IL RACCONTO- Pagina 4

L’Innominabile

/

Ve lo ricordate lo jettatore Rosario Chiàrchiaro, magistralmente interpretato da Totò nel film a episodi “Questa è la vita” ? Era il personaggio creato da Pirandello nel racconto “La patente”, dove un uomo con la fama di menagramo decideva di sfruttarla quasi fosse un mestiere per campare, pretendendo la “patente di iettatore” al fine  d’essere pagato per evitare gli effetti dei suoi malefici. Il principe della risata si combinò una faccia da jettatore che era una meraviglia: barba ispida, incolta sulle gote; baffi  stretti e spioventi; un paio di grossi occhiali scuri, un abito e un cappello neri come la pece e un’ espressione  che obbligava , senza indugio, a fare i debiti scongiuri.

 

Nell’immaginario popolare lo iettatore è stato descritto come un essere magro, pallido, arcigno, leggermente curvo, solitario, taciturno, dal naso ricurvo e con occhi grandi e sporgenti, sormontati da folte sopracciglia . Bene, ora che ve lo siete immaginato, dimenticate tutto. Sì, perché il menagramo di cui si parla – che chiameremo a titolo scaramantico “l’innominabile”, era un uomo del tutto normale, impegnato nella vita amministrativa e politica dopo essere stato partigiano,amministratore pubblico, dirigente del PCI. L’unico “neo” era quella reputazione da uccello del malaugurio che lo accompagnava. Era pur vero che un giorno, in un salone per ricevimenti, guardando il soffitto, puntò l’indice verso il grande lampadario esprimendo una perplessità sulla sua “tenuta” e quest’ultimo pochi minuti dopo s’infranse sul pavimento lasciando i presenti sbigottiti e, fortunatamente, illesi. Non fu, ad essere onesti, un episodio isolato.  Per una serie di casi certamente fortuiti, molte delle sue sventurate “previsioni” s’avverarono suscitando, oltre allo sconcerto e all’incredulità di chi non era e non intendeva diventare superstizioso , una forte preoccupazione in coloro che, non pochi,  iniziarono a sospettare che emanasse davvero un’influenza negativa, portando sfortuna al prossimo. Così, di episodio in episodio, pur ammettendo la possibilità del caso, anche gli scettici furono rosi dal dubbio che le  coincidenze diventassero davvero un po’ troppe. Così, quando l’innominabile s’avviava a prendere un volo per Roma, i conoscenti evitavano accuratamente di salire sullo stesso aereo, accampando le scuse più varie.

Nonostante ostentassero indifferenza, tradivano una comune preoccupazione: l’aereo avrebbe potuto cadere e, nel caso, l’unico passeggero che sarebbe senz’altro miracolosamente scampato alla tragedia non avrebbe potuto essere nessun’altro che lui, l’incolpevole portatore sano di sfiga. L’innominabile soffriva molto per questa situazione davvero imbarazzante. Per un po’ aveva fatto finta d’ignorare la cosa ma , con il tempo, la sua “fama” era cresciuta a dismisura e capitava spesso che, incontrando amici e compagni, questi ultimi infilassero in fretta le mani in tasca dei pantaloniper la rituale toccata dei genitali finalizzata a  scongiurare gli effetti della sua presenza. Che tristezza provava nello scoprire che anche delle signore ben vestite e dal portamento elegante si lasciavano andare a gesti volgari, affrettandosi  a fare le corna. Ci soffriva parecchio poiché, essendo d’animo mite, non avrebbe mai e poi mai immaginato di poter arrecare danno alcuno al prossimo. La sua vita e il suo impegno potevano testimoniare l’esatto contrario, con una infinità d’episodi che l’avevano visto protagonista di gesti d’altruismo e di solidarietà. E’ proprio vero che, su cento cose giuste  che si fanno ne basta una discutibile e si è segnati per sempre. Cosa poteva farci? Il lampadario non l’aveva certo staccato lui dal soffitto. Luigi e Carletto, quando erano saliti in auto, erano un po’ “allegri” e lui aveva solo manifestato la preoccupazione che potessero andare a sbattere da qualche parte. Cosa poteva farci se la loro auto, nemmeno un minuto dopo, si era fracassata contro il muro della stazione e i due erano finiti all’ospedale con le ossa rotte?

A Don Giuseppe l’aveva detto per scrupolo che quella candela poteva incendiare la tovaglia dell’altare. Era colpa sua se metà chiesa aveva preso fuoco? E Marcello? Si era infuriato con lui solo perché , notando il platano oscillare pericolosamente a causa del vento, gli aveva suggerito di non parcheggiare sotto quei rami a sua Gilera. Se poi il vecchio albero del viale delle Rimembranze era caduto  sulla moto scassandola tutta era per sua responsabilità o a causa della tromba d’aria improvvisa ? Suvvia, se la gente era un po’ sfortunata non poteva pagarne lui le conseguenze, vi pare? Eppure qualcosa non quadrava se due persone come Arturo e Lido,  assolutamente prive di pregiudizi e solidamente scettiche nei confronti di ogni diceria, avevano maturato qualche ragionevole dubbio in proposito. Una sera tardi, tornando in auto da una riunione nel novarese, passando di fronte ad un capannone sormontato da una grande insegna luminosa che informava di come si trattasse delle “Officine” che portavano lo stesso cognome dell’Innominabile. Arturo non mancò di far notare il caso di omonimia. Come durante le tempeste magnetiche dei film di fantascienza la macchina si arrestò, senza dare ulteriori segni di vita. Motore muto, quadro elettrico senza vita, luci spente, motorino d’avviamento che non girava. Niente da fare. Ai due non restò che andarsene a piedi fino al primo centro abitato, a quasi dieci chilometri. L’unico albergo era chiuso in quella stagione e in giro non c’era anima viva. Girarono a zonzo per un bel po’ e poi trovarono da dormire in un fienile, come due vagabondi. Al mattino, accompagnati da un meccanico che s’ingegnava anche da elettrauto, tornarono all’auto che, appena girata la chiave nel cruscotto, si mise in moto. I due, increduli si guardarono stupiti mentre il meccanico scuoteva la testa. Così, a causa dell’omonimo industriale metallurgico, la fama dell’Innominabile si allargò anche verso i confini orientali del Piemonte, minacciando di varcare il Ticino. Cosa che, per fortuna dei lombardi, non avvenne.

 

Marco Travaglini

“Gesù, perdonami”… Don Siro e il giovane Ardenti

/

Il vescovo, l’ultima volta che gli aveva parlato, era stato chiaro. Anzi, potremmo dire chiarissimo. Inequivocabile. “Caro don Siro, lei deve mettere la testa a posto. E’ un parroco stimato dai suoi fedeli che, a quanto mi è stato riferito, non mancano alle funzioni ma…e aveva fatto una lunga pausa, quasi cercasse le parole giuste)..bisogna che non prenda sempre di petto il podestà e chi oggigiorno ha la responsabilità della cosa pubblica. Con i fascisti, piaccia o no, bisogna andar d’accordo. So bene anch’io che sono rozzi, maneschi e non sempre animati delle migliori intenzioni verso il prossimo. Ma noi, caro don Siro, siamo la Chiesa. Non se lo deve scordare. Siamo la Chiesa che guarda e tollera, comprende e non giudica. Si ricordi che solo Iddio può trarre i giudizi. Sono stato chiaro? Adesso vada, su…e si faccia voler bene anche da quei signori in camicia nera“. Era l’ultima, in ordine di tempo, delle lavate di capo che don Siro si era buscato dai suoi superiori.

