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IL RACCONTO- Pagina 2

Erminia, Mario, Libero e le acque del lago a Ronco

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La signora Erminia, un tempo, doveva esser stata senz’altro una gran bella donna. Si capiva dai lineamenti, fini e delicati, e da quegli occhi verdi-azzurri come l’acqua del lago in primavera: chissà quante teste avevano fatto girare e quanti cuori palpitarono per lei.

I capelli, bianchi come la neve e raccolti sulla nuca, le incorniciano l’ovale del volto. Com’era arrivata fin qua, sulle sponde del lago? Da quanto tempo viveva, sola con i suoi  gatti, in questa bella casa di pietra a Ronco, all’ombra del campanile della chiesa di San Defendente? A queste nostre curiosità, espresse con il timore d’apparire indiscreti , una volta rispose, sorridendo: “Ldomande non sono mai indiscrete. Talvolta possono esserle le risposte”. Da quel giorno non vi furono più domande e crebbe ancor più il rispetto per quella donna così gentile e ospitale. Ogni  qualvolta si attraccava con la barca al molo di Ronco venivamo  invitati a casa sua  per una merenda con pane e formaggio, accompagnando il cibo con un buon bicchiere di vino rosso.  D’inverno, dalla casseruola che teneva sulla stufa a legna, versava delle generose porzioni di brodo caldo nelle scodelle di ceramica, unendo dei crostini di pane raffermo sui quali aveva passato una testa d’aglio o spalmato ricotta fresca. Quella ricotta che, insieme al burro, la vecchia Onorina portava di casa in casa con la sua piccola gerla dopo aver percorso il ripido sentiero che dall’alpeggio scendeva fino alle case del paese. Una tradizione d’ospitalità che si stava perdendo. Solo qualche anziano manifestava, nei confronti dei viandanti del lago, gesti amichevoli e di conforto. Eppure, un tempo, s’usava offrire il brodo e il vino, quello aspro delle piccole vigne abbarbicate sul fianco delle colline, e anche l’aceto, versato generosamente nell’acqua fredda, in cui intingere una crosta di pane raffermoduro come un sasso. A pochi passi dalla chiesa di San Defendente, un tempo invocato contro i flagelli dei lupi e gli incendi, abitava anche Libero Frezzini, meglio conosciuto come “lifroch”, cioè fannullone, una persona a detta di tutti ben poco seria. Frezzini, tra l’altro, non ci stava proprio con la testa. Alto,magro e dinoccolato era proprio un po’ tocco. Si vestiva sempre alla stessa maniera, estate e inverno, quasi non sentisse né il caldo né il freddo: giacca di fustagno marrone, ormai lisa sul bavero e sui gomiti; pantaloni scuri di velluto  e una camicia a quadrettoni rossi e bianchi. Giovannino lo prendeva in giro: “ Libero, ma come ti sei vestito? Sembri una tovaglia ambulante, unta e bisunta. Dove l’hai fregata, quella camicia lì? Dalla cesta dei panni da lavare dell’osteria?”. Frezzini, carpentiere in una piccola impresa del posto,portava rispetto all’anziano pescatore. Anch’esso, e a modo suo, amava la pesca. Il più delle volte, raccontando le sue imprese, esagerava sulle misure e sul peso delle catture. Giovannino quando lo sentiva sproloquiare, indulgendo nelle sue vanterie impossibili, lo rimproverava: “Cala,cala Trinchetto. Non contar balle, Libero, che al massimo hai tirato fuori dall’acqua un paio di cavedani lunghi una spanna”. Lifroch a volte esagerava davvero, alzando la voce e Giovannino , guardandolo storto, doveva minacciarlo: “A ta dò un sgiafun che ta sbiruli la salamangè“. Che, tradotto da quel dialetto mezzo lombardo, equivaleva ad un “ti dò uno schiaffo da piegarti la mascella”. Un giorno l’aveva preso a calci nel sedere dopo aver scoperto, per caso, che quel balordo era andato a pescar persici nel periodo più proibito che ci sia: il tempo della riproduzione, tra aprile e maggio, quando i pesci depongono le uova. Evitando accuratamente di menzionare il fatto al Conegrina e al Carabiniere, cioè alla coppia di arcigni guardapesca, evitò al Frezzini la poco allegra prospettiva di finire al fresco, costretto a guardare il sole a quadretti , dietro alle sbarre del carcere più vicino. Era un reato, a quei tempi, che non si sanava solo con una multa in denaro ma anche con qualche giorno in gattabuia. Libero, tanto per accentuare la sua stranezza, si esprimeva anche a proverbi. Ne aveva per tutte le situazioni. S’era ingozzato come un maiale all’osteria, al punto da sentirsi male? Alle critiche rispondeva così: “ E’ meglio morire a pancia piena che a pancia vuota”. Aveva bevuto più del solito, alzando un po’ troppo il gomito e camminava sbandando? Si giustificava: “E’ sempre l’ultimo bicchiere a far male”. Teoria alquanto bislacca, a dire il vero. Ricordo di averlo incontrato mentre si recava al lavoro in vespa. C’era un buco nell’asfalto. Non lo vide in tempo, finendoci dentro con la ruota davanti, rischiando di capottarsi. Si rialzò tutto scorticato e dolorante. Prontamente accorso in suo soccorso capii immediatamente che era ubriaco. Evidentemente la sera prima doveva aver fatto bisboccia  e si portava addosso una “scimmia” da far paura. Rialzatosi, intontito e acciaccato, mi ringraziò, confidandomi il suo malessere: “Ma sai che ieri sera ho bevuto un bicchiere di acqua tonica che mi è restata sullo stomaco? Non l’ho proprio digerita!”. L’acqua tonica, capito? Non i due o tre litri di rosso che si era scolato e per gli altri comuni mortali rappresentavano una dose da schiantare chiunque. Un altro bel personaggio era Mario Martellanti, detto “cavedano”. Non ricordo dove fosse nato ma era certo che dimorasse sul lago. Mario non amava sentire la terraferma sotto i piedi e, dunque, viveva in barca gran parte del tempo, stagioni permettendo. A fine primavera, durante l’estate e nella prima metà dell’autunno, praticamente non lasciava mai lo scafo della sua “Stella dell’onda”, imbarcazione che lo accompagnava da più di trent’anni nelle sue peregrinazioni lacustri. Quando le foglie ingiallite abbandonavano gli alberi , spargendosi a terra e l’inverno con il suo alito gelido prendeva il sopravvento, cercava di tener duro il più possibile, cedendo solo alla tormenta che scendeva dai contrafforti montuosi, sbarcando proprio a Ronco per cercare riparo nel cascinale dove teneva le sue magre cose. Se l’aria s’infreddoliva, non disperava. Teneva sempre a portata di mano, accanto  alla tela cerata indispensabile per ripararsi dagli scrosci di pioggia, una ormai logora trapunta di lana. Non troppo ingombrante ma abbastanza grande da potervi avvolgere l’intero corpo, riparandosi dal freddo e dall’umidità. Sosteneva d’esserci nato, in barca. I genitori, entrambi defunti, avevano passato tutta l’intera vita sull’Isola di San Giulio. Il padre Giovanni, nativo di Ronco, era custode della Villa dei Glicini. La madre Elsa, si era rotta la schiena nel far le pulizie in uno dei più antichi alberghi del posto, la “Locanda del Drago”. Mario, scapolo impenitente, sosteneva d’essersi sposato con il lago. “Sono più di sessant’anni che ho preso in moglie quest’acqua cangiante;ci conosciamo e rispettiamo, e non ci lamentiamo mai, sopportando a vicenda i nostri sbalzi d’umore”, confidava agli amici più stretti. Ormai anziano, continuava a vogare da una sponda all’altra o, più semplicemente, seguendo il margine delle rive nel suo perenne cabotaggio. Anche se, in cuor suo, custodiva un segreto che talvolta lasciava intuire. La luce di quegli occhi verdi-azzurri della signora Erminia l’avevano stregato. Non l’avrebbe mai ammesso, e nemmeno confidato alla bella donna dai capelli bianchi. Era il piccolo suo segreto. Quei mazzetti di primule e viole lasciati vicino all’uscio o i funghi e la frutta appena raccolti, i persici pescati e già puliti che Erminia trovava sul davanzale di pietra della finestra, erano doni che non lasciavano troppi dubbi sul misterioso benefattore. Eminia intuiva e apprezzava, elargendo sorrisi, cibo e buon vino anche a Mario. In fondo affetto e gratitudine si possono esprimere in tanti modi e le parole, a volte, sono davvero superflue.

