IL RACCONTO- Pagina 4

Le ragioni del pappagallo

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Arsenio era un pappagallo cinerino dal piumaggio prevalentemente grigio, con tonalità più scure sulla testa e sulle ali, e un bel becco nero e ricurvo.

Giorgio lo ricevette in regalo dallo zio Arialdo che a sua volta l’aveva portato con se a Torino al termine di un lungo viaggio in Africa equatoriale. Il piccolo pennuto, originario delle foreste pluviali nel cuore del continente nero, aveva una caratteristica particolare che lo distingueva dagli altri volatili e da gran parte degli animali: l’eccezionale intelligenza, secondo alcuni esperti paragonabile a quella di un bambino di tre anni. Perfettamente in grado di associare alle parole ripetute l’esatto significato, con gli anni e adeguatamente istruito, aveva imparato ad esprimersi con brevi frasi compiute, interloquendo nelle conversazioni. Ghiotto di frutta e semi, Arsenio era diventato a tutti gli effetti un membro della famiglia di Giorgio, scapolo impenitente. La strana coppia filava d’amore e d’accordo, condividendo l’appartamento in Corso Casale che offriva una suggestiva vista sul verde del parco Michelotti e sul Po. Giorgio, progettista di una nota azienda, si era formato al dipartimento di ingegneria meccanica e aerospaziale del Politecnico torinese. La sua attività gli consentiva di passare buona parte del tempo lavorando da casa, condividendo le giornate con il fedele Arsenio. Appassionato di calcio, era cresciuto nel mito del Grande Torino, la compagine degli “invincibili” capitanati da Valentino Mazzola che persero tragicamente la vita nell’incidente aereo del 4 maggio 1949, schiantandosi sulla collina di Superga. Trasmettere quel sentimento d’affetto al pappagallo non fu per nulla difficile, tant’è che Arsenio imparò a ripetere con infallibile memoria l’esatta sequenza della storica formazione, imitando la voce del suo padrone con un lieve timbro nasale: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Un bel giorno l’azienda chiese a Giorgio la disponibilità  di recarsi per un periodo di sei mesi all’estero, in America del Sud, allo scopo di contribuire all’avvio di un nuovo sito produttivo a Montevideo, la capitale dell’Uruguay. Era un’occasione davvero importante e quasi unica per la sua carriera ma occorreva risolvere il problema del pappagallo, abituato a convivere con il suo padrone. Tra l’altro a Montevideo avrebbe dovuto dividere l’appartamento con un collega.

Erano due locali più i servizi nel quartiere della città vecchia, a poca distanza dalla piazza dell’Indipendenza. Uno spazio abbastanza angusto e per di più l’altro tecnico pareva fosse allergico al piumaggio degli uccelli. Non vi era dubbio sul fatto che Arsenio non potesse seguirlo nella missione. A chi lasciarlo in custodia, allora? Parenti non ne aveva più, avendo perso i genitori in tenera età e morto da un anno anche il vecchio zio Arialdo. Era un cruccio enorme, un tormento da togliere il sonno. Ad un certo punto maturò un’idea. L’unico vero amico che aveva, un compagno di università con il quale trascorreva talvolta le serate e qualche fine settimana, era stato sfrattato e stava cercando una sistemazione. Lo chiamò spiegando il suo problema e chiedendogli la cortesia di occupare il suo alloggio per il tempo della missione. Non avrebbe avuto nessuna spesa e l’unico obbligo di prestare cura al ciarliero pappagallo. L’amico, che si chiamava Giulio, invitato a cena accettò con entusiasmo la proposta. Arsenio, con le sue spiccate capacità intuitive, colse dai discorsi dei due amici seduti a tavola nell’alloggio di corso Casale dei frammenti di discorso che non gli piacquero,  e si chiuse in un ostinato mutismo. Ma ben presto dovette fare buon viso alla situazione che si venne a creare con la partenza del padrone di casa, accettando la novità. Il pennuto, superato l’imbarazzo delle prime giornate dove prevalse una lieve malinconia, considerando che il nuovo inquilino gli dava regolarmente da mangiare, gli parlava e qualche volta canticchiava dei motivi di suo gradimento, al punto che ne ripeteva qualche parola, accettò la presenza di Giulio. Anzi, con il passare dei giorni, gli si affezionò. L’uomo raccontava all’uccello storie e confidenze quasi avesse a che fare con una persona e decise anche  di fare un piccolo scherzo all’amico. Tifoso sfegatato della Juventus, la vecchia signora antagonista del Torino, oltre a insegnare al pappagallo parole e proverbi in piemontese, gli ripeté una frase che avrebbe certamente fatto colpo su Giorgio: “Viva la  goeba”. Ai bianconeri juventini era stato incollato addosso   anche questo curioso soprannome, riservato tanto ai giocatori quanto ai tifosi, di “gobbi”. Pareva che il termine risalisse a un curioso episodio degli anni ’50 quando per una intera stagione, durante le corse dei giocatori, le loro maglie trattenendo l’aria,  si gonfiavano creando una specie di gobba. Una malignità, probabilmente creata ad arte dai rivali, tifosi dei granata. Fatto sta che quel “viva la Gobba” in piemontese piacque molto ad Arsenio che lo ripeteva di continuo come un mantra, accompagnandolo con altri spezzoni del dialetto subalpino.

Un giorno, dopo l’uscita di Giulio per delle compere, un fattorino si presentò sull’uscio per consegnare un pacco. Dopo aver suonato il campanello udì una voce gracchiante rispondere dall’interno: “Chi è?”. “Devo farle una consegna, signore!”, disse l’uomo. “Chi è?” rispose Arsenio, ripetendo l’invito più volte. “Sono il fattorino. Ho qui un pacco per lei. Mi può aprire, per favore?”, replicò il dipendente della ditta spedizioniera, tradendo un certo fastidio. Il pappagallo, per tutta risposta, inanellò una serie di frasi mescolando il piemontese con l’italiano: “Cosa fai daré ëd la pòrta?”, “Va via, fafioché d’un fafioché” ( in pratica dandogli del buono a nulla, di colui che parla tanto e non conclude niente), “Gavte la nata, balengo” (l’equivalente dell’invito a togliersi il tappo, un modo come un altro per suggerire di farsi furbo). Spazientito, il fattorino rispose con un epiteto che provocò la furibonda reazione di Arsenio che alzò ancor di più la sua stridula voce. Offeso l’uomo ridiscese le scale, visibilmente infuriato. Incontrando il portiere dello stabile gli chiese chi fosse quel maleducato che abitava al terzo piano. L’addetto alla custodia, stupito, rispose a sua volta non gli risultava nessuno in casa, avendo visto uscire una mezz’ora prima il signor Giulio. Bastò questa risposta perché il fattorino gli sbattesse tra le braccia il pacco urlandogli un seccatissimo “Visto che ci sono i fantasmi, allora a consegnare questo ci pensi lei!!”, infilando il portone e andandosene per la sua strada con un diavolo per capello. Passarono i giorni, le settimane, i mesi e il pappagallo sviluppò un attaccamento morboso nei confronti di Giulio, manifestando episodi sempre più costanti di gelosia.

Uno dei casi più frequenti si manifestava quando Giulio era costretto a uscire. Era sufficiente che indossasse la giacca o un cappotto perché Arsenio strillasse con sofferenza, roso dal tormento: “Non andare via! Stai qui! Non uscire!”. Per ingannare l’intelligentissimo volatile era arrivato al punto di calare dalla finestra, con la complicità del portinaio, la giacca o il soprabito, fugando il sospetto di una imminente fuga. Al termine dei sei mesi, al ritorno di Giorgio, il pappagallo raggiunse l’apice della possessività gridando disperatamente: “Giulio non andare via.. A l’è mej n’amis che des parent (è meglio un amico che dieci parenti).. Non mi lasciare, non abbandonarmi.. A basta ‘n to soris! (basta un tuo sorriso). Erano scenate davvero strazianti, a riprova di un amore che spezzava il cuore. Un diluvio di parole che Arsenio, rifiutandosi di mangiare, emetteva con una voce acuta e stridente che pareva sul punto di spezzarsi in pianto. I due amici, non potendo restare indifferenti davanti a tanta sofferenza, considerato che l’appartamento era abbastanza grande e che Giulio un alloggio per se non l’avevo ancora trovato, decisero di condividere l’abitazione di corso Casale. Il pappagallo ascoltò con attenzione il discorso che gli fecero, quasi si stessero rivolgendo a un bambino. E come un marmocchio davanti ai doni trovati sotto l’abete la mattina di Natale, Arsenio dimostrò tutta la sua felicità svolazzando per le stanze, pur senza rinunciare ad avere l’ultima parola: “I papagal l’an sempre rason”. I pappagalli hanno sempre ragione. E come si poteva dargli torto?