La Chiesa, pur non condividendo gli atteggiamenti dei fascisti, in particolar modo le bastonature e le somministrazioni di olio di ricino a coloro che venivano individuati come oppositori o, quantomeno, persone non gradite al regime, manteneva un atteggiamento prudente. Don Siro, parroco del paese da vent’anni (ci teneva a precisarlo:“vent’anni,eh.. mi raccomando. Vent’anni e non un ventennio perché la sola parola mi fa uscire dalle grazie e non voglio far peccato mollandovi un bel ceffone”), mal sopportava quei ragazzotti con l’orbace e ancor più gli andavano di traverso quei reduci della grande guerra che si pavoneggiavano imitando la postura del Duce, petto in fuori e gambe larghe. “Andar d’accordo con quelli lì? Madonna mia, come faccio…Sono peggio dei diavoli. Arroganti, presuntuosi e blasfemi. Parlano di Dio e della Patria e poi, alla faccia della carità cristiana, sbattono in gattabuia quelli che non la pensano come loro. Oppure, com’è successo al povero Rossi, gli fan trangugiare un litro e mezzo di olio di ricino. Giù per la gola, a garganella, con l’imbuto. Se non ha tirato fuori le budella nel cesso alla turca nella sua casa di ringhiera, è stato per puro miracolo. E il Luison? E’ un socialista ma è anche una grava persona. Volevano che cantasse Faccetta Nera: si è rifiutato e l’hanno riempito di botte che adesso cammina tutto storto. Ed io dovrei andarci d’accordo? No, cara Madonna: l’è come far peccato!”. Don Siro non era solo una sòca negra, come diceva Geppe. L’abito talare non doveva trarre in inganno. Era sì un uomo di chiesa ma non si poteva dire che non prestasse attenzione e rispetto anche a coloro che la fede l’avevano persa o non l’avevano mai trovata. Soprattutto Don Siro era infastidito dalla violenza dei fascisti. Non sarebbe mai stato in grado di sparare una schioppettata o dar di bastone in testa a qualcuno ma ciò non gli impedì di prendere a calcioni nel sedere l’ultimo rampollo degli Ardenti, famiglia di industriali lombardi che possedevano una gran villa in paese. L’aveva fatto, senza esitazione,  dopo che il diciassettenne eterno avanguardista Furio Ardenti aveva scritto “Noi diciamo che solo Iddio può piegare la volontà fascista. Gli uomini e le cose mai”. Il punto era che quella frase, per il prete, suonava non solo  blasfema ma intollerabile visto che  campeggiava – a caratteri cubitali, tracciati con la vernice nera –  sul muro esterno della canonica. “Gesù, perdonami“, disse mentre sferrava il calcio nelle terga del giovane  fascista. “Perdonami, se faccio peccato ma, credimi, ho le mie buone ragioni“, aggiunse accompagnando le parole con una seconda, vigorosa pedata nel didietro dell’Ardenti, facendogli volar via di botto  il Fez che portava in testa. Il padre del ragazzetto, ma ancor più la madre – una nobildonna secca come un manico di scopa, dal carattere nervoso e suscettibile – andarono su tutte le furie, protestando vivacemente con il Podestà che,a  sua volta, fece le sue rimostranze al Prefetto. Il passaggio successivo era stata la convocazione nel palazzo vescovile, non troppo distanze dalla Basilica sormontata dalla cupola di Santo patrono. Anche questa volta, terminata la lavata di capo, il povero prete si mise in viaggio dal capoluogo al centro più importante del lago con il treno per poi approfittare – da lì al paese – dell’ultima corsa con il  vaporetto, pronto a salpare verso le isole e le località costiere. In cuor suo, Don Siro, si era già quasi dato l’assoluzione.In fondo, quello scatto d’ira era ben giustificato dallo scarso, scarsissimo rispetto che quei signori in divisa scura come la pece portavano alle sue convinzioni religiose e alla pacifica convivenza. “Se proprio devo porgere l’altra guancia – mugugnava tra sé il prete – vorrà dire che, in caso estremo, porgerò anche l’altro piede”. Intrecciò le dita per pregare e sul volto comparve per un attimo un sorriso sornione.

Marco Travaglini

Dantès e l’Olivetti

/

All’inizio degli anni ’50 un vivace yorkshire terrier di nome Dantès viveva a Ivrea, capoluogo del canavese. La “città delle rosse torri” era conosciuta in ogni angolo del mondo grazie all’Olivetti, la prima fabbrica nazionale di macchine da scrivere, fondata nel 1908 e destinata a diventare leader nel settore dei materiali per ufficio e poi in strumenti elettronici all’avanguardia, dalle telescriventi alle prime macchine da calcolo meccaniche. Dantès era il compagno inseparabile di un giovane ingegnere che lavorava alle Officine ICO, uno dei luoghi produttivi della Olivetti più innovativi e all’avanguardia, esempio unico per lo spirito imprenditoriale che l’animava grazie alla visione illuminata di Adriano Olivetti.

Dantès era un cane molto intelligente, tanto curioso e intraprendente quanto dotato di uno spirito avventuroso. Ogni giorno accompagnava il suo padrone in ufficio dove l’ingegnere e i suoi collaboratori erano impegnati a progettare e costruire macchine da scrivere e calcolatrici. La fabbrica in quegli anni era un luogo vibrante e pieno di idee innovative, e Dantès guardava quel fermento accoccolato sulla sedia vicino alla scrivania ricevendo coccole dagli operai che passavano di lì e anche qualche bocconcino che dimostrava di gradire molto. Una mattina, mentre il suo padrone era immerso nei progetti, Dantès decise di esplorare il vasto complesso dell’Olivetti. Si allontanò dalla scrivania e si avventurò nei corridoi tra le macchine e i tavoli da lavoro. La sua curiosità lo portò in una grande sala dove si stava stavano discutendo animatamente su un nuovo modello di macchina da scrivere. Dantès attratto dalle voci si avvicinò silenziosamente. Stavano parlando della Lettera 22, macchina da scrivere portatile che avrebbe rivoluzionato il modo di scrivere diventando la preferita dei più grandi giornalisti italiani. Ormai era pronta per essere messa in produzione nello stabilimento di Aglié. Progettata da Giuseppe Beccio e disegnata da Marcello Nizzoli, rappresentava al meglio l’estetica olivettiana. I suoi pregi erano la leggerezza (tre chili di peso) e la maneggevolezza ma anche le caratteristiche tecniche erano destinate a renderla unica e amatissima fino al punto di diventare un’icona, un oggetto di culto. Con grande sorpresa il piccolo terrier notò che Adriano Olivetti era presente. L’uomo, con il suo carisma e la sua visione lungimirante, stava parlando di come la tecnologia dovesse essere al servizio dell’umanità, migliorando la vita delle persone. Dantès, colpito da quelle parole, si accucciò ai piedi di Adriano, ascoltando attentamente. Il proprietario dell’Olivetti, notando il piccolo cane, sorrise e si chinò per accarezzarlo. “Ecco un piccolo compagno che sembra capire l’importanza del nostro lavoro” disse, suscitando le risate dei presenti.

