introspettivo, Digressione (Einaudi, 2025) e ce lo ha presentato in un’intensa chiacchierata.

 

 

 

Per rimanere aggiornati su novità e curiosità dal mondo dei libri, venite a trovarci sul sito www.ilpassaparoladeilibri.it

Le terre blu di Nico Orengo

Vengo da un paese di mare; un paese che si confonde e affonda in quel giardino”. Con queste parole lo scrittore Nico Orengo si presentava nel suo racconto Terre blu.

Quel giardino” dove si sentiva a casa erano i Giardini Botanici Hanbury che si distendono dal promontorio della  Mortola verso il mare di Ventimiglia, a pochi chilometri dal confine francese. Diciotto ettari sull’estrema punta del Ponente ligure al quale dedicò la sua opera letteraria, ambientando racconti e poesie. Un gioiello naturalistico prezioso, uno dei giardini di acclimatazione più belli e preziosi d’Europa e dell’intero bacino mediterraneo. Orengo raccontava che sono blu le terre della Liguria quando fioriscono i carciofi, quando il mare “rimbalza il suo colore sotto i pini, quando si alza il fumo degli sterpi sulle fasce, quando la campanula buca i rovi e quando la bungavillea e il glicine sui muri incontrano il tramonto”. In questo modo il blu si imprime indelebilmente nella memoria, trasformandosi nel colore del ricordo e della terra. Quella terra “aspra e dolce della Liguria di Ponente che da Imperia a Ponte San Luigi corre anguillesca sul mare e su, verso l’interno di paesi d’incanto, umidi e solari”. Con Terre blu Nico Orengo raccontava una geografia sospesa tra la realtà e l’immaginazione come può essere solo quella di “un viaggiatore che ritorna sui suoi passi per constatare che c’è un albero in più e una pietra in meno, che il pollaio è una villetta, o che quel tal orto si è fatto casa”. Alla terra di confine dove ambientò quasi tutti i suoi romanzi Nico Orengo rimase sempre legatissimo. La sua Liguria non era solo uno spazio naturale pieno di odori e colori, suggestioni straordinarie sospese tra il blu del mare e i colori forti dell’entroterra  ma anche un luogo della memoria, degli anni della giovinezza e dell’adolescenza. Un mondo intero dove si intrecciavano indimenticabili ricordi che rievocò nei suoi romanzi (Dogana d’amore, Il salto dell’acciugaLe rose d’EvitaLa guerra del basilicoRibesLa curva del latte) con la sua scrittura lieve e ironica. Nel suo penultimo romanzo, Hotel Angleterre, accompagnò i lettori in un viaggio della memoria rimescolando ricordi, rievocando la figura della nonna paterna, la contessa Valentina Tallevitch, che, nelle fredde sere invernali, mentre gettava bucce di mandarino nel fuoco acceso nel camino, narrava ai nipoti vecchie storie della nobiltà russa in Costa Azzurra e nella Riviera di Ponente, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Nell’ultimo, Islabonita, ambientato a metà degli anni Venti, usa l’espediente narrativo del bestiario e di una figura antropomorfica di anguilla voyeur, per raccontare un epoca che stava per lasciare una traccia dolorosa e indelebile sulla pelle della nazione. Spesso nei suoi libri riecheggia l’amarezza per il  tramonto della società contadina e il declino dei suoi umanissimi valori a scapito  del rapido imporsi del modello industriale e urbano che il boom economico avrebbe poi codificato nell’avvento della società dei consumi. E la natura e l’ambiente, entrambi da difendere e tutelare, rappresentano desideri che emergono in molti racconti come Gli spiccioli di Montale dove, in un tratto di mare al confine con la Francia, un uliveto che rischia di scomparire, provocando uno strappo violento nella memoria, quasi come se un ricordo venisse rubato. Ci restano in eredità i suoi versi, le filastrocche ( A-ulì-ulè ) , i racconti, le battaglie contro la speculazione edilizia e per la salvaguardia dell’ambiente e delle tradizioni culturali, il bellissimo ritratto delle langhe fissato nelle pagine del romanzo Di viole e liquirizia. Nico Orengo morì a Torino, nella mattinata di sabato 30 maggio 2009, all’ospedale delle Molinette dove era stato ricoverato dopo una crisi cardiaca. Aveva 65 anni. Al capoluogo piemontese ( vi era nato il 24 febbraio del 1944)  era legato per l’intensa collaborazione con Einaudi e la lunga direzione di Tuttolibri, il settimanale letterario de  La Stampa, quotidiano per cui scriveva. Non casualmente scelse come ultima e definitiva dimora il piccolo cimitero dei Ciotti tra La Mortola e Grimaldi, aggrappato alla roccia e affacciato sul mare blu cobalto. Come scrisse lui stesso nell’agosto  del 2000, lo scenario non poteva che essere quello di “ una Liguria favolosa di sapori, fico polveroso e gelsomino stordente, di buganvillea e cappero, di garofano, calendula e rose, mirto e rosmarino”Un buon modo di ricordarlo è quello di leggere le sue opere magari accompagnandone il piacere con un buon bicchiere di vino, preferibilmente rossese o vermentino, secondo le antiche ricette della cucina ligure.