Marco Travaglini

Marietta e le donne del burro

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Marietta, originaria di Sovazza, si era trasferita a Baveno dopo aver sposato – non più giovanissima – Oliviero Brenti, dipendente della Navigazione del Lago Maggiore che divideva la sua attività tra l’imbarco bavenese e lo scalo di Carciano


 Con i suoi lavori da domestica, Marietta integrava il magro reddito familiare dopo il pensionamento anticipato del marito che, da sempre cagionevole di salute, aveva bisogno di frequenti cure mediche. Da ragazza era stata una delle donne “del burro” che dai paesi del Mottarone – Armeno, Sovazza e Coiromonte , partivano a piedi nel cuore della notte con la gerla in spalla per vendere il burro sui mercati dei due laghi. Era una fatica non da poco, alla quale si sottoponevano per il desiderio – e la necessità – di realizzare un sia pur modesto guadagno che compensasse i loro sforzi. Nei giorni che precedevano ilviaggio, nelle stalle degli alpeggi del Mottarone, la panna del latte appena munto veniva versata nel cilindro delle zangole e le donne iniziavano a sbatterla agitando lo stantuffo. Dopo un paio d’ore di continua agitazione, il burro era pronto per essere tagliato nei panetti di vario peso, pronti a raggiungere le cucine di Omegna, Orta, Stresa e Baveno. Le  donne “del burro” partivano per la stessa meta sempre in coppia, per maggior sicurezza. Una lanterna in mano, per rischiarare il sentiero nelle notti senza luna, il carico ben disposto nella gerla e un passo di montagna che dava conto di quanta forza poteva infondere la necessità. Quando le coppie s’incontravano, prima di lasciarsi alle spalle le viuzze dei borghi di montagna s’udiva un bisbigliare di saluti che, mano a mano s’allontanava dalle case, diventava sempre più tenue, fino a sfumare nel silenzio notturno. Già prima dell’alba, anticipando il cantare del gallo, le donne avevano raggiunto le loro mete, iniziando un meticoloso giro tra le case, secondo un copione che nessuno aveva mai scritto ma che veniva riproposto ogni volta, come un abitudine consolidata tra chi acquistava e chi vendeva. C’era chi ritirava e pagava il burro limitandosi a uno scarno cenno di saluto e chi, invece, moriva dalla voglia di “attaccar bottone” con quelle ragazze che venivano giù dai monti. C’era chi chiedeva il loro nome e quali fossero i loro legami di parentela; chi offriva una tazzina di caffè nero, preparato nel pentolino sulla fiamma del camino e chi accompagnava l’offerta della bevanda calda con una ciambella dolce o un pezzo di pane e formaggio. S’intrecciavano, nel tempo, conoscenze e amicizie.A volte anche simpatie che sfociavano in veri e propri amori, com’era successo tra Marietta e Oliviero. Le donne  “del burro“, finito il giro dei clienti si recavano nelle botteghe dove – impegnando una parte del loro guadagno – acquistavano provviste, stoffe e filati, sapone e fiammiferi. Nella gerla ormai vuota di ognuna veniva riposta la mercanzia e, dopo un ultimo saluto, si avviavano sul cammino del ritorno. All’arrivo, in tempo per l’ultimo vespro prima che la luce del tramonto lasciasse il passo alla sera, era gran festa. Per i piccoli c’era sempre una fetta larga di pane bianco o con l’uvetta e sul tagliere, accompagnando le fette di polenta, non mancavano formaggio e salame. Talvolta anche un mezzo litro di vino rosso. La fatica di quelle donne andava in qualche modo risarcita e il calore che si creava attorno a loro e ai “misteri” contenuti nelle gerle, svelati man mano che si svuotavano. Oggi come oggi il burro con la zangola, su all’alpe, lo fanno in pochi e non si scende più a piedi dai sentieri, sotto le stelle, per venderlo sull’uscio. Adesso ci sono i caseifici, le latterie turnarie, i grossisti che vanno a prendere il latte e lo trasformano. E le donne “del burro” sono solo un ricordo del passato