Marco Travaglini

“Tex” Borlazza e il Rodeo in Lomellina

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Il rodeo non è solo spettacolo e storia: è soprattutto un modo di vivere che accomuna chiunque viva nel sud ovest degli Stati Uniti. E diventerà così anche per chi frequenterà Buttignolo”. Il vicesindaco, per pronunciare questo breve discorso, evitando di infarcirlo con le solite intercalazioni ( e già questo rappresentava un evento), si era agghindato come un vero vaccaro americano. Una sgargiante camicia con la fantasia a quadretti , stile tovaglia da osteria che  fa tanto country, adattissima al cowboy’s style; jeans d’ordinanza, stretti in fondo, a sigaretta e con il cavallo tenuto un pò basso;  il fazzoletto legato al collo e, immancabili, un paio di stivali texani nuovi di zecca.  In una mano teneva un dépliant che lo ritraeva a fianco di un cavallo, mentre puliva la sella , con in testa un enorme cappello da cowboy. Quel copricapo – uno Stetson originale – se l’era fatto mandare direttamente dalla John B. Stetson Company di Galveston, Texas. La scritta raccontava tutto: “Lomellina’s CowBoys’ Ranch” , il centro dedicato alla monta western vicino a casa sua, in frazione San Cristoforo. Nell’altra teneva una foto che ritraeva suo padre mentre, a cavalcioni di una manza, salutava. “Ecco quì, buon sangue non mente. Mio padre, da giovane, lo chiamavano “Tex”, ” Tex Borlazza”, il cowboy dagli occhi di ghiaccio. Ed ora, grazie ad alcuni miei cugini che abitano a El Paso nel Lone Star State, nello stato della stella solitaria, cioè il Texas per voi che non siete mai andati più in là di Mortara, ho deciso che impianteremo anche qua un bel centro per il Rodeo.Bello, eh?”. Il sindaco, l’altro assessore, i due consiglieri lo guardarono attoniti. Don Busecca, il parroco, scuoteva la testa mentre il sacrestano che lo accompagnava alzò gli occhi al cielo, sussurrando “Dio mio, è matto come un cavallo“. Ma quando Ercolino si metteva in testa un’idea ( che, per il solo fatto d’averla partorita lui, era – a suo insindacabile giudizio – “un’ottima idea”..) non c’era verso di farlo desistere o, quantomeno, ragionare. Così, un paio di settimane dopo, sbarcati a Malpensa i cugini Frank e Dave Borlazza, nati a El Paso da padre buttignolese ( Giobatta, detto Jo) e madre texana, iniziò la fase operativa dell’operazione “rodeo”. Sponsor, a parte il “Lomellina’s CowBoys’ Ranch”, che doveva consolidare la sua attività, c’erano le Bibite Peretti & Tapponi, L’Edil Lomellina e il Credito Agricolo Pavese, noto anche come “il Cap”.

 

In poche settimane i due Borlazza a stelle e strisce, appoggiandosi a Geremia Plastici, titolare del centro di monta western ( che però teneva molto a farsi chiamare Johnny Plastic), predisposero l’arena dove si sarebbe svolto il primo campionato regionale lombardo di Rodeo. Con un migliaio di euro d’ingaggio e l’impegno a garantirgli vitto e alloggio per due settimane, era stato coinvolto nell’impresa anche Silvano Scaratti, detto Crazy Horse, il primo non americano a distinguersi nel più importante rodeo degli Stati Uniti, quello dei Frontier Days che si teneva a Cheyenne. La città, capitale dello stato del Wyoming, non a caso, era gemellata con Voghera a dimostrazione che l’Oltrepo poteva diventare, a tutti gli effetti, il riferimento di tutti gli appassionati del vecchio West. E venne il fatidico giorno quando, in un tripudio di bandiere, polvere e musica country, accompagnati dalle majorettes di Mezzana e dalla banda degli Stonati di Sesto Calende, fecero l’ingresso nell’arena buttignolese dell’Acqua Ferma i partecipanti al rodeo. Erano una trentina gli atleti che si sarebbero sfidati nell’impresa di domare tori e cavalli selvaggi,lanciandosi in gare ed esibizioni di ogni genere. Tra gli applausi e le urla compiaciute dei quasi quattrocento spettatori, vestiti da indiani e cowboys, i concorrenti si rincorsero per tutto il giorno in caroselli infernali, affrontandosi in corse mozzafiato, cimentandosi in gare di velocità o di abilità con i lazos , facendosi ammirare per la maestria con la quale riuscivano a muovere una mandria di broncos, di puledri selvatici. Tutto questo, tra un numero e un altro, per arrivare al titolo regionale delle classiche specialità del rodeo: monta del toro, monta del cavallo senza e con la sella.

 

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Nessuno era riuscito a rimanere in sella per gli  otto secondi nel bull riding , nella monta del toro. Erano stati sbalzati di sella o avevano toccato l’animale con la mano libera ( la briglia di corda andava tenuta saldamente con una mano sola) ma mancava all’appello Domenico “Tex” Borlazza, l’intrepido genitore di Ercolino. E, incredibilmente, l’allevatore di manze dell’Oltrepò diede una lezione a tutti, in puro stile Buffalo Bill. Quattordici secondi e una manciata di centesimi in groppa a Celestino, un toro scalciante e incazzatissimo che faceva torto al mite nome che gli era stato appioppato. “Vacca, che record!”, urlò il Borlazza, applaudendo a spella-mani l’atletico babbo. “Sei meglio di  John Wayne! Cavolo, che forza. Quando c’è di mezzo una manza o un toro, il Tex gli fa abbassare le corna, altro che balle”, gridava, allungando grandi manate sulle spalle del povero Gaudenzio Sparagnetti, sacrestano di Sant’Eusebio che – cercando riparo – annuiva impaurito. Poi, premiati i vincitori con il titolo di campioni lombardi delle varie specialità ( Borlazza senjor, si aggiudicò ovviamente quella della monta del toro), tutti si recarono al Bar della Berta, alle porte del paese, trasformato per un giorno nel Saloon “Old wild west”, il vecchio selvaggio west dove si poteva ballare la line dance, classica danza country, oltre a scolare fiumi di birra, rimpinzandosi di  piccantissimo cibo tex mex. Mentre Ercolino, agitando il cappello da cowboy, lanciava le sue urla sempre più sguaiate, ululando come un coyote alla luna piena, lo Sparagnetti – guardando diffidente i burritos, le terrine colme di chili e le varie tortillas – si confidava con la Berta e Amleto Dolceselli, pensionato dell’Enel: “ Quello lì ha un bel dire con la sua mania del west ma a me pare una gran americanata e a quella roba da bruciasedere che c’è da mangiare, io preferisco un bel risotto con le rane, la lepre in salmì o il fagiano alla cacciatora. Ma quel Borlazza lì c’ha una testa da remulàzz!”. Poi, spiegato al Dolceselli, nativo del centro Italia,il significato di remulàzz (..“è il  ramolaccio, caro Amleto: una radice  scura, molto simile al rafano che si vende a mazzetti, come i rapanelli. E’ anche un modo per indicare una persona che ha una testa di rapa, hai capito?”), se ne andò canticchiando: “Trallalero, trallallà..la bella la va al fosso..ravanei, remulàzz, barbabietole e spinàzz.. tré palanche al màzz”.

Marco Travaglini

 

Gli occhiali per leggere

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Albertino era venuto al mondo quando ormai Maddalena e Giovanni non ci speravano più. E così, passando gli anni in un rincorrersi di stagioni che rendevano sempre più duro e faticoso il lavoro nei campi, venne il giorno del ventunesimo compleanno per l’erede di casa Carabelli-Astuti.

E con la maggiore età  arrivò, puntuale come le tasse, anche la chiamata obbligatoria alla leva militare. Albertino salutò gli anziani genitori con un lungo abbraccio e partì, arruolato negli alpini. Un mese dopo, alla porta della casa colonica di Giovanni Carabelli, alle porte di San Maurizio d’Opaglio, dove la vista si apriva sul lago, bussò il postino. Non una e nemmeno due volte ma a lungo poiché Giovanni era fuori nel campo e Maddalena, un po’ sorda, teneva la radio accesa con il volume piuttosto alto. La lettera, annunciò il portalettere, era stata spedita dal loro figliolo. Non sapendo leggere e scrivere, come pure il marito, Maddalena si recò in sacrestia dal parroco. Don Ovidio Fedeli era abituato all’incombenza, dato che tra i suoi parrocchiani erano in molti a non aver mai varcato il portone della scuola e nemmeno preso in mano un libro. Chiesti alla perpetua gli occhiali, lesse il contenuto alla trepidante madre. E così, più o meno ogni mese, dalla primavera all’autunno, la scena si ripetette. Maddalena arrivata concitata con la lettera in mano, sventagliandola. E il prete, ben sapendo di che si trattasse, diceva calmo: “ E’ del suo figliolo? Dai, che leggiamo. Margherita, per favore, gli occhiali..”. E leggeva.  Poi, arrivò l’inverno con la neve e il freddo che gelava la terra e metteva i brividi in corpo. Il giorno di dicembre che il postino Rotella gli porse la lettera del figlio, decise che non si poteva andar avanti così. E rivolgendosi al marito con ben impressa nella mente la scena che ogni volta precedeva la lettura da parte del parroco, disse al povero uomo, puntando i pugni sui fianchi: “ Senti un po’, Gìuanin. Non è giunta l’ora di comprarti anche te un paio d’occhiali così le leggi tu le lettere e  mi eviti di far tutta la strada da casa alla parrocchia che fa un freddo del boia? “.

