IL RACCONTO- Pagina 4

Arturo, fascista pentito

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Le discussioni con Arturo, fascista tutto d’un pezzo, erano spesso animate e a volte molto dure. Lui era convinto della bontà delle scelte del Duce, entusiasta del regime e profondamente legato alla politica nazionale e autarchica. Non era mai stato un violento anche se non ammetteva nessun tipo di errore per quanto veniva imposto in quegli anni ed era pronto a giustificare quasi tutto. Quasi perché su un punto s’incrinavano le sue certezze: chi non la pensava come i fascisti andava convinto, ragionando con tutta la passione necessaria ma mai si doveva usare la violenza. Le squadracce e le loro bravate, non godevano del suo plauso. S’arrabbiava, diventavano rosso in volto. Tutta quella violenza, le botte e le bevute d’olio di ricino imposte ai dissidenti, andavano non solo criticate ma anche condannate. Arturo sosteneva che il vero fascismo non fosse quello. La rivoluzione sociale non poteva degenerare e il riscatto del popolo non doveva affermarsi con imposizioni e discriminazioni. Le nostre discussioni, all’osteria davanti all’imbarcadero di questo piccolo paese sul lago Maggiore, assumevano toni molto forti ma non degeneravano mai in uno scontro vero e proprio. Arturo portava rispetto per chi non condivideva il suo punto di vista e concludeva i suoi ragionamenti con una frase precisa, sempre la stessa: “Sei più testardo di un mulo e non vuoi vedere più in là del tuo naso. Ti convincerai che le cose andranno per il verso giusto. E chi sgarra, come questi matti che interpretano le direttive del partito con arroganza e violenza, pagherà per i suoi torti”. In realtà era lui, povero Arturo, a non persuadersi di ciò che stava accadendo attorno a noi, al clima sempre più pesante e opprimente, alla paura che induceva al silenzio, al clima di sospetto. Eravamo agli inizi ma già si intuiva che le cose sarebbero peggiorate, che il regime avrebbe mostrato il suo volto peggiore anche nei piccoli centri, nella provincia più profonda. Ogni dissenso era considerato tradimento, e come tale andava represso. Arturo se ne andò una mattina. Aveva trovato un impiego dalle parti di Castellanza come contabile in una manifattura tessile. Sembrava invecchiato precocemente. Parlava poco, non mostrava più l’ardore di un tempo. Qualcuno disse che un giorno, sul finire del 1938, ebbe uno scontro durissimo con alcune camicie nere che avevano prelevato dalla fabbrica due giovani operai accusandoli di essere ebrei e che, come tali, dovevano essere allontanati dalla produzione. Arturo li difese, gridando che il fascismo era nato per difendere il popolo e i lavoratori, che nessuno doveva essere discriminato, che quei metodi gli facevano schifo, ribrezzo. Venne malmenato e, una settimana più tardi, licenziato dalla direzione del cotonificio. Tornò da sua zia, l’unica parente che gli era rimasta dopo la morte, avvenuta molti anni prima, dei genitori. Era avvilito, provato. Mangiava poco e vagava a lungo, senza meta, tra i boschi e lungo le rive del lago. Un giorno sparì. E di lui non si seppe più nulla. Solo dopo la liberazione, venimmo a conoscenza della sua morte. La delusione profonda verso il tradimento dei suoi ideali l’aveva portato ad aggregarsi ad un gruppo di partigiani del varesotto e, durante un rastrellamento, era stato catturato e fucilato dai suoi ex camerati. Ci dissero che non aveva armi per sua precisa scelta: la violenza gli faceva orrore e si occupava solo di tutto ciò che poteva consentire alla banda di resistere tra quei monti, dal recupero del vettovagliamento alla logistica. Morì senza aver mai sparato un colpo. Vittima di quel regime che gli aveva acceso in cuore una speranza per poi spegnerla con l’arbitrio e la violenza.

Marco Travaglini

Faggeto Lario, l’estate del 1976 sull’altro “ramo” del lago di Como

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IL RACCONTO / di Marco Travaglini

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Faggeto Lario dista poco più di 15 chilometri da Como. In auto, una mezz’ora di strada. Avete presente «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi..» descritto dal Manzoni ne “I promessi sposi”? Bene: il nostro “ramo” è quell’altro. E’ lì che, con il pullman dell’Azienda Comasca Trasporti in servizio sulla tratta Como-Bellagio, passando da Blèvio e Torno, sono arrivato un pomeriggio d’agosto del 1976. Avevo diciott’anni e la mia destinazione era l’Istituto di studi comunisti “Eugenio Curiel”. Un tempo, dopo la Liberazione, la “scuola quadri” del PCI nel comasco portava il nome di “Anita Garibaldi” ed era  riservata alle donne. All’epoca, il PCI di Berlinguer teneva molto allo sviluppo di una politica culturale rivolta alla nuova generazione di militanti, funzionari e quadri intermedi che entravano a ingrossare le file del partito. Una grande importanza avevano le scuole di partito, la cui attività formativa si svolgeva attraverso l’organizzazione di corsi di base, presso le sezioni o le federazioni provinciali, oppure presso le strutture permanenti, tra le quali la più nota era l’Istituto di studi comunisti delle Frattocchie (dal 1973 intitolato a Palmiro Togliatti), in una frazione di Marino, località dei Colli Albani una ventina di chilometri a sud di Roma. Lì si formavano i quadri dirigenti, si insegnava l’arte della politica. Non si imparava solo la “linea”. Chi frequentava i corsi studiava storia, economia e altre materie ma, soprattutto, ci si formava sull’idea che far politica era una professione al servizio degli altri, di un ideale, di una causa. Insomma, una cosa seria. I corsi erano impegnativi e di lunga durata. I periodi di permanenza variavano da un anno a sei mesi fino a poche settimane. Il mio era un “corso estivo per giovani operai”, della durata di tre settimane che, praticamente, corrispondevano alle mie ferie. Le giornate venivano scandite secondo un programma preciso: ore 7, sveglia e riordino delle stanze; ore 7.55, inizio dei corsi; ore 12, pranzo e riposo; ore 15, discussione e studio; ore 19, cena e libera uscita (quando non capitava qualche riunione serale); ore 22, rientro. Su questo non si sgarrava. Una sera che, in tre, con l’auto di un compagno di Genova (una vecchia Simca 1000) andammo alla Festa de L’Unità di Bellagio, essendo tornati verso le 23 trovammo il cancello chiuso e dormimmo sotto i salici in riva al lago perché nel parco della scuola, dopo le 22, venivano sguinzagliati per la notte due cani piuttosto “mordenti” e non era il caso di mettere alla prova le nostre gambe e  le loro mandibole. Il direttore era l’ex senatore Giovanni Brambilla (Conti). Operaio, confinato, partigiano, in passato vicesegretario della Federazione milanese del Pci e segretario generale della Fiom provinciale milanese. Un uomo tutto d’un pezzo, gentile ma ferreo nell’applicare la disciplina. I docenti erano di grande livello. Stava per essere pubblicato dagli Editori riuniti “Economia politica marxista e crisi attuale”  dell’economista  Sergio Zangirolami, e si studiava con lui  sulle sue dispense. Il giornalista e scrittore Luciano Antonetti, amico e biografo di Alexander Dubcek, protagonista della Primavera di Praga e leader di quel “socialismo dal volto umano” soffocato dai carri armati sovietici nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, ci parlava di politica internazionale. Luciano Gruppi, intellettuale comunista di rango, vicedirettore della rivista “Critica marxista”, anticipò i contenuti di due volumi che sarebbero usciti di lì a poco: “Il compromesso storico” e “Il concetto di egemonia in Gramsci”. Insomma, per farla breve, era un corso impegnativo e, nello stesso tempo, intrigante. Imparavamo a mettere in ordine secondo una certa logica le intuizioni che avevamo colto nel muovere i primi passi in politica e questo ci dava una bella carica. Ma eravamo anche dei ragazzi, tra i diciotto e i ventiquattro anni, e amavamo anche divertici. Non racconterò gli scherzi che si possono immaginare, come – tanto per fare un paio d’esempi – lo zucchero infilato sotto le lenzuola di Mauro Z., operaio metalmeccanico di Carpi, che andava sempre a letto senza pigiama perché soffriva il caldo, o il sale nella minestra di Roberto P., studente di Lodi, che la sputò schifato in faccia a Luigi F., anch’esso studente ma di Verona, che gli sedeva di fronte nel refettorio. Il sabato o la domenica, a seconda delle condizioni del tempo, si andava in gita sul monte Palanzone, con una bella sgambata di qualche ora. Tra canti partigiani e pranzi al sacco, quelle gite rafforzavano il nostro cameratismo. Le nuotate nel lago erano una consuetudine dopo pranzo, prima che entrasse in azione la digestione del pasto che, a dire il vero, era alquanto frugale.  Ho sempre avuto una fifa blu nello spingermi dove non si toccava, quindi mi limitavo a quattro bracciate in orizzontale, poco distante dalla riva. Ma la cosa più straordinaria, e per certi versi tragica, capito’ a Bepi. Il cognome l’ho dimenticato, ma mi ricordo che svolgeva le mansioni di magazziniere in una distilleria di Bassano del Grappa. Quando arrivai in istituto a Faggeto Lario, Bepi era già lì da quindici giorni ed era molto nervoso. Non ci mettemmo molto a comprenderne le ragioni. A ridosso della scuola, appena oltre il muro, c’era una chiesa che un tempo era appartenuta alla stessa proprietà ma che il partito, dopo averla acquisita, con gesto generoso, aveva donato alla curia comasca. Del resto, che cosa ce ne facevamo di una chiesa? Chi aveva fede poteva tranquillamente frequentare le funzioni e queste erano di competenza della diocesi e non certo del PCI. Comunque il problema non era tanto la chiesa ma l’orologio del campanile che, grazie ad un meccanismo ad ingranaggi collegato ad una campana, segnava non solo le ore ma pure le mezze. E se, per il Manzoni, verso sera “si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, cha annunziava il fine del giorno. …” per il povero Bepi s’annunciava il calvario di un’altra notte in bianco perché quel suono gli impediva di riposare. Così, un bel giorno, mi pare di venerdì, calate le ombre della sera, ormai esasperato, armatosi di un possente martello e di due cunei di ferro, lunghi e spessi, si arrampicò come un gatto sul campanile. Giunto all’altezza delle lancette dell’orologio, fissò con forza i cunei nel muro, bloccando il meccanismo che – in tensione per l’impedimento – si ruppe, bloccando il meccanismo che attivava la campana con un forte “crack”. Così, dopo il blitz di Bepi, la notte trascorse in un silenzio irreale e così anche il giorno dopo fino a quando, avvertito del danno che aveva guastato l’orologio, il parroco diede in escandescenze, accusando “quei senza Dio di comunisti” di “aver tagliato le corde vocali alla cristallina voce della Chiesa”. Ma, non avendo prove, dopo un po’ di baillamme, la polemica si stemperò nel nulla. Cosa diversa fu invece l’inchiesta interna condotta dal direttore Brambilla che, superando il nostro muro del silenzio, ottenne da Bepi una piena confessione dopo che lo stesso aveva manifestato un repentino cambio d’umore, canticchiando una poco edificante canzoncina il cui ritornello prometteva di mandare a fuoco le chiese per poi, sulle macerie, costruire delle sale da ballo. Reo confesso, Bepi lasciò la scuola e tornò a Bassano mentre noi, per altri dieci giorni, continuammo il nostro corso di studi per poi tornare a casa. Così passai le ferie del 1976, tra amici e compagni, studiando e frequentando – quando si poteva, mettendo insieme i pochi spiccioli di cui disponevamo – l’Osteria dei Manigoldi, dove si poteva gustare la  petamura. Non saprei come definirla: sembrava  un dolce, una specie di budino, ma era anche un pasto completo , composto da farina, latte, zucchero e vino. Era molto consistente e nutriente, nonostante fosse un piatto povero. Sarà stata la fame, saranno i ricordi un po’ sbiaditi della gioventù, ma quel piatto tradizionale di Faggeto dal colore violaceo era proprio una bontà.

Il re di Superga

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L’indizio, ricostruito nella sua interezza assemblando come in un puzzle in sei frammenti , era abbastanza chiaro: “Fu nicola re di Su perga”. Strano, pensò Aurelio, mostrandosi perplesso. Il gerarca invece, parlando ad alta voce e tormentandosi il pizzetto che incorniciava il mento, esclamò: “Chi sarà mai questo Nicola? Probabilmente un nobile, imparentato con i Savoia, oppure di qualche altra casata che ha avuto in eredità o come riconoscimento per qualche servigio, il titolo di re di Superga

Aurelio Gaspertelli, di professione avvocato, si considerava un principe del foro ma chi ben lo conosceva non esitava a definirlo piuttosto un azzeccagarbugli. Frequentando un certo ambiente a Torino, facendo leva sulle doti oratorie che non gli difettavano, Aurelio era noto anche per un’altra passione: la ricerca storica locale. Leggeva antiche carte e polverosi volumi, impegnandosi in minuziose ricerche tese a  svelare i tanti misteri di Torino, la sua città.  Una storia, quella della capitale sabauda, che si estendeva per più di due millenni, dagli insediamenti dei Taurini all’epoca romana fino alla gloria e al potereai tempi in cui divenne capitale del ducato di Savoia. A dar manforte al Gaspertelli c’era Ottorino Grandini, un ex bidello della scuola elementare dell’Abbadia di Stura che, riconoscente all’avvocato per averlo tratto dagli impicci per una vecchia vicenda di liti con i vicini, si era offerto come assistente del legale. Uomo tuttofare , sempre disponibile, nonostante la modesta cultura , si adoperava in ogni modo per venire incontro alle molteplici esigenze del suo principale. E tutto questo per due pranzi caldi, il pagamento della pigione di una stanza da un’anziana vedova, in una casa di ringhiera in Barriera di Milano, e poche lire di compenso.  Cosa che ,in tempi come quelli, nella seconda metà degli anni trenta, non andava per nulla disprezzata.