Dantès scodinzolò felice, sentendosi parte di quel mondo straordinario. Da quel giorno divenne una vera e propria mascotte per l’azienda eporediese.  Ogni volta che Adriano Olivetti visitava il reparto il piccolo yorkshire era sempre lì, pronto a ricevere coccole e a portare un sorriso sul volto di tutti. La sua presenza non solo era gradita ma offriva quasi un senso di leggerezza e di gioia rammentando che, oltre ai progetti e ai macchinari, c’era spazio per l’amore e l’amicizia. La fabbrica a misura d’uomo era il sogno di Olivetti che la immaginava non solo come un luogo di produzione da cui trarre il maggior profitto possibile, ma il centro dello sviluppo della società e dell’economia. Un luogo di socializzazione in cui si dovevano produrre oltre che beni, anche idee e sviluppo della persona seguendo la logica che attribuiva all’attività lavorativa il compito di garantire la realizzazione dell’individuo. Con il massimo rispetto per tutti gli esseri viventi. E questo piaceva molto a Dantès. Un giorno, mentre l’azienda preparava il lancio di un nuovo prodotto, il piccolo cane si accorse che il suo padrone era particolarmente stressato. E non solo lui. Decise allora di fare qualcosa. Con una mossa astuta rubò un pezzo di carta da un tavolo e, correndo nei corridoi, attirò l’attenzione di tutti. Gli operai, divertiti dalla vista del piccolo terrier che si muoveva velocemente, iniziarono a seguirlo, lasciando per qualche istante le postazioni di lavoro. Dantès guidò il gruppo verso il giardino della fabbrica, inondato dal sole che brillava alto in cielo. Anche Adriano Olivetti li aveva raggiunti e vedendo la gioia che aveva portato, ben consapevole di quanto fosse importante prendersi una pausa e condividere momenti di felicità, decise di lasciare a tutti il pomeriggio libero. Fu così che Dantès diventò anch’esso uno dei simboli viventi di quell’azienda che credeva nel benessere dei suoi dipendenti. Adriano Olivetti, riconoscendo l’importanza di un ambiente di lavoro sereno e stimolante, incoraggiò l’idea di momenti di svago e socializzazione creando i presupposti di una vera e propria comunità. Dantès continuò a correre tra le scrivanie, piccolo eroe a quattro zampe in un’epoca di grandi cambiamenti, portando gioia e ispirazione in un mondo che stava evolvendo. La sua storia divenne parte della leggenda dell’Olivetti, piccolo ma non secondario simbolo di come anche l’entusiasmo di un animaletto potesse avere una grande importanza nella vita delle persone e nei successi di un’impresa così importante.

Marco Travaglini

Dantès e il medaglione misterioso

/

 

Affacciata sul Canale della Manica, in Normandia, Étretat è una delle meraviglie della costa di Alabastro, che si estende tra Dieppe e Le Havre, formata da alte scogliere di gesso e verdi vallate. Il pittoresco villaggio incastonato fra le due scogliere più suggestive della costa, la falesia d’Amont e quella d’Aval, ha ospitato personaggi celebri come Guy de Maupassant, Delacroix, Corot, Courbet e Monet e sembra uscire direttamente da un quadro impressionista. Per descriverla è utile ripetere le parole di Victor Hugo: “Ciò che ho visto a Étretat è meraviglioso. […] L’immensa falesia cade a picco sul mare, il suo grande arco naturale è ancora intatto, guardandovi attraverso se ne scorge un altro, ovunque si trovano grandi capitelli lavorati rozzamente dall’oceano.

La più bella architettura che ci sia”. Proprio a Étretat viveva un piccolo cane yorkshire terrier di nome Dantès. Nonostante le sue dimensioni ridotte aveva un cuore grande e uno spirito avventuroso che lo portava a esplorare ogni angolo della sua amata costa. Ogni mattina Dantès si svegliava all’alba annusando l’aria fresca del mare che soffiava attraverso la finestra della sua padrona, la signora Claire Leblanc. Claire, pronipote dello scrittore Maurice Leblanc, creatore delle avventure di Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo, era una donna minuta e gentile con una passione per la pittura tant’è che spesso si sedeva sulla spiaggia per catturare le meraviglie della natura riproponendole sulla tela con delicati colori. Viveva accanto alla villetta, ora trasformata in museo, ereditata dal celebre prozio al numero 15 di rue Guy de Maupassant dove Leblanc per 25 anni scrisse e in parte ambientò le avventure rocambolesche del personaggio al quale dedicò ben 17 romanzi, 39 racconti e 5 pièce teatrali tra il 1907 e il 1935. Dantès adorava accompagnare la sua padrona, correndo felice tra i gabbiani e scavando piccole buche nella sabbia dove riusciva a trovarne lungo la spiaggia di ciottoli. Un giorno, mentre Claire era intenta a dipingere il maestoso arco di pietra che Guy de Maupassant descrisse come la proboscide di un elefante che emerge dal mare a pochi metri dall’Aiguille de la Falaise d’Aval, detta l’Ago, alta 55 metri, isolata e lontana dalla scogliera, il piccolo Dantès decise di avventurarsi poco più in là, attratto dalla sensazione di scovare qualcosa di misterioso.

Scoprì un sentiero poco battuto che si arrampicava sulle falesie, e guidato dal suo spirito curioso, decise di seguirlo. Il sentiero lo portò in cima in cima alla falesia dove il panorama mozzava il fiato: le onde dell’oceano si infrangevano contro le rocce, e il cielo era punteggiato di nuvole bianche. Ma mentre Dantès si godeva la vista si accorse che il sentiero proseguiva sempre più stretto e ripido fino all’imbocco di una piccola grotta nascosta tra il muschio e l’erba alta. Incuriosito si avvicinò e, con un piccolo guaito, entrò nella grotta. All’interno, scoprì un tesoro inaspettato: un vecchio baule di legno, coperto di sabbia e alghe. Annusandolo con curiosità, Dantès lo ispezionò e, dopo un po’, riuscì a sollevare il coperchio con le sue piccole zampe. Dentro al baule c’erano molti oggetti scintillanti: monete d’oro, gioielli e strani artefatti. Ma ciò che colpì di più il piccolo yorkshire fu un antico medaglione, ornato con un’immagine di un cane che assomigliava a lui. Era come se il destino avesse voluto che Dantès trovasse quel tesoro. Era riuscito a scoprire il mistero dell’Aiguille Creuse, forse il romanzo più famoso di Leblanc e a individuare il nascondiglio di uno dei tesori più clamorosi con perle, rubini, zaffiri e diamanti dei re di Francia? Deciso a comunicare la scoperta alla sua padrona, Dantès prese tra i denti il medaglione e tornò indietro, correndo a perdifiato lungo il sentiero. Quando raggiunse Claire la trovò intenta a dipingere. Con un guaito entusiasta il piccolo cane saltò accanto a lei, mostrandole il medaglione scintillante. Claire si chinò, sorpresa e affascinata. “Dantès, dove hai trovato questa meraviglia?” chiese, accarezzandolo affettuosamente. Lo yorkshire terrier scodinzolò, felice di condividere la sua avventura e ripercorse il sentiero con la sua padrona. Insieme decisero di riportare il medaglione e gli altri tesori al villaggio, dove avrebbero potuto scoprire la loro storia. Con l’aiuto degli abitanti del posto e le ricerche di madame Catherine Lapoint, la bibliotecaria appassionata di storie e leggende, si scoprì che quegli oggetti appartenevano a un vecchio marinaio che aveva vissuto nel villaggio secoli prima, e che il medaglione era un simbolo di protezione per il suo fedele compagno a quattro zampe. Non era stato svelato il mistero della falesia cava e del tesoro dei Re del quale narrava Leblanc nella più celebre delle avventure di Arsenio Lupin ma era pur sempre una scoperta molto importante. Da quel giorno Dantès non fu considerato soltanto un cane avventuroso, ma anche un piccolo eroe del villaggio. Le persone lo ammiravano e lo ringraziavano per aver riportato alla luce una parte della loro storia. E mentre Claire continuava a dipingere la bellezza delle falesie, Dantès restava al suo fianco, pronto per nuove avventure, con il cuore pieno di gioia e il medaglione scintillante legato al suo collare.