Marco Travaglini

 

 

“Crossa a sinistra, boia di un mondo…”

Sullo spelacchiato rettangolo  del campo sportivo di Torre Beretti, come ogni inizio d’estate, andava in scena la sfida calcistica tra le formazioni delle sezioni comuniste della Lomellina. Carletto Ramenghini, titolare di una ditta impegnata nell’ecologia  ( “un compagno che si era fatto un nome con il sudore della fronte”), era il principale sponsor della competizione sportiva. Aggiudicarsi il trofeo “Carletto Spurghi”, era l’ ambito obiettivo  di ogni squadra che, per essere più competitiva, cercava di rafforzare la propria “rosa” con i migliori calciatori in circolazione.

 

Se la Dinamo Gambolò e il Rapid Mortara si potevano avvalere dell’apporto del miglior portiere l’una ( Duilio Saracineschi che, sin da piccolo e già dal nome, era un predestinato)  e del più prolifico attaccante l’altra ( l’Azeglio Fromboli, detto anche “Kalashnikov”, ormai quasi quarantenne segretario della locale sezione ma con l’esperienza calcistica di un decennio tra i semiprofessionisti lombardi), la Torpedo di Robbio puntava tutto sui giovani e il “Grido del Popolo” di Vigevano sui fratelli Taccoletti, ex giocatori del Pavia in serie C. Il Sartirana e lo Scaldasole faticarono a mettere in campo due formazioni e non sfuggirono ad un certo anonimato. Le altre due squadre  erano l’Idraulica Bodoni ( Vladimiro “Lenin” Bodoni  era di Groppello Cairoli) nella quale militava Evaristo Trepassi, vecchia gloria del Brescia, e i padroni di casa del Torre Beretti , allenati da Liborio Venticelli, indimenticata mezz’alta del Monza negli anni sessanta che, avendo sposato la signora Clelia Fortini, zia del sindaco comunista, era imparentato con la massima autorità locale. Il Torre Beretti, con la tradizionale divisa giallo-blu, aveva i suoi punti di forza in “mastino” De Rulli, delegato della CGIL, di mestiere carpentiere e mediano di vocazione come del resto l’altro pilastro del centrocampo, Tommaso Sgnaffoli, detto “cagnaccio” per la tenacia e il mordente con cui affrontava gli avversari. Gli altri due degni di nota erano Vincenzo Gasparotti,  terzino in campo e falegname fuori, ribattezzato dal pubblico “il piallatore” poiché tendeva ad applicare al diretto avversario la stessa tecnica riservata nel trattamento del legname, e Leolpoldo Leopoldini ( per tutti Poldo), che di soprannomi ne vantava ben due. La scelta era indotta dalla necessità. essendo difficile riassumere doti e caratteristiche in un solo soprannome: “poiana”, in quanto predatore d’area, e “fondoschiena” per l’incredibile fortuna che accompagnava il più delle volte  le sue prestazioni. Poi, ovviamente, c’era lui, il centrattacco di sfondamento, l’uomo-goal del Torre Beretti, Palmiro Taglietti. Soprannominato dai critici “Il vitellone”, si era fatto ricamare sulla maglia, all’altezza del cuore, un umile e modesto “il Migliore”. Il torneo, ad eliminazione diretta, dimezzati dopo il primo turno i contendenti ( il Torre Beretti “regolò” lo Scaldasole per tre a zero, con una doppietta del “poiana” e un contestatissimo goal del Taglietti che, imitando Maradona contro l’Inghilterra, infilò la sfera alle spalle dell’allibito estremo difensore avversario colpendola con il pugno chiuso), stabilì le semifinaliste. La Dinamo Gambolò travolse sei a zero l’inconsistente Sartirana mentre i padroni di casa faticarono sette camicie per aver ragione con il minimo scarto dei bianco-viola groppellesi dell’Idraulica Bodoni. La sera della finalissima si scatenò il putiferio. Già nel pomeriggio la pioggia, caduta copiosamente, aveva trasformato il campo in un acquitrino. Il pallone rimbalzava a malapena e, di tanto in tanto, incontrando una pozzanghera, s’impantanava tristemente. Il temporale, con uno sfolgorio di saette e grancassa di tuoni, non scoraggiò le due tifoserie che gremirono gli spalti, incuranti della pioggia, in un tripudio di bandiere rosse e slogan. Su quel terreno pesante la tecnica del centrocampo del Gambolò risultava evidentemente penalizzata , lasciando spazio alla foga muscolare di Taglietti e dei suoi. Liborio Venticelli, il trainer del Torre Beretti che non avevano mai vinto il torneo in precedenza, era stato chiaro: “Questa volta non si va in bianco, eh ragazzi?! Bisogna portare palla senza buttarla via, tenere la testa a posto, non far passare la metà campo a quelli là e cercare Palmiro per lo sfondamento. Ci siamo capiti? E tu, cagnaccio,ricordati: crossa a sinistra, boia di un mondo!”. Dopo i primi quarantacinque minuti i quattordici giocatori ( sette per parte) erano delle maschere di fango dopo essersele date di santa ragione, correndo a perdifiato su e giù per le fasce, randellandosi in epici scontri a centrocampo senza quasi mai affacciarsi nelle due aree piccole. Il risultato vedeva in vantaggio il Gambolò di una segnatura, frutto di un missile calciato da venticinque metri dall’ala sinistra dei gambolesi, tal Martinelli Eugenio, detto “Molotov”. La ripresa vide però la riscossa del Torre Beretti con uno scatenato Taglietti che urlava, sotto la pioggia battente, “Compagni, che lotta. Esaltiamoci, attacchiamoli, schiantiamoli. Facciamo venir fuori gli spiriti animali. Siamo come la Guardia Rossa che marcia alla riscossa!!”. Ululava il centrattacco, sbracciandosi per dare la carica. Il pubblico locale sosteneva la sua compagine cantando a squarciagola l’Internazionale..”compagni, avanti il gran partito…”, inanellando una rima dietro l’altra. Quando un lungo lancio del “piallatore” scodellò la sfera sul sinistro del centravanti,Palmiro  fulminò Saracineschi. Sull’uno pari la battaglia in campo divenne durissima e, grazie a un fallo un po’ dubbio in area, i padroni di casa si trovarono tra i piedi un bel rigore per passare in vantaggio. Taglietti ululò che, essendo “il Migliore”, toccava a lui tirare il penalty ma l’allenatore non volle sentir ragioni  e, nonostante la cascata d’insulti che lo investì, ordinò a “poiana” Leopoldini di battere dal dischetto. Detto e fatto, il Torre Beretti rovesciò il risultato e resistette fino allo scadere, non senza fatica , agli assalti all’arma bianca dei furibondi gambolesi. Nel tripudio generale, placati gli animi e accettato da tutti il risultato che assegnava il trofeo “Carletto Spurghi” ai locali, l’unico che brontolava era proprio Palmiro Taglietti: “’Va là che dovevo tirarlo io il rigore. Se segnavo, boia cane, impazzivano tutti per me e potevo fare un po’ il gallo in giro. Ma andate tutti a …..!”. Nessuno si fece intimorire, ovviamente. E nemmeno se la presero più di tanto. In fondo, quello che contava, era vincere il torneo e vedere la notizia pubblicata sulle pagine lombarde de L’Unità. Per tutta onestà, però, va precisata una cosa, a difesa della scelta, rivelatasi comunque vincente, di Liborio Venticelli: nei precedenti tornei, per dieci volte dieci, il Taglietti aveva “ciccato” altrettanti rigori, dimostrando che la sua mira dai sedici metri era oltremodo sciagurata. Tant’è che “cagnaccio”, arrabbiandosi, gli aveva gridato più di una volta: “ Di un po’, Migliore delle balle. Non pensi che sia ora di raddrizzare quelle piantane che hai al posto dei piedi?”.

Marco Travaglini

Oh, Lucrezia…

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E ora, che si fa?”, chiese Gioacchino, rivolgendosi incredulo agli altri compagni. “Che si fa, che si fa…Si cerca qualcuno che se la senta, che trovi le parole giuste. Del resto si sapeva che, prima o poi, ci sarebbe capitato un funerale civile anche qui da noi, no? C’è sempre una prima volta”, rispose sbrigativo Carletto Barelli, il segretario della Camera del Lavoro

 Lucrezia l’aveva detto a tutti e, da qualche anno, ormai anziana, l’aveva anche scritto – nero su bianco –  nel testamento. Così non c’erano dubbi: il giorno dell’ultimo saluto, prima di finire sotto terra, non voleva tra i piedi preti e suore. “Niente omelie e fumo di candele;niente fiori e rosari da sgranare. Solo una breve orazione civile”. Così aveva scritto, di suo pugno, Lucrezia Dolcini,  dopo la premessa di rito (…nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e in piena libertà, volendo disporre per il tempo in cui avrò cessato di vivere, dichiaro con il presente atto le mie ultime volontà come di seguito espresse…). 