Fu proprio Ottorino a portare la notizia che nel quartiere Sassi, in località Mongreno, erano stati rinvenuti i resti di una strana  lapide , a prima vista molto interessante. Aurelio , incuriosito,  volle subito conoscere i particolari. Ottorino lo informò che dai frammenti più grandi si poteva leggere con facilità un’iscrizione che rimandava certamente alla storia cittadina. Purtroppo della scoperta era stato avvisato anche Italo Nerofumi, uno spocchioso gerarca fascista che si piccava di saperne una più del diavolo in ogni materia. E, ovviamente, anche in campo storico. L’ispettore del Partito Nazionale Fascista, agghindato di nero come un corvo, era già piombato sul posto e appena vide sopraggiungere l’avvocato, gli sì parò davanti ostentando la più classica delle pose fasciste. Piantato a gambe larghe , le mani sui fianchi, gli occhi spiritati, le mascelle all’infuori e le labbra turgidamente protese, Italo Nerofumi, con voce stentorea e frasi secche come scudisciate, lo apostrofò:  Guarda, guarda..l’avvocato. Ma cosa ci fa qui lei? Non doveva essere al confino?”. Il gerarca, ghignando, si riferiva alle simpatie politiche del Gaspertelli, sospettato di essere amico dei comunisti dopo aver difeso, anni prima, alcuni lavoratori dall’accusa di violenze per aver difeso dalle camicie nere la sede de L’Ordine Nuovo, il giornale di Gramsci, in via Arcivescovado. “Se è venuto qui a ficcare il naso sappia che non c’è roba per lei. Qui c’è materia per una indagine storica che può riservare sorprese importanti e solo uno come me può scoprire l’arcano. Le è chiaro?”, sentenziò Nerofumi guardando torvo l’avvocato.

Comunque, proprio al fine di manifestare la sua superiorità, non impedì all’avvocato di assistere al suo, come amava dire, “operare scientifico”.  L’indizio, ricostruito nella sua interezza assemblando come in un puzzle in sei frammenti , era abbastanza chiaro: “Fu nicola re di Su perga”. Strano, pensò Aurelio, mostrandosi perplesso. Il gerarca invece, parlando ad alta voce e tormentandosi il pizzetto che incorniciava il mento, esclamò: “Chi sarà mai questo Nicola? Probabilmente un nobile, imparentato con i Savoia, oppure di qualche altra casata che ha avuto in eredità o come riconoscimento per qualche servigio, il titolo di re di Superga”.  Un bel mistero sul quale s’interrogò per due giorni e due notti, consultando molti documenti nei quali, però, non si trovava traccia di quella storia. Nessun titolo reale era affiancato alla celebre collina  dove era stata edificata l’omonima Basilica per soddisfare il voto che Vittorio Amedeo II fece davanti alla statua della Madonna delle Grazie in un momento difficile per il regno sabaudo. Nel 1706 Torino era assediata dalle truppe francesi. E quel Nicola, scritto con l’iniziale minuscola? Come mai il nome dell’uomo, certamente  d’alto lignaggio tanto da giustificarne il titolo reale, era riportato in modo così anonimo e quasi meschino, evitando la più consona e per certi versi obbligata iniziale maiuscola?

Mistero. Anzi, un mistero così fitto che nemmeno la commissione culturale della federazione fascista torinese riusciva, nonostante lo spremere delle meningi dei suoi componenti, a venirne a capo. All’avvocato Gaspertelli un dubbio, in verità, era venuto. Ma, per non passare dei guai, l’aveva tenuto per se, soffocando quella vocina che gli suggeriva di spifferare ai quattro venti l’ipotesi che si era fatto. Accompagnato da Ottorino si era recato ai Sassi, per un sopralluogo. Insieme, di buon passo, avevano percorso un bel tratto a fianco della storica tranvia a dentiera Sassi – Superga  che era unica in Italia nel suo genere. Si trattava della continuazione di una tradizione ultracentenaria iniziata il 26 aprile 1884 con la prima corsa effettuata dal trenino, mosso da un motore trainante una fune d’acciaio che scorreva parallelamente al binario su pulegge sistemate lungo  tutto il percorso. La linea da poco, era stata  trasformata in tranvia a dentiera con trazione a rotaia centrale. Un’opera imponente, lunga circa tre chilometri tra la stazione di Sassi, in piazza Modena, e quella di Superga , 425 metri più in alto. Quante volte c’erano andati fin lassù, ad ammirare lo splendido panorama su Torino e le Alpi, visitando la Basilica edificata dallo Juvarra e  le tombe reali dei Savoia. I lavori si erano protratti per un bel po’ e …l’illuminazione fu tale che ogni dubbio venne spazzato via. Poteva, lui, uomo di legge e di cultura, lasciar perdere un’occasione così ghiotta di sbertucciare quel fascistone ignorante del Nerofumi? A ben guardare non gli conveniva affatto; anzi, era piuttosto un azzardo che avrebbe portato guai certi e ben poche soddisfazioni. Ma fosse stata anche una piccola, seppur magra e momentanea rivalsa, si disse che sì, ne valeva la pena. Così, pensò a come procedere senza compromettersi troppo e rischiare di finire dritto al confino. La soluzione venne offerta dal fido Ottorino che aveva un nipote che lavorava come garzone al Caffè dei Portici, proprio davanti alla sede della Federazione Fascista.

Ogni giorno, e soprattutto in quei giorni, dal Caffè venivano forniti dei panini imbottiti al gruppo di “storici” impegnati a decifrare la  lapide misteriosa. Ad Albertino ( questo era il suo nome) l’avvocato raccontò cosa dovesse dire e il ragazzino, furbo e svelto, non perse tempo a mettere in atto il piano. Alla prima occasione in cui, dal Caffè, vennero inviati i generi di conforto alla sede fascista, si presentò con i panini davanti alla sala delle riunioni. Bussò e , consegnando le vivande, sbirciò il tavolo sul quale i reperti erano stati allineati. A quel puntò sbottò con un “Ma io l’ho già vista quella scritta!”. Tutti si voltarono a guardarlo, increduli. E il ragazzino aggiunse: “E’ quella della funicolare di Superga!L’hanno tirata giù quando hanno iniziato i lavori per la nuova tranvia”. Gli “storici” si guardarono l’un con l’altro e poi, rileggendo la composizione dei frammenti, il professor Daodatici esclamò: “ Buon Dio, ha ragione questo giovinetto. E’ l’insegna della “dentiera”. Altro che mistero, mio caro Nerofumi. Che non si sappia in giro la figura che abbiamo fatto..”. Il gerarca, scuro in volto come l’orbace, masticò amaro e sciolse in quattro e quattr’otto la “commissione” d’inchiesta, chiedendo ( e ottenendo) l’impegno al più assoluto riserbo. Albertino ci guadagnò una banconota da due lire, l’avvocato la soddisfazione di aver fatto fare una magra figura al Nerofumi, il gerarca – con la bile a mille – la promessa dell’assoluto silenzio su quella vicenda poco esaltante. Nel frattempo, i torinesi continuarono a salire a Superga con la tranvia. Senza curarsi di sapere chi fosse quel Nicola che aveva fatto scervellare le migliori(??) intelligenze della città.

 

Marco Travaglini

Mia madre e i ricordi di un tempo

IL RACCONTO  Di Marco Travaglini

Da mia madre ho imparato a tenere gli occhi aperti sulla vita. L’ho molto preoccupata quando, a pochi mesi, siamo stati sul punto di lasciarci a causa di una brutta gastroenterite che, a quell’epoca, era una delle cause di morte tra i neonati. Andò bene e l’unica conseguenza, passata la crisi acuta, fu la separazione (non consensuale ma necessaria) tra me e il latte. Un distacco non irreversibile che si protrasse comunque nel tempo, per molti anni. Di quei tempi ricordo bene i bagni nel mastello di zinco, al tepore della stufa a legna, sulla quale veniva fatto bollire il calderone dell’acqua. Le comodità, allora, avevano un loro prezzo. Per l’espletamento dei bisogni corporali, ad esempio, era necessario imboccare l’uscio di casa, percorrere due ballatoi e altrettante rampe di scale nella casa di ringhiera dove abitavamo ( e dove sono nato). Lì, nel sottoscala del locale dov’era il lavatoio, era stato ricavato un essenziale bagno alla turca. L’acqua potabile? Un lusso che in casa nostra non ci potevamo permettere. Dal rubinetto scendeva quella captata direttamente dal torrente Selvaspessa , con tutto ciò che l’accompagnava, dai residui di foglie ai piccoli animaletti che s’intrufolavano – loro malgrado – nella conduttura idraulica. E allora, per bere? S’andava a far rifornimento con fiaschi e bottiglioni alla fontana pubblica, distante quasi un chilometro, su in Tranquilla. Anche per l’energia elettrica c’era da tribolare. Nelle prese domestiche la tensione era di 160 volt e non c’era la terra. Poi tutto venne unificato ai 220 V monofase e, per far funzionare il frigorifero e la Tv (in bianco e nero, ovviamente), si rese necessario l’utilizzo di due trasformatori di corrente. Nonostante ciò, la nostra relativa povertà era più che dignitosa. Eravamo sempre puliti, mio fratello e io, vestiti con semplicità ma non goffi, e sulla tavola c’era l’essenziale. Mai troppo, mai troppo poco.

La lonza

E’ vero che, ad esempio, la lonza di maiale faccio fatica a guardarla con desiderio, visto e considerato che era l’unico “taglio” di carne che con una certa frequenza, transitava sulla nostra tavola. Ma è pur vero che c’erano anche quelli che la vedevano più raramente e, in fondo, s’era fortunati.

Avevamo un piccolo orto, diviso in “prose”, cioè in quelle strisce di terreno di varia ampiezza, sopraelevate sul livello del suolo e comprese tra due solchi, per smaltire celermente l’acqua piovana e non farla ristagnare. Lì si seminavano e crescevano le insalate, i porri, tal volta i fagioli che s’arrampicavano sulle “frasche” e ,più raramente, i pomodori. Ricordo quelle carote lunghe e arancio, sormontate dal ciuffo verde che, ripulite ben bene dal terriccio, si mangiavano così, crude, sgranocchiandole come i conigli.

Zio Edoardo

Mia madre, da giovinetta, aveva recitato anche nel teatro parrocchiale. Era spigliata, curiosa, intelligente. Amava leggere e le piaceva leggermi le favole che, da Milano, mi portava suo zio Edoardo. Lo zio di mia madre, basso di statura e mingherlino, con l’immancabile cravattina nera sulla camicia bianca (era anarchico e, in gioventù, aveva stretto amicizia anche con il regicida Gaetano Bresci, pur essendo d’indole mite e bonaria) ogni volta che veniva a Baveno mi portava dei libri bellissimi. Li ricordo con piacere quei bei cartonati spessi, illustrati a colori, con le fiabe di Esopo, dei fratelli Grimm e di La Fontaine. Li stampavano nella tipografia dove lavorava, vicino a Porta Ticinese. Fu lui a regalarmi il primo libro vero, quel Piccolo Alpino che era il capolavoro di Salvator Gotta. E anche il secondo, seppure postumo (morì poco prima): la Carica dei 101, con l’incredibile storia dei cani dalmata e della perfida Crudelia Demòn.

Il maestro Manzi

A leggere e scrivere imparai graffiando con il pennino ad inchiostro i fogli di carta grazie al maestro Manzi che curava alla tv la rubrica Non è mai troppo tardi. Sì, perché l’unica concessione al progresso vero era proprio la tv, che i nonni e i vicini venivano a vedere portandosi la sedia da casa. All’epoca il mezzo catodico incentivava la condivisione e attorno a programmi come Lascia o raddoppia, Il Musichiere o Campanile Sera si recuperava un senso di comunità, a differenza di oggi dove guardare la tv è diventata un rito individualista al cento per cento o poco meno. La tecnologia dell’epoca era quella che rea e anche le foto si scattavano con la Ferrania vinta con i punti delle figurine Mira Lanza che si trovavano nelle confezioni di detersivo.

Il rito di guardare le foto poteva ripetersi all’infinito ma c’era sempre quell’atmosfera d’attesa e di curiosità nel rivedere le immagini che testimoniavano visivamente i ricordi, le memorie. Mia madre era molto bella nella foto che la ritraeva imbracciando un fucile al tiro assegno del luna park. Lo era anche in compagnia di mio padre, una a fianco dell’altro, in piedi, in un prato, in posa ma non rigidi. E le mie prime foto: davanti alla torta con la candelina accesa del primo compleanno, con lo sguardo curioso e un po’ stranito dei bambini; nel prato davanti a casa, a due o tre anni, con la fisarmonica o sul lungolago di Baveno, con in mano una barchetta a vela, in calzoni corti e in testa un cappellino chiaro. Quelle con i nonni, rigorosamente a Natale, a tavola; o con mio fratello, più avanti, quando lui ne aveva tre e io nove. Lui seduto su di un camion di celluloide e io in piedi, con un libro in mano.

I nonni materni

Mia nonna Amalia, la madre di mia mamma, mi voleva un bene dell’anima. Insieme a mia zia Annetta si cavava gli occhi nell’infilare sui ventagli di carta le forcine brunite per capelli della ditta Wulf, racimolando qualche lira che integrava la magra pensione. Ma non mancava mai di darmi le cinquanta o cento lire per comprarmi i fumetti dall’Attilio “Tillio” Zaccheo, titolare dell’edicola davanti alla piazza dell’Imbarcadero. Cosa non avrebbe fatto per quel suo nipote che ero io. Persino votare per il PCI, lei – democristiana fino al midollo – che aveva già accettato per amore e rispetto che sua figlia sposasse mio padre, che comunista lo era già al tempo suo. Ricordo quando apprese che il suo cantante preferito, Sergio Endrigo, era comunista: apriti cielo! Lo cancellò seduta stante dai suoi pensieri, relegandolo nella peggiore delle bolge dantesche. Eppure, come per suo genero, avrebbe fatto uno strappo alla regola per suo nipote, portando la sua scelta d’amore all’estrema conseguenza di mettere la croce sul simbolo della falce e martello impresso sulla scheda elettorale. Non lo poté fare solo perché morì prima ma non ho mai dubitato delle sue parole e dell’impegno che vi era contenuto. Anche mio nonno materno stravedeva per il suo primo nipote. Si chiamava Gerolamo ma per noi era il nonno Mèla. Erano, lui e la nonna, originari di Cesate, un paese a diciotto chilometri dal centro di Milano. A Baveno erano arrivati più tardi, sposandosi e allargando la famiglia con Annetta e Piermaria, mia madre. Mio nonno mi costruiva le tende degli indiani con lenzuola e tappeti e mi raccontava che, durante la prima guerra mondiale, si era addormentato mentre montava la guardia ad una polveriera dalle parti del lago di Misurina, sfinito e un po’ brillo per il cordiale che aveva bevuto a causa del mal di denti. Gli andò bene che nessuno s’accorse, altrimenti finiva al muro, fucilato per tradimento o diserzione. Non vide mai il fronte, per sua fortuna, e quando – tornando a casa, finita la guerra – si trovò ad imbarcarsi a Lovere, sul lago d’Iseo, prese il cappello piumato da bersagliere e lo lanciò in acqua, accompagnando il gesto di ribellione con parole che non mi sembra il caso di riportare ma che sono facilmente intuibili. Aveva una grande speranza, lui, convinto socialista: vedere presidente della Repubblica il “suo” Giuseppe Saragat. Morì poco prima che ciò accadesse e fu la seconda grande delusione, dopo quella che gli procurò mia madre con quella vecchia schedina della Sisal che, dopo averla giocata modificando le sue indicazioni, gli negò la gioia e la fortuna del tredici. Solo i buoni uffici di mia nonna e l’amore filiale gli impedirono di strangolare mia madre.