Marco Travaglini

La ragazza dei lupi

La mia vita selvaggia fra i lupi italiani

Molto interessante il saggio di Mia Canestrini, giovane ‘lupologa’ italiana, sia per professione, che per indole personale.

In un non lunghissimo testo, con il tratto veloce e conciso di chi sa comunicare, c’è tutto sulla sua vita, il contatto con la natura e un’infanzia passata in un paradiso ambientale come l’appennino tosco-emiliano.

E’ un’esistenza già segnata dalla sua infanzia, anni verdi con le orecchie già accarezzate da storie di lupi, avvistamenti, pericoli, leggende, paura e fascinazione. Si tratta di tratti ancora infantili e in seguito adolescenziali, che tracceranno però solchi profondi sulla sua vita di adulta.

Nel volume c’è infatti molto sulla vita di una ragazza intelligente, avventurosa, colta e capace, quanto della realtà di un animale immaginifico come il lupo, da sempre lontano e vicino di vita con noi umani, con le sue realtà e le fantasie sulla sua supposta ferocia.

Iscritta alla facoltà di Scienze Naturali e poi specializzata in Conservazione della biodiversità animale, Mia passa oltre dieci anni principalmente nel Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-emiliano con il ruolo di Tecnico per i progetti LIFE dell’Unione Europea, la salvaguardia dei lupi e loro coesistenza con le persone che vivono su alpi e appennini.

Con il coinvolgimento emotivo di un romanzo, viene tracciata la sua vita operativa in mezzo a boschi e montagne, seguendo gli spostamenti dei branchi, ricercando resti escrementizi dei lupi da gestire in laboratori attrezzati per mapparne alimentazione, età e malattie; e poi cuccioli da salvare, adulti da curare, verifiche sui danni da predazione.

Con minuziosità, il libro della Canestrini pubblica foto sulle tante fototrappole posizionate sui passaggi di esemplari solitari e branchi, commentando gli appostamenti di volontari e del personale addetto, gli incontri con pastori (spesso vittime economiche delle predazioni) e le operazioni congiunte con i Carabinieri Verdi, verifiche sui resti di razzie su animali domestici, in un ritmo di scrittura affascinante e per niente cattedratico.

Questo libro interessa poi un pubblico non solo residente nei luoghi citati dal libro. Infatti i branchi, inizialmente partiti da est, oltre che scendere sull’appennino, si sono moltiplicati e spostati – lentamente ma progressivamente – verso occidente, arrivando in Val di Susa, Chisone, e la vicina Francia alpina.

Il lupo assurge sempre di più, perciò, a presenza nuovamente globale.