 

Essendo nubile e senza prole, non aveva parenti stretti a cui lasciare l’unico bene di cui disponeva: una vecchia casa con annesso fienile che aveva ereditato dal padre, morto di silicosi a meno di quarant’anni. E così aveva disposto che fosse la CGIL a beneficiare di ciò che possedeva. In cambio, come unica contropartita, voleva che l’impronta dell’ultimo saluto fosse laica in tutto e per tutto. La sua storia, del resto, parlava per lei. Nata nel 1892 poco distante dalla Pieve di Montesorbo a Ciola, una frazione di Mercato Saraceno, in Romagna, Lucrezia – con i genitori – era emigrata in tenera età in Ossola dove il padre, Duilio, aveva trovato lavoro nel cantiere del traforo del Sempione. Un’opera imponente che, all’epoca della sua costruzione, nei primi anni del ‘900 , collegando Domodossola a Briga, si fregiava di essere la più lunga galleria ferroviaria del mondo. D’indole ribelle, era cresciuta in una famiglia di fede repubblicana. Il padre era stato anche segretario, in gioventù, del più antico partito politico italiano in una località limitrofa, Talamello. Quel nome e il simbolo della foglia d’edera, in Romagna, spiccavano fieramente su fiammanti bandiere rosse e gli aderenti cantavano feroci canzoni contro i Savoia e tutte le teste coronate. La giovane Lucrezia, cresciuta con il mito dei “tre Giuseppe” (Mazzini, Garibaldi e Verdi) stravedeva per il padre che, al posto delle favole, le leggeva brani della Costituzione della Repubblica romana, che Aurelio Saffi , romagnolo purosangue, aveva contributo a scrivere con gli altri due membri del “triumvirato”, Armellini e Mazzini, dopo aver sottratto il potere al Pontefice, al tempo Pio IX. Papà Dolcini, rimasto vedovo, crebbe la sua unica figlia con amore, mettendola in guardia sulle fatiche della vita. Per rappresentarle meglio, usava un’immagine piuttosto forte, presa in prestito dal poeta Olindo Guerrini, in arte “Stecchetti”, anch’esso romagnolo: “La vita l’è coma la schèla de puler: cùrta, in salìda e pìna ad merda” (la vita è come la scala del pollaio: corta in salita e piena di sterco). Così, lavorando sodo, con il magro guadagno riuscì anche a far studiare la figlia e Lucrezia, tra un sacrificio e l’altro, si diplomò maestra e insegnò a leggere e scrivere nella scuola elementare di uno dei più popolosi rioni di Domodossola. Lo fece riponendo nel suo lavoro la stessa passione con cui, alla sera, partecipava agli incontri e alle iniziative promosse dal sindacato e dai partiti progressisti. Se c’era da predisporre un manifesto pubblico o organizzare una serata di solidarietà con le famiglie degli operai in sciopero di questa o di quell’altra fabbrica, la “maestra Lucrezia” non si tirava mai indietro, offrendo impegno e tempo senza nulla pretendere in cambio. Per questo era benvoluta e stimata in tutta la valle. E la notizia del suo decesso era stata accolta con tristezza e dolore. Chi poteva porgerle l’ultimo saluto? Carletto Barelli ebbe un’idea: “si potrebbe chiedere a Germinale Festelli, il maremmano. Che ne dite? ”. Convennero tutti che l’idea era ottima e  venne incaricato Libero Fusini, che lavorava  con Germinale all’acciaieria della “Pietro Maria Ceretti“.

 

Uno schietto e diretto, un po’ fumino e permaloso, il Festelli passava per uno che aveva un caratteraccio ma in realtà era solo allergico ai  compromessi e non aveva mezze misure, nel bene e nel male. Se un amico aveva bisogno, si faceva in quattro per dargli l’aiuto necessario ma se qualcuno gli faceva saltare la mosca al naso erano guai e dolori. “Quando Germinale diventa brusco è come il temporale che si scatena in agosto”, dicevano in fabbrica, alludendo ai fulmini e alle saette che accompagnavano le sfuriate del “toscanaccio” quando aveva la luna storta. Il Festelli, livornese di Cecina, saputo della morte di Lucrezia, sbottò con un solenne: “Maremma maiala! Che triste notizia mi date! L’era una donna decisa come l’omo. C’aveva dù ‘oglioni!”. Sinceramente dispiaciuto, non esitò a dare l’assenso alla richiesta che Libero gli sottopose a nome delle sezioni comunista e socialista, della Fiom  e della Camera del Lavoro, oltre che di alcuni dei vecchi repubblicani che erano rimasti fedeli alle loro origini. Il funerale si sarebbe svolto due giorni dopo, partendo dall’abitazione di Lucrezia, alla Noga, di fianco all’edificio seicentesco della  vecchia parrocchiale, dedicata alla Vergine del Rosario. Il corteo, prima di raggiungere il cimitero, avrebbe fatto una sosta in piazza Mercato dove avrebbero preso la parola Carletto Barelli e , soprattutto, Germinale Festelli, l’oratore ufficiale. Il cecinese preparò con cura il discorso, deciso a non farsi prendere la mano dall’ardore della passione che l’avrebbe, senza alcun dubbio, portato all’esagerazione. Scrivendo, cancellando, aggiungendo arrivò a quella che, per lui, era la perfezione possibile: un’orazione civile che si proponeva di omaggiare la memoria di Lucrezia, toccando le corde dei sentimenti più veri. Provò più volte il discorso davanti allo specchio, calcolando con l’orologio quanto tempo gli era necessario per leggere quel testo senza andar troppo piano, strascicando le parole, e neppure troppo veloce, con il rischio di mangiarsele. Cronometro ventitre minuti esatti. Né troppo, né troppo poco. Sì, poteva andare.

 

Così, con i fogli infilati nella tasca della giacca di fustagno del dì di festa, in testa al corteo composto da alcune centinaia di persone, affiancato da labari delle cooperative  e bandiere rosse, Germinale avvertiva su di sé tutto il peso della responsabilità. In piazza, dopo il telegrafico intervento del segretario della Camera del Lavoro, il Festelli s’avvicinò al microfono. Con un colpo di tosse si schiarì la voce e alzando lo sguardo sulla folla, appoggiò la mano sinistra sul feretro coperto da una bandiera sulla quale spiccava il simbolo dell’edera e fece per prendere i fogli dalla tasca. In quel momento, vuoi per l’emozione, vuoi perché non aveva toccato cibo dal giorno prima, gli si annebbiò la vista e – per un istante – si sentì mancare la terra sotto i piedi. Rendendosi conto che non era in condizione di leggere, prese coraggio e pronunciò, con voce di tuono, una delle più brevi orazioni funebri della storia: “ Oh, Lucrezia.  Noi ci s’ha fatto le lotte insieme e  ora siamo più soli.  L’è ‘nda’ via una compagna che valeva, maremma maiala ‘mpestaha ‘hane. E mi domando: oh, Lucrezia, perché sei morta se cinque minuti prima di morire, eri così piena di vita ?”. Dopo qualche attimo di smarrimento iniziarono i primi applausi e, in breve, l’intera piazza tributò l’ultimo, caloroso addio alla “maestra Lucrezia”, senza però trovare una risposta alla domanda di Germinale.

Marco Travaglini

Giovanni Melampo, il fabbro Giuanin

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Giovanni Melampo, noto a tutti come “Giùanin”, l’ho conosciuto negli anni in cui veniva in banca a chiedere prestiti per la sua attività di fabbro. Camminava sempre a zig e zag, con passo incerto e le mani in tasca dove teneva sempre due mele, una per parte:” Vùna par tegna via luntan al dùtur e l’altra parché a lè mej veglà drèe“, mi diceva. Che, tradotto, era la sintesi del proverbiale “una mela al giorno leva il medico di torno” con l’aggiunta di un po’ di previdenza al fine di non farsi trovare sprovvisto di cibo quando i morsi della fame reclamavano udienza. Giùanin era, per certi versi, un artista. Possedeva una straordinaria abilità nel lavorare i metalli e una bacchetta di ferro, nelle sue mani, poteva diventare davvero un oggetto prezioso.

 