E i nonni paterni

Della madre di mio padre, la nonna Sofia, ho pochi ricordi, piuttosto nebulosi. Rammento che aveva, in una cassapanca in camera, un vecchio libro illustrato che ho letto e riletto, con la storia di Cappuccetto Rosso. E rammento le parole, terribili e forse dettate inconsapevolmente dalla malattia che la stava spegnendo, che rivolse a mia madre, indicandomi: “Lui ti darà tanti dispiaceri e ti farà soffrire”. Parole che mi sono restate impresse, incancellabili quasi fossero marchiare a fuoco sulla pelle. Con mio nonno Giuseppe, invece, il rapporto fu più intenso ma non facile, anzi piuttosto burrascoso. E’ pur vero che, per aver aizzato inconsapevolmente il mio cane Dick, provocai il suo azzannamento (una decina di punti di sutura in una mano) e che , artefice un mio cugino ben più grande, offrimmo a lui una finta caramella Golia che si rivelò una imitazione consistente in una cacca di capra modificata alla bisogna, ma pur considerando tutto ciò non ho mai capito la sua ostinata predilezione per mio fratello. Era più piccolo? Era più testardo e di carattere deciso? Gli assomigliava di più? Boh, fatto sta che il preferito era lui, e alla grande. Mi madre, per fortuna, prendeva le mie difese, come quella volta che, per sfuggire all’ira – giustificata anche se un poco eccessiva – del nonno, caddi rovinosamente sulle pietre del selciato. Ero uno scempio e mia madre mi curò le ferite alle labbra, ai gomiti e alle ginocchia. Ebbe parole dure di rimprovero verso il “Pepp” che, in realtà, non aveva torto, considerato che gli scherzi ai quali sottoponevo la sua pazienza avevano davvero superato i limiti. Le foglie delle magnolie generalmente grandi, ovali e coriacee, lasciate cadere a punta dall’alto sulla testa del nonno quand’era seduto su di un sasso, dopo che s’era tolto il cappello, facevano davvero male. E la sopportazione dell’uomo, pur avvezzo alle asprezze della Grande Guerra (che aveva fatto per intero, e al fronte) e del conflitto iberico (dove combatté per scelta e non per altrui imposizione a difesa della Repubblica) , non era illimitata come s’incaricò, aiutandosi con il bastone da passeggio, di rammentarmi direi tangibilmente. L’ultimo sgarbo del nonno, suo malgrado, si consumò a Carnevale nel 1967. Morì in quei giorni ed io che avevo una bella divisa blu e un imponente copricapo da austroungarico, non potei mettermi in maschera. Così, un paio d’anni dopo, quel che a me fu negato dal luttuoso evento, fu consentito a mio fratello che utilizzò il travestimento e si fece disegnare, per di più, un bel paio di baffi con il turacciolo di sughero bruciacchiato. Col tempo, poi, ho imparato ad amare mio nonno e anche mia nonna, ricostruendone la memoria nel mio personalissimo immaginario.

Il triangolo

Il triangolo non era una forma geometrica astratta ma un concretissimo prato recintato da un muretto che costituiva, appunto, un triangolo. Separava il viale alberato che dalla fabbrica di scardassi Shelling scendeva fino all’incrocio della passerella e del Circolo dalla via che portava dritto al centro di Oltrefiume. La strada che scendeva dalla Tranquilla si biforcava in quel punto e il triangolo, come un cuneo, stava lì in mezzo. Ci si divertiva un mondo, in quel prato. E nelle tiepide sere d’estate, accompagnati dalle mamme che chiacchieravano tra di loro sedute sul muretto, si trasformava nel nostro parco giochi. Mariolino, con la sua bici senza freni sul manubrio ( usava il piede destro, schiacciando il freno sulla ruota in corsa: pratica azzardata e perigliosa, con il rischio di infilare il piede tra i raggi della ruota in movimento) saggiò la tenuta del muro, schiantandosi come un kamikaze. Il muro tradì solo una superficiale scorticatura, la bici s’accartocciò, Mariolino provò l’ebbrezza del volo e la noia dell’ospedale, immobile, dolorante e ingessato. I primi gelati, come il mitico Mottarello, vennero consumati lì, al triangolo. Era buonissimo con panna ricoperta di cioccolato. Ne ho mangiati diversi, con avidità e sprezzo del pericolo che derivava dall’aver patito la gastroenterite, con le conseguenze all’apparato gastrointestinale che non mi sembra il caso di dettagliare.  Ricordo interminabili partite a calcio, sfide a mosca cieca e a nascondino (nonostante fossero pochi e scontati i nascondigli a disposizione in loco) e le lanterne. Anticipo la domanda, figlia di una legittima curiosità: le lanterne si ottenevano quand’era ormai buio trattenendo solo per pochi attimi le luminosissime lucciole nelle mani serrate a coppa. Si giocava anche con le figurine dei calciatori, sia quelle della Panini che le altre, quelle spesse di cartone che si trovavano nel distributore di chewingum (il “ciuingam”) a palline. Quella delle macchinette distributrici delle gomme americane sferiche e colorate, accompagnate dalle figurine cartonate, era un’idea degli americani e in Italia fece la sua apparizione insieme a me, nel 1957. Il gusto delle cicche era lo stesso e prescindeva dal colore delle stesse , mentre le figurine erano di diverse serie: dai calciatori agli aerei, dai ciclisti alle meraviglie del mondo. Ovviamente quelle a tema sportivo erano le più gettonate in periferia e chi possedeva le altre, non poteva che averle trovate smanettando qualche dispenser a Milano o in qualche altra grande città.

La scuola

Gli anni della scuola sono stati i più belli e sono passati in un battibaleno. Dal primo giorno, con il mio grembiule blu e il fiocco bianco storto (non so come mai, ma era sempre così, e persino nella foto ricordo classica è storto e si vede bene, così come le orecchie a sventola si notano a meraviglia), alle ultime lezioni nell’aula distaccata della vecchia scuola media, sulla statale che attraversa Baveno. Dalla prima cartella di cuoio marrone all’elastico per legare i libri, dal pennino per fare le aste e i rampini in prima elementare (una sofferenza, per me che sapevo scrivere) alle Bic e alle stilografiche con cannuccia.

Un lungo percorso dall’anno in cui usciva il primo album dei Beatles, Valentina Tereshkova era la prima donna lanciata nello spazio, moriva a Dallas John Kennedy e Martin Luther King pronunciava il suo celebre I have a dream fino all’anno in cui a Londra aprirono il primo Hard Rock Café, Greenpace e Medici senza Frontiere iniziarono la loro attività e John Lennon pubblicò Imagine («Immagina non ci siano nazioni [..] niente per cui uccidere e morire e nessuna religione. Immagina che tutti vivano la loro vita in pace»). Lì, racchiusa in otto anni, c’è tutta l’evoluzione storica del paese e quella mia, individuale e scolastica. Comprese le discussioni, in prima elementare, davanti ai cartelloni elettorali al tempo delle votazioni. Ricordo bene quando sostenni che mio papà avrebbe scelto quel simbolo con la bandiera italiana, in un infantile sentimento patriottico, ignorando che si trattava del simbolo del partito Liberale che difficilmente poteva entrare nel cuore del genitore che, pur senza eccessi, era fieramente comunista. Quegli anni passarono veloci. Poi, venne il giorno del grande dispiacere per mia madre (e per mio padre): la rinuncia ad andare alle superiori e la scelta di andare in fabbrica, a lavorare. Ricordo quel primo ottobre del 1971 con la radio che annunciava l’avvio dell’anno scolastico mentre io ero a casa, in attesa di compiere i miei 14 anni ed andare a lavorare alla CAM (Costruzioni Attrezzature Meccaniche) dal signor Viola Valentino, dove prestai poi la mia opera fino al giugno del 1977. Mia madre era affranta, dispiaciuta. Mio padre si dava un tono, ma non era contento neppure lui. Agli insegnanti dopo l’esame di terza media (superato con l’ottimo) avevo raccontato che avrei scelto la scuola più adatta ma che non avevo ancora deciso quale fosse. Una pietosa bugia, onde evitare che accarezzassero l’idea di studiare qualche sistema per indurmi ad un supplemento di riflessione, evitando di abbandonare gli studi per intraprendere la vita dell’operaio metalmeccanico.

La triste estate del 1970

Terminata la scuola, dalla quinta elementare in poi, d’estate m’ingegnavo a fare qualche lavoretto (spolverare le cartoline e mettere in ordine il negozio di un tabaccaio, aiutare un venditore di scarpe al mercato del lunedì) per racimolare qualche mancia che poi mi sarebbe servita per l’acquisto dei testi scolastici. Lo posso dire con un poco di vanto: alle media i miei genitori non hanno dovuto spendere una lira per libri e quaderni perché vi ho provveduto da solo, impegnando i miei risparmi. L’unica estate dove ho avuto qualche difficoltà fu quella del millenovecentosettanta. Mia madre non stette per niente bene. A causa di un forte esaurimento nervoso si rese necessario il suo ricovero temporaneo presso l’ospedale Sant’Antonio Abate di Gallarate. Soffrì molto e non voleva vedere nessuno, tranne me. Così, a poco più di dodici anni e mezzo, mi trovai a fare la spola tra casa e ospedale, tra Baveno e Gallarate, viaggiando in treno. L visite erano consentite nel tardo pomeriggio e il treno del ritorno partiva dal comune varesotto attorno alle 21,30. Con un fumetto da leggere e la mia borsa del cambio dei vestiti, stavo lì nella sala d’aspetto per più di un’ora, attendendo l’accelerato che da Milano andava a Domodossola. Una sera capitò un episodio che mi è rimasto impresso. Un uomo, d’età indefinibile e con un fare untuoso, s’avvicinò e mi fece un sacco di domande: come mi chiamassi, da dove venivo, dove abitavo, perché ero lì, solo, a quell’ora e così via. Io cortesemente risposi per buona educazione ma non mi piaceva quell’insistenza e quando mi chiese di andare a casa sua, non solo declinai decisamente l’invito ma, alzatomi, mi recai davanti alla vetrata dell’ufficio del capostazione che mi parve un luogo più sicuro, in attesa del treno. Da quella volta non mi capitò più di fare incontri di quel genere ma, a scanso d’equivoci, mi sistemai ogni volta davanti all’ufficio, in piena luce, restando in piedi, scomodo ma più sereno. Poi, per fortuna, la mamma guarì e da allora, sarà un caso, ma non mi è più capitato di recarmi a Gallarate.

Piedi gelati nel bosco

Con la legna ci si scaldava cinque volte. Una prima volta quando si tagliava l’albero nel bosco, un’altra quando – tagliato a pezzi – lo si portava a casa; una terza quando – con la sega circolare – veniva sezionato e un’altra quando i ciocchi venivano spezzati in due con l’ascia. Infine, ed era la quinta, quando veniva bruciata nella stufa che avevamo in cucina. Così, da quando avevo sette anni fino ai venticinque, sono andato a far legna nel bosco dietro la casa del vecchio Salvatore dopo aver imboccato il sentiero sopra la via Fraccaroli. Mio padre sceglieva l’albero, legava una corda al tronco arrampicandosi come un gatto più in alto possibile così da poterne indirizzare la direzione di caduta e poi s’iniziava a tagliarlo al piede, con la sega e l’ascia. La motosega arrivò più tardi, sostituendo quella a mano che, in due, si tirava da una parte all’altra. Quando il taglio era profondo, tendendo la corda, si faceva cadere l’albero dalla parte stabilita. Una volta atterrato i tronco veniva sramato e sezionato in pezzi lunghi non più di due metri ( secondo il diametro e il peso) che si portavano a spalla fuori dal bosco. Da lì con un cuneo di ferro piantato nel legno al quale era fissato un anello con una corda, i tronchi – uno alla volta – venivano trascinati giù dal sentiero per quasi un chilometro.

A quel punto, giunti all’altezza della strada, si caricava il tronco in spalla, bilanciando bene il peso e lo si portava così fino a casa, per un altro buon chilometro. Ogni giorno, un paio di viaggi o anche tre. Poi, terminata questa fase che durava settimane e a volte qualche mese, in base al quantitativo e al tempo a disposizione, si passava ai successivi tagli e all’accatastamento prima dell’utilizzo come combustile. Ricordo quel giorno che rischiai il congelamento dei piedi. Era nevicato e la legna tagliata andava portata fuori dal bosco prima che gelasse. Già così, bagnata, era pesantissima da sollevare; figurarsi se il freddo l’avesse chiusa in una morsa di gelo, saldando un tronco all’altro. Per non bagnarmi avevo calzato gli stivali di gomma. Faceva un freddo boia e dopo un po’ iniziai a sentirmi le gambe formicolanti e i piedi doloranti. A un certo punto mio padre s’accorse che in volto ero bianco come un cadavere e che rimanevo lì, in piedi, muovendomi appena. Non avevo nemmeno la forza di lamentarmi. Mi sollevò di peso e mi portò nella casa del Salvatore dove la moglie, una arzilla donnetta calabrese, mi fece sedere in cucina davanti al camino. Mi tolse delicatamente gli stivali e le calze e mi frizionò entrambi i piedi a lungo con della sugna, il grasso del maiale con cui s’ingrassava la superficie degli scarponi. A poco a poco il sangue tornò a circolare regolarmente e io recuperai la sensibilità. Da allora, facendo tesoro dell’esperienza, evitai di infilarmi stivali da pioggia per stare a lungo nella neve.