Marco Travaglini

La vecchia Legnano nera dello Stìvanin

“Ero un grimpeur coi fiocchi, uno scalatore nato. Facevo ancheggiare la Legnano meglio di una donna sui tacchi. Salvo che potevano capitare gli incidenti. Ricordo ancora quel martedì che, appena sfornate le michette, ho fatto il pieno alla gerla e sono partito come un fulmine verso la “cima Coppi”

Una vecchia Legnano nera, con la sella in cuoio vecchissima, consumata. Stava lì, appoggiata al muro, appena dietro la porta del locale dove Stìvanin teneva gli attrezzi. “Guarda che roba! E’ un modello del 1938, ancora perfettamente funzionante perché, di tanto in tanto, tolgo la ruggine, gonfio le camere d’aria, ingrasso la catena e gli faccio tutti quei lavoretti come se fosse ancora il tempo in cui la inforcavo e pedalavo via come il vento”. Stefano Ombrini, detto “Stìvanin” per la sua scarsa altezza, era stato – in gioventù- garzone della panetteria “Bruschini”. Erano gli anni in cui, inforcando la Legnano andava via svelto di pedalata per fare il giro delle consegne. La guerra era finita da qualche anno ma erano ancora freschi i ricordi di quegli anni duri e l’odore della miseria se lo sentiva ancora addosso. Così, a diciott’anni, pedalava tra le strade strette di Baveno e Feriolo, Stresa e Campino, Levo, Gignese quasi fossero, quelle dei paesi tra il lago Maggiore e il Mottarone, le strade del Giro e del Tour. ” Mi immedesimavo nelle imprese del campionissino, del grande Fausto Coppi. Imboccavo le salire, alzandomi sui pedali immaginando fughe epiche sulle Dolomiti, il Galibier, l’Izoard, lo Stelvio o l’Alpe d’Huez. Spingevo come un matto, rosso in faccia per lo sforzo tremendo. Spingevo perché sentivo sul collo in fiato immaginario  di Gino BartaliLouison Bobet, Hugo Koblet, Fiorenzo Magni, Rik Van Steenbergen“. Da come mi racconta immagino che fosse un mago del “fuorisella” , tecnica che consiste – appunto – nel pedalare in piedi sui pedali con il solo appoggio delle mani sul manubrio, senza appoggiare il sedere sulla sella. E lui, quasi mi avesse letto nel pensiero, lo conferma con entusiasmo.

Altrochè. Ero un grimpeur coi fiocchi, uno scalatore nato. Facevo ancheggiare la Legnano meglio di una donna sui tacchi. Salvo che potevano capitare gli incidenti. Ricordo ancora quel martedì che, appena sfornate le michette, ho fatto il pieno alla gerla e sono partito come un fulmine verso la “cima Coppi”. Dovevo salire fino a Campino per portare il pane al negozio di alimentari del Cecco. Ogni tanto capitava  che il vecchio fornaio di Stresa, l’Ubaldo Rigamonti, stesse poco bene e toccava a noi supplire con rosette, bastoni, ciabattine, biove e michette calde di forno. Quella era una delle volte che bisognava, appunto, fare il “pieno” e pedalare. Era poco prima dell’alba e faceva un freddo cane. Non era ancora nevicato, nonostante fossimo a metà dicembre, ma l’aria che scendeva giù dalle vette del Mottarone e del monte Zughero, non prometteva nulla di buono. Anche il Bruschini mi aveva intimato di coprirmi bene perché quella mattina l’era ben brusca la limonata. Ed io, infilata una vecchia copia del Tuttosport sotto la maglia, per riparare lo stomaco dall’aria gelida, sono partito per l’impresa. Vuoi per colpa della lingua di ghiaccio che si era formata sul curvone di Loita, all’altezza della Madonna delle Neve, vuoi perché sbilanciato nel fuoriselle, sta di fatto che sono finito nella cunetta lungo e tirato. Dal gerlo il pane si è rovesciato sulla strada e, per svelto che sono stato a rimettermi in piedi, una buona metà era andato a ramengo. Così, con ginocchia,gomiti e mento scorticati e doloranti, ho consegnato quel che m’era rimasto e, tornato dal Bruschini, mi sono guadagnato – per la paga – un bel calcio nel didietro “. Comunque, dopo il tirocinio, lo Stìvanin è diventato un panettiere provetto. E quando il Bruschini,  ormai vecchio, decise di ritirarsi non avendo nessuno dei figli una gran voglia di iniziare a lavorare alle tre del mattino affinché il pane fosse pronto per le sette, rilevò lui il forno.

Furono anni di rinunce e sacrifici, dei quali oggi mi parla con orgoglio anche se, immagino, a quel tempo erano pensieri e fatiche che gli rubavano il giorno e la notte. Si è fatto le ossa al punto da conoscere ogni segreto dell’arte del fornaio. Qualche tempo fa mi ha spiegato che , fino al 1800, l’impasto del pane veniva fatto a mano. Poi, ai primi del ‘900, comparvero le prime impastatrici meccaniche, a scapito dei vecchi mulini, e incominciarono a essere utilizzati forni sempre più moderni e lieviti speciali per la panificazione. ” Il panettiere – mi dice “mastro” Ombrini – deve essere in grado di riconoscere i vari tipi di farina, lievito, uova fresche. Deve conoscere gli ingredienti degli impasti da realizzare (pasta lievitata, sfoglia, frolla e così via), i diversi tempi di lievitazione e di cottura. Deve sapere utilizzare correttamente sia l’impastatrice che il forno e dev’essere in grado di farsi da solo tutte quelle piccole modifiche e manutenzioni che necessitano. Siamo un po’ cuochi e un po’ meccanici, noi prestinèe.  Una volta , noi “nati nella farina”, eravamo pulitissimi ma oggi questo non basta più: devi conoscere a menadito la normativa igienico-sanitaria del settore ed anche essere un po’ ragionieri. Non come te, che lo facevi di mestiere giù in banca, ma almeno avere le basi per gestire la contabilità“. Ho imparato da lui che non bisogna mai mettere il pane capovolto a tavola perché è un atto di maleducazione, quasi un gesto che può “portare male“. Per farmi capire il significato è risalito all’inizio del XV secolo. In quel tempo il re di Francia, Carlo VII, aveva sancito una tassa in natura a favore del boia. Il pane che gli veniva destinato dai panettieri veniva posto sul bancone rovesciato, in modo che fosse ben evidente la destinazione.