Non aveva, però, il senso della misura. Ricordo che, una volta, Ruggero Locati gli commissionò una gabbietta per tenerci un merlo: “Giùanin, mà ràcumandi. Una gabbia che non sia troppo piccola perché il merlo deve potersi muovere ma neanche troppo grande, perché la devo tenere in casa. Ci conto, eh?”. E lui disse di sì. Erano all’osteria della Trappola, seduti uno di fronte all’altro. Ma, come poi s’accorse anche il Locati, Giùanin quand’era “preso” non connetteva più di tanto. Quante volte era capitato anche a me di vederlo. Arrivava al Circolo, si metteva seduto al tavolo vicino alla finestra e comandava il primo mezzino. E poi un’altro , e un’altro ancora. Se gli si diceva qualcosa rispondeva a malo modo: “ L’acqua fa marcire i pali. Lo dicono tutti i  grandi bevitori di vino , e lo dico anch’io. Anzi, caro al mé ragiùnier, lo sai come dicono gli svizzeri? L’acqua fa male ed il vino fa cantare. E, allora, se vuoi farmi compagnia, prendi anche te un bicchiere e beviamo alla nostra salute. E poi , cantiamo”. E attaccava con il repertorio di canti degli alpini. Stonato com’era, era uno strazio doverlo ascoltare. Ma ,ormai, ci avevamo fatto l’abitudine. Tornando alla gabbia del merlo, passarono diverse settimane senza notizie. Locati si stava preoccupando quando, una mattina che era uscito un po’ prima per andare dal medico, incrociò il  fabbro. “Uelà, Giùanin. Incœu pensavì propri a tì. E ma disevi, tra mì e mì: al sarà minga mòrt ? Ed invece, vardatt’chi , ancamò viv. E la me gabbia dal merlo? Ti gh’he semper avùu la bravura de fa ma, madonnina cara, al temp te scarligà via“. Locati, milanese della Bovisa trapiantatosi sul lago Maggiore, non aveva perso l’abitudine del dialetto meneghino. Giùanin gli disse che aveva avuto dei problemi e  che andava di fretta ma anche che non s’era dimenticato e, all’indomani, il Locati avrebbe avuto la sua gabbia. A suo modo era una persona di parola. E così, il mattino dopo di buon ora, Ruggero Locati sentì il rumore di un motocarro fuori casa e un paio di colpi di clacson. Uscì e Giùanin gli chiese di aiutarlo a scaricare la “gabbietta”. Bastava guardare in faccia Locati per cogliere la sua somiglianza con la “rana dalla bocca larga”. Era rimasto lì, a bocca aperta, basito. La”gabbietta” aveva un diametro di circa due metri  ed era alta più di tre. Una voliera, ecco cos’era. Una voliera in piena regola e per più in ferro battuto. “Mah,mah,mah…” inziò a balbettare il Locati, incredulo. “Non c’è ma che tenga. Volevi una gabbia per il merlo,no? Eccola, qui. Larga e spaziosa. E siccome ti ho fatto aspettare un po’ di più, sai che faccio? Te la regalo”. Detto e fatto. Scaricata la gabbia, il Giùanin mise in moto e se ne andò, lasciando il milanese senza parole, ancor più a bocca aperta. Ecco, Giovanni Melampo era così, come dire?.. imprevedibile. Generosissimo e altruista , non sopportava però che  gli si dessero consigli sul lavoro. “ A l’è com’insegnàgh  a rubà ai làdar“. Cioè, era come insegnare a rubare ai ladri. Frase che rivolgeva a chi  aveva il vizio di dare spiegazioni inutili a chi era più esperto e competente. Oppure, bofonchiando tra i denti, sibilava un “ Pastizzee, fà ‘l tò mesté!“, sottolineando come fosse bene che ognuno lavorasse secondo la propria competenza. Poteva permetterselo, essendo un fabbro che “faceva i baffi alle mosche”. Dove abitava, sulla strada tra Loita  e Campino, praticamente sul confine tra Baveno e Stresa, aveva anche la sua bottega. L’incudine in ghisa era imponente. “Più è grossa, meglio è“, mi diceva il Giùanin. E quella, tra le due estremità, aveva una lunghezza di quasi due braccia. Di martelli ce n’era tutta una serie. “Per ogni lavorazione esiste il martello ideale. Vede, ragioniere, il peso è proporzionato a quello del pezzo da lavorare. E tutto dipende dall’efficacia che si vuol dare al colpo. Quello lì, ad esempio, è un martello da due chili. Quell’altro là ne pesa quasi tre mentre quello che sta lì, vicino a lei, pesa solo quattro etti“.

 

Quando parlava del suo mestiere usava un italiano corretto, da “professore”. “ Oggi, sa,  il ferro battuto viene richiesto soprattutto per arredare le case, dentro e fuori. Lampadari, tavolini, cancelli, intelaiature delle finestre. Ho anche molte richieste di cerniere per mobili“. In un angolo, sotto una larga cappa, c’era la forgia con il suo mantice per soffiare l’aria sul fuoco (“così si accelera la combustione e le temperature si mantengono più elevate“). Lo vedevo bene, Giùanin, aggirarsi sicuro tra i suoi attrezzi. Sembrava un direttore d’orchestra che disponeva gli strumenti nel modo migliore per eseguire la sinfonia. Lui, al posto di oboe, violini, violincelli, arpe e percussioni aveva pinze, taglioli, stampi, punzoni, dime, lime, seghe, mole, morse, trance, trapani. Anche in cucina era un mago. Talvolta mi capitava che, giunti ormai alla mezza,alzandomi per andare a casa a buttare un po’ di pasta da condire con pomodoro e parmigiano, com’era mia abitudine, mi teneva per il braccio, dicendomi: “Sù, ragiùnier, venga con me. Stiamo un po’ in compagnia. Le faccio assaggiare un po’ di pesce che m’hanno dato giù dal Luigino“. Tra le sue passioni c’era la pesca. Che condivideva, quando possibile, con Luigino Dovrandi, pescatore professionista ormai pensionato. Luigino, per non “perdere il vizio”, buttava le reti almeno tre volte la settimana e divideva il pescato con lui. A patto che cucinasse per tutti. A me capitava così di fare da “terzo” a questi banchetti. Tra i fornelli, Giùanin si destreggiava con abilità.La sua specialità era  il fritto misto di lago: alborelle in quantità e agoni, da friggere infarinati nella padella di ferro;  bottatrice, filetti di persico e lavarello, da cuocere a loro volta, impanati con l’uovo,  in burro e salvia , aggiungendo un goccio d’olio. Una bontà da leccarsi i baffi. E non finiva lì. Talvolta portava in tavola anche il  pesce in carpione, fritto e poi marinato in aceto, cipolla, alloro. Più raramente me lo proponeva in salsa verde. Si trattava, in quei frangenti, di lavarelli, agoni o salmerini grigliati e marinati in una salsa di prezzemolo, mollica di pane, aceto, capperi, acciughe, aglio, rosso d’uovo, olio d’oliva. D’inverno ci serviva i “missultitt” con la polenta. Questi agoni essiccati li trovava Luigino nella parte alta del lago, tra Ghiffa e Oggebbio. Lì, a dispetto del tempo e delle tradizioni che lasciavano il passo, alcuni vecchi pescatori suoi amici trasformavano gli agoni pescati in tarda primavera in missoltini, essicandoli al sole e conservandoli,  strato su strato – con foglie d’alloro – pressati nella “dissolta”, un recipiente chiuso da un coperchio di legno sul quale gravavano dei pesi, così che i missoltini restassero “sotto pressione” per alcuni mesi. Una volta “liberati”, Giùanin li passava per pochi istanti sulla griglia rovente, irrorandoli d’olio e aceto, per poi servirli sui nostri piatti con delle larghe fette di polenta abbrustolita e tre bicchieri di vino rosso. Un’allegria per il palato e una gioia per la compagnia.

 

Marco Travaglini

Teresio e i duelli dei “cauboi”

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Passando davanti alla casa di Aristide ho ripensato ai “duelli”  che ingaggiava con Teresio. Niente di cruento, per carità, ma   il clima che si creava sembrava proprio quello della “sfida all’ O.k. Corral”. Al numero 30 di via Libertà sembrava di essere finiti a capofitto nella miglior epopea western e la porta d’entrata dell’Osteria Cooperativa sembrava uguale identica a quella di un saloon

Aristide entrava, con i pollici di entrambe le mani  infilati nella cinghia dei pantaloni. La camicia a quadretti, alla “boscaiola”, e il gilè scuro di fustagno. Lo sguardo torvo, sotto il cappellaccio nero, era tutto un programma. Si guardava attorno, neanche fosse Wild Bill Hickok alla ricerca di qualche fuorilegge a Dodge City o Abilene. Con lo sguardo passava in rassegna, lentamente, gli avventori che erano seduti ai tavoli nella larga sala  e, adocchiato  tra gli altri Teresio lo “puntava” come un pistolero. Sguardo dritto e fisso, gambe larghe e ben piantate, braccia a penzoloni lungo il corpo e mani che muovevano lentamente le dita. Teresio non era da meno. Si girava lentamente e, appoggiato di schiena al bancone della mescita, lo fissava anche lui. Poi, nel silenzio più assoluto, si avvicinavano l’uno all’altro.

I giocatori di ramino stavano lì, in surplace, con le carte in mano. I professionisti del biliardo alzavano la stecca dal tappeto verde, dimenticandosi per un attimo delle traiettorie da imprimere alle biglie colorate. I due, intanto, erano ormai uno davanti all’altro e, d’improvviso, chiamandosi per nome, si scambiavano dei gran pugni sulle spalle, simulando un incontro di boxe. Amiconi da sempre, si divertivano così. Si canzonavano e si “facevano le spalle” con delle sberle tremende. Uno, ferramenta d’ingegno e maestro di sregolatezza, l’altro carpentiere provetto e muratore “fuori orario”, avevano al posto delle mani delle vere e proprie “vanghe” e si mollavano delle pacche da far tremare denti e gengive. Ah, a proposito di denti. I colpi venivano vibrati regolarmente sulle spalle, allo scopo di far traballare l’amico-avversario. Salvo quella volta che Teresio, colto da un lampo d’ingegno, pensò di schivare l’uppercut dell’amico abbassandosi di scatto. Un gesto che, per aver successo, necessitava di una certa rapidità. Forse fu proprio la rapidità a difettare allo “stratega”, tanto da non consentirgli di schivare in tempo il colpo che arrivò, come un dritto  micidiale, tra naso e bocca, in pieno volto. Altro che traballare: Teresio finì a gambe levate, steso al tappeto.