Dietro questi dati statistici, soggiace inoltre la parte più filosofica e archetipica della figura di questo meraviglioso animale (per l’autrice, di un sacro valore esistenziale), da noi temuto, spesso amato, sempre rispettato.

Sono, queste, pagine fitte di incontri e collaborazioni entusiasmanti con le tante persone che hanno interagito con l’autrice per lunghi anni, fino a che .. come in una moderna fiaba, i lupi le hanno fatto trovare l’amore.

FERRUCCIO CAPRA QUARELLI

Mia Canestrini, LA RAGAZZA DEI LUPI, La mia vita selvaggia tra i lupi italiani, Piemme editore, 220 pagine

Veronesi, l’odore del sole e l’estate che sta finendo

“C’era un odore, in quelle estati, che non ho mai più trovato altrove. L’odore così com’era non lo ricordo, ovviamente, e tuttavia accompagna la memoria di ogni singolo momento vissuto in quelle estati, io e mia sorella quell’odore lo abbiamo chiamato l’odore del sole”. Questo pezzo non è una recensione ma un consiglio di lettura all’insegna della nostalgia delle estati che furono e che non sono più. Quelle trascorse sulla stessa spiaggia e nello stesso mare, quelle che per noi torinesi iniziavano con la chiusura della Fiat e finivano con la riapertura dei cancelli a Mirafiori. Il libro da leggere in questo epilogo estivo è «Settembre nero» di Sandro Veronesi (La nave di Teseo). Non perché l’ultimo romanzo del due volte Premio Strega non sia adatto a tutte le stagioni ma perché nel raccontare l’estate deldodicenne Gigio Bellandi, Veronesi descrive le atmosfere, i colori, i suoni e gli odori che hanno segnato le estati di noi boomers.

Siamo nel 1972: la famiglia di Gigio lascia Vinci per trasferirsi a Fiumetto, in Versilia. Gigio è un ragazzino “che non sa ancora niente di niente”, vive in un mondo minuscolo, intento a coltivare passioni adolescenziali come ciclismo, automobilismo, calcio e scacchi. A vegliare sulla serenità sua e della sorellina Gilda, sono il padre avvocato penalista, uomo di luminosa superficialità”, e l’affascinante madre irlandese. Gigio trascorre le sue giornate allo stabilimento balneare “Bagno Stella”, immerso nell’odore del sole. Un odore onnipresente e pervasivo, artificiale, chimico. Odore di plastica, di gomma, di nylon, di sapone e di shampoo. Odore di crema solare.

Per Gigio Bellandi l’estate del 1972 segna la scoperta della musica, del fumetto adulto (Linus, L’Eternauta) e del desiderio per Astel Raimondi, la ragazzina dalle treccine “nere come onice nera”. Mentre alle Olimpiadi di Monaco si consuma il massacro commesso dai terroristi palestinesi di Settembre Nero, anche nella vita di Gigio si abbatte una tragedia: la confessione del padre del tradimento con la vicina d’ombrellone (e madre di Astel) manda in frantumi la famiglia. Un romanzo di formazione, certo, un romanzo sul potere evocativo delle parole e su quello seduttivo e salvifico della lingua, ma soprattutto un racconto capace di restituirci una precisa fotografia di un’epoca perduta, quella delle estati italiane dagli anni Sessanta fino ai primi anni Novanta, quando i consolidati copioni delle nostre abitudini vacanziereverranno rivoluzionate dai low cost e dalla globalizzazione. L’estate del ’72 di Gigio Bellandi era identica a quella di Jerry Calà e Marina Suma in quel “Sapore di mare” uscito nella sale nel 1983 ma che i Vanzina ambientarono nella Forte dei Marmi di vent’anni prima, immortalando nello stesso tempo una stagione passata e una contemporanea. Identica all’estate che stava finendo cantata dai Righeira nel 1985. Identica alle mie estati degli anni Ottanta. Trascorse prima sotto l’ombrellone di mia madre (sempre lo stesso ombrellone nella stessa fila della stessa spiaggia, con immancabile raccomandazione al bagnino di riservarla per l’anno dopo), leggendo “L’Uomo Ragno” e gli altri fumetti super-eroistici pubblicati in Italia dalla Corno; quindi con quelli della “compagnia”, il gruppo di amici ed amiche che si ritrovavano anno dopo anno con appuntamento fisso allo stesso posto e alla stessa ora per lo struscio serale sul lungomare. Per poi sciogliersiquando in “spiaggia di ombrelloni non ce ne sono più (cit. Righeira) e l’odore del sole si trasformava solo in un ricordo.