Da quando è in pensione ed ha ceduto a sua volta l’attività, mi confida preoccupazioni e lamentele. “Caro mio, la realtà si è fatta dura. Hai presente quella pubblicità del Mulino Bianco? Sì, dai:  quella con i panettieri sorridenti sulle biciclette e la bimba che racconta di aver fatto un sogno bellissimo? Ecco. Scordatela. Adesso, con i prezzi che vanno su che è un piacere  siamo  all´allarme pagnotta, e c’è gente che guarda al panettiere come fosse diventato un farmacista. Sai cosa significa? Che il chilo di pane costa una cifra e che i consumi , in pochi ani, sono diminuiti del 25 per cento. Ti rendi conto? Un quarto in meno. Una bella botta, eh?”. Nonostante non sia più lui a sfornarlo si lamenta che di pane se ne vende sempre meno. Dice che la colpa è delle diete e di quei prodotti già belli e confezionati che hanno preso il sopravvento su filoni e michette. Ma ci sta anche il fatto che la gente sta attenta a comprare rosette e pagnotte. Perché oramai non si può più buttare niente. E se il pane è diventato prezioso è diventato raro anche il mestiere del panettiere. “Che nessuno vuol più fare“,si lamenta Stìvanin. “Troppo faticoso e sempre di notte. L´arte bianca sta scomparendo. Ed è un peccato“. Mi parla e scuote la testa. Mi parla e, intanto, con uno straccio, lucida la “canna” della Legnano. E’ un movimento lento, quasi una carezza. Gli darei un soldo per conoscere io i suoi pensieri. E forse scoprirei che sta ascoltando la voce radiofonica di Mario Ferretti: “Un uomo solo è al comando. Ha la maglia biancoceleste della Bianchi. Il suo nome è Fausto Coppi“. Lucida la bici e ripensa a quando anche lui, da giovane, macinava le salite. Però il  “ragazzo secco come un osso di prosciutto” è morto di malaria il due gennaio del 1960. Ed il fornaio-ciclista Stìvanin non è più né l’una né l’altra cosa. E vive di ricordi.

 

Marco Travaglini

Il Natale degli spazzacamini

/

 

Anche a Santa Maria Maggiore, il più esteso dei sette comuni della Valle Vigezzo, altipiano incastonato tra le alpi Lepontine all’estremo nord del Piemonte e a ridosso della Svizzera, si stava avvicinando il Natale. Le strade del paese erano addobbate con luci scintillanti e le finestre delle case erano adornate da ghirlande e festoni.

L’aria pungente preannunciava un’altra nevicata dopo quella che aveva già imbiancato il paese. Al calare della sera, allo scoccare delle 17.00, il suono delle campane della chiesa parrocchiale annunciava il vespro per indicare, mezz’ora prima, l’inizio della messa serale e la tradizionale fine della giornata lavorativa e quei rintocchi diffusi nell’aria, creavano un’atmosfera magica. Tra i vari preparativi alla festa che commemora la nascita di Gesù c’era una tradizione che gli abitanti di quella località attendevano con trepidazione: l’arrivo degli spazzacamini. Erano tra gli ultimi a praticare quell’antico mestiere. In passato partivano in autunno, scendendo in gruppo dalle valli più povere com’era a quei tempi la Vigezzo e andavano ad avvitarsi su e giù per i camini dei paesi della bassa padana e delle città, spingendosi fin nel cuore dell’Italia centrale e anche all’estero, soprattutto in Francia e Svizzera, passando talvolta le frontiere di notte per eludere i controlli di gendarmi e doganieri. Giravano per le strade lanciando il loro richiamo e facendo risuonare per le strade gli zoccoli chiodati, vestiti du fustagno con cuoio e toppe di rinforzo nel basso schiena e ai gomiti, le corde per issarsi sui tetti, la raspa alla cintura, il riccio di lamelle a raggiera per scrostare la fuliggine e il sacco di iuta per raccoglierla e poi rivenderla come concime. Da generazioni la loro abilità nel mantenere puliti i camini delle case era risaputa così come le tante storie, miti e leggende che li accompagnavano.  E così, in occasione delle feste di fine anno, il vecchio Gianbattista radunava gli ultimi spazzacamini per una missione speciale. Tempo fa Gianbattista aveva sentito parlare di un’antica e quasi dimenticata leggenda nella quale si narrava che durante la notte di Natale gli spazzacamini avrebbero potuto raccogliere la polvere magica che si accumulava sotto i comignoli e nelle canne fumarie, festeggiando così l’arrivo del nuovo anno che avrebbe portato a tutti fortuna e prosperità. Motivato dalla volontà di portare un poco di quella magia al suo paese che era stato la culla dei rusca, come venivano chiamati in valle, convinse i suoi amici a unirsi in quell’avventura. La notte del 24 dicembre le stelle brillavano alte nel cielo e la luna illuminava le strade del paese. Gli spazzacamini, vestiti di nero e con i volti sporchi di fuliggine, si arrampicarono sui tetti delle case muovendosi silenziosi e agili come gatti. Ogni volta che entravano in un camino e prelevavano la polvere avvertivano come un senso di calore e di serenità diffondersi nell’aria. Lavorando allegramente si raccontavano storie sulla leggenda di San Nicola dalla quale nacque quella di Santa Claus, ovvero Babbo Natale, sulle peripezie degli elfi, antiche magie o straordinari dolci natalizi. Ma Gianbattista aveva una storia molto speciale da raccontare. “Sapete,” cominciò, “c’era una volta un bambino di nome Poldino che, pur vivendo in estrema povertà, credeva fermamente nello spirito del Natale. Ogni anno scriveva una lettera a Santa Claus chiedendo come unico regalo un sorriso per la sua famiglia”. Gli spazzacamini si fermarono ad ascoltare, incuriositi.  “Un anno,” continuò lui, “decise di lasciare la sua lettera sul camino, sperando che il vento la portasse a destinazione. Quella notte una stella cadente attraversò il cielo e per magia la lettera di Poldino arrivò a Santa Claus che la lesse e si intenerì. La mattina del 25 dicembre un pacchetto pieno di doni apparve nel suo camino, e Poldino capì che il vero spirito del Natale era rappresentato dall’amore e dalla speranza”. Mentre il suono della voce di Gianbattista si diffondeva nell’aria fresca della notte, gli spazzacamini avvertirono un caloroso senso di beatitudine e gioia. Così decisero che, oltre a raccogliere la polvere magica, avrebbero lasciato dei piccoli regali nelle case di Santa Maria Maggiore come piccolo gesto per far rimanere vivo lo spirito della festa più importante dell’anno. La mattina di Natale gli abitanti si svegliarono meravigliati trovando regali e dolciumi appoggiati accanto ai camini. I bambini con gli occhi pieni di stupore iniziarono a saltare dalla gioia, mentre gli adulti sorridevano commossi. Da quel giorno la tradizione degli spazzacamini di Santa Maria Maggiore divenne simbolo di speranza, magia e solidarietà. Da allora, all’approssimarsi del giorno di festa, i giovani del paese si unirono seguendo l’esempio di Gianbattista e dei suoi amici, determinati a difendere e a diffondere il vero significato del Natale: offrire e condividere con gli altri, portando gioia a tutti. Ed è così che, sotto l’incanto della neve e delle stelle, quei ragazzi e quegli uomini vestiti di scuro e dai volti anneriti sono diventati i custodi di uno dei più bei miracoli natalizi, scrivendo un nuovo capitolo della loro leggenda.