Marco Travaglini

 

Conegrina e “il Carabiniere”, inflessibili guardapesca

Conegrina, al secolo Aquilino Bonello, messa alle spalle una vita da ambulante, si è riciclato come guardapesca, ereditando la mansione che, per più di trent’anni, è stata il pane quotidiano di Alighiero Dentoni. Il passaggio delle consegne è avvenuto da poco, quasi per caso.

Una sera che i due si erano trovati a condividere un mezzino di rosso all’osteria dell’Onda la cosa è venuta fuori con naturalezza. Alighiero Dentoni , era noto ai più come “il Carabiniere”, poiché da giovane aveva indossato la divisa dell’Arma. Quasi nessuno lo chiama per nome e cognome. Non per cattiveria o noncuranza, e nemmeno con l’intenzione di ignorare l’anagrafe; è solo che, con il tempo, il soprannome ha spodestato il cognome, sostituendolo nella vita di tutti i giorni, lasciandogli solo il compito di rappresentarlo nei documenti ufficiali. Comunque, “il Carabiniere”, in procinto di raggiungere il traguardo della pensione come dipendente della Provincia, stava da tempo lambiccandosi su chi potesse prendere il suo posto. Arcigno,inflessibile,incorruttibile e poco incline alle smancerie si era guadagnato il rispetto di tanti ma la simpatia di pochi. Conegrina era tra i rari amici con cui da anni, alla sera, scambiava due parole all’osteria, bevendo insieme o giocando alle carte. Quest’ultimo, dai paesi ai piedi dei monti fino in pianura, godeva di una certa notorietà. Per anni aveva battuto in lungo e in largo il territorio con il suo scassatissimo autocarro proponendo nei mercati e sulle “pubbliche piazze” i suoi prodotti. Nel suo campionario aveva un po’ di tutto: aghi, ditali, filo per cucire, soda, lisciva, candeggina, sapone, mollette per stendere la biancheria, spazzole per lavare i pavimenti, pettini e tante altre utili cose. Il suo grido di battaglia era arcinoto: “Forza, forza  donn! Conegrina e savon! “.

 

A volte risuonava anche un possente “Donne, oggi il tempo volge al bello, è arrivato in piazza l’Aquilino Bonello”. Gli affari andavano a gonfie vele. Praticava dei prezzi onesti e non faceva storie quando, di fronte a un acquisto importante, gli veniva richiesta una dilazione nei pagamenti. Spesso accettava, dimostrando di gradirlo più del denaro, una sorta di baratto: io do una cosa a te e tu ne dai un’altra a me. Molte sue clienti intravedevano così una specie di doppio vantaggio: si liberavano di cose inutili ottenendo in cambio oggetti che potevano servire. Nessuno può dire con certezza le ragioni dell’amicizia tra i due ma era plausibile che fosse proprio il buon Conegrina ad aver attaccato bottone all’anziano guardapesca, scalfendone la riottosità fino a conquistarsi l’amicizia. Comunque fossero andate le cose è certo che Alighiero Dentoni raccomandò con insistenza l’ambulante all’assessore provinciale Fernando Chiurlazzi, titolare della delega alla pesca. Quest’ultimo, potendo decidere come procedere alla sua sostituzione, optò per l’atto diretto di nomina, raccomandando al Dentoni un adeguato periodo di affiancamento.Mi raccomando,eh? Non perdiamo tempo con tutte quelle balle della burocrazia ma, attenzione: non voglio guai. Quello lì che mi hai segnalato dev’essere all’altezza e ne rispondi tu di persona se succede qualcosa,intesi?”. Il “Carabiniere”, borbottò delle rassicurazioni: “ Stia tranquillo, assessore. Garantisco io”. Il Chiurlazzi, di fronte ad una frase del genere si tranquillizzò, rammentandosi che veniva spesso pronunciata anche dal suo grande maestro del quale teneva in ufficio, appeso al muro, una gigantografia con il petto sporgente, copia uguale e sputata del ritratto che teneva sulla scrivania suo padre che, negli anni trenta, era stato il podestà del paese. Nel frattempo,espletate le pratiche e venduta a buon prezzo la licenza mercatale che , considerata l’entità del giro d’affari e di clientela, faceva gola a molti, per Aquilino Bonello iniziò una nuova vita. L’affiancamento dimostrò quello che già s’intuiva: l’incredibile affiatamento tra i due che andavano non solo d’amore e d’accordo ma si comportavano come se l’uno fosse l’esatta copia dell’altro. Regolamento alla mano, sembrano le controfigure di Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi, i due famosissimi arbitri svizzeri di Giochi senza Frontiere. Mancava solo il celebre conto alla rovescia ( “Attention… Trois, Deux, Un… Fiiit!“) ma il doppio fischio finale, quello sì che c’era. Eccome se c’era: uguale, tremendo, inconfondibile. Due  acuti, perforanti sibili. Come ignorarli? Non si poteva far finta di niente. Quei suoni intimidatori, all’unisono e in perfetta sincronia, segnalano l’infrazione. Oppure, nel migliore dei casi, l’ammonimento. Entrambi in divisa, si comportano da veri e propri “sceriffi d’acqua dolce”. Conegrina, che è sempre stato uno sveglio, il regolamento se l’é studiato a memoria. Niente carte e foglietti ( che se vanno in acqua si rovinano) ma tutto in testa, ben impresso nella zucca ormai priva di capelli. Non sfuggiva nessun particolare, ai due. Nessun dubbio o incertezza su quali attrezzi fossero consentiti e quali altri proibiti; una precisione invidiabile per i periodi e le situazioni in cui si potevano usare gli attrezzi a inganno, come il bertovello o la nassa . La lenza da fondo, la “lignola”? “Al massimo con 30 ami e mai e poi mai dal 25 aprile al 31 maggio”.