Il cinema tra Stresa e Arona

Se i primi film sul grande schermo li vidi a Baveno, nella sala cinematografica vicina alla stazione ferroviaria (ricordo, oltre alle parodie di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia una pellicola indimenticabile come il Lawrence d’Arabia con Peter O’Toole), iniziò presto il pendolarismo domenicale verso Stresa ( dove c’erano i cinema Italia e Rosmini) e poi, più lontano, ad Arona ( dove frequentavamo il Roma, Moderno, Lux e San Carlo, dividendoci tra queste sale in ragione del film che veniva proiettato). Il treno aveva ancora i sedili di legno della terza classe, soprattutto il locale del ritorno alla sera che faceva tutte le stazioni (Arona, Meina, Lesa, Belgirate, Stresa, Baveno) con una lentezza esasperante, traballando e cigolando sui binari. Se il film era una pellicola allegra o un soggetto storico, oppure un dramma, nessun problema. Se invece era un giallo (per non parlare degli horror della serie di Dracula con Christopher Lee e Peter Cushing, o lo Psyco di Alfred Hitchcock con l’inquietante Anthony Perkins), i problemi diventavano seri, soprattutto d’inverno, dall’uscita dalla stazione di Baveno fino a casa. Sì, perché la suggestione delle immagini e un poco d’adrenalina che restava in circolo accompagnavano il tragitto tra le ombre degli alberi, il buio e la luce fioca dei lampioni, con qualche brivido. Ricordo quando vidi La dama rossa uccide sette volte. Camminai a centro strada fino su alla Tranquilla e poi, l’ultima parte, a zig e zag tra il giardino di una villa e il casermone della fabbrica dell’Arrivabene, fino alla casa di ringhiera dove abitavo, la feci di corsa con i talloni che toccavano il sedere. Se mi fosse capitato d’impigliarmi il vestito in uno dei tanti fili di ferro che sporgevano dalla recinzione a lato, avrei rischiato di rimanerci secco. Ma raggiunsi sempre, con il cuore in gola, la porta di casa mia, chiudendomi alle spalle le ombre, manifestando un contegno che solo il tremore della fifa rischiava di tradire.

Négar come un scurbàtt

Sul finire degli anni settanta, ad agosto, ero andato al mare, in Calabria. Esattamente a Brancaleone Calabro, dov’era stato mandato al confino nel 1935 Cesare Pavese. Due settimane bellissime sulla costa Jonica , tra il mare e l’Aspromonte, i campi con grandi e succosi pomodori e l’odore intenso dei gelsomini. Il viaggio era piuttosto lungo, occupando più di una giornata e di una notte intera, ma ne valeva la pena. Quando tornai a casa, mi presentai a mia madre négar’me un scurbàtt, nero come un corvo, a causa dell’abbronzatura che per la prima volta in vita mia era davvero notevole. Ci volle del tempo e un certo quantitativo di acqua e sapone per convincerla che si trattava di un naturale colorito della pelle e non dello sporco accumulato durante il viaggio di ritorno. Le piaceva ascoltare e le raccontai per filo e per segno la vacanza, le località visitate ( ero stato anche a Taormina, in Sicilia, attraversando lo stretto di Messina con il ferribotte, il traghetto), degli incontri fatti. Non si stupì della generosità dei calabresi che era davvero notevole, testimoniata dall’affetto e anche dai vasetti d’olive, caciocavallo, soppressata e un vino scuro e spesso. La brava gente si trova dappertutto, così come quella cattiva”, sentenziò. A mia madre piaceva ascoltare ma anche raccontare. Rammento le storielle di quand’eravamo piccoli, io e mio fratello. A volte usava il dialetto lombardo, quello dei suoi genitori. In fondo non era tanto diverso da quello che si parla sul lago Maggiore, da una sponda all’altra. Ricordo le risate che facevamo ascoltando l’episodio del dialogo tra l’ortolano che vendeva noci al mercato e il turista francese che chiedeva informazioni, generando uno spassoso equivoco. Il turista, incuriosito, presa in mano una noce, chiedeva “Comment s’appellent-ils?” (Come si chiamano?), ottenendo come risposta “Se pelen no, se schiscen.” (Non si pelano, si schiacciano.). Non capendo, il francese, con sguardo interrogativo, diceva “Comment?” (Come?). Il fruttivendolo, scuotendo la testa, precisava “Coi man, coi pé, come te voeuret!” (Con le mani, coi piedi, come ti pare!). A quel punto, il turista, alzando le spalle, rispondeva “Je ne comprends pas…” (Non capisco…). Il venditore di noci, spazientito e senza garbo chiudeva il dialogo con un perentorio “Se te voeuret minga comprài, lassa pur stà!” (Se non vuoi comprare, lascia stare!). E noi giù a ridere. Così, tra una storiella e l’altra, qualche scioglilingua (quello del ciabattino, l’ho imparato a memoria, senza fatica, essendo privo di erre: “…Tacum i tach… Mi, tacat i tach a Ti che ti tacat i tach? Tacai ti i tò tach, ti che ti tacat i tach…”. (Attaccami i tacchi… Io, attaccarti i tacchi a te che attacchi i tacchi? Attaccateli tu i tuoi tacchi, tu che attacchi i tacchi!) e molte letture, si passava il tempo.

Quei primi anni sessanta

Siamo cresciuti così, in quei primi anni sessanta. Con la giusta attenzione a libri e quaderni e la voglia di giocare che si ha a quell’età. I nostri erano giochi poveri, dove la fantasia – che non costava nulla – poteva fare la differenza, arricchendoli e rinnovandoli al punto d’apparire sempre nuovi e differenti nonostante fossero spesso gli stessi. I giochi non andavamo quasi mai a comprarli nei negozi. Di soldi ce n’erano pochi e i nostri giochi ce li costruivamo da soli. Avendo legnetti, elastici, un gessetto colorato, un vecchio cerchione arrugginito di bicicletta, un fazzoletto, il cono di cartone di una rocca del filato con un poco d’abilità compariva la lippa, una fionda, il campo tracciato per i quattro cantoni o la pista per i tappi, il gioco del cerchio, ruba bandiera o mosca cieca, una cerbottana. Era meglio essere in banda, in compagnia ma ci si poteva divertire anche da soli. In questo caso occorreva una bella dose d’immaginazione. Ricordo, ad esempio, le lunghe discussioni con la mia immagine riflessa nel vecchio frigorifero Ignis. In testa portavo una bustina militare di mio padre, sulle spalle uno zainetto grigioverde ereditato da chissà chi e tra le mani uno sciòpp da legn, un fucile di legno artigianale. A quell’epoca sottostavo agli ordini del Sergente, la cui immagine rispondeva immediatamente al mio saluto militare, imitando ogni mio gesto nel mettermi sull’attenti davanti alla porta lucida del frigo. Non avendo il dono della parola toccava a me, improvvisandomi ventriloquo, dargli voce immaginando che, come tutti i graduati, l’avesse un po’ roca e un tantino autoritaria. Solo più tardi l’artigianale schioppo fu sostituito con il fucilino ad aria con il tappo di sughero tenuto dallo spago. Un’arma straordinaria, tecnologicamente avanzata per quell’epoca, che faceva risuonare nell’aria il suo minaccioso e secco “plop!”.

Giubbe rosse a cavallo e la bambola Caterina

I più fortunati tra di noi possedevano i bastoncini di legno dello Shangai, gli aerei di carta dei formaggini Galbani, la mucca Carolina o la Susanna tutta-panna gonfiabile che si otteneva con i punti dell’Invernizzi, le palline clic-clac, il gioco dell’Oca o del Monopoli (per i più grandi che cominciavano a capire il senso e il valore del denaro), il traforo, il Meccano o il trenino elettrico della Lima ( i più fortunati della Rivarossi). Alcuni amici possedevano i soldatini della Nardi, belli e colorati, di plastica e con le parti del corpo staccabili: le Giubbe Rosse a cavallo, con le divise fiammanti e quegli strani copricapo, gli antichi romani e i barbari, gli indiani e i cowboy, i nordisti e i sudisti impegnati a combattersi in un’infinita guerra civile con le loro divise blu e grigie. Io, schioppo di legno a parte, non possedevo altro che la mia fantasia.

E un asino rosso di plastica, ricordo dell’infanzia, comprato da mia madre alla festa del santuario mariano del Boden, sulle alture di Ornavasso, che faceva compagnia ad un Calimero di celluloide. Ad esser sinceri c’era stato qualcos’altro: la bambola Caterina. Mi era stata donata da una bambina, vicina di casa e compagna di giochi, e io – pur essendo un maschietto, forse per affetto o per curiosità – le detti da mangiare. Nella piccola bocca aperta della bambola, per qualche settimana, infilai qualche chicco di riso, un poco di minestra, dell’acqua, delle briciole di pane. Caterina non gradì molto le mie cure poiché, di lì a poco, con mio grande stupore e rammarico, iniziò a emanare uno sgradevole odore. Il cibo, fermentandole nel ventre di gomma, la fece marcire. Così, strappandomi qualche lacrima, fu soppressa. Peccato, se quella bimba mi avesse regalato una bambola di quelle magre, quasi anoressiche e dalle labbra strette e chiuse come le Barbie (che di lì a poco, nel 1964, sarebbe sbarcata in Italia direttamente dall’America), forse l’avrei conservata.

La vetrina dell’Alfonsina

Il mondo dei giochi era riflesso dalla vetrina del negozio dell’Alfonsina, nella piazzetta d’Oltrefiume. Guardare attraverso quell’esile barriera di vetro equivaleva ad affacciarsi su di una realtà fantastica. C’era proprio di tutto. E si comprava di tutto. Dal sale ai tabacchi, dalle riviste piene di foto ai quotidiani che sfogliandoli annerivano le dita d’inchiostro, dalle mollette colorate per il bucato ai lumini bianchi e rossi per il cimitero. Ma noi, in prossimità del Natale, eravamo attratti dalle luci colorate, fisse o intermittenti che fossero, capaci di rendere ancora più straordinaria la piccola parata dei giocattoli esposti al centro della vetrina. Nulla a che vedere con quelle più ricche e ben fornite dei negozi di giocattoli di Intra e degli altri paesi più grandi. Già a Baveno, in piazza del municipio, si trovava di meglio. Però, nella vetrina della signora Alfonsina, c’era quel tanto che bastava a farci rimanere lì, con il naso incollato al vetro e la bocca aperta. Spiccavano le racchette da ping-pong dell’Arco Falc rivestite di sughero con le quali potevamo giocare sul tavolo da cucina quand’era sgombro, immaginandone la superficie simile a quella, consumata dal tempo, del verde tennis da tavolo che c’era nella sala dell’oratorio.

C’era poi l’aquilone Air-Jet della Quercetti (la stessa ditta torinese che produceva i chiodini colorati di gomma per comporre le figure dei mosaici): bastava gonfiarlo – come ci aveva fatto vedere Luca, fortunato possessore di una copia – e diventava come una grande supposta bianco-rossa con le alette blu, quasi impossibile da governare perché andava di qua o di là in preda a un delirio anarchico. C’erano i trasferelli, la cera Pongo, gli aerei di balsa con l’elastico che ti dovevi costruire da solo e che stavano in aria quei pochi secondi che passavano tra il lancio e lo schianto al suolo, pistole e fucili di plastica o metallo brunito, dal calcio di legno. M’incuriosiva la pistola di latta nera (che in seguito mi fu regalata): aveva i colpi stesi su dei rotolini di carta rossa che riproducevano lo stesso rumore delle nocciole schiacciate, lasciando nell’aria un odore acre. E ancora: il caleidoscopio, le trottole di legno e quelle di latta ( di tolla..) a pressione, i pentolini e le bambole, i pastelli a cera e il missile Mach-X, quello che si lanciava con l’elastico tenendolo fermo con i piedi e una volta giunto in aria apriva il paracadute. Ero attratto da quel missile ma poi, qualche anno dopo, ne restai deluso: per salire saliva, ma poi – il più delle volte – precipitava (appunto, come un missile..) a terra, schiantandosi al suolo e solo allora, beffardamente, il paracadute rotolava mollemente fuori. Il massimo, per noi maschi (per le bimbe credo fossero i bambolotti della Sebino, con tanto di passeggino o carrozzina) era l’autopista elettrica della Polistil che si vendeva nelle due versioni a circuito ovale e a circuito a forma di otto, con le due o le quattro corsie per le auto in corsa. Si sentiva parlare, a quell’epoca, delle sfide tra le Lotus e le Ferrari e gli eroi delle quattro ruote erano Stirling Moss e Graham Hill, Jimmy Clarck (l’asso della Lotus) e i ferraristi John Surtees, Wolfgang Von Trips e Giancarlo Baghetti che guidavano le rosse monoposto del Cavallino rampante di Maranello. Quell’autopista, che dalle pagine di Topolino era decantata dalla bellissima Paola Pitagora, rappresentava il sogno più bello. Un sogno, con molto rammarico, destinato a rimanere tale.

Il grande Torino e Carlo Dell’Omodarme

Le figurine dei calciatori erano un lusso. La mia famiglia non poteva permettermi questi vizi. Solo mia nonna materna, che mi voleva un bene dell’anima, risparmiando come e quanto poteva, mi dava qualche soldo di mancia che investivo nei fumetti con le avventure di Topolino e Paperino, Tiramolla, Cucciolo e Beppe, il lupo Pugacioff e Cocco Bill, il cowboy che beveva solo camomilla. E, quando si poteva avere un di più, la scelta cadeva su qualche bustina di figurine da dieci lire.

Nulla di paragonabile a quanto avevano alcuni miei amici, ma non mi lamentavo. Nel primo album dei calciatori della Panini che ho visto ogni squadra di serie A era raffigurata con quattordici giocatori e in molti casi si vedeva che le figurine non erano altro che fotografie in bianco e nero colorate a mano. Nelle ultime pagine dell’album (che in copertina raffigurava Nils Liedholm, il forte attaccante svedese del Milan) c’era un’intera sezione dedicata al Grande Torino, la squadra che dominò i campionati dal 1942 al 1949 e che perì il 4 maggio di quell’anno nel disastro aereo di Superga. Il mito, a pochi anni dalla tragedia, era fortissimo.

La formazione la sapevamo anche noi piccoli a memoria, quasi fosse uno scioglilingua: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar , Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Le figurine rappresentavano le gesta sportive degli eroi del pallone, alimentando i nostri sogni di carta. Nel primo anno delle elementari il Milan di Nereo Rocco si aggiudicò, nello stadio londinese di Wembley, la prima coppa dei Campioni per una squadra italiana. I rossoneri sconfissero il Benefica di Eusebio (che segnò la rete dei lusitani) per 2-1, grazie a una doppietta di José Altafini.