Sanguinava da far paura e un certo numero di denti finì per sputarli sul pavimento. Aristide , terrorizzato dal colpo che aveva inferto all’amico, alla vista del sangue, stramazzò anche lui a terra svenuto .Così i due furono soccorsi dagli altri avventori con ghiaccio, sali, alcool e cerotti, prima che Teresio fosse portato al pronto soccorso più vicino in condizioni a dir poco pietose. Da quel giorno, “per non perdere le buone abitudini”, come diceva Teresio, mettendo in mostra un sorriso non proprio integro, il duello fu solo simulato. Ma se per Teresio era l’occasione per due risate con l’amico, la cosa era ben diversa per Aristide. Lui avrebbe voluto davvero essere un pistolero o uno sceriffo e sfidare a duello i malfattori. Divorava i fumetti di Pecos Bill e Tex Willer, non si perdeva un film western in Tv e quando ancora era aperta in paese la sala cinematografica, nel locale a fianco della stazione ferroviaria, s’era innamorato di Clint Eastwood. L’attore americano, interpretando  gli spaghetti-western “Per un pugno di dollari”, “Per qualche dollaro in più” e “Il buono, il brutto e il cattivo”, sotto l’accorta   regia di Sergio Leone, rappresentava esattamente il suo “modello”. “Quello sì che è un ganzo”, diceva. “ Ha un’espressione che cambia solo quando toglie il cappello, due occhi di ghiaccio e con la Colt è un fulmine. Ah,quanto mi piacerebbe essere un cauboi (parola che pronunciava e  scriveva esattamente così..), tirar fuori la rivoltella e far secchi tutti i delinquenti”.

Non è difficile, a questo punto, intuire cosa gli passò per la testa quella mattina che, rientrato a casa dopo una nottata di bisboccia in compagnia, trovò i due anziani genitori ad aspettarlo, ancora tremanti di paura. Cos’era successo? Semplicemente che un altro matto che era ancor più matto di lui, il Piero Borlotti, era passato lì davanti poco prima di mezzanotte e si era messo ad urlare come un’aquila il suo nome. Papà e mamma, che si erano coricati già da qualche ora, si svegliarono di botto a causa degli schiamazzi. “Vieni fuori, Aristide. Vieni fuori che andiamo a bere. Dai, non fare il balengo! Vieni fuori o ti faccio finire con il sedere per terra”. E si mise a sparare in aria con una scacciacani. Ogni colpo era accompagnato da un rosario di mamma Delfina che, nascosta dietro all’uscio della cucina, tremava come una foglia. Ad un certo punto, Borlotti si stufò di sparare. Forse perché aveva finito i colpi e di Aristide non si vedeva l’ombra, forse perché sentì dalle case vicine urlare “adesso chiamiamo i carabinieri!”; fatto sta che borbottando se ne andò per la sua strada. Appena gli anziani genitori finirono di raccontare la loro nottata di paura, il loro figliolo sbottò con un “Accidenti, che peccato! Se ero a casa, facevamo un bel duello”. Come non capire suo padre, l’anziano signor Carlo, il quale – sentite queste parole – lo fissò negli occhi e gli sibilò  quello che pensava di lui: “Ma va a ciapà i ratt, balordone! Altro che duello e pistole! I pistola siete voi e la prossima volta prendo io in mano la doppietta, la carico a sale grosso e vi sparo nel sedere”.

Marco Travaglini

Il povero tarabuso

 

L’immagine che avevamo davanti agli occhi era davvero inquietante. Una costruzione enorme, mostruosa, capace di imporre la sua presenza su quella campagna piatta e uniforme, dove le zolle di terra scura si erano raggrinzite per la gelata notturna. Finalmente capivamo perché il povero Tarabuso, airone stellato dal richiamo cupo e cavernoso, non riusciva a riprodursi in questa landa. Lo disturbava la presenza della centrale elettronucleare Enrico Fermi di Trino. Nonostante fosse ormai chiusa dal 1990, il volatile cercava di starle il più lontano possibile. E come dargli torto se nutriva diffidenza per quell’impianto che nei primi anni sessanta disponeva del reattore più potente al mondo? Ovviamente non disponendo di una cultura ambientale si affidava alle sue percezioni e quest’ultime, come un segnale di pericolo, suggerivano di stare alla larga da quell’affare, E tutto ciò influiva sulla sua vita, in tutti i sensi, al punto da inibirne l’impulso sessuale, minacciando la continuità della specie in quei luoghi.

Povero Tarabuso, e poveri anche noi che non eravamo per nulla convinti che quella centrale fosse mai stata un buon affare. Così, per non farci rodere il fegato dai pensieri, finivamo per tentare di comprometterlo ai tavoli della trattoria Belvedere. Lì, dietro al bancone del bar, troneggiava la signora Luigina, una matrona dalle prorompenti grazie. Eravamo talmente affascinati da quella bellezza rurale che una sera, complici alcuni bicchieri in più di rosso, sostituimmo la quarta lettera dell’insegna con una “esse”, rendendo ancor più esplicita la nostra folgorata ammirazione per l’ostessa. E, in particolar modo, per una sua caratteristica fisica che suscitava in noi sentimenti e pulsioni opposte a quelle del povero airone represso. La nostra compagnia dell’epoca era alquanto varia. C’era Francesco, diffidente per natura. Non prestava facilmente ascolto e ancor meno elargiva la sua fiducia. Ripeteva spesso, quasi fosse un monito: “Apri l’occhio, gesuita”. E così i suoi interlocutori venivano iscritti d’ufficio alla Compagnia di Gesù a prescindere dai loro sentimenti religiosi. C’era poi Giovanni, un tipo molto particolare. Spesso se ne stava in disparte, manifestando scarso interesse a stare in compagnia, chiacchierare, andare al cinema o a qualche festa. Era taciturno e d’indole parsimoniosa. Un sabato decidemmo di organizzare una scampagnata per il pomeriggio del giorno dopo e concordammo cosa portare in dotazione alla compagnia. In breve stabilimmo a chi sarebbe toccato portare il pane, chi il formaggio o il salame, chi un fiasco di vino. Solo Giovanni stava zitto. Parlò solo quando venne sollecitato (“E tu, Giovanni, cosa porti?”), rispondendo con noncuranza: “Io porto mio fratello”. Ariberto, nato e cresciuto nelle case torinesi della barriera di Milano, era un tontolone, un pezzo di pane, un gariboja. In piemontese per indicare uno sciocco si usa dire “a l’é furb coma Gariboja”. Non si tratta certamente un epiteto lusinghiero poiché non si segnala la destrezza di chi se la cava con l’imbroglio ma bensì la dabbenaggine dell’individuo. Gianluigi, professore di storia e grandissimo scassatore di scatole, ci ha raccontato che il nome Gariboja risale ad un francese originario della Borgogna, tale Jean Gribouille, personaggio popolare in Francia e molto simile al nostro Bertoldino, altro bell’esempio di credulone. Oltralpe fu protagonista del romanzo La Sœur de Gribouille scritto nel 1862 da Sophie Rostopcina, contessa di Ségur. Importato da noi in Piemonte il buon Gariboja è diventato l’emblema di una ingenuità spinta ai confini della stoltezza, tant’è che vi sono moltissime espressioni che lo riguardano. Si diceva che nascondesse i soldi in tasca degli altri per timore di essere derubato (così se qualcuno li rubava non erano più soldi suoi), che la paura di bagnarsi sotto la pioggia lo induceva a nascondersi nell’acqua o che tentasse di spaccare le noci con le uova. Anche sul commercio aveva le sue idee come, ad esempio, quella di acquistare le uova a dodici soldi la dozzina per rivenderle a un soldo l’una, immaginando di ottenere un guadagno sulla quantità. Per questo l’essere furbo come Gariboja non era propriamente un complimento. Fatto sta che una sera, uscendo dall’osteria dopo aver ecceduto un tantino con le libagioni, ci avviammo sul sentiero che attraversava i campi fino a raggiungere l’alta recinzione che circondava la centrale.

Francesco, guardando Ariberto, disse: “Apri l’occhio, gesuita. Guarda là, che spreco. Tutto quel cemento e il resto dei macchinari dovevano servire alla produzione di energia elettrica da fonte nucleare con un unico reattore da 260 megawatt di potenza. Capito che roba,eh? L’hanno costruita dal 1961 al 1964, entrò in esercizio nel 1965 passando all’Enel, l’ente nazionale di energia elettrica che si era formato solo due anni prima, che la gestita fino al 1987, anno di cessazione del servizio dopo l’incidente di Černobyl dove esplose un reattore spargendo una nube radioattiva su una parte dell’Europa”. “Mi ricordo, boia d’un boia. Non si poteva più neanche mangiare l’insalata a foglia larga e bisognava lavare tutto due o tre volte”, intervenne Ariberto, dandosi una manata sul ginocchio. “Eh, sì.. l’insalata. Apri l’occhio, gesuita. Ma se tu la verdura non l’hai mai mandata giù perché ti faceva strozzare? Hai sempre mangiato solo riso, pasta, pollo e salame. Ma dai, fatti furbo!”. Francesco concluse il suo discorso ricordando i tre referendum contro il nucleare e, per sottolineare con più forza il suo punto di vista, fece la pipì sul pilone del cancello. Quello che per molto tempo fu considerato reato in quanto rientrava negli “atti contrari alla pubblica decenza” quando venivano imbrattate le cose altrui o si espletassero i propri bisogni contro edifici pubblici, suggerì a tutta l’allegra combriccola di emulare il gesto dell’amico. E così, più leggeri pure più allegri, ci avviammo verso le rispettive abitazioni dedicando un ultimo pensiero al povero tarabuso che, inibizioni sessuali a parte, certamente senza averne consapevolezza, aveva dimostrato di possedere molto prima di Greta Thumberg e dei Friday for Future una coscienza ambientale di tutto rispetto, un evidente e insopprimibile desiderio di pace e, forse, un desiderio inespresso a favore di una diversa politica energetica. In fondo apparteneva alla nobile famiglia degli aironi e non era certamente un gariboja.