Emanuele Rebuffini

L’ultimo romanzo di Cesare Pavese

Il 27 agosto del 1950, Cesare Pavese si toglieva la vita nella stanza 346 dell’hotel Roma in piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione di Porta Nuova a Torino. Il suo ultimo romanzo La luna e i falò, uno dei capolavori della letteratura del ‘900 e libro di formazione per intere generazioni, rappresentò per più versi il viaggio dello scrittore alla ricerca di se stesso e delle proprie origini. Fu il suo testamento letterario, composto in meno di due mesi, tra il 18 settembre e il 9 novembre del 1949, e dato alle stampe nell’aprile del 1950. Pavese scrisse in proposito: “È il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo – forse sempre – non farò più altro. Non conviene tentare troppo gli dèì”. E non solo gli dei, se Pavese scelse di terminare la propria esistenza “nella stanza d’un albergo nei pressi della stazione; volendo morire nella città che gli apparteneva come un forestiero”, come scrisse Natalia Ginzburg. Sul comodino della stanza era posata una copia dei Dialoghi con Leucò su cui lo scrittore aveva lasciato una raccomandazione: “Non fate troppi pettegolezzi”.
Un epitaffio che invitava il mondo a rispettare la sua scelta di andarsene prematuramente e di farlo in silenzio, in punta dei piedi, con quel riserbo tutto piemontese che ha sempre contraddistinto la sua vita. Settantaquattro anni dopo la sua scomparsa i messaggi e i valori che le pagine dei romanzi e dei racconti di Pavese ci trasmettono continuano a essere attuali nella loro straordinaria semplicità e immediatezza, a partire da quello del profondo legame con la terra dove si nasce, quel legame che non si spezza mai e che ciascuno di noi porta dentro di sé perché “avere un paese vuol dire non essere soli sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Perché avere un paese, avere delle radici, un luogo al quale aggrappare i propri pensieri, nel quale rifugiarsi anche nei momenti più difficili come quello che abbiamo vissuto, come quello che stiamo vivendo, significa sapere di appartenere a una comunità con la quale potremo continuare a lottare. Cesare Pavese ha amato molto il Piemonte, le Langhe, le grosse colline nelle quali ambientò i suoi romanzi più belli, trasportando il lettore tra borghi e vigneti, falò e sentieri, tra la sua gente. La lapide posta sulla tomba che custodisce i resti mortali del poeta, trasferiti dal cimitero monumentale di Torino al camposanto di Santo Stefano Belbo nel settembre del 2002, riporta queste parole “Ho dato poesia agli uomini”, una frase struggente che testimonia la forza e l’immortalità dell’arte.

Marco Travaglini

Tsukiko la figlia della luna

Libri

UN VIAGGIO REALE IN QUELLO CHE CREDIAMO IRREALE

 

Giappone, tempi moderni. Poco più che ragazzina, Tsukiko, riceve la devastante notizia della morte dei genitori in un incidente d’auto. Ѐ un colpo terribile alla sua percezione del mondo, rispetto a una vita improvvisamente divenuta banale e vuota di qualunque significato.