Poi vennero gli anni della grande Inter di Helenio Herrera mentre era una realtà l’amata-odiata Juve di Charles e Sivori. Con le figurine si giocava, componendo squadre immaginarie, vincendole o perdendole a sopra, a lungo, a chi le lanciava più lontano. Ricordo quelle di Dennis Law che giocava nel Torino con Gigi Meroni, la farfalla granata, dei bolognesi Haller, Janich, Ezio Pascutti (che era un po’ pelato), Fogli e Perani, di Enrico Albertosi con la maglia da portiere della Fiorentina, degli juventini Stacchini, Salvadore, Del Sol, Castano e Anzolin, di Amarildo con i colori del Mantova e di Gianni Rivera, prima con i grigi dell’Alessandria e poi con il Milan, per tutta la carriera. Mi piaceva molto Carlo Dell’Omodarme, ala della Spal e della Juve. Non lo vidi mai giocare. Aveva una faccia seria e sofferente, ritratto a busto interno nella sua figurina con la maglia a righe verticali bianco-celesti della squadra di Ferrara. La Spal, appunto. Mi sembrava un calciatore tosto, affidabile. Trasmetteva, in qualche modo, la certezza che avrebbe fatto fino in fondo il suo dovere. Del resto il suo cognome lo garantiva.

Autunno

Al di là del vetro rigato dalla pioggia guardavo verso il bosco che delimitava il prato davanti a casa mia. Ogni inizio d’autunno, da noi spesso accompagnato dai primi freddi e dall’aria umida, metteva tristezza. La pioggia rendeva lucidi i tronchi e i rami gocciolanti degli alberi che salivano, bosco dopo bosco, verso la sommità dei monti. E le foglie, ingiallite anzitempo, s’abbandonavano ai loro piedi, rassegnate e sottomesse. Nell’aria s’avvertiva l’inconfondibile e aspro odore della legna bruciata, e il profumo delle prime castagne fatte arrostire sulle stufe. Quel plumbeo cielo, gonfio di Iivide nuvole, continuava a scrosciare pioggia.

E dentro di noi si scioglieva il grumo d’ansia per la scuola che s’iniziava, lasciando una tenue traccia malinconica. Qualche anno dopo, finiti anzitempo gli studi e iniziato il lavoro in fabbrica a quattordici anni ( ho poi pareggiato i conti con gli studi molti anni dopo) Francesco Guccini nella sua Canzone dei dodici mesi, raccontava così il mese in cui sono nato: “Non so se tutti hanno capito Ottobre , la tua grande bellezza/nei tini grassi come pance piene prepari mosto e ebbrezza. Lungo i miei monti come uccelli tristi fuggono nubi pazze/lungo i miei monti colorati in rame fumano nubi basse”. I miei monti e le mie nubi non erano diverse e, in quali autunni, quando non pioveva, l’aria si riempiva del profumo d’uva fragola che veniva da quei grappoli scuri e maturi sotto il pergolato.

Prima neve

D’inverno, quando cadeva la prima neve, si stava col naso incollato alla finestra ad ammirare il paesaggio che diventava sempre più bianco. Si provava una strana sensazione. I fiocchi cadevano, a falde più o meno larghe, rallentati. La sensazione che si provava era di sospensione e ovattamento, di un abbassamento dei ritmi. Non ci si muoveva più in fretta ma quasi ondeggiando come dei calabroni in volo di fiore in fiore. Si restava lì ad osservare la trasformazione del paesaggio. La magia che la neve riusciva a far nascere in ognuno di noi era tutta speciale, poliedrica, antica. Mi ricordo che da bambino, quando nevicava, giravo su me stesso con la faccia al cielo e la lingua fuori; ogni fiocco che si depositava sulla mia lingua aveva un sapore particolare ed emetteva una sorta di lieve crepitio attutito. Un suono dell’infanzia, un ricordo di attesa felice. Era anche buona, la neve. Fresca, densa. Se ne prendeva una manciata, lontano dal sentiero, dove sembrava più bianca e più pulita. E poi la si lasciava sciogliere in bocca. Aveva anche gusti diversi. Dopo una corsa era una ricompensa per mitigare l’arsura e il sudore ( passandola in fronte e sulle gote arrossate). Con mezzo limone strizzato nel bicchiere colmo di neve, diventava “limonosa”. A quell’età anche le poesie e le storie che ci raccontavano erano istigatrici. La neve era “un manto cremoso, che riposa lieve sui prati, e imbianca ogni posto, facendolo diventare una nuvola”, oppure “farina appena formata, che vola lievemente”. I fiocchi di neve erano dei piccoli cristalli che, brillando al sorgere delle stelle, si trasformavano in “confetti che a mangiarli si sciolgono in bocca”. Già allora mangiare la neve non era però una pratica molto salubre. D’inverno, tra le altre cose, la cucina povera offriva anche una minestra di neve. La preparava mia nonna e, nome a parte, con la neve c’entrava poco o niente. L’ingrediente principale, e spesso unico, erano le cipolle. Se mangiare i fiocchi gelati comportava l’assunzione per via orale di una bella carica di batteri, questa minestrina veloce e pratica era un antidoto naturale, grazie alle tante virtù che la cipolla, seppur cotta, conservava in buona misura. La ricetta era semplice. Si metteva sul fuoco una pentola non troppo grande con circa tre bicchieri d’acqua, coprendola con un coperchio. Tre cipolle venivano tagliate a pezzettoni e poste nell’acqua calda, così che le vitamine non evaporassero durante la cottura. In circa 15-20 minuti le cipolle diventavano cedevoli e morbide e con l’ausilio del frullino a baionetta, quello con la manovella, si trasformavano in una pappa liquida e densa. Aggiustata con poco sale e un filo d’olio, si serviva fumante e bianca come la neve. Tornando alla neve, quella vera, bisogna dire che non è mai stata tutta uguale. Farinosa, soffice, compatta, bagnata, ghiacciata. L’aspetto e la consistenza della neve cambiavano a seconda della località, della stagione, dell’ora del giorno. Più avanti nel tempo, me ne parlò Mario Rigoni Stern. Diceva che “ogni stagione, ogni neve ha il suo nome. Quella che abbiamo nel pieno dell’inverno è la brüskalan. Poi, quando ci avviciniamo verso la primavera, abbiamo la neve del cuculo, la neve della quaglia, la neve dell’allodola, la kuksneea, la bàchtalasneea. Poi abbiamo anche la neve della vacca, appunto la kuasneea. In primavera, quando il sole durante il giorno scioglie la crosta sopra, e camminando non sprofondi, quello è haarnust. Haarnust in longobardo vuol dire corazza. E’ la neve con la corazza, che non sprofondi, e cammini e puoi andare dappertutto, e quando è alta riesci a camminare a livello degli alberi non molto alti, e ti sembra di poter dire, quando non c’è più: ho camminato a quell’altezza, era come essere sospesi nell’aria. Sì, su una nuvola”.

Il camion di latta rosso e blu

Uno dei miei primi giocattoli fu un bell’autocarro con rimorchio di legno che mio padre mi costruì con le sue mani. La forma era grezza, non livellata, decisamente artigianale ma forse per questo ancora più bella. Ero orgoglioso di quel mio camion. Il cassone del rimorchio era capiente e si riempiva bene con la ghiaia e i sassolini. Le ruote, pur non essendo perfettamente circolari, giravano bene, senza impedimenti. Con i pastelli a cera l’avevo colorato di rosso. Un bel rosso carico, intenso. Non del tutto perfetto perché le impurità del legno e la mia scarsa manualità non consentirono una colorazione uniforme ma non era certo un problema. Sul camion volevo caricare anche Dick, il mio cane. Quando mio padre lo portò a casa, fu una sorpresa. L’aveva nascosto sotto la giacca e rimasi sorpreso nel vedere quella testolina bianconera che faceva capolino. Era un batuffolo di bastardino che campò più di vent’anni, crescendomi accanto. Anche lui guardava quel mezzo, curioso ma diffidente. Gli girava attorno, lo annusava. Desideravo che vi salisse sopra ma lui guaiva e scappava. Non c’era verso di convincerlo. A quel tempo le finanze di casa erano piuttosto magre. Mio padre faceva anche due turni consecutivi al lavoro. Partiva all’alba con la bicicletta e pedalava da Oltrefiume fino al confine tra Feriolo e Fondotoce, poco oltre la cascina Garlanda, dove faceva il segantino. Non c’erano stagioni o giornate brutte o belle: piovesse, nevicasse, tirasse vento o si soffocasse per l’afa, gli toccava andare. Il suo lavoro consisteva nel tagliare le lastre di marmo e granito. Era piuttosto duro e rischioso per la salute, con tutta quella polvere che girava e la silicosi sempre in agguato. Mia madre, invece, badava alla casa. S’ingegnava a far quadrare i conti del bilancio familiare. Compito tutt’altro che agevole, al quale dedicava il meglio di sé. Nonostante ciò, io e mio fratello, che era nato da poco, eravamo tenuti come due bijoux. Puliti da capo a piedi, vestiti sobriamente ma con dignità. Educati al rispetto dei genitori, dei nonni e dei vicini. Quell’anno – era il 1964 – a dispetto della buona volontà, il Natale s’annunciava povero di doni. Qualche mandarino, un pugno di spagnolette, forse un torrone e magari una mezza dozzina di caramelle zuccherine. Mia madre era piuttosto rassegnata quando accadde un piccolo miracolo. Stava andando a far la spesa dall’Alfonsina, dove avrebbe fatto scorta di sale grosso e fine, quando per terra, sulla strada, poco prima della villa Sallman, scorse un biglietto da mille lire. Non credo che la vista del volto di Giuseppe Verdi le avesse mai fatto tanto piacere quanto in quell’occasione. Si guardò in giro. Non c’era anima viva. Si chinò rapidamente e arpionò la cartamoneta infilandosela in tasca. Me la sono immaginata, quella scena: rossa in volto, imbarazzata ma pure contenta. Dopo qualche passo, ci raccontò in seguito, si era fermata a guardare quel tesoro e preso coraggio, varcò la soglia del negozio da macellaio del signor Martini per trasformare quell’inaspettata fortuna in un certo numero di fette di lonza di maiale. Dopo il macellaio fu la volta del negozio di alimentari per un etto di formaggio e di prosciutto cotto. Lasciata alle spalle la drogheria, calcolò rapidamente quanto rimaneva delle mille lire e si accorse che erano 280 lire. Quella fu la somma che spese dall’Alfonsina per il sale e per un camioncino di latta rossa e blu. Era, inaspettatamente, il mio regalo di Natale. Quando lo scovai sotto il piccolo abete addobbato con una dozzina scarsa di palline colorate, pensai che Gesù Bambino fosse stato molto generoso. Non me lo aspettavo un camioncino così bello e colorato. Aveva le ruote di gomma, nere e lucenti. Giravano che era un piacere. Sull’abitacolo erano disegnate le porte, una per parte. Il rosso del cassone contrastava con il blu cobalto dell’intera struttura. Era il più bel camion di latta che avessi mai visto. Tanto bello e sfolgorante che a un certo momento non lo vidi più. Era sparito. Mi sembrava d’averlo sognato, anche se ero certo di averlo tenuto tra le mani, girandolo sotto e sopra. Mia madre mi consolò e con la nonna e la zia Annetta ci impegnammo nel gioco dell’Oca. Mi piaceva tanto tirare il dado e seguire il percorso delle caselle che non feci caso al camioncino. Non che fossi stupido, però. Per essere piccolo ero piccolo ma capivo bene che era successo qualcosa che non riuscivo ancora a comprendere. Fuori nevicava che era un piacere e nei giorni successivi mi divertii con i pupazzi e le palle di neve. Senza dimenticare quel regalo che era scomparso. Venne poi la notte della Befana, tra il 5 e il 6 gennaio del 1965. Nella calza appesa vicino al camino, che era sempre spento, trovai due mandarini, delle castagne secche, un cioccolato, un paio di rotolini di liquerizia e…un camioncino di latta rossa e blu. Non ricordo un ritorno tanto gradito quanto quello.

Il quaderno a righe grandi

Copertina di cartone sottile, blu. L’etichetta appiccicata, bianca e rossa, con i bordi frastagliati come quelli delle fotografie di un tempo. Su quel quaderno a righe grandi mia madre ci scriveva ogni cosa. Dalla lista della spesa che andava fatta in uno dei due negozi dove si trovava tutto il necessario – Del Grande o Filippelli – alle impressioni che fissava per non disperdere la memoria di ciò che andava fatto, fino alle ricette. Annotava su quelle pagine anche i libri che leggeva e qualche ricordo. Mia madre, in gioventù, aveva anche recitato al teatro parrocchiale. Bella, spigliata, intelligente, non difettava in personalità e impegno. In quel quaderno raccoglieva le memorie, evitando così che scivolassero via, trattenendo pensieri e note inchiostrate con quella sua bella calligrafia che non si faticava a leggere.

L’Università degli asini di Campino

Mio padre, nato e cresciuto sulle balze della Scèrea, andò a scuola in anticipo di un anno sull’età giusta, in un luogo speciale: le elementari di Campino, piccola frazione di Stresa, in quella che per molti era ed è rimasta “l’Università degli asini”. Gli studenti che la frequentavano non si erano meritati quell’appellativo in ragione delle scarse doti in materia scolastica quanto piuttosto al fatto che a Campino questi generosi e infaticabili quadrupedi erano presenti in gran numero e l’autoironia degli abitanti si estendeva anche alle istituzioni, a partire da quelle aule dove s’imparava a leggere, scrivere e far di conto. La maestra, amica di mia nonna, accettò di buon grado la presenza di quel piccolo intruso e così mio padre, complice quell’anticipo di scuola e la necessità di andar presto a guadagnarsi il pane, la frequentò con profitto. Altri, prima di lui e anche dopo, si “laurearono” nella stessa istituzione: dal Gemélin, che viveva sull’alpeggio che confinava con la Vidabbia, al Cèc che – finiti i lavori nei campi, scesa la sera – amava il profumo della Barbera (e non solo) così che al terzo mezzino vedeva le stelle anche quando il cielo era nuvoloso. All’epoca le donne andavano al torrente portando con loro la brièla, l’asse per lavare i panni. Oppure, al tempo della fienagione, si caricavano in spalla lo scivrön, la gerla, incamminandosi sui lunghissimi e faticosi sentieri di montagna. Gli uomini, in ragione del lavoro svolto, portavano la càula, necessaria per il trasporto della legna, o la mazza se erano dei picasàss, taglia sassi o scalpellini. C’era il cavagnàtt, abile nel confezionare le ceste, intrecciando vimini, bambù o altri legni morbidi, spesso utili per chi lavorava nei magri campi. Alcuni giravano con in spalla la scarsèla da umbrelàtt, la borsa di stoffa dell’ombrellaio, con tutti gli strumenti del mestiere utili a riparare o costruire parasole e parapioggia. Spesso, non avendo quattrini nella bèca, il portamonete, facevano come il Pédrin, che s’ingegnava con la sua fisarmonica a rallegrare le osterie per un soldo o una mezza scigàla, il più a buon mercato tra i sigari. A meno di fare come il vecchio Protaso che, da consumato sacrestano, aiutava Don Gadìa nell’officiare messa, tener pulita con decoro la chiesa di San Grato e suonare le campane per qualsiasi ricorrenza. Gli altri lavoravano nelle fabbriche di Baveno o negli alberghi di Stresa. Era un mondo che, con gli anni, è quasi del tutto sparito. Eppure quella semplicità, quell’appartenenza a una società dove contavano le cose concrete e i valori, ha lasciato dei segni che sarebbe un peccato dimenticare. E i miei genitori, mia madre in primo luogo, non me lo perdonerebbero mai.

