Da conservatore a moderato Rafsanjani è stato uno dei pilastri della Repubblica islamica dell’Iran. Possibili contraccolpi sugli equilibri politici della nazione persiana
Con lui non è cambiato nulla e nulla probabilmente sarebbe cambiato se fosse diventato il nuovo leader supremo della nazione iraniana. Ali Akbar Hashemi Rafsanjani era uno dei pilastri della teocrazia islamica iraniana, uno degli uomini più potenti dell’establishment religioso dell’Iran e anche uno dei più ricchi del Paese. Un uomo del sistema che non avrebbe mai invertito la direzione di marcia della rivoluzione con il rischio di farla implodere. Vinceva e perdeva e quando sembrava ormai escluso dalla lotta politica riemergeva per puntare nuovamente in alto, come nel 2013, l’anno in cui trionfò il riformista Rouhani, quando tentò di correre per la terza volta per le presidenziali ma fu escluso all’ultimo momento dal “Consiglio dei Guardiani” perchè considerato “troppo vecchio”. Di recente era tornato sulla scena politica, alla veneranda età di 82 anni, quando salì sull’ennesimo carro dei vincitori, quello del presidente Rouhani il cui schieramento vinse le elezioni legislative del 26 febbraio 2016, giorno in cui si rinnovò anche la cruciale Assemblea degli Esperti che nomina la Guida Suprema della Repubblica.
Da conservatore a politico moderato, vicino da alcuni anni ai riformisti di Rouhani, ha accompagnato passo dopo passo tutto il cammino della rivoluzione islamica dell’Iran di cui è stato uno dei padri fondatori insieme all’ayatollah Khomeini. Fin dal 1979, l’anno della vittoria dei rivoluzionari che rovesciarono il regime dello scià, è sempre stato protagonista della vita politica della sua Persia. Presidente della Repubblica per due mandati, presidente del Parlamento, dell’Assemblea degli Esperti e del Consiglio per il discernimento, leader popolare e controverso, abile manovratore nei palazzi del potere tanto da essere definito “lo squalo”, figura di spicco dell’apparato religioso, Rafsanjani è sempre stato una figura di primo piano nei giochi di potere ai vertici del clero conservatore. Alla morte di Khomeini nel 1989 fu eletto presidente per essere confermato nel 1993. Nel 2005 perse le elezioni contro il laico Ahmadinejad che diede il via a una lunga, triste e austera presidenza ma Rafsanjani non si diede per vinto e si avvicinò all’opposizione riformista. Dopo la vittoria dei moderati di Rouhani alle recenti elezioni per il rinnovo del Majlis (il Parlamento), il pragmatico Rafsanjani, neo alleato del presidente, si era assicurato l’ingresso nella potente Assemblea degli Esperti, insieme allo stesso Rouhani, avendo ottenuto il maggior numero di voti.
Da molti era già stato considerato come l’arbitro del dopo voto, l’unica persona capace di indicare la strategia adatta per continuare ad aprire l’Iran al mondo, sulla scia dello storico accordo con gli Stati Uniti e l’Occidente sui piani nucleari di Teheran siglato a Vienna il 14 luglio 2015, fortemente voluto da Rafsanjani che fu anche uno dei negoziatori. “Inizia ora una nuova fase, aveva detto l’ex presidente subito dopo le elezioni di un anno fa, una fase di unità e collaborazione. È arrivato il momento di lavorare duramente per costruire il Paese”. Forse l’intesa riformista moderata del tandem Rouhani-Rafsanjani avrebbe potuto ridurre l’abnorme peso politico degli ultraconservatori in Parlamento e nella potente Assemblea degli Esperti ma la stessa cosa l’abbiamo auspicata più volte in passato, senza risultati apprezzabili, soprattutto durante la presidenza di Khatami (dal 1997 al 2005), il primo leader di Teheran che avviò le riforme che avevano suscitato molte aspettative sia in Iran che all’estero ma che furono presto soffocate dallo strapotere delle frange oltranziste dei conservatori. Da allora ben poco è cambiato.
L’evoluzione del regime di Teheran verso un maggior rispetto dei diritti umani non c’è stato, come dimostra il fatto che i leader che guidarono il movimento di protesta dell’Onda Verde del 2009, stroncato nel sangue, Moussavi e Kharroubi, sono ancora agli arresti domiciliari nonostante le promesse del presidente Rouhani di liberarli, e allo stesso Khatami è stato ritirato il passaporto e la sua libertà di movimento è strettamente vigilata. Il cammino verso un vero cambiamento del Paese si annuncia ancora tortuoso e la scomparsa di Rafsanjani accenderà prevedibilmente una nuova lotta per il potere. La prima sfida saranno le elezioni presidenziali a maggio con Rouhani che cerca una riconferma ma, privo dell’alleato Rafsanjani, dovrà vedersela con una pattuglia agguerrita di conservatori radicali che tenteranno di risalire alla presidenza della Repubblica. Ora le speranze degli iraniani e della comunità internazionale sono riposte nel successore di Alì Khamenei, ovvero la Guida suprema dell’Iran che controlla tutti i centri vitali del potere, dai Guardiani della Rivoluzione ai servizi segreti, dalle varie milizie che intervengono con bastoni e armi a spegnere sul nascere proteste e focolai di ribellione al controllo totale sui media. A questa istituzione religiosa, per quanto enigmatica e arcaica, spetta sempre l’ultima parola, da quasi 40 anni. Per molti osservatori l’uscita di scena di Rafsanjani indebolisce il campo riformista e potrebbe avere conseguenze sul fragile equilibrio politico del Paese. Alle presidenziali primaverili la riconferma di Rouhani non è per nulla scontata. Mentre decine di migliaia di iraniani (almeno un milione secondo la stampa locale) danno l’ultimo saluto all’ex presidente si spera nella comparsa di una nuova generazione di moderati che possa guidare la nazione persiana verso un futuro meno cupo, più democratico e più aperto al mondo.
Filippo Re
(Pubblicato da “La voce e il tempo”)