Marco Travaglini

L’on. Figurelli e l’imprevisto

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Ma, Castagnetti che fine ha fatto?“. Anselmo Ruspanti lo chiese, con sguardo interrogativo, ad Albano Galavotti che a sua volta, allargando le braccia, lasciò intendere che lui non ne aveva la più pallida idea.

Forse la Marietta ci può essere d’aiuto”, intervenne Flavio Rizzato, più noto come “cìaparatt”, grazie all’abilità con cui liberava cantine e solai dalla presenza dei roditori. E infatti Marietta, abituata a farsi gli affari di tutti in paese, s’affrettò ad informare i tre che lo “spelafil”, l’elettricista Giuseppe Castagnetti, era andato per funghi  alle “Cascine” e, probabilmente da lì era salito al monte Vago. “Oh, Madonna! Ma è diventato matto? E adesso? Come facciamo a metter su l’impianto elettrico dato che i fili li ha lui?”. Carmine Degrelli, che aveva sentito tutto, diede voce alla preoccupazione dei presenti. Senza l’elettricista non c’era modo di collegare il cavo elettrico alla batteria da camion che Galavotti portava nel baule della sua “giardinetta”, una Fiat 1100 familiare color caffelatte. E senza il collegamento elettrico le “trombe” dell’impianto di amplificazione sarebbero rimaste mute e l’onorevole Figurelli non poteva fare il suo comizio. “Bisogna inventarsi qualcosa perché tra poco arriva e se vede in che stato siamo conciati, s’incazza come una belva e poi, apriti cielo..”, lamentò Anselmo che, in quel momento, rappresentava la massima autorità sul campo, in quanto responsabile del PCI per i comuni della sponda occidentale del lago. Per l’onorevole Figurelli, dopo i discorsi  in piazza  Motta a Orta e al circolo operaio di Lavignino ad Armeno, quello in piazza Marconi ad Ameno era il terzo e penultimo appuntamento del giorno, prima di passare da Omegna e risalire la valle Strona fino a Luzzogno per l’ultimo appuntamento, sul calar della sera. Tutto era programmato con precisione poichè d’autunno il sole tramontava prima e alla sera in pochi sarebbero usciti di casa per andare a sentire Figurelli, nonostante fosse conosciuto e ben stimato. Un ritardo ad Ameno avrebbe compromesso il resto della giornata. E non andava per niente bene. Mentre Galavotti stava armeggiando attorno alla batteria per capire cosa si potesse fare spuntò da un vicolo, allegro e fischiettante, il Castagnetti. “Giuseppe, testa di legno, dove ti eri cacciato, eh?”, l’apostrofò Ruspanti, rosso in volto. Per tutta risposta l’elettricista mostrò il cestino di vimini  che portava a tracolla, colmo di sanissimi porcini. Per un attimo i presenti temettero che Anselmo volasse addosso allo “spelafil” ma l’intervento provvidenziale di Flavio, il  “cìaparatt”, riportò tutti alla realtà: “Non c’è tempo da perdere. Tra poco arriverà l’onorevole e bisogna essere pronti. Dai, Giuseppe, corri a prendere i cavi mentre noi prepariamo il resto”. Detto e fatto, quando il sidecar guidato da Paulin Nobelli entrò in piazza, con l’onorevole seduto nel carrozzino ,l’allestimento era completato: impianto collegato, microfono funzionante, due bandiere rosse posizionate ai lati di un piccolo leggio. Figurelli, da esperto oratore, sapeva “tenere” i comizi. E quando capitava su di una piazza, una piccola folla s’accalcava e spesso non si trattava solo di sostenitori. Talvolta anche i curiosi s’intrattenevano perché i comizi erano vissuti come degli spettacoli, per  di più se si svolgevano  all’ aria aperta e l’oratore di turno era capace di catturare l’attenzione degli astanti. In quel caso raccoglieva  più di un applauso. Ma, prima di ogni altra cosa, il saper affrontare e risolvere gli imprevisti  rappresentava un’arte che disponeva di pochi maestri e di moltissimi intenditori. Tra i primi senz’altro s’annoverava il Figurelli. Così, quando nel bel mezzo del suo appassionato discorso sopraggiunse una grande auto bianca che si fermò sul ciglio della piazza, lui non tradì nessuna emozione o turbamento, infilando frasi e concetti con proprietà di linguaggio.Lo stesso non si potè  dire del pubblico che guardò con stupore quell’auto, una sfavillante e lussuosa Cadillac Eldorado in versione berlina, bianca come il latte. Un modello di quel genere, con le pinne posteriori che la rendevano unica e le sue dimensioni inusuali in lunghezza e larghezza, era impossibile non notarlo. Quando poi dalla vettura scese un signore di mezza età, fasciato in un abito di alta sartoria, con un bastone dal pomello d’avorio pronunciando con voce sonora il nome di battaglia dell’onorevole quand’era partigiano ( “Cippo!”), sulla piazza cadde il  silenzio. Figurelli lo guardò dritto negli occhi e, allargando le braccia, gli andò incontro  gridando a sua volta: “Amico mio!”. I due parlarono fitto per una decina di minuti sotto gli sguardi increduli e curiosi del pubblico.Poi, salutato l’onorevole con una vigorosa stretta di mano, lo sconosciuto signore risalì sulla Cadillac e proseguì per la via che portava fuori dal paese guidando lentamente e restando a centro strada, attento a non rovinare la carrozzeria di quel gioiello. L’onorevole Figurelli, a sua volta, riprese il comizio dal punto in cui l’aveva interrotto e nel breve di un quarto d’ora terminò tra applausi e grida d’approvazione.Salutato il pubblico, prima di risalire sul sidecar che Paulin aveva già messo in moto,venne avvicinato da Ruspanti e Galavotti che chiesero lumi sull’episodio. Chi era quell’uomo? Come mai si conoscevano?La risposta di Figurelli li lasciò di stucco: “Cari compagni, non ho proprio la benchè minima idea. Non l’avevo mai visto prima d’ora anche se mi ha parlato di un suo prossimo viaggio a Roma quasi fossimo grandi amici. Ho persino il sospetto che  mi abbia scambiato per un altro anche se si è rivolto con il mio nome di battaglia che però è noto a tutti. Io, comunque, non mi sono fatto scappare l’occasione: uno così, con un macchinone tale, fa sempre scena in paesi piccoli dove noi comunisti siamo visti con un pò di sospetto”. Ecco cosa significava, in concreto, saper dominare gli imprevisti.

Marco Travaglini

La gita valdostana sul vecchio Fiat 314

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L’attesa, come ogni anno, si era fatta spasmodica con il passare dei giorni. L’appuntamento della gita parrocchiale – con il passare degli anni – era diventato la più importante occasione di cui potevano disporre gli abitanti del paese per respirare un po’ d’aria diversa, visitare qualche località, stare in compagnia.

 

Don Giusto, parroco di Sant’Anna, coadiuvato da Carlin e Isadora – il sacrestano e la fidatissima perpetua – dopo tanti viaggi nelle Langhe, tra le colline dell’astigiano e nelle campagne dell’Oltrepo pavese, aveva avanzato una proposta del tutto nuova. Ne discussero parecchio e alla fine decisero democraticamente, due contro uno: sarebbero andati in Valle d’Aosta, fino a Courmayeur.  Da subito si era registrata un’intesa tra il prelato e la sua assistente  mentre Carlin si espresse per  un itinerario “più tradizionale”. “Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia non sa quel che trova”, ripeté più volte, inascoltato. In realtà, le strade vecchie, negli anni precedenti, portavano dritte in mezzo alle vigne dei barbera, dei dolcetti e delle bonarde. E cosa c’era di meglio, a giudizio del Carlin, di un buon mezzo litro di quello buono? A spalleggiarlo, di solito, c’era il maestro Rubicondi, il quale – citando Molière – sosteneva come fosse grande “la fortuna di colui che possiede una buona bottiglia, un buon libro, un buon amico”. E loro due, libri a parte, erano grandi amici e, soprattutto, forti bevitori. Ma, per un caso fortuito, il maestro era costretto a letto per colpa di una brutta storta che si era procurato uscendo un po’ brillo dall’Osteria del Gatto Nero. Non aveva visto il gradino, inciampando e finendo lungo e tirato sul selciato. Senza l’aiuto e il sostegno dell’amico letterato, Carlin dovette soccombere all’altrui volere. Così la gita prese una via diversa da quelle a sfondo enologico anche se il sacrestano pensò che, in un modo o nell’altro, una puntata alle cantine della Vallée ci sarebbe scappata. Già prima dell’alba un piccolo gruppo si era dato appuntamento nella piazza, davanti  alla statua di Massimo d’Azeglio.