In viaggio con il gabbiano

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Liberato l’ormeggio il battello si preparava a far rotta verso l’isola Pescatori. L’Helvetia si muoveva al rallentatore, restia a prendere il largo

Pareva non voler lasciare l’attracco, confidando nell’accoglienza dell’imbarcadero per prendere fiato e riposare il suo scafo provato da decenni di onorato servizio sulle acque del Verbano.

Ma le due eliche, mosse dalla potenza dei quattrocento cavalli a motore, fecero ribollire l’acqua e pur con un certo rimpianto e di malavoglia, partì. Con me era salita a bordo solo una coppia di stranieri. E più di tre quarti dei posti a sedere erano vuoti. Non c’era da stupirsi. La bella stagione era agli inizi e, per di più eravamo a metà settimana. Il lago era calmo e l’aria appena mossa da una leggera e piacevole brezza. Attraverso il tondo dell’oblò della porta d’accesso al ponte di coperta verso prua, dov’erano stivati i grossi e rigidi salvagenti, vidi un gabbiamo che si era posato vicino ai sugheri. Pur essendo uccelli di mare, diverse colonie di gabbiani vivono sui grandi laghi del nord, dal Maggiore al Garda. E quello lì,con una certa insistenza, mi guardava fisso con i suoi occhietti mobili. Ritto sulle zampette, se ne stava con fare allegro appollaiato sul parapetto, le lunghe ali raccolte, muovendo il becco   adunco e robusto. Sembrava mi parlasse, intendesse comunicare, desideroso di dispensare un saluto. Lo guardavo anch’io con curiosità. Forse troppa perché, qualche minuto dopo, prese il volo e si diresse verso il largo, lanciando le sue grida un po’ rauche. Il battello, dopo la breve navigazione stava per giungere all’attracco sull’isola quando un gabbiano planò sul ponte e mi fissò a lungo. Pareva in tutto e per tutto lo stesso di qualche istante prima che forse, con gesto garbato e cortese,non voleva far mancare un saluto prima dello sbarco.

Marco Travaglini

Giacomo e la briscola chiamata

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Quando il cielo lacrimava e sul lago soffiava quell’arietta fresca che intirizziva, la passeggiata sul lungolago verso la Villa Branca finiva immancabilmente davanti alla porta dell’amico Giacomo dove ci attendevano le sfida a briscola e tresette

 

Giacomo Verdi, detto “balengo” perché amava spingere la sua barca a remi tra le onde del lago in tempesta, infischiandosene dei rischi, da un bel po’ di tempo era costretto a stare in casa. Un brutta sciatalgia e i reumatismi rimediati  nel far la spola tra le due sponde del lago e le isole, gli impedivano di stare troppo in piedi. E allora, con la scusa di andarlo a trovare, ingaggiavamo delle tremende sfide all’ultima mano. “ Ah, amici miei, sapeste che rottura di balle dover star qui recluso. Per uno come me che non trovava mai terraferma e che fin da piccolo stava con la faccia contro vento, star qui costretto tra seggiola e divano, tra poltrona e letto, è proprio una gran brutta cosa. Quelle volte che non sento il cambio del tempo e riesco a metter il naso fuori dall’uscio, è una tal festa che non mi potete credere. Guardate, è come se fosse un Natale o una Pasqua fuori stagione. Ah, è talmente bello che mi sento un re”. Ogni volta, prima di tirar fuori il mazzo delle carte dal cassetto, Giacomo –  quasi stesse sgranando un rosario – ci faceva partecipi delle sue lamentele. Ma bastavano due o tre smazzate per sparigliare tutto e come d’incanto si dimenticava di acciacchi e malanni. Faceva smorfie, imprecava, sbatteva le carte sul tavolo. Non nascondeva l’ira o la gioia, a seconda di come gli “giravano” le carte, ma era un’altra persona. Amava quei giochi, vantandosi di essere un grande esperto. A volte ci teneva delle vere e proprie lezioni. “ Vedete, il mazzo con cui stiamo giocando è composto da 40 carte di 4 diversi semi. Ma c’è una grande varietà stilistica nel disegno. In alcune regioni sono diffuse le carte di stile italiano o spagnolo, con i semi di bastoni, coppe, denari e spade e con le figure del fante, del cavallo e del re. In altre si usano le carte con i semi francesi .Sono cuori, quadri, fiori e picche, con le figure del fante, della donna e del re.Ecco, sono proprio queste che stiamo usando per la nostra partita”. Parlava come un libro stampato, in un italiano corretto e persino raffinato. “Fate attenzione a queste.Sono carte bergamasche, tipicamente nordiche.Hanno caratteristiche in comune con le figure dei tarocchi lombardi. L’asso di coppe si ispira alle insegne della famiglia Sforza”. Era capace di andar avanti così per un bel po’ se non cambiavamo discorso. E allora ci raccontava delle sue avventure, partendo sempre da quella volta che aveva portato sull’isolino una contessa ( omettendo di dire chi fosse, precisando “sapete,io sono una persona discreta e non mi piace far nomi” ) che per tutto il tragitto continuò a fargli l’occhiolino. Immaginando una qualche complicità e una sorta d’invito, appena toccato terra, tentò di abbracciarla e baciarla, guadagnandosi una sberla tremenda. “Madonna, che botta mi ha dato! Cinque dita cinque, in faccia, secche come un chiodo. Ero diventato rosso come un tumatis, un pomodoro, restando lì a bocca aperta, come un baccalà”. “ Ah, cari miei, se beccavo quel maledetto Luigino dell’Osteria dei Quattro Cantoni lo facevo nero come il carbone”. Quella storia l’aveva raccontata un infinità di volte ma, per non contraddirlo, ci fingevamo interessati e lo incalzavamo con le solite domande (“Come mai,Giacomo? Cosa c’entrava Luigino?”). E lui s’infervorava. “Cosa c’entrava, quella carogna? Cosa c’entrava? C’entrava che se l’avevo tra le mani gli davo un bel ripassoLo pettinavo per bene quel mascalzone. Mi aveva assicurato che la contessa era una che ci stava, che gli piacevano i barcaioli. Mi disse che se gli fossi piaciuto mi avrebbe fatto l’occhiolino. E me l’aveva fatto, porco boia; altro che se me l’aveva fatto. Ma era per via di un tic nervoso. Altro che starci. Sembrava una iena. E quel saltafossi lo sapeva, capite? Lo sapeva e mi ha tirato uno scherzo”. Sbollita la rabbia per quella brutta figura che ormai faceva parte dei ricordi, ricominciava a giocare, picchiando le carte sul tavolo come se quello fosse la testa pelata di Luigino. Giacomo abitava in una casa che dava su via Domo. Dalla parrocchiale , dove c’è Largo Locatelli, si scendeva verso l’abitazione per una viuzza stretta, tortuosa, lastricata a boccette che finiva nella piazzetta. Lì, al numero 12, in una casa piuttosto bassa, coperta da un tetto di piode, stava il Verdi. Quasi in faccia alla cappelletta che ,si diceva, fosse stata eretta come ex-voto per la liberazione dalla peste. Sotto l’arco s’intravedevano ancora gli affreschi raffiguranti la Madonna con il Bambino e ben due coppie di santi : Giuseppe e Defendente, da una parte;Gervaso e Protaso, dall’altra. Era lì che la povera Marietta posava il cero nei giorni in cui suo marito, quel matto di Giacomo, metteva la barca in acqua incurante del “maggiore” che spazzava le onde, gonfiando minacciosamente il lago. Ora che Marietta era  passata a miglior vita era Giacomo – ormai prigioniero a terra per via dei malanni – a dare qualche soldo a Cecilio, il sacrestano, perché non si perdesse quell’abitudine che – diceva, sospirando – “ in fondo, mi ha sempre portato bene”. Ecco, le giornate più uggiose le passavamo in casa di Giacomo, in uno dei rioni più antichi di Baveno.Lì c’è ,ancora adesso, la “Casa Morandi”, un edificio settecentesco di quattro piani, con scale esterne e ballatoi. È forse l’angolo più apprezzato dai pittori e dai fotografi di tutta la cittadina. Sono in tanti, in Italia e all’estero, a tenere sulle pareti del salotto un acquerello, una china o più semplicemente una foto incorniciata della casa Morandi. Segno inequivocabile che da lì è passata un sacco di gente ,portando con sé la storia, quella vera, quella che si legge sui libri. E magari incrociando le carte con Giacomo.

Marco Travaglini

Tutta colpa di Jules Verne

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Tutta colpa di quel francese..”. Eriberto si era espresso in modo netto,deciso. La principale responsabilità di quant’era capitato a quei due disgraziati, a suo parere, era di Jules Verne. Del resto non tutti quelli che avevano letto i romanzi del fantasioso scrittore bretone, veri e propri capolavori immortali, si erano ispirati a tal punto da cimentarsi in qualche analoga impresa per conto proprio

 

Eriberto era convinto che Gilberto e Roncolino erano rimasti   folgorati da “Il giro del mondo in ottanta giorni” a tal punto da volersi cimentare in qualcosa di simile, seppur su scala ridotta. Così era nata quell’idea balzana che recava discutere tutto il paese. Gilberto Treossi, lungo come una pertica e magro come uno stuzzicadenti, faceva coppia fissa con Marcello Ronconi,detto “roncolino”, basso e mingherlino. I due si barcamenavano con qualche lavoretto,guadagnando quel tanto che occorreva per assicurarsi almeno un pasto al giorno e un fiasco di vino per il piacere del palato. Vivevano d’espedienti, vestendosi con quanto veniva loro offerto dalle Dame di San Vincenzo.Le notti le passavano nel fienile del geometra Baroveri che, da persona generosa qual’era, non negò mai quel povero giaciglio, consentendo ai due di dormire anche nella larga mangiatoria della stalla quando veniva la stagione più fredda. Quando non erano impegnati nelle loro piccole attività e non avevano la testa annebbiata dalle bevute, si recavano nella piccola biblioteca dell’oratorio dove, seduti sulle due sedie impagliate vicino alla finestra,leggevano i libri a disposizione.Entrambi avevano frequento la scuola fino alla quinta elementare e sapevano leggere e far di conto. La vita per loro – come diceva Don Luigi, tirando un lungo sospiro – “non era stata benevola ma nonostante tutto erano due bravi cristiani”. Fu proprio la lettura del romanzo di Verne, uno dei più famosi del narratore di Nantes, a far scattare la scintilla nella testa di Gilberto. Roncolino, messo a parte della trovata, si dichiarò immediatamente d’accordo.

 

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Nella storia   i due protagonisti, Phileas Fogg – tipico gentlemen inglese – e Passepartout, il suo cameriere francese, si erano impegnati per scommessa a compiere il giro del globo in ottanta giorni. Un’impresa che, tra colpi di scena e vicende a volte drammatiche e spesso grottesche, giunse a buon fine. Verne, nella stesura del racconto, si era ispirato ad una storia vera, che aveva visto protagonista l’americano George Francis Train nel 1870. E perché loro non potevano fare altrettanto, impegnandosi a fare il giro d’Italia con il triciclo del panettiere Delgradi che Gilberto di tanto in tanto usava per consegnare il pane a domicilio? Non era forse quella un’impresa degna di nota? Tanto più che al panettiere quel vecchio triciclo serviva ormai poco o niente, sostituito da un più moderno e rapido motorino. Assicuratisi l’assenso del Delgradi per l’uso del mezzo a pedali al quale aggiunsero un secondo sellino, così da poter star comodi in due, utilizzando il piano di carico della parte posteriore per caricarvi i necessari vettovagliamenti, i sacchi a pelo e una cerata con la quale ripararsi in caso di maltempo, mancava solo il “capitale” per l’avvio del viaggio. Era evidente che si sarebbero arrangiati, strada facendo, e che la forza motrice delle loro gambe non necessitasse di spese per i rifornimenti come per un auto o altro mezzo di locomozione a motore. Bastavano un pasto, un poco di riposo e una dose di vinello per garantire le pedalate che avrebbero eseguito a turni intervallati. L’idea questa volta venne a Don Luigi. Il parroco, per corrispondere alle necessità della chiesa e dell’oratorio, ricorreva a delle raccolte di denaro sotto forma di libera elargizione in cambio delle immaginette raffiguranti Santa Maria Assunta. Perché non stamparne alcune raffiguranti i due in posa davanti al triciclo con la scritta “Diamo una mano a due ardimentosi cicloturisti impegnati a portare il nome della nostra città in giro per l’Italia con coraggio, fede e passione” ? L’idea piacque, la frase un po’ meno. Alla fine venne scelta, per accompagnare la foto, una più sobria “Due concittadini sulle strade d’Italia. Sostegno popolare all’impresa sportiva”. Non fu facile raggiungere una discreta somma ma con l’aiuto di tante persone di buon cuore e con la benedizione di Don Luigi, “l’ardita impresa” poté contare su quasi trecento mila lire che per l’epoca non erano tantissime ma nemmeno una cifra disprezzabile.