Marco Travaglini

Le supposte di glicerina

/

Andreino è un tipo piuttosto strano. Non tanto per l’aspetto fisico – mingherlino, calvo, con due gambette corte e secche come manici di scopa – quanto per il carattere, diciamo chiuso, che dimostra di avere. Andreino è un burbero solitario. Uno di quelli  che dormono con il sedere scoperto , sempre di cattivo umore. Vive da solo, lavora da solo ( è un artigiano del ferro che non conta le ore e si tira “piat cumè ‘n dés ghèi”, piatto come una moneta da dieci centesimi, vale a dire stanco morto ), mangia da solo davanti alla tv accesa, va a cercar funghi da solo e non pesca mai dove ci sono altri. Ha le sue idee fisse sulla salute ( “l’infragiùur, se t’al cùrat, al dura sèt dì, se t’al cùrat mìa, al pòl durà anca na ‘smana”, che – tradotto –significa che il raffreddore, se lo curi, dura sette giorni, se non lo curi può durare anche una settimana).

A dimostrazione della scarsa considerazione che ha, in genere, dei dottori. L’unico per cui ha rispetto è il dottor Rossini. Da quella volta che gli curò una fastidiosissima sciatalgia, per Andreino è “un gatto”, il migliore, l’unico vero medico in circolazione. Se lo dice lui che si vanta di aver consumato più scarpe che lenzuola, dichiarando la buona salute e una certa avversione per quei signori che avevano contratto il giuramento di Ippocrate, c’é da credergli. Il problema è che il dottor Mauro Rossini, quelle rare volte che lo ha incontrato nella veste di paziente nel suo studio medico, non è quasi mai riuscito a spiegargli le cure che servivano poiché Andreino lo interrompeva,  annuendo vigorosamente e ripetendo come un mantra: “ho capito…certo…chiaro… grazie, grazie, dottore”. Un comportamento a dir poco imbarazzante, con tutti i rischi che poteva generare, tra i quali l’incomprensione. Tant’è che un giorno, recatosi dal medico perché sofferente da tempo di stitichezza e senza che nessun tipo di cura gli avesse fatto effetto, mentre il dottore stava illustrando diagnosi e rimedio, si alzò di scatto, lo ringraziò con tutto il cuore e si precipitò nella farmacia davanti al municipio. “Si ricorda la posologia?”, chiese il farmacista, consegnandogli le supposte di glicerina. Lui disse di sì e,  a scanso di equivoci, se ne fece dare due scatole. Passati una decina di giorni si presentò dal suo medico che gli domandò come stesse e se le supposte avessero fatto il loro dovere. Andreino, tenendo gli occhi bassi, temendo di fare una critica all’uomo che tanto stimava, rispose: “Caro dottore, per andar di corpo ci sono andato e son più libero ma mi è venuto un gran mal di stomaco. Quelle supposte “in pròpi gram”, sono cattive. Ogni volta che ne mettevo in bocca una e la masticavo mi veniva da vomitare”. Cos’era mai stato, direte voi? Ha poi solo sbagliato la parte, in fondo. Invece di farsele salire, le supposte le fece scendere. Comunque , l’effetto per esserci stato c’è stato. Alla spiegazione del medico, una volta tanto, prestò ascolto e compreso l’errore, si affannò con le scuse e i buoni proponimenti. Da quel giorno Andreino sta ancora da solo come un eremita ma ha imparato, se non ad ascoltare chi gli parla per il suo bene ( è più forte di lui..) almeno a leggere i bugiardini delle medicine. Così, per evitare fastidi e un po’ , come gli disse Giuanin, battendogli una gran pacca sulle spalle, per “tègn da cùunt la candéla che la prucisìon l’è lunga”. Un modo come un altro per dire al burbero ometto di aver cura di sé. Con il dubbio che le parole gli entrino da un orecchio per uscire immediatamente dall’altro.

Marco Travaglini

Nome di battaglia, Camelia

/

Lucia si faceva chiamare Camelia. Per quale ragione avesse scelto quel nome di battaglia era un mistero. Gianpiero, il Bruno, sosteneva derivasse dalla passione per le piante che il padre coltivava nel parco della Villa delle Rose, dove svolgeva la mansione di giardiniere per i marchesi d’Angera. Mario, il Milanese, accennava ad una storia ben diversa, riferita in confidenza da Giacinta, la miglior amica di Lucia. “Nel linguaggio dei fiori – raccontò – la camelia è sinonimo di bellezza e devozione eterna tra gli innamorati. Ma in questo caso l’amore è finito in tragedia quando Martino, il promesso sposo di Lucia, uscito in barca per pescare, era annegato durante un’improvvisa burrasca che l’aveva colto quand’era al largo di Stresa”. E forse quella era la ragione della malinconia che rivela il suo sguardo triste. Parlava poco, Camelia. Al peso che portava nell’anima per quella disgrazia si era aggiunto quello del padre che era stato deportato in Germania con un gruppo di altre persone, durante una retata delle SS. L’episodio, con le sue drammatiche conseguenze, era avvenuto sulla sponda magra del Verbano, a Sesto Calende, nei pressi della Savoia-Marchetti, l’azienda aeronautica che da poco aveva cambiato come in SIAI Marchetti. La villa dei marchesi d’Angera si trovava da quelle parti e il giardiniere venne arrestato insieme a un gruppo di operai accusati di aver sabotato gli aerei destinati alla Regia Aeronautica. Una dannatissima disgrazia per lui, di cui non si seppe più nulla, e anche per la ragazza che, orfana di madre morta nel darle la luce, era rimasta sola e senza parenti prossimi, se si escludeva un anziano cugino della madre che viveva a Saronno. Così Lucia prese la sua decisione. Contattati i partigiani della banda del Mottarone, si unì a loro con quel nome – Camelia – che crucchi e camicie nere impararono ben presto a temere. La notte profumava d’erba tagliata. Merico, nell’alpeggio più a est di Vidabbia, si era dato da fare con il taglio maggengo, per ottenere il foraggio più ricco di graminacee per le sue due vacche. Benedetto uomo! Grazie a quel latte, che generosamente ci forniva insieme ad un poco di farina gialla, si riusciva a calmare i brontolii della fame che salivano cupi dai nostri stomaci spesso vuoti. Rannicchiato dietro a un masso erratico, ricoperto di una patina verdastra di muschi e licheni, guardai su verso il crinale, oltre la chioma degli ultimi alberi. La luna, tonda e bianca come latte appena munto, segnava il profilo del monte Zughero. Poi, volgendo lo sguardo verso il lago, vidi che la luna riverberava quella sua luce sulla superficie dell’acqua, accarezzandola. Una larga fascia d’argento si stendeva tra le due sponde, da Baveno a Pallanza. Le isole Borromee parevano macchie scure e buie, annegate in quella luce. Le rive erano anch’esse tenebrose, con le poche luci soffocate dal coprifuoco. Pensai a chi era giù, nei paesi. Dormivano, dietro quelle persiane chiuse? O erano ancora svegli, tormentati dall’insonnia in quei tempi tristi e duri? E se dormivano, com’era il loro sonno? Sereno o agitato? Sognavano o il loro riposo era ghermito dagli incubi? Chissà. Io, intanto, qui di vedetta con gli occhi che tentavano di chiudersi per la stanchezza e la testa pesante, pensavo a come sarebbe stato il giorno in cui avremmo finalmente raggiunto la libertà, posando il fucile, tornando a casa. Ci saremmo arrivati, a quel giorno? E quando? E chi, di noi? Non certamente Maurizio, l’amico più caro di Camelia. Dinamite, così aveva scelto di farsi chiamare, era morto in quella maledetta, gelida alba sulle balze del monte Camoscio. Non era rientrato al comando. Attendemmo a lungo e poi mandammo alcuni uomini a pattugliare il bosco delle querce verso la cava di granito. Lo trovammo io e Pernod, all’indomani, morto. Era duro, rigido, con la pelle diafana per il freddo. Una smorfia in volto che pareva quasi un mezzo sorriso e la camicia lacera, strappata sul petto dalla raffica di mitra che l’aveva falciato. Accanto al suo, il corpo di Rolando. Aveva solo sedici anni e, con il suo moschetto, quasi più grande di lui, l’aveva accompagnato in quella che era stata la loro ultima missione. Camelia era distrutta dal dolore ma quando si riprese disse che l’avrebbero pagata quei delinquenti in camicia nera e i loro alleati tedeschi. Era il 24 dicembre, la vigilia di Natale del 1943. Una festa triste, dove nessuno ebbe voglia di aprir bocca. Solo Marcello, che aveva studiato in seminario, mormoro una breve preghiera: “L’eterno riposo dona a loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Amen”.