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L’attesa del torpedone li aveva resi insonni e tanto valeva, a quel punto, prepararsi  così da poter salire per primi sul mezzo e accaparrarsi i posti migliori, quelli davanti. Scarsamente abituati ai viaggi lunghi e immaginando una strada tutta curve, a scanso di equivoci e di fastidiosi mal d’auto, era consigliabile mettersi dietro al guidatore, con la strada bene in vista dal parabrezza dell’autobus. Carlin era tra questi. Sia lui che la moglie, Margherita, si erano tirati a lucido, con l’abito delle grandi occasioni. La consorte, oltre alla borsetta, aveva una grande sporta dove teneva il vettovagliamento necessario per quel viaggio. Tra i generi di conforto, nemmeno dovessero andare chissà dove, c’erano frittate, tomini elettrici, coregoni in carpione, capponatine di verdure, un paio di salami e di piccole tome, pane bianco e di segale. Ovviamente, ça va sans dire, un fiaschetto di quel vino che faceva resuscitare anche i morti.  Il torpedone arrivò puntualmente in ritardo di una buona mezz’ora e, brontolando sottovoce, la comitiva occupò tutti i posti disponibili, lasciando quello a fianco dell’autista a Don Giusto che sull’abito talare aveva indossato una vecchia giacca a vento nera. Partirono e dopo aver oltrepassato Ivrea, Montaldo Dora e Borgofranco, giunti nei pressi di Carema, si udirono i primi gemiti da parte di alcuni  passeggeri. Quel cartello che campeggiava all’ingresso del paese, “Fermati a Carema dove il tempo ha un sapore” era ben più che un invito per chi non vedeva l’ora di godersi la festa dell’uva, andar per cantine all’assaggio di quell’inebriante nebbiolo o sedersi al tavolo delle osterie. Il parroco, ben consapevole del significato di quei mugugni, non s’intenerì e invitando il conducente a proseguire, smorzò ogni speranza a coloro che pregustavano quel nettare rosso rubino. Nemmeno il tempo di una sosta lampo presso la piccola rivendita al minuto della signora Lina, tento il sacrestano con voce implorante? Don Giusto, ostinato e inflessibile, non rispose nemmeno, lanciando uno sguardo che non incenerì Carlin solo perché aveva bisogno del suo aiuto per tenere in ordine la sacrestia e la chiesa. Il vecchio Fiat 314  varcò il confine tra Piemonte e Valle d’Aosta ansimando. In breve si lasciò le spalle, dimostrando d’essere ancora in grado di svolgere la sua funzione dopo alcuni decenni di onorato servizio di linea, i primi paesi della Vallée. Il Forte di Bard, imponente fortezza costruita nel XIX secolo dai Savoia, dominava la valle dal suo strategico sperone roccioso, sbarrandone l’accesso. A bocca aperta, torcendosi il collo per guardar meglio le mura dai finestrini, gran parte dei partecipanti alla gita restarono incantati. I commenti  si sprecarono, al punto che passarono da Arnad velocemente, trovandosi alle porte di Verrès. L’unico ad accorgersi che avevano attraversato il paese del famoso lardo,  più immusonito che mai, era il povero Carlin. Ma dopo lo sgarbo di Carema, dal quel suo “don” non si aspettava più nulla di buono, almeno nel viaggio d’andata. Poi, per il resto, si sarebbe visto. Il torpedone faticò molto sulle rampe del Montjovet. La salita della Mongiovetta mise a dura prova i pistoni del motore del pullman che riprese la sua marcia regolare solo nei pressi di Saint Vincent ( lì nessuno ebbe da ridire: il casinò e il gioco d’azzardo non erano nelle corde e nelle possibilità dei gitanti). Il tratto da Chambave a Nus – con il castello medievale di Fénis, uno dei più famosi e meglio conservati d’Italia – venne “digerito” facilmente , una dozzina di chilometri più avanti, entrarono in Aosta. La visita all’antica Augusta Praetoria, la “Roma delle Alpi”, fu rapida. Don Giusto, basco in testa e passo garibaldino, guidò la comitiva della parrocchia di Sant’Anna dall’Arco di Augusto alla Porta Pretoria, attraversando la lastricata via Sant’Anselmo senza per star occhio a vetrine e botteghe. Un salto al Foro e al teatro romano, poi un giro in piazza Chanoux e l’immancabile preghiera nella Cattedrale di Santa Maria Assunta e San Giovanni Battista, con la sua facciata massiccia e i due campanili romanici. Il ritorno all’autobus fu ancor più rapido, con il gruppo sollecitato dal parroco che esortava “Dai, dai. Presto che è tardi! Passi lunghi e ben distesi che ci aspettano a Courmayeur per il pranzo!”. Poco meno di quaranta chilometri sulla Statale 26 furono percorsi in un soffio, passando da Sarre, Saint Pierre, Morgex.

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Forse fu la fame ( nonostante gran parte delle provviste, preparate per la merenda del ritorno, fossero già state consumate) ma l’arrivo a Courmayeur venne salutato da un gran applauso. Il signor Del Grosso, l’autista, si guadagnò delle robuste pacche sulle spalle, mostrando però di non gradire tutto quell’entusiasmo. Allo Chalet de la bonne cuisine, il cuoco – monsieur Vittoz – aveva preparato una grande tavolata, riservando la sala più spaziosa alla comitiva canavesana. Don Giusto fece accomodare tutti e chiese un minuto di silenzio e raccoglimento in preghiera. A voce bassa, il prelato disse: “Guarda con bontà, o Signore, e benedici questo cibo e tutti coloro che l’hanno preparato; aiutaci a condividere il nostro pane con tutti i poveri del mondo”. Dopo aver fatto tutti il segno della croce, iniziarono il pranzo. E, come promesso nei giorni precedenti, il banchetto fu davvero memorabile. Dopo gli antipasti con i salumi tipici – dal lardo d’Arnad al prosciutto alla brace, dalle mocette ai boudins – si passò al primo: una scodella di pèilà, la minestra di farina di segale e di frumento, con pane, fontina e burro. “Una cosina leggera,eh!”, disse la signora Margherita che però non ne lasciò nemmeno un’ombra. La seconda portata fu molto apprezzata. E a chi non piaceva la carbonade? Antico piatto di montagna a base di carne bovina salata a lungo e  cotta lentamente con aglio e lardo affumicato. Preparata con il vino rosso, sparì in un battibaleno. Poi, per gli stomaci più resistenti, quelli che il prevosto amava definire “i mai sazi”, una larga fetta di polenta con fontina e toma ( quella locale, poiché l’altra e più famosa, quella di Gressoney, era finita). Come dolce, per tutti, le tegole valdostane, celebri gallette di pasta di mandorle. E il vino? In fondo – da Carema in poi – l’attesa per quel nettare d’uva andava in qualche modo compensata. E così venne servito  dell’Enfer rosso, prodotto nelle vigne di Arvier. Sul nome, Don Giusto ebbe da ridire ma si trovò d’accordo sulla sua ottima qualità con il suo sacrestano, sentenziando un po’ brillo “A chi non piace il vino, il Signore faccia mancare l’acqua”. Si pentì, chiese perdono per quell’improvvida frase e, con fare mesto, se ne versò un altro bicchiere. Al termine del pranzo – sorbiti caffè e una grappa o un génépy come ammazza-caffè – raccolsero le loro cose predisponendosi al ritorno. Una breve sosta venne dedicata per una visita e una preghiera al Santuario di Notre Dame di Rochefort, poco distante da Arvier. E poi, via. In discesa, verso Aosta e il canavese, con il vecchio Fiat 314 affidato alle cure di Ausilio Del Grosso che, da autista provetto e responsabile, si era limitato ad un solo bicchier di vino e agli antipasti. Giunsero al calar delle prime luci della sera nella piazza dove, insensibile al tempo e alle stagioni, li aspettava la statua del grande statista  Massimo Taparelli. Si salutarono, congedando l’autista che doveva condurre il mezzo alla rimessa di Ivrea. Don Giusto era contento e strinse la mano a tutti, ringraziandoli per la compagnia e per l’ottimo contegno che avevano dimostrato. “ Ah, cari miei. Se il buon D’Azeglio, ai tempi suoi e di Cavour avesse potuto contare su dei concittadini così in gamba, in quel suo dire – “Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di fare gli italiani” – avrebbe inserito una nota di speranza in più”, disse il prelato. In qualche sguardo s’intuì un cenno di commozione e a un paio di gentildonne scese una lacrima fugace. Solo Margherita lanciò uno sguardo torvo al suo Carlin che, quatto quatto, se ne stava andando verso l’Osteria del Gatto Nero a verificare se almeno lì c’era traccia di quel Carema che avrebbe voluto sorseggiare e che gli era rimasto in mente come un desiderio inappagato.

 

Marco Travaglini