 

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Terminati gli ultimi preparativi, recuperate due tenute da ciclista d’antan che il negozio di articoli sportivi, caccia e pesca del commendator Rutigliani teneva in cantina, l’allampanato Treossi e l’esile Roncolino decisero di iniziare il viaggio con un giro tra i paesi limitrofi per far conoscere se stessi e soprattutto l’onerosa e impegnativa avventura alla quale, baldanzosamente, si apprestavano. Ne avrebbero approfittato anche per qualche bevuta d’incoraggiamento.La signora Rosa,titolare della merceria sulla piazza,ciondolò il capo con aria sconsolata:“Oh, cara Madonna; se iniziano così più che partire finiranno piegati sulle gambe, vedrete..”. Roncolino e Treossi in quanto a ciucche dure e perse erano dei veri intenditori e conoscevano bene l’ebbrezza, quella sensazione d’instabilità, di tremore alle gambe e giramento di testa che dà il vino delle osterie quando si alza troppo il gomito. Capitava abbastanza spesso di sentirli raccontare di quando, per esaudire un voto dopo un lungo ricovero in ospedale di Roncolino, erano saliti alla chiesetta della Madonna della Neve, sul sentiero che dalle ultime case del paese s’inerpica sul monte. Doveva essere una toccata e fuga, giusto il tempo di un padrenostro per poi ridiscendere in città e invece erano stati via tre giorni e due notti. Lo stesso Don Luigi, passate le prime ventiquattrore, ne aveva denunciato la scomparsa ai carabinieri, temendo il peggio. Le ricerche durarono quasi due giorni, battendo palmo a palmo i boschi della zona quando, per scrupolo, la squadra di volontari guidata dal sacrestano Sisto li aveva scovati in una cascina, ubriachi come una botte, intenti a ronfare come due locomotive a vapore. Si erano scolati tre bottiglioni di quel vinello asprigno,ottenuto dalla spremitura dell’uva americana di Costante del Brich. Quest’ultimo li teneva nascosti nel sottotetto del fienile, da anni in disuso dopo aver vendute le sue due vacche a un allevatore di un paese vicino. Limitandosi a fare la vita del pensionato, si recava di tanto in tanto a meditare nella vecchia stalla, accompagnando i pensieri con qualche bicchiere. Aver confidato quel piccolo e innocente segreto al Treossi gli costò il prosciugamento della riserva di “carburante”. A risvegliare i due, in quell’occasione ci pensò il sacrestano con un bel secchio d’acqua in testa , gelida come la mano di un morto, e una randellata ciascuno sulla schiena, di quelle che lasciano i lividi per un bel po’. Dunque, come si diceva, di stravizi e libagioni lo spilungone e il mingherlino se ne intendevano.

Caricato a dovere il triciclo, eseguiti gli scatti di rito alla partenza secondo i desideri di Franchino che teneva molto ad esibire le sue qualità nel fissare gli eventi sulla pellicola in formato 6×6 della sua fotocamera Rolleiflex, partirono. Dal piccolo pubblico formato da conoscenti e curiosi partì un applauso e i due, visibilmente commossi, ricambiarono con ampi sorrisi.

 

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L’accordo prevedeva che ai pedali si sarebbero alternati e il primo turno toccò a Gilberto che, in fase di spinta, mise in mostra una bella pedalata rotonda.Dopo qualche centinaio di metri, lasciatesi alle spalle le ultime case del borgo, puntarono l’erede del velocipede verso la prima osteria. La “tappa” era motivata dal bisogno di farsi, prima del viaggio, uno o due bicchieri da Gino, all’osteria dei Passeggeri. “Non si può partire a stomaco vuoto, no?!”, affermò Treossi con un’aria sorniona, aumentando il ritmoEvidentemente i bicchieri furono ben di più di quelli pronosticati e bastò un rapido sguardo per capire in che stato erano i due all’uscita dall’osteria. Sostenendosi uno con l’altro, malfermi sulle gambe e in precario equilibrio, s’appollaiarono sul triciclo e con qualche difficoltà si rimisero in cammino. L’intenzione dei “gemelli del litro”, prima d’intraprendere la loro avventura ciclistica, era di compiere una sorta di via crucis delle osterie, con partenza da Gino per poi visitare, a seguire, tutti i ritrovi canonici. Le papille gustative e l’olfatto erano da sempre la loro bussola. Così, alternando il vino ai piatti tipici ( “se non si mette qualcosa sotto i denti, viene il brucior di stomaco”, teorizzò Roncolino) lasciarono evidenti tracce del loro passaggio alla Casa del Popolo (barbera e salame affettato), all’omonima istituzione del paese vicino (ancora barbera ma con bruschette e sottaceti), alla Società operaia( dolcetto d’Alba e trippa in umido), nei circoli del Gallo, degli Imbianchini e di San Carlo ( barbera nei primi due, Fara e un goccio di Gemme nel terzo, accompagnati da salumi e formaggi). Passato il ponte sul fiume,nei pressi della vecchia ciminiera del cotonificio, parcheggiarono il triciclo accanto al muro di cinta, entrando con passo sempre più incerto al Dopolavoro dei ferrovieri, una sorta di “cima Coppi” del loro giro alcolico. All’uscita, i due professionisti del mezzolitro, traballanti e insicuri, inforcarono il tre ruote e sbandando pericolosamente a destra e sinistra, sparirono in direzione della provinciale. Gli abitanti del paese non tardarono molto ad avere loro notizie. Per l’esattezza il giorno dopo la partenza, a meno di una decina di chilometri dall’ultima sosta al Dopolavoro, furono trovati in fondo a un fosso da un metronotte che aveva finito il suo turno di lavoro. Completamente ubriachi, erano usciti di strada e solo l’erba alta e la poca profondità della roggia in secca avevano ridotto al minimo i possibili danni della caduta. I più pensarono che comunque, nella malaugurata ipotesi che fossero finiti nel lago, non avrebbero corso il rischio di affogare per la semplice ragione che erano tanto “pieni” che nei loro corpi non ci sarebbe stato posto neppure per una goccia in più. Soprattutto se , conoscendoli bene, si fosse trattato – vade retro Satana – di quel liquido inodore, insapore incolore chiamato acqua.Finì così l’avventura di Gilberto e Roncolino che, a parte il denaro speso in libagioni, dovettero restituire quanto avevano in tasca a Don Luigi che si affrettò a versarlo nelle esangui casse della parrocchia, accompagnando l’obolo con tre Avemarie e   due Paternostri. Ripresisi dagli eccessi alcolici e dai postumi dei brutti mal di testa, Treossi e Ronconi tornarono a frequentare la biblioteca dell’oratorio ma abbandonarono la lettura dei romanzi di Verne. Avevano scoperto un altro autore interessante, un tal Emilio Salgari che narrava di corsari delle Antille e delle Bermuda, pirati della Malesia e avventure ai quattro angoli dal mondo. Chissà se ne trassero qualche spunto in seguito. Noi non lo sappiamo e a essere del tutto sinceri non lo vogliamo nemmeno sapere.

Marco Travaglini

“Tex” Borlazza e il Rodeo in Lomellina

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Il rodeo non è solo spettacolo e storia: è soprattutto un modo di vivere che accomuna chiunque viva nel sud ovest degli Stati Uniti. E diventerà così anche per chi frequenterà Buttignolo”. Il vicesindaco, per pronunciare questo breve discorso, evitando di infarcirlo con le solite intercalazioni ( e già questo rappresentava un evento), si era agghindato come un vero vaccaro americano. Una sgargiante camicia con la fantasia a quadretti , stile tovaglia da osteria che  fa tanto country, adattissima al cowboy’s style; jeans d’ordinanza, stretti in fondo, a sigaretta e con il cavallo tenuto un pò basso;  il fazzoletto legato al collo e, immancabili, un paio di stivali texani nuovi di zecca.  In una mano teneva un dépliant che lo ritraeva a fianco di un cavallo, mentre puliva la sella , con in testa un enorme cappello da cowboy. Quel copricapo – uno Stetson originale – se l’era fatto mandare direttamente dalla John B. Stetson Company di Galveston, Texas. La scritta raccontava tutto: “Lomellina’s CowBoys’ Ranch” , il centro dedicato alla monta western vicino a casa sua, in frazione San Cristoforo. Nell’altra teneva una foto che ritraeva suo padre mentre, a cavalcioni di una manza, salutava. “Ecco quì, buon sangue non mente. Mio padre, da giovane, lo chiamavano “Tex”, ” Tex Borlazza”, il cowboy dagli occhi di ghiaccio. Ed ora, grazie ad alcuni miei cugini che abitano a El Paso nel Lone Star State, nello stato della stella solitaria, cioè il Texas per voi che non siete mai andati più in là di Mortara, ho deciso che impianteremo anche qua un bel centro per il Rodeo.Bello, eh?”. Il sindaco, l’altro assessore, i due consiglieri lo guardarono attoniti. Don Busecca, il parroco, scuoteva la testa mentre il sacrestano che lo accompagnava alzò gli occhi al cielo, sussurrando “Dio mio, è matto come un cavallo“. Ma quando Ercolino si metteva in testa un’idea ( che, per il solo fatto d’averla partorita lui, era – a suo insindacabile giudizio – “un’ottima idea”..) non c’era verso di farlo desistere o, quantomeno, ragionare. Così, un paio di settimane dopo, sbarcati a Malpensa i cugini Frank e Dave Borlazza, nati a El Paso da padre buttignolese ( Giobatta, detto Jo) e madre texana, iniziò la fase operativa dell’operazione “rodeo”. Sponsor, a parte il “Lomellina’s CowBoys’ Ranch”, che doveva consolidare la sua attività, c’erano le Bibite Peretti & Tapponi, L’Edil Lomellina e il Credito Agricolo Pavese, noto anche come “il Cap”.

 

In poche settimane i due Borlazza a stelle e strisce, appoggiandosi a Geremia Plastici, titolare del centro di monta western ( che però teneva molto a farsi chiamare Johnny Plastic), predisposero l’arena dove si sarebbe svolto il primo campionato regionale lombardo di Rodeo. Con un migliaio di euro d’ingaggio e l’impegno a garantirgli vitto e alloggio per due settimane, era stato coinvolto nell’impresa anche Silvano Scaratti, detto Crazy Horse, il primo non americano a distinguersi nel più importante rodeo degli Stati Uniti, quello dei Frontier Days che si teneva a Cheyenne. La città, capitale dello stato del Wyoming, non a caso, era gemellata con Voghera a dimostrazione che l’Oltrepo poteva diventare, a tutti gli effetti, il riferimento di tutti gli appassionati del vecchio West. E venne il fatidico giorno quando, in un tripudio di bandiere, polvere e musica country, accompagnati dalle majorettes di Mezzana e dalla banda degli Stonati di Sesto Calende, fecero l’ingresso nell’arena buttignolese dell’Acqua Ferma i partecipanti al rodeo. Erano una trentina gli atleti che si sarebbero sfidati nell’impresa di domare tori e cavalli selvaggi,lanciandosi in gare ed esibizioni di ogni genere. Tra gli applausi e le urla compiaciute dei quasi quattrocento spettatori, vestiti da indiani e cowboys, i concorrenti si rincorsero per tutto il giorno in caroselli infernali, affrontandosi in corse mozzafiato, cimentandosi in gare di velocità o di abilità con i lazos , facendosi ammirare per la maestria con la quale riuscivano a muovere una mandria di broncos, di puledri selvatici. Tutto questo, tra un numero e un altro, per arrivare al titolo regionale delle classiche specialità del rodeo: monta del toro, monta del cavallo senza e con la sella.

 

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Nessuno era riuscito a rimanere in sella per gli  otto secondi nel bull riding , nella monta del toro. Erano stati sbalzati di sella o avevano toccato l’animale con la mano libera ( la briglia di corda andava tenuta saldamente con una mano sola) ma mancava all’appello Domenico “Tex” Borlazza, l’intrepido genitore di Ercolino. E, incredibilmente, l’allevatore di manze dell’Oltrepò diede una lezione a tutti, in puro stile Buffalo Bill. Quattordici secondi e una manciata di centesimi in groppa a Celestino, un toro scalciante e incazzatissimo che faceva torto al mite nome che gli era stato appioppato. “Vacca, che record!”, urlò il Borlazza, applaudendo a spella-mani l’atletico babbo. “Sei meglio di  John Wayne! Cavolo, che forza. Quando c’è di mezzo una manza o un toro, il Tex gli fa abbassare le corna, altro che balle”, gridava, allungando grandi manate sulle spalle del povero Gaudenzio Sparagnetti, sacrestano di Sant’Eusebio che – cercando riparo – annuiva impaurito. Poi, premiati i vincitori con il titolo di campioni lombardi delle varie specialità ( Borlazza senjor, si aggiudicò ovviamente quella della monta del toro), tutti si recarono al Bar della Berta, alle porte del paese, trasformato per un giorno nel Saloon “Old wild west”, il vecchio selvaggio west dove si poteva ballare la line dance, classica danza country, oltre a scolare fiumi di birra, rimpinzandosi di  piccantissimo cibo tex mex. Mentre Ercolino, agitando il cappello da cowboy, lanciava le sue urla sempre più sguaiate, ululando come un coyote alla luna piena, lo Sparagnetti – guardando diffidente i burritos, le terrine colme di chili e le varie tortillas – si confidava con la Berta e Amleto Dolceselli, pensionato dell’Enel: “ Quello lì ha un bel dire con la sua mania del west ma a me pare una gran americanata e a quella roba da bruciasedere che c’è da mangiare, io preferisco un bel risotto con le rane, la lepre in salmì o il fagiano alla cacciatora. Ma quel Borlazza lì c’ha una testa da remulàzz!”. Poi, spiegato al Dolceselli, nativo del centro Italia,il significato di remulàzz (..“è il  ramolaccio, caro Amleto: una radice  scura, molto simile al rafano che si vende a mazzetti, come i rapanelli. E’ anche un modo per indicare una persona che ha una testa di rapa, hai capito?”), se ne andò canticchiando: “Trallalero, trallallà..la bella la va al fosso..ravanei, remulàzz, barbabietole e spinàzz.. tré palanche al màzz”.

Marco Travaglini

 

“Crossa a sinistra, boia di un mondo…”

Sullo spelacchiato rettangolo  del campo sportivo di Torre Beretti, come ogni inizio d’estate, andava in scena la sfida calcistica tra le formazioni delle sezioni comuniste della Lomellina. Carletto Ramenghini, titolare di una ditta impegnata nell’ecologia  ( “un compagno che si era fatto un nome con il sudore della fronte”), era il principale sponsor della competizione sportiva. Aggiudicarsi il trofeo “Carletto Spurghi”, era l’ ambito obiettivo  di ogni squadra che, per essere più competitiva, cercava di rafforzare la propria “rosa” con i migliori calciatori in circolazione.