A metà fra la sua volontà e la sorte, la vecchia Hana le offre da leggere un libro di insegnamenti spirituali, che però Tsukiko rigetta perché troppo distanti dai suoi stati d’animo straziati dal dolore della perdita. È una battaglia che la spinge a scaraventare il libro sulla parete della sua stanza e a dire a stessa che dovrà trovare da sola le risposte, partendo per un viaggio avventuroso verso la vetta del monte Fuji che le dicono contenga tutte le risposte, incontrando gli Elementi della natura e i loro Spiriti Custodi.

Attraversando Terra, Acqua, Fuoco e Aria giungerà anche a conoscere l’Etere, il quinto elemento.

Ma il suo vero obiettivo resta il Maestro che vive nel monte.

 

L’AUTRICE

Torinese di origine, Monica Felletti è nata il 9 settembre 1977

Dal 2000 vive e lavora a Roma

Da sempre appassionata di spiritismo e parapsicologia, ha investito tutti i suoi sforzi in una ricerca della vera comprensione di ciò che ci sembra inspiegabile.

Negli anni ha fatto parte di alcuni cerchi medianici di alto profilo, sperimentando direttamente le più diffuse tecniche di contatto con l’Aldilà.

E’ intervenuta, attraverso interviste, su canali YouTube dedicati al tema riscuotendo apprezzabile successo. Dopo la pubblicazione de “L’altro lato delle cose” con Serarcangeli editore e la collaborazione ad alcuni testi inerenti spiritismo e medianità, è qui alla sua prima pubblicazione indipendente.

 

La triste e sfortunata vita di Emilio Salgari

L’incontro con Emilio Salgari, il papà di Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e del Corsaro Nero avvenne tanto tempo fa. E fu un amore improvviso, intenso. I primo due libri furono “I misteri della Jungla Nera” e “Le Tigri di Mompracem”, nelle edizioni che la torinese Viglongo pubblicò negli anni ’60.

 

Vennero letteralmente divorati. Toccò poi all’intero ciclo dei pirati della Malesia e a quelli dei pirati delle Antille, dei Corsari delle Bermude e delle avventure nel Far West. Mi recavo in corriera da Baveno a Intra, da una sponda all’altra del golfo Borromeo del lago Maggiore, dove – alla fornitissima libreria “Alberti” – era possibile acquistare i romanzi usciti dalla sua inesauribile e fantasiosa penna. Salgari, nato a Verona nell’agosto del 1862, esordì come scrittore di racconti d’appendice che uscivano su giornali  a episodi di poche pagine, pubblicati in genere la domenica ma, nonostante un certo successo,visse un’inquieta e tribolata esistenza. A sedici anni si iscrisse all’Istituto nautico di Venezia, senza però terminare gli studi.

 

Tornato a  Verona intraprese l’attività di giornalista, dimostrando una notevole capacità d’immaginazione. Infatti, più che viaggiare per mari e terre lontane, fece viaggiare al sua sconfinata fantasia, documentandosi puntigliosamente su paesi, usi e costumi. Scrisse moltissimo, più di 80 romanzi e circa 150 racconti, spesso pubblicati prima a puntate su riviste e poi in volume. I suoi personaggi sono diventati leggendari: Sandokan, Lady Marianna Guillon ovvero la Perla di Labuan, Yanez de Gomera, Tremal-Naik, il Corsaro Nero e sua figlia Jolanda, Testa di Pietra e molti altri. Nel 1900, dopo aver soggiornato alcuni anni nel Canavese ( tra Ivrea, Cuorgnè e Alpette) e poi a Genova, si trasferì definitivamente a Torino dove cambiò spesso alloggio, abitando nelle vie Morosini e  Superga, in piazza San Martino ( l’attuale piazza XVIII Dicembre, davanti a Porta Susa, nello stesso palazzo all’angolo nord dove De Amicis scrisse il libro “Cuore“), in via Guastalla e infine in Corso Casale dove, al civico 205 una targa commemorativa ricorda quella che è stata l’ultima dimora del più grande scrittore italiano di romanzi d’avventura. Schiacciato dai debiti contratti per pagare le cure della moglie, affetta da una terribile malattia mentale, con quattro figli a carico, si tolse la vita con un rasoio nei boschi della collina torinese.