 

Il lato delle maglie della rete interna di un tremaglio? “Non inferiore a trenta millimetri”. E la  sciabica, quella che un tempo veniva  chiamata  la  “persichéra”, una rete con una sacca particolarmente allungata, utilizzata per la pesca del pesce persico? “ Guai a metterla in acqua, ora come ora”. Si aveva quasi il sospetto, e a pensar male si fa peccatomi si indovina, che si divertissero a comportarsi da carogne. Al Dentoni, pur incassando già l’assegno della pensione, non passava nemmeno dall’anticamera del cervello l’idea di mollare. Si era riciclato come guardapesca volontario. Giorni addietro sono stati visti all’opera, con uno sprovveduto pescatore della domenica che aveva chiesto ad entrambi delle informazioni. Sono partiti a raffica: “ Deve sapere che la pesca è consentita a partire da un’ora prima del levar del sole sino ad un’ora dopo il tramonto, da queste parti. Dovesse recarsi invece sul lago Maggiore è tutta un’altra storia perché là valgono le disposizioni della convenzione Italo-Elvetica. Le raccomandiamo i divieti; stia molto attento perché qui non si può sgarrare”. Il malcapitato si è sorbito l’intero calendario di pesca.”Dal 25 aprile al 31 maggio, niente persici. Per la trota di lago , da metà ottobre alla fine di gennaio. Luccio da metà febbraio a metà marzo. Niente carpe, cavedani, tinche per tutto giugno. La pesca all’anguilla è consentita anche nelle ore notturne, ma solo sul Maggiore. Qui da noi, stia tranquillo, non ne prenderà nemmeno una”. Il sorrisetto sornione di Aquilino tradisce una punta, tutt’altro che impercettibile, di cinico sarcasmo. E via con le misure minime delle specie pescabili: dai 18 centimetri del persico ai 30 del luccio. Aggiornatissimi, non si fanno sfuggire le novità. Un esempio? Eccolo: “ La misura minima per la pesca della trota? Modificata da cm. 22 a cm 30. Con esclusione della trota mormorata,  la cui lunghezza minima è confermata in cm. 35 e della trota iridea,  la cui cattura è disciplinata a parte. Entrata in vigore, seppure in via sperimentale? Dall’alba dell’ultima domenica di febbraio”. Annichilito e esausto, il tipo ha ringraziato e, fatto dietrofront, ha riposto la canna da pesca nel baule dell’auto e se n’è andato. Forse, agli “sceriffi”, bisogna che qualcuno gli dica di non esagerare. Ammesso che si trovi qualcuno che abbia tanto coraggio e che, in ogni caso, non sia pescatore, evitando ritorsioni.

Marco Travaglini

La tirlindana

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Sono ormai in pochi, sui laghi, a praticare la pesca a traino dalla barca con la tirlindana. Eppure questo semplice attrezzo ha un suo fascino e una storia. Immaginatevi una lenza in filo di rame o, in versione più moderna, in monofilo di nàilon, lunga da un minimo di 30 a oltre 60 – 70 metri, recante un finale di nàilon a cui è assicurata l’esca, il tutto avvolto su uno speciale telaietto girevole dalla sagoma molto nota detto aspo

Ci siete? Bene. L’aspo, un tempo, veniva costruito dallo stesso pescatore, artigianalmente. Oggi come oggi quest’attrezzo si trova già pronto in commercio, spesso in alluminio leggero e lucente: non vi resta che applicare il terminale con l’esca ritenuta più idonea e, sul piano teorico, siete a posto. Perché solo in teoria? Perché la chiave del successo nella pesca a tirlindana dipende dalla mano di chi la manovra. A prima vista parrebbe tutto semplice e facile come bere un bicchier d’acqua  ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: occorre un certo tirocinio per impadronirsi al meglio di questa tecnica, in grado di riservare delle gran belle soddisfazioni. Intanto, occorre una buona conoscenza del fondale da battere e saper valutare con esattezza la profondità di pescaggio dell’attrezzo. Mai lasciare le cose al caso, quando si pesca con la tirlindana: sarebbe un errore imperdonabile. Ho conosciuto un “lupo di lago”, il vecchio Giuanin, in grado di valutare fondali e correnti, neanche avesse una carta nautica ficcata dentro la sua testa pelata. Per non parlare poi dei movimenti: sia lui che il suo “socio” Faustino erano dei maghi nell’accompagnare la lenza , imprimendole i movimenti giusti, manovrando la barca con misura e mestiere. Di norma i “professionisti” della pesca su lago fanno tutto da soli, usando piccole barche leggere, dei veri gusci di noce che manovrano con un solo remo, essendo l’altro braccio impegnato con la lenza.