Marco Travaglini

Arturo, fascista pentito

/

Le discussioni con Arturo, fascista tutto d’un pezzo, erano spesso animate e a volte molto dure. Lui era convinto della bontà delle scelte del Duce, entusiasta del regime e profondamente legato alla politica nazionale e autarchica. Non era mai stato un violento anche se non ammetteva nessun tipo di errore per quanto veniva imposto in quegli anni ed era pronto a giustificare quasi tutto. Quasi perché su un punto s’incrinavano le sue certezze: chi non la pensava come i fascisti andava convinto, ragionando con tutta la passione necessaria ma mai si doveva usare la violenza. Le squadracce e le loro bravate, non godevano del suo plauso. S’arrabbiava, diventavano rosso in volto. Tutta quella violenza, le botte e le bevute d’olio di ricino imposte ai dissidenti, andavano non solo criticate ma anche condannate. Arturo sosteneva che il vero fascismo non fosse quello. La rivoluzione sociale non poteva degenerare e il riscatto del popolo non doveva affermarsi con imposizioni e discriminazioni. Le nostre discussioni, all’osteria davanti all’imbarcadero di questo piccolo paese sul lago Maggiore, assumevano toni molto forti ma non degeneravano mai in uno scontro vero e proprio. Arturo portava rispetto per chi non condivideva il suo punto di vista e concludeva i suoi ragionamenti con una frase precisa, sempre la stessa: “Sei più testardo di un mulo e non vuoi vedere più in là del tuo naso. Ti convincerai che le cose andranno per il verso giusto. E chi sgarra, come questi matti che interpretano le direttive del partito con arroganza e violenza, pagherà per i suoi torti”. In realtà era lui, povero Arturo, a non persuadersi di ciò che stava accadendo attorno a noi, al clima sempre più pesante e opprimente, alla paura che induceva al silenzio, al clima di sospetto. Eravamo agli inizi ma già si intuiva che le cose sarebbero peggiorate, che il regime avrebbe mostrato il suo volto peggiore anche nei piccoli centri, nella provincia più profonda. Ogni dissenso era considerato tradimento, e come tale andava represso. Arturo se ne andò una mattina. Aveva trovato un impiego dalle parti di Castellanza come contabile in una manifattura tessile. Sembrava invecchiato precocemente. Parlava poco, non mostrava più l’ardore di un tempo. Qualcuno disse che un giorno, sul finire del 1938, ebbe uno scontro durissimo con alcune camicie nere che avevano prelevato dalla fabbrica due giovani operai accusandoli di essere ebrei e che, come tali, dovevano essere allontanati dalla produzione. Arturo li difese, gridando che il fascismo era nato per difendere il popolo e i lavoratori, che nessuno doveva essere discriminato, che quei metodi gli facevano schifo, ribrezzo. Venne malmenato e, una settimana più tardi, licenziato dalla direzione del cotonificio. Tornò da sua zia, l’unica parente che gli era rimasta dopo la morte, avvenuta molti anni prima, dei genitori. Era avvilito, provato. Mangiava poco e vagava a lungo, senza meta, tra i boschi e lungo le rive del lago. Un giorno sparì. E di lui non si seppe più nulla. Solo dopo la liberazione, venimmo a conoscenza della sua morte. La delusione profonda verso il tradimento dei suoi ideali l’aveva portato ad aggregarsi ad un gruppo di partigiani del varesotto e, durante un rastrellamento, era stato catturato e fucilato dai suoi ex camerati. Ci dissero che non aveva armi per sua precisa scelta: la violenza gli faceva orrore e si occupava solo di tutto ciò che poteva consentire alla banda di resistere tra quei monti, dal recupero del vettovagliamento alla logistica. Morì senza aver mai sparato un colpo. Vittima di quel regime che gli aveva acceso in cuore una speranza per poi spegnerla con l’arbitrio e la violenza.

Marco Travaglini

Faggeto Lario, l’estate del 1976 sull’altro “ramo” del lago di Como

/

IL RACCONTO / di Marco Travaglini

.