 

Era il 25 aprile 1911. Ai suoi editori dell’epoca, che stentavano a pagargli i diritti, lasciò questo biglietto: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna“. Ai quattro figli scrisse: “Sono ormai un vinto. La malattia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di miei ammiratori che per tanti anni ho divertito e istruito provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di lire 600… Mantenetevi buoni e onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre. Vi bacia tutti col cuore sanguinante il vostro disgraziato padre“. I suoi funerali passarono quasi inosservati perché in quei giorni Torino era impegnata con l’imminente festa del 50° Anniversario dell’Unità d’Italia. La sua salma fu successivamente traslata nel famedio del cimitero monumentale di Verona. Un tragico e amaro epilogo per l’uomo che, grazie alle sue avventure, fece sognare tante generazioni di ragazzi.

Marco Travaglini

Vèstiti. La psicologia dietro l’abbigliamento

Il libro di Daniela Prandi dedicato allo stile, alla personalità e all’autostima

I vestiti parlano. Raccontano di noi, della nostra personalità, dei nostri stati d’animo. Ogni giorno davanti ad un armadio decidiamo come presentarci al mondo, ma non è una semplice scelta, si entra, infatti, in una sfera che coinvolge diversi temi oggetto di ricerca e approfondimento nell’ambito umano. La psicologia dell’abbigliamento, nella fattispecie, è la disciplina che esplora il legame tra ciò che indossiamo e come ci sentiamo, ci percepiamo e veniamo identificati dagli altri.

Ce ne parla nel suo libro, Vèstiti. La psicologia dietro l’abbigliamento, molto interessante e concreto, Daniela Prandi che ha fatto della sua passione per la psicologia e per gli abiti un percorso lavorativo combinato, che mira a far lavorare in modo sinergico il dentro e il fuori, l’identità e l’immagine. Questo volume, organizzato tra teoria e pratica, vuole essere uno stimolo a vestirsi con la consapevolezza dei messaggi e dei poteri che l’abbigliamento possiede, ma anche una raccolta di riflessioni utili a conoscere e riconoscere la propria personalità.

La Prandi racconta “prima di avviare questa attività lavoravo nell’orientamento professionale e nella formazione e dopo 20 anni ho deciso di passare dai file ai fili, dai monitor agli specchi. Questo passaggio è avvenuto gradualmente inserendo il tema della vestemica all’interno di diversi corsi e attraverso la creazione di un progetto, portato avanti con Sabina Rosso, che si chiamava Habitus da leader, il cui focus era quello di vestire la propria leadership. In quel periodo, inoltre, mi occupavo anche di coaching e collaboravo con uno studio dove potevo coordinare le mie attività; desideravo, tuttavia, un posto tutto mio e quindi mi sono detta perché’ non aprire un negozio? Una soluzione dove prodotto e servizio si fondono per lavorare sullo stile? È nato così PersonAtelier la cui vision è quella di poter vedere più persone sempre piu’ soddisfatte ed orgogliose di chi sono e come sono, dentro e fuori”.

Vèstiti è il prodotto, tradotto in un manuale, di anni dedicati alla consulenza di stile, alla offerta di vestiti ed accessori, di gesti dedicati al potenziamento dell’autostima. Nello scritto troviamo i significati terminologici di moda e abbigliamento in relazione alla psicologia, ci si pone quesiti e si restituiscono le relative risposte sul linguaggio degli abiti, sull’identità, l’immagine e lo stile.

Il libro di Daniela Prandi, dunque, non è semplicemente un libro sulla moda, sugli outfit giusti o di tendenza è uno stimolo alla conoscenza di sé attraverso ciò che vestiamo e indossiamo, perché gli abiti e gli accessori sono la nostra seconda pelle, l’estensione del nostro se’, una maniera di comunicare a chi ci circonda la nostra identita’.

www.personatelier.com

Maria La Barbera