 

Taluni ricorrono al motore di potenza fra 2 e 3,5 HP, ma è ovvio che, per quanto condotto al minimo, quest’ultimo provoca un fastidioso rumore specialmente nei fondali bassi. Un’alternativa ci sarebbe, a dire il vero: un motore elettrico, silenzioso, facile da gestire e con una velocità giusta. La tradizione però conta; e la tradizione suggerisce  che l’ideale consiste nell’ agire in due, uno in gamba nel manovrare i remi, l’altro con il tocco giusto per far andare la tirlindana. La lenza tradizionale è in rame, quella moderna – come si è detto – in nàilon. Il tipo classico, in rame cotto,  e si trova in due diametri: lo 0,30 per la pesca leggera a mezz’acqua, lo 0,50 per andare più a fondo, puntando al luccio. Un materiale flessibile ed elastico, preferibile a quello attorcigliato a treccia che risulta meno malleabile. Il nàilon, occorre ammetterlo, offre maggiori vantaggi, con un però: richiede una piombatura distribuita o raggruppata, per consentirne il corretto e rapido affondamento. Cosa che, con il filo di rame, avviene spontaneamente grazie al suo peso specifico. Il nailon non richiede una particolare manutenzione, ha un carico di rottura e di resistenza decisamente elevato, le lenze sono vendute già zavorrate e, cosa non secondaria,  costano meno. “La zavorra è il cuore di tutto!”, dice Giuanin, quando all’osteria, tra un mezzino e l’altro, molla il freno e sale in cattedra. “ Una volta si lavorava con il rame piombato alla fine, facendoci i muscoli nell’accompagnare il peso in acqua. Adesso, cari miei, si va avanti a filo di nailon  e allora non resta che applicare delle olivette di piombo lunghe di un paio di centimetri e di peso attorno  ai a due o tre grammi, distribuendole in modo regolare fino a raggiungere un peso di quasi mezzo chilo. Così, se zavorri bene, la lenza va giù che è un piacere e non corri il rischio che ti resti troppo in superficie,trascinandotela a pelo d’acqua, o di farla affondare fino a raschiare i sassi del fondo”.

 

Il “prof” Giuanin accompagna le parole con gesti decisi, caparbi quel tanto da sconsigliare il contraddittorio. La sua esperienza non ammette repliche. “ E’ molto importante anche la velocità con cui avanza la barca. Se si è in due la cosa migliore è procedere a remi, come abbiamo sempre fatto io e Faustino”, confida il vecchio pescatore.  “ Uno tiene in mano la tirlindana e l’altro rema facendo ogni tanto delle piccole pause. Occhio, però:  chi tiene la tirlindana non deve star lì come un cucù ma imprimere al filo dei piccoli, leggeri strappi per simulare una veloce fuga del pesciolino finto”. Questo genere di movimento, visto dalle parte dei predatori, equivale allo squillo di tromba della carica, scatenandone l’istinto di predatori.“Qui viene il bello. Avvertita la mangiata non perder tempo: uno strappo per ferrare il pesce e avvia lentamente il recupero. La barca non deve arrestare il suo movimento, capito? Se lo fai, se ti fermi, la preda ti frega, soprattutto se è di una certa dimensione. I pesci non sono fessi, e non ti saltano a bordo di spontanea volontà. La preda, se riesce ad avvicinarsi troppo, tenterà come ultima fuga di inabissarsi sotto la barca. Quando accade, sono cavoli amari: il rischio di perderla è alto perché, puoi esserne certo,  il filo andrà sicuramente ad impigliarsi in qualche sporgenza con tutte le conseguenze del caso”. Mai dimenticarsi il guadino: se non lo si trova a portata di mano, al momento giusto, tirare in secco la preda è un problema. Questa è la lezione di Giuanin. Applicandola per filo e per segno porterà alla tirlindana un tributo certo di prede, dai persici ai lucci, dai cavedani alle trote.

Marco Travaglini

 

(Foto: molagnacavedanera.it)

 

Di motori non ne capisce niente…

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Armando Belletti, per ragioni di lavoro, si trovò costretto a vivere in città per buona parte della settimana.

Non che Pavia fosse una gran metropoli ma era ben altra cosa dalla quieta e sonnecchiosa Borgolavezzaro.

Smog, traffico, ritmi caotici e stressanti lo inducevano quanto prima a fuggir via lontano da quel trambusto. Con la sua utilitaria, sbrigati gli impegni, s’avviava verso la periferia e, in breve, si trovava in aperta campagna. La Lomellina con i suoi campi geometrici, le risaie, i prati, le boschine, l’aria finalmente pulita e l’unico rumore – oltre al ronfare del motore dell’auto – non era tale ma un delicato e allegro cinguettare degli uccelli.Armando rallentava la corsa e si godeva la vista di quell’ambiente naturale salvaguardato da eccessi edilizi, punteggiato da cascine e campanili, immaginando cosa l’aspettava a tavola: il risotto, il salame d’oca di Mortara, le cipolle di Breme, gli asparagi di Cilavegna e, come dolce, le offelle di Parona. Questi pensieri gli mettevano quasi commozione. “Cavolo, quando torno al mio paese mi pare di rinascere. Qui sì che la vita ha i tempi giusti. Stare in città sarà anche necessario ma mi pesa troppo”. Un giorno, imboccata una strada non asfaltata che tagliava in due una collinetta, l’auto si mise a fare le bizze. Il motore tossiva, ingolfato. Perdeva colpi e si fermò. Armando, pronunciando termini sui quali – per rispetto del lettore – si ritiene più utile sorvolare –   provò a rimetterla in moto, girando con foga la chiave d’accensione. Ma non c’era nulla da fare. Il motorino – grrr, grrr – girava   vuoto. L’auto restava lì, immobile, senza dar segni di vita, nel bel mezzo della stradina di campagna. Belletti scese, sollevò il cofano, guardò perplesso e sconsolato il motore senza avere la minima idea di dove mettere le mani. Mentre rimuginava sull’incidente che gli era capitato, avvertì un rumore alle sue spalle. Si girò e vide   un bellissimo ed elegante cavallo dal manto lucido e nero. L’animale lo guardava e si mise a girare attorno al veicolo. S’avvicinò e, con sguardo indagatore, scrutando il motore disse , con voce grave :“ Un bel guaio, sa? Per me è partito lo spinterogeno”. Armando, attonito e ammutolito lo guardò incredulo mentre l’animale, trotterellando se ne andò via per la sua strada. Di lì a pochi minuti sopraggiunse un contadino, con un forcone in spalla. Si conoscevano. Bernardo Trefossi era noto nei dintorni per la sua eccentricità. Vide il Belletti stranito, con la bocca aperta, e chiese cosa mai gli fosse capitato. Armando, balbettando, raccontò l’episodio del cavallo e il contadino, incuriosito, domandò: “ Mi dica. Il cavallo era forse nero?”. Alla risposta affermativa del Belletti, il contadino, battendogli la mano sulla spalle, lo rassicurò: “Mi dia retta. Non creda ad una parola di quanto le ha detto quel cavallo. Di motori non ne capisce niente”.