 

Se la Dinamo Gambolò e il Rapid Mortara si potevano avvalere dell’apporto del miglior portiere l’una ( Duilio Saracineschi che, sin da piccolo e già dal nome, era un predestinato)  e del più prolifico attaccante l’altra ( l’Azeglio Fromboli, detto anche “Kalashnikov”, ormai quasi quarantenne segretario della locale sezione ma con l’esperienza calcistica di un decennio tra i semiprofessionisti lombardi), la Torpedo di Robbio puntava tutto sui giovani e il “Grido del Popolo” di Vigevano sui fratelli Taccoletti, ex giocatori del Pavia in serie C. Il Sartirana e lo Scaldasole faticarono a mettere in campo due formazioni e non sfuggirono ad un certo anonimato. Le altre due squadre  erano l’Idraulica Bodoni ( Vladimiro “Lenin” Bodoni  era di Groppello Cairoli) nella quale militava Evaristo Trepassi, vecchia gloria del Brescia, e i padroni di casa del Torre Beretti , allenati da Liborio Venticelli, indimenticata mezz’alta del Monza negli anni sessanta che, avendo sposato la signora Clelia Fortini, zia del sindaco comunista, era imparentato con la massima autorità locale. Il Torre Beretti, con la tradizionale divisa giallo-blu, aveva i suoi punti di forza in “mastino” De Rulli, delegato della CGIL, di mestiere carpentiere e mediano di vocazione come del resto l’altro pilastro del centrocampo, Tommaso Sgnaffoli, detto “cagnaccio” per la tenacia e il mordente con cui affrontava gli avversari. Gli altri due degni di nota erano Vincenzo Gasparotti,  terzino in campo e falegname fuori, ribattezzato dal pubblico “il piallatore” poiché tendeva ad applicare al diretto avversario la stessa tecnica riservata nel trattamento del legname, e Leolpoldo Leopoldini ( per tutti Poldo), che di soprannomi ne vantava ben due. La scelta era indotta dalla necessità. essendo difficile riassumere doti e caratteristiche in un solo soprannome: “poiana”, in quanto predatore d’area, e “fondoschiena” per l’incredibile fortuna che accompagnava il più delle volte  le sue prestazioni. Poi, ovviamente, c’era lui, il centrattacco di sfondamento, l’uomo-goal del Torre Beretti, Palmiro Taglietti. Soprannominato dai critici “Il vitellone”, si era fatto ricamare sulla maglia, all’altezza del cuore, un umile e modesto “il Migliore”. Il torneo, ad eliminazione diretta, dimezzati dopo il primo turno i contendenti ( il Torre Beretti “regolò” lo Scaldasole per tre a zero, con una doppietta del “poiana” e un contestatissimo goal del Taglietti che, imitando Maradona contro l’Inghilterra, infilò la sfera alle spalle dell’allibito estremo difensore avversario colpendola con il pugno chiuso), stabilì le semifinaliste. La Dinamo Gambolò travolse sei a zero l’inconsistente Sartirana mentre i padroni di casa faticarono sette camicie per aver ragione con il minimo scarto dei bianco-viola groppellesi dell’Idraulica Bodoni. La sera della finalissima si scatenò il putiferio. Già nel pomeriggio la pioggia, caduta copiosamente, aveva trasformato il campo in un acquitrino. Il pallone rimbalzava a malapena e, di tanto in tanto, incontrando una pozzanghera, s’impantanava tristemente. Il temporale, con uno sfolgorio di saette e grancassa di tuoni, non scoraggiò le due tifoserie che gremirono gli spalti, incuranti della pioggia, in un tripudio di bandiere rosse e slogan. Su quel terreno pesante la tecnica del centrocampo del Gambolò risultava evidentemente penalizzata , lasciando spazio alla foga muscolare di Taglietti e dei suoi. Liborio Venticelli, il trainer del Torre Beretti che non avevano mai vinto il torneo in precedenza, era stato chiaro: “Questa volta non si va in bianco, eh ragazzi?! Bisogna portare palla senza buttarla via, tenere la testa a posto, non far passare la metà campo a quelli là e cercare Palmiro per lo sfondamento. Ci siamo capiti? E tu, cagnaccio,ricordati: crossa a sinistra, boia di un mondo!”. Dopo i primi quarantacinque minuti i quattordici giocatori ( sette per parte) erano delle maschere di fango dopo essersele date di santa ragione, correndo a perdifiato su e giù per le fasce, randellandosi in epici scontri a centrocampo senza quasi mai affacciarsi nelle due aree piccole. Il risultato vedeva in vantaggio il Gambolò di una segnatura, frutto di un missile calciato da venticinque metri dall’ala sinistra dei gambolesi, tal Martinelli Eugenio, detto “Molotov”. La ripresa vide però la riscossa del Torre Beretti con uno scatenato Taglietti che urlava, sotto la pioggia battente, “Compagni, che lotta. Esaltiamoci, attacchiamoli, schiantiamoli. Facciamo venir fuori gli spiriti animali. Siamo come la Guardia Rossa che marcia alla riscossa!!”. Ululava il centrattacco, sbracciandosi per dare la carica. Il pubblico locale sosteneva la sua compagine cantando a squarciagola l’Internazionale..”compagni, avanti il gran partito…”, inanellando una rima dietro l’altra. Quando un lungo lancio del “piallatore” scodellò la sfera sul sinistro del centravanti,Palmiro  fulminò Saracineschi. Sull’uno pari la battaglia in campo divenne durissima e, grazie a un fallo un po’ dubbio in area, i padroni di casa si trovarono tra i piedi un bel rigore per passare in vantaggio. Taglietti ululò che, essendo “il Migliore”, toccava a lui tirare il penalty ma l’allenatore non volle sentir ragioni  e, nonostante la cascata d’insulti che lo investì, ordinò a “poiana” Leopoldini di battere dal dischetto. Detto e fatto, il Torre Beretti rovesciò il risultato e resistette fino allo scadere, non senza fatica , agli assalti all’arma bianca dei furibondi gambolesi. Nel tripudio generale, placati gli animi e accettato da tutti il risultato che assegnava il trofeo “Carletto Spurghi” ai locali, l’unico che brontolava era proprio Palmiro Taglietti: “’Va là che dovevo tirarlo io il rigore. Se segnavo, boia cane, impazzivano tutti per me e potevo fare un po’ il gallo in giro. Ma andate tutti a …..!”. Nessuno si fece intimorire, ovviamente. E nemmeno se la presero più di tanto. In fondo, quello che contava, era vincere il torneo e vedere la notizia pubblicata sulle pagine lombarde de L’Unità. Per tutta onestà, però, va precisata una cosa, a difesa della scelta, rivelatasi comunque vincente, di Liborio Venticelli: nei precedenti tornei, per dieci volte dieci, il Taglietti aveva “ciccato” altrettanti rigori, dimostrando che la sua mira dai sedici metri era oltremodo sciagurata. Tant’è che “cagnaccio”, arrabbiandosi, gli aveva gridato più di una volta: “ Di un po’, Migliore delle balle. Non pensi che sia ora di raddrizzare quelle piantane che hai al posto dei piedi?”.

Marco Travaglini

Oh, Lucrezia…

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E ora, che si fa?”, chiese Gioacchino, rivolgendosi incredulo agli altri compagni. “Che si fa, che si fa…Si cerca qualcuno che se la senta, che trovi le parole giuste. Del resto si sapeva che, prima o poi, ci sarebbe capitato un funerale civile anche qui da noi, no? C’è sempre una prima volta”, rispose sbrigativo Carletto Barelli, il segretario della Camera del Lavoro

 Lucrezia l’aveva detto a tutti e, da qualche anno, ormai anziana, l’aveva anche scritto – nero su bianco –  nel testamento. Così non c’erano dubbi: il giorno dell’ultimo saluto, prima di finire sotto terra, non voleva tra i piedi preti e suore. “Niente omelie e fumo di candele;niente fiori e rosari da sgranare. Solo una breve orazione civile”. Così aveva scritto, di suo pugno, Lucrezia Dolcini,  dopo la premessa di rito (…nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e in piena libertà, volendo disporre per il tempo in cui avrò cessato di vivere, dichiaro con il presente atto le mie ultime volontà come di seguito espresse…). 

 

Essendo nubile e senza prole, non aveva parenti stretti a cui lasciare l’unico bene di cui disponeva: una vecchia casa con annesso fienile che aveva ereditato dal padre, morto di silicosi a meno di quarant’anni. E così aveva disposto che fosse la CGIL a beneficiare di ciò che possedeva. In cambio, come unica contropartita, voleva che l’impronta dell’ultimo saluto fosse laica in tutto e per tutto. La sua storia, del resto, parlava per lei. Nata nel 1892 poco distante dalla Pieve di Montesorbo a Ciola, una frazione di Mercato Saraceno, in Romagna, Lucrezia – con i genitori – era emigrata in tenera età in Ossola dove il padre, Duilio, aveva trovato lavoro nel cantiere del traforo del Sempione. Un’opera imponente che, all’epoca della sua costruzione, nei primi anni del ‘900 , collegando Domodossola a Briga, si fregiava di essere la più lunga galleria ferroviaria del mondo. D’indole ribelle, era cresciuta in una famiglia di fede repubblicana. Il padre era stato anche segretario, in gioventù, del più antico partito politico italiano in una località limitrofa, Talamello. Quel nome e il simbolo della foglia d’edera, in Romagna, spiccavano fieramente su fiammanti bandiere rosse e gli aderenti cantavano feroci canzoni contro i Savoia e tutte le teste coronate. La giovane Lucrezia, cresciuta con il mito dei “tre Giuseppe” (Mazzini, Garibaldi e Verdi) stravedeva per il padre che, al posto delle favole, le leggeva brani della Costituzione della Repubblica romana, che Aurelio Saffi , romagnolo purosangue, aveva contributo a scrivere con gli altri due membri del “triumvirato”, Armellini e Mazzini, dopo aver sottratto il potere al Pontefice, al tempo Pio IX. Papà Dolcini, rimasto vedovo, crebbe la sua unica figlia con amore, mettendola in guardia sulle fatiche della vita. Per rappresentarle meglio, usava un’immagine piuttosto forte, presa in prestito dal poeta Olindo Guerrini, in arte “Stecchetti”, anch’esso romagnolo: “La vita l’è coma la schèla de puler: cùrta, in salìda e pìna ad merda” (la vita è come la scala del pollaio: corta in salita e piena di sterco). Così, lavorando sodo, con il magro guadagno riuscì anche a far studiare la figlia e Lucrezia, tra un sacrificio e l’altro, si diplomò maestra e insegnò a leggere e scrivere nella scuola elementare di uno dei più popolosi rioni di Domodossola. Lo fece riponendo nel suo lavoro la stessa passione con cui, alla sera, partecipava agli incontri e alle iniziative promosse dal sindacato e dai partiti progressisti. Se c’era da predisporre un manifesto pubblico o organizzare una serata di solidarietà con le famiglie degli operai in sciopero di questa o di quell’altra fabbrica, la “maestra Lucrezia” non si tirava mai indietro, offrendo impegno e tempo senza nulla pretendere in cambio. Per questo era benvoluta e stimata in tutta la valle. E la notizia del suo decesso era stata accolta con tristezza e dolore. Chi poteva porgerle l’ultimo saluto? Carletto Barelli ebbe un’idea: “si potrebbe chiedere a Germinale Festelli, il maremmano. Che ne dite? ”. Convennero tutti che l’idea era ottima e  venne incaricato Libero Fusini, che lavorava  con Germinale all’acciaieria della “Pietro Maria Ceretti“.

 

Uno schietto e diretto, un po’ fumino e permaloso, il Festelli passava per uno che aveva un caratteraccio ma in realtà era solo allergico ai  compromessi e non aveva mezze misure, nel bene e nel male. Se un amico aveva bisogno, si faceva in quattro per dargli l’aiuto necessario ma se qualcuno gli faceva saltare la mosca al naso erano guai e dolori. “Quando Germinale diventa brusco è come il temporale che si scatena in agosto”, dicevano in fabbrica, alludendo ai fulmini e alle saette che accompagnavano le sfuriate del “toscanaccio” quando aveva la luna storta. Il Festelli, livornese di Cecina, saputo della morte di Lucrezia, sbottò con un solenne: “Maremma maiala! Che triste notizia mi date! L’era una donna decisa come l’omo. C’aveva dù ‘oglioni!”. Sinceramente dispiaciuto, non esitò a dare l’assenso alla richiesta che Libero gli sottopose a nome delle sezioni comunista e socialista, della Fiom  e della Camera del Lavoro, oltre che di alcuni dei vecchi repubblicani che erano rimasti fedeli alle loro origini. Il funerale si sarebbe svolto due giorni dopo, partendo dall’abitazione di Lucrezia, alla Noga, di fianco all’edificio seicentesco della  vecchia parrocchiale, dedicata alla Vergine del Rosario. Il corteo, prima di raggiungere il cimitero, avrebbe fatto una sosta in piazza Mercato dove avrebbero preso la parola Carletto Barelli e , soprattutto, Germinale Festelli, l’oratore ufficiale. Il cecinese preparò con cura il discorso, deciso a non farsi prendere la mano dall’ardore della passione che l’avrebbe, senza alcun dubbio, portato all’esagerazione. Scrivendo, cancellando, aggiungendo arrivò a quella che, per lui, era la perfezione possibile: un’orazione civile che si proponeva di omaggiare la memoria di Lucrezia, toccando le corde dei sentimenti più veri. Provò più volte il discorso davanti allo specchio, calcolando con l’orologio quanto tempo gli era necessario per leggere quel testo senza andar troppo piano, strascicando le parole, e neppure troppo veloce, con il rischio di mangiarsele. Cronometro ventitre minuti esatti. Né troppo, né troppo poco. Sì, poteva andare.

 

Così, con i fogli infilati nella tasca della giacca di fustagno del dì di festa, in testa al corteo composto da alcune centinaia di persone, affiancato da labari delle cooperative  e bandiere rosse, Germinale avvertiva su di sé tutto il peso della responsabilità. In piazza, dopo il telegrafico intervento del segretario della Camera del Lavoro, il Festelli s’avvicinò al microfono. Con un colpo di tosse si schiarì la voce e alzando lo sguardo sulla folla, appoggiò la mano sinistra sul feretro coperto da una bandiera sulla quale spiccava il simbolo dell’edera e fece per prendere i fogli dalla tasca. In quel momento, vuoi per l’emozione, vuoi perché non aveva toccato cibo dal giorno prima, gli si annebbiò la vista e – per un istante – si sentì mancare la terra sotto i piedi. Rendendosi conto che non era in condizione di leggere, prese coraggio e pronunciò, con voce di tuono, una delle più brevi orazioni funebri della storia: “ Oh, Lucrezia.  Noi ci s’ha fatto le lotte insieme e  ora siamo più soli.  L’è ‘nda’ via una compagna che valeva, maremma maiala ‘mpestaha ‘hane. E mi domando: oh, Lucrezia, perché sei morta se cinque minuti prima di morire, eri così piena di vita ?”. Dopo qualche attimo di smarrimento iniziarono i primi applausi e, in breve, l’intera piazza tributò l’ultimo, caloroso addio alla “maestra Lucrezia”, senza però trovare una risposta alla domanda di Germinale.

Marco Travaglini