Faggeto Lario dista poco più di 15 chilometri da Como. In auto, una mezz’ora di strada. Avete presente «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi..» descritto dal Manzoni ne “I promessi sposi”? Bene: il nostro “ramo” è quell’altro. E’ lì che, con il pullman dell’Azienda Comasca Trasporti in servizio sulla tratta Como-Bellagio, passando da Blèvio e Torno, sono arrivato un pomeriggio d’agosto del 1976. Avevo diciott’anni e la mia destinazione era l’Istituto di studi comunisti “Eugenio Curiel”. Un tempo, dopo la Liberazione, la “scuola quadri” del PCI nel comasco portava il nome di “Anita Garibaldi” ed era  riservata alle donne. All’epoca, il PCI di Berlinguer teneva molto allo sviluppo di una politica culturale rivolta alla nuova generazione di militanti, funzionari e quadri intermedi che entravano a ingrossare le file del partito. Una grande importanza avevano le scuole di partito, la cui attività formativa si svolgeva attraverso l’organizzazione di corsi di base, presso le sezioni o le federazioni provinciali, oppure presso le strutture permanenti, tra le quali la più nota era l’Istituto di studi comunisti delle Frattocchie (dal 1973 intitolato a Palmiro Togliatti), in una frazione di Marino, località dei Colli Albani una ventina di chilometri a sud di Roma. Lì si formavano i quadri dirigenti, si insegnava l’arte della politica. Non si imparava solo la “linea”. Chi frequentava i corsi studiava storia, economia e altre materie ma, soprattutto, ci si formava sull’idea che far politica era una professione al servizio degli altri, di un ideale, di una causa. Insomma, una cosa seria. I corsi erano impegnativi e di lunga durata. I periodi di permanenza variavano da un anno a sei mesi fino a poche settimane. Il mio era un “corso estivo per giovani operai”, della durata di tre settimane che, praticamente, corrispondevano alle mie ferie. Le giornate venivano scandite secondo un programma preciso: ore 7, sveglia e riordino delle stanze; ore 7.55, inizio dei corsi; ore 12, pranzo e riposo; ore 15, discussione e studio; ore 19, cena e libera uscita (quando non capitava qualche riunione serale); ore 22, rientro. Su questo non si sgarrava. Una sera che, in tre, con l’auto di un compagno di Genova (una vecchia Simca 1000) andammo alla Festa de L’Unità di Bellagio, essendo tornati verso le 23 trovammo il cancello chiuso e dormimmo sotto i salici in riva al lago perché nel parco della scuola, dopo le 22, venivano sguinzagliati per la notte due cani piuttosto “mordenti” e non era il caso di mettere alla prova le nostre gambe e  le loro mandibole. Il direttore era l’ex senatore Giovanni Brambilla (Conti). Operaio, confinato, partigiano, in passato vicesegretario della Federazione milanese del Pci e segretario generale della Fiom provinciale milanese. Un uomo tutto d’un pezzo, gentile ma ferreo nell’applicare la disciplina. I docenti erano di grande livello. Stava per essere pubblicato dagli Editori riuniti “Economia politica marxista e crisi attuale”  dell’economista  Sergio Zangirolami, e si studiava con lui  sulle sue dispense. Il giornalista e scrittore Luciano Antonetti, amico e biografo di Alexander Dubcek, protagonista della Primavera di Praga e leader di quel “socialismo dal volto umano” soffocato dai carri armati sovietici nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, ci parlava di politica internazionale. Luciano Gruppi, intellettuale comunista di rango, vicedirettore della rivista “Critica marxista”, anticipò i contenuti di due volumi che sarebbero usciti di lì a poco: “Il compromesso storico” e “Il concetto di egemonia in Gramsci”. Insomma, per farla breve, era un corso impegnativo e, nello stesso tempo, intrigante. Imparavamo a mettere in ordine secondo una certa logica le intuizioni che avevamo colto nel muovere i primi passi in politica e questo ci dava una bella carica. Ma eravamo anche dei ragazzi, tra i diciotto e i ventiquattro anni, e amavamo anche divertici. Non racconterò gli scherzi che si possono immaginare, come – tanto per fare un paio d’esempi – lo zucchero infilato sotto le lenzuola di Mauro Z., operaio metalmeccanico di Carpi, che andava sempre a letto senza pigiama perché soffriva il caldo, o il sale nella minestra di Roberto P., studente di Lodi, che la sputò schifato in faccia a Luigi F., anch’esso studente ma di Verona, che gli sedeva di fronte nel refettorio. Il sabato o la domenica, a seconda delle condizioni del tempo, si andava in gita sul monte Palanzone, con una bella sgambata di qualche ora. Tra canti partigiani e pranzi al sacco, quelle gite rafforzavano il nostro cameratismo. Le nuotate nel lago erano una consuetudine dopo pranzo, prima che entrasse in azione la digestione del pasto che, a dire il vero, era alquanto frugale.  Ho sempre avuto una fifa blu nello spingermi dove non si toccava, quindi mi limitavo a quattro bracciate in orizzontale, poco distante dalla riva. Ma la cosa più straordinaria, e per certi versi tragica, capito’ a Bepi. Il cognome l’ho dimenticato, ma mi ricordo che svolgeva le mansioni di magazziniere in una distilleria di Bassano del Grappa. Quando arrivai in istituto a Faggeto Lario, Bepi era già lì da quindici giorni ed era molto nervoso. Non ci mettemmo molto a comprenderne le ragioni. A ridosso della scuola, appena oltre il muro, c’era una chiesa che un tempo era appartenuta alla stessa proprietà ma che il partito, dopo averla acquisita, con gesto generoso, aveva donato alla curia comasca. Del resto, che cosa ce ne facevamo di una chiesa? Chi aveva fede poteva tranquillamente frequentare le funzioni e queste erano di competenza della diocesi e non certo del PCI. Comunque il problema non era tanto la chiesa ma l’orologio del campanile che, grazie ad un meccanismo ad ingranaggi collegato ad una campana, segnava non solo le ore ma pure le mezze. E se, per il Manzoni, verso sera “si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, cha annunziava il fine del giorno. …” per il povero Bepi s’annunciava il calvario di un’altra notte in bianco perché quel suono gli impediva di riposare. Così, un bel giorno, mi pare di venerdì, calate le ombre della sera, ormai esasperato, armatosi di un possente martello e di due cunei di ferro, lunghi e spessi, si arrampicò come un gatto sul campanile. Giunto all’altezza delle lancette dell’orologio, fissò con forza i cunei nel muro, bloccando il meccanismo che – in tensione per l’impedimento – si ruppe, bloccando il meccanismo che attivava la campana con un forte “crack”. Così, dopo il blitz di Bepi, la notte trascorse in un silenzio irreale e così anche il giorno dopo fino a quando, avvertito del danno che aveva guastato l’orologio, il parroco diede in escandescenze, accusando “quei senza Dio di comunisti” di “aver tagliato le corde vocali alla cristallina voce della Chiesa”. Ma, non avendo prove, dopo un po’ di baillamme, la polemica si stemperò nel nulla. Cosa diversa fu invece l’inchiesta interna condotta dal direttore Brambilla che, superando il nostro muro del silenzio, ottenne da Bepi una piena confessione dopo che lo stesso aveva manifestato un repentino cambio d’umore, canticchiando una poco edificante canzoncina il cui ritornello prometteva di mandare a fuoco le chiese per poi, sulle macerie, costruire delle sale da ballo. Reo confesso, Bepi lasciò la scuola e tornò a Bassano mentre noi, per altri dieci giorni, continuammo il nostro corso di studi per poi tornare a casa. Così passai le ferie del 1976, tra amici e compagni, studiando e frequentando – quando si poteva, mettendo insieme i pochi spiccioli di cui disponevamo – l’Osteria dei Manigoldi, dove si poteva gustare la  petamura. Non saprei come definirla: sembrava  un dolce, una specie di budino, ma era anche un pasto completo , composto da farina, latte, zucchero e vino. Era molto consistente e nutriente, nonostante fosse un piatto povero. Sarà stata la fame, saranno i ricordi un po’ sbiaditi della gioventù, ma quel piatto tradizionale di Faggeto dal colore violaceo era proprio una bontà.