E se ne andò, fischiettando per la sua strada. Quando Armando, chiamato il soccorso stradale, riuscì ad arrivare a Borgolavezzaro era omai sera inoltrata. Ancora scosso per l’avventura del pomeriggio, raccontò il fatto agli amici del Bar “Al cervo d’oro”. Nessuno lo contraddisse ma Vittorio Scalmanati, detto “incudine”, fabbro di mestiere, all’insaputa del vicesindaco e guardando gli altri avventori,   si portò l’indice alla tempia. Dalla smorfia e dal gesto tutti intesero ciò che andava inteso: il Belletti era un po’ “tocco” ma non era il caso di contraddirlo. In fondo, come diceva lui stesso, “cavolo, quelli lì un po’ balordi non fanno poi del male a nessuno”. Appunto!

Marco Travaglini

Quella strana boule dell’acqua… fredda

Il corteo che ieri ha accompagnato il povero Tugnin al camposanto non aveva la mestizia dei soliti funerali. Era arrivato quello che lui stesso chiamava “il giorno in cui staccherò il biglietto di sola andata”.

Diceva proprio così, rimasticando i modi di dire appresi in una vita “da rotaia”, da ferroviere. Al circolo aveva fatto avere i soldi perché gli amici, terminata la cerimonia, potessero ricordarlo alzando i calici in una bella bevuta. “Ricordate che se vi viene voglia di intonare qualcuna delle canzoni che cantavamo da giovani a me farà solo piacere. Ed anche se non potrò aggiungere la mia voce al coro e non potrò sentire se sarete stonati come una campana ciucca, sarò lì con voi, almeno in spirito”. Quando disse queste parole aveva le lacrime agli occhi e fece venire a tutti un gran magone. Anche per la banda musicale, che doveva accompagnarlo nell’ultimo viaggio, aveva compilato di suo pugno il “borderò:la marcia funebre di Franz Listz o il Requiem di Mozart, la Leggenda del Piave, Bella Ciao , l’Internazionale e, dulcis in fundo, il Silenzio. Un bel casino, perché non è stato possibile trovare una banda in grado di eseguire tutt’intero il repertorio che Tugnin aveva “dettato”. Così ci siamo accontentati della Leggenda del Piave, Bella Ciao ed il Silenzio. Quest’ultimo, eseguito dal Birella, cantoniere di mestiere e trombettiere per passione. A dire il vero è stato uno strazio ma, vivi a parte che –  conoscendolo – non  si aspettavano di meglio, il morto non ha avuto da lamentarsi. Il più affranto è stato, com’era ovvio, il “Giuri”. Adriano Arbusti si era guadagnato il nomignolo di “Giuri” dove averlo detto e ripetuto migliaia di volte alla moglie, soprattutto quando quest’ultima era fuori dagli stracci perché tornava a casa un po’ “brillo”. “ A tal giuri, Maria: sun mia ciucc! Gò gnanca vardà drè alla buteglia” ( tradotto:” Te lo giuro, Maria: non sono ubriaco! Non ho nemmeno guardato la bottiglia”). Ma lo tradiva l’alito e allora, giù mazzate sul groppone con la scopa di saggina. Lui e Tugnin erano amici da quando, entrambi venticinquenni, avevano preso parte alla Resistenza. “Giuri” era barcaiolo e portava da una sponda all’altra del lago e da queste in Svizzera, armi e fuoriusciti. Tugnin, ferroviere addetto alla manutenzione degli scambi sulla tratta Arona-Baveno della linea Milano-Domodossola, aveva aiutato diversi ebrei a mettersi in salvo dopo la proclamazione delle leggi razziali e – nel gennaio del 1944 – era andato in montagna con i partigiani. Fu sulle colline del Vergante e sulle pendici del Mottarone che si ritrovarono insieme, mitra in mano, a dar filo da torcere alle camicie nere. Dopo la “calata al piano” erano tornati alle loro professioni. Tugnin s’occupò ancora di binari ma stavolta per la tratta tra Stresa e Mergozzo, riducendo di molto il “campo d’azione”. L’Arbusti, con il suo cappello da marinaio calcato sulla “crapa”,  faceva la spola  tra le isole e la terraferma con la sua “ Iolanda” , una bella barca da pesca a sei posti, dotata di un potente motore da 15 cavalli. Capitava spesso che, senza darsi appuntamento, si trovavano all’osteria dei Quattro Cantoni per una partita di briscola “chiamata”, al Circolo operaio per un mezzino di rosso o dalla Maria, all’osteria dei Gabbiani, per una “merenda”. Tra loro si era rafforzata un’amicizia “solidale”. Tutti ricordano quando Tugnin ebbe l’incidente fuori dalla stazione di Baveno, cadendo dalla “Truman”, vecchia e robusta locomotiva diesel americana, giunta in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Aveva perso l’equilibrio, finendo lungo e tirato sulla massicciata. Una brutta botta che gli era costata la frattura di un femore e della scapola sinistra. Ricoverato per diverse settimane nella traumatologia dell’ospedale S.Biagio di Domodossola, aveva ricevuto – ogni due giorni –  le puntuali visite dell’amico “Giuri”. Quest’ultimo, partiva alla buonora con il treno da Baveno, dopo aver fatto – la sera prima – il “carico” da Luigino Bottecchia, vinaio di Oltrefiume che commerciava una barbera monferrina di buona qualità. Il carico consisteva, ovviamente, in due fiaschi che – per Tugnin – rappresentavano la razione delle quarantott’ore. Così, quando una decina d’anni più tardi, toccò al Giuri fare i conti con la “costrizione” dell’ospedale per una brutta polmonite, l’amico ferroviere ( ormai pensionato ) non aveva  esitato un attimo a rendere il servizio. La casa di cura, per sua fortuna, era quella di Stresa, gestita dalle suore. Prendeva “la tradotta” dopo aver fatto anch’esso il “pieno” ad un paio di bottiglioni. Solo che, già alla prima volta, si era scontrato con un ostacolo insormontabile: l’arcigna e “invalicabile” portiera dell’ospedale stresiano, suor Clementina. A differenza del nome, soave e mite, suor Clementina era un donnone di più di cento chili ed era un vero mastino. Antonio Galletti subì la perquisizione ed il sequestro del vino, protestando tanto animatamente quando inutilmente. “Caro il mio ometto, qui il vino non entra. Quindi, se vuol salutare il suo amico passi pure ma a mani vuote”. La suora era come la linea Maginot. Se la pigliavi di petto era invalicabile e ogni tentativo era destinato a mal partita. “Allora mi sono fatto furbo e l’ho aggirata”, confidò Tugnin. Concordò la tattica con l’amico barcaiolo e la mise in pratica. Giuri doveva affacciarsi alla finestra d’angolo che dava sulla scalinata del retro.Lì, con fare lesto, “allungava” la boulle dell’acqua calda all’amico che, in un baleno, svitava il tappo e la riempiva di barbera. Giuri, dopo essersi infilato nel suo letto tenendosi stretto la boulle opponeva una fiera resistenza ai tentativi delle suore di prelevargliela per cambiare l’acqua,  secondo le religiose, “ormai fredda” . “Ferme lì, sorelle”, intimava con voce che non ammetteva repliche. “La boulle va bene così. A me piace fredda, brut demoni”. Il sistema funzionò fino a quando le suore non mangiarono la foglia e il barcaiolo, privato del “carburante”, si rassegnò ad un periodo di forzata astinenza, soffrendo e brontolando. Ed oggi, eccolo qua, il nostro Giuri. Sembra un vecchio tronco spezzato dalla saetta. Ha accompagnato, insieme agli altri, Tugnin al camposanto e ora si trova perso, spaesato. “Cari miei – ci ha detto – ; siete più giovani e a certe cose non ci pensate, e fate bene. Ma io, alla mia età, mi sentivo già perso quando è morta la mia Marietta. E ora? Eh?  Morto anche Tugnin, che era come un fratello, sono solo come un cane”. Ci ha fatto una tenerezza da non credere e l’abbiamo portato con noi a pranzo. E pure a cena.  D’ora in poi, un po’ del nostro tempo, lo dedicheremo a fargli compagnia quando passerà dal Circolo Operaio. Smazzando le carte ci parlerà del lago, dell’onda vagabonda e del suo amico Tugnin. Del resto, i ricordi sono come i pesci del lago. S’impigliano nella rete della memoria e, ogni tanto, li tiriamo in secca.

Marco Travaglini

Arrigo e “I Trambusti”, tra fiori e balere

Arrigo Molinetti, di professione fiorista, cantava sempre.Ogni occasione era buona per allenare l’ugola: sia che stesse recidendo i gambi delle rose per una composizione a beneficio di una coppia d’innamorati, sia che stesse legando con il fil di ferro i garofani a una corona funebre.

Prima di scoprire d’avere il “pollice verde” era stato per una decina d’anni impiegato – come tornitore – in una ditta metalmeccanica di Omegna, sul lago d’Orta. Ma tra un mestiere e l’altro, non aveva mai smesso di coltivare la sua grande passione per la musica. Il suo idolo era Enzo Jannacci. Si era talmente immedesimato nell’interpretazione del repertorio del cantautore e cabarettista milanese che, per amici e conoscenti, era ormai diventato lui stesso lo “Jannacci“. Smesso di fare l’operaio e aperto il negozio di fiori sul lungolago, aveva deciso di dedicare più tempo alla sua passione. Posate le forbici e levati i guanti si chiudeva alle spalle la saracinesca e, chitarra in spalla, correva ad esibirsi nelle balere, nei circoli e anche per strada. Capitava di incontrarlo, tutto trafelato, mentre inforcava la sua lambretta per andar a fare il “cantante“. Salutava tutti con un “Oilà.. Si parte! Stasera facciamo muovere le gambe ai ballerini“. E si riferiva agli amanti del ballo in piazza a Cesara e aNonio, ai “danceur” del circolo di Luzzogno o delle sale da ballo del borgomanerese. Parlava al plurale, riferendosi al sodalizio che aveva stretto con Virgilio Galaverna, l’altro componente della sua band, “I Trambusti“. Quest’ultimo era un suo “pari”, anche se di ceppo più nobile. Il Galaverna, infatti, era giardiniere all’isola Madre, situazione che – come potete ben capire – comportava una certa responsabilità. Sulla più grande delle “Borromee” aveva a che fare con un patrimonio botanico di tutto rispetto. L’isola, larga 220 metri e lunga 330, é occupata soprattutto da giardini. Discendente di una delle famiglie più celebri  di quegli hortolani che , dal ‘500, accudivano quel ben di Dio che aveva  nel romantico giardino all’inglese la sua perla più rara e invidiata, era anch’esso un musicomane. Potava, piantava, travasava, innaffiava e innestava ma soprattutto cantava. Accompagnandosi con la sua Soprani classica, una signora fisarmonica, dava il ritmo alle canzoni del Jannacci.  I Trambusti, sul palco, perdevano quella timidezza che li contraddistingueva quando maneggiavano i fiori e avviavano il concerto seguendo, da consumati professionisti, la scaletta del loro “borderò” , partendo – immancabilmente – da ” El portava i scarp da tennis” .

In breve snocciolavano a perdifiato  le canzoni dei primi tempi come Andava a Rogoredo, La luna è una lampadina, T’ho compràa i calzett de seda , Faceva il palo, Ho visto un Re, Giovanni telegrafista e la celeberrima  Vengo anch’io. No, tu no. La seconda parte era tutta una tirata a perdifiato con Mexico e nuvole, Ci vuole orecchioSilvano, Bartali, Soldato Nencini eQuello che canta onliù . Se gli chiedevano il bis, cosa che accadeva molto spesso, i due si lasciavano andare ad una terna di canzoni ad effetto: Veronica, L’importante è esagerare e L’Armando.Erano ricercatissimi e nel tempo, dopo aver battuto in lungo e in largo la zona del lago d’Orta e del Mottarone, la bassa novarese e persino il Verbano su fino alla sbarra doganale con la Svizzera, arrivarono a sconfinare in terra lombarda, sulla sponda magra del Maggiore, suonando nelle sale da ballo e in qualche “pub” di Angera, Laveno, Luino e Maccagno. Quando passavo davanti al negozio dell’Aristide, in via Mazzini, a fianco dell’Albergo Croce Bianca, mi salutava intonando a voce piena“..Che scuse’ ma mi vori cuntav d’un me amis.. el purtava i scarp de tennis,  el parlava de per lu e rincorreva gia’ da tempo un bel sogno d’amore..l’avea vista passa’ bianca e rossa che pareva il tricolore..”. Questo accadeva nei giorni feriali perché se lo incrociavo la domenica mattina, mentre usciva da messa ( era un praticante molto devoto e pur di non mancare alla funzione festiva era disposto a tradire anche la passione per la musica), mi salutava con un“Forza,maestro, tira fuori la voce che  cantiamo insieme” e, senza attendere la mia risposta, attaccava con “L’Armando“: “..Tatta tira tira tira tatta tera tera ta .Era quasi verso sera  se ero dietro, stavo andando che si è aperta la portiera è caduto giù l’Armando”.  I Trambusti sono andate avanti per quasi vent’anni. Poi al Galaverna è venuta un’artrite alle mani. Colpa dell’umidità, dello stress e dei veleni dei diserbanti. Non riusciva più a farle correre sulla tastiera della “fisa” e così, immalinconito e giù di corda, aveva smesso di suonare. L’Arrigo “Jannacci“, senza la sua spalla, ripose nell’armadio la chitarra e si limitò a fischiettare le sue canzoni lavorando in negozio. Con i concerti non avevano tirato su più di tanto. Per le loro prestazioni non chiedevano mai somme di denaro ( “il soldo fa arrugginire le corde vocali. Se lo dovessi fare per denaro non riuscirei più ad intonare un fico secco“, diceva Molinetti, gonfiando il petto con un moto d’orgoglio). Accettavano solo pagamenti in natura. Un pollo, un coniglio nostrano, mezzo tacchino arrosto, un “cavagnin” di prodotti dell’orto, marmellate fatte in casa e, qualche volta, i baci carnosi di qualche bella ostessa, ben felice di provare a vedere se quelle labbra erano poi così morbide e dolci come le parole di alcune canzoni.

Marco Travaglini

L’imbarazzante presentazione…

File di lampadine illuminavano la festa. I tavoli e le panche di legno, per l’occasione, erano stati rimessi a nuovo da Bepi Venier. Ripuliti, passati meticolosamente con la spessa carta vetrata e tonificati con una mano abbondante di essenza di trementina e poi di coppale, una resina dura, traslucida, delicata d’odore.

La scelta del colore, un bel marrone carico, non era stata dettata da ragioni estetiche ma dalla necessità: erano le uniche due latte di vernice che Aquilino Bonello era riuscito a recuperare gratis da un suo vecchio cliente. Dunque, di necessità si fece virtù. La cucina, protetta da una struttura in tubi Innocenti, era stata montata su di un pavimento in mattonelle di ceramica posato da Teresio che in gioventù si era distinto come onesto artigiano piastrellista. Mariuccia era stata nominata, con il consenso di tutti, comandante in capo per le operazioni di cucina. Insieme a due amiche, Luisella e Adelaide, e a tre aiutanti a far da garzoni aveva predisposto un piano di battaglia adeguato. “Mettere insieme pranzo e cena per un oltre un centinaio di commensali per volta non è semplice”, ripeté per giorni, facendosi pregare. Maria era fatta così. Le piaceva fare la preziosa ma era solo scena; in fondo era ben contenta di farsi in due per la buona riuscita della prima festa dei pescatori del lago di Viverone, al campo sportivo di Azeglio. Lo specchio d’acqua dolce era il terzo lago più grande del Piemonte, situato tra l’estrema parte nord-orientale del Canavese e  e l’estrema parte meridionale del Biellese. E quella festa era davvero molto importante. Così come il contributo di Maria. La sua era una presenza indispensabile. Senza i suoi consigli e, quando capitava, senza il suo tocco, non ci sarebbero state quelle cene a base di pescato del lago che ogni mese venivano organizzate all’Osteria del Coregone Dorato. Nell’occasione aveva deciso di chiudere per tre giorni il locale, trasferendosi alla festa. Gran cuoca, dal cuore generoso e senza un’ombra di avarizia, non vedeva l’ora di poter raccontare a tutti i segreti della sua cucina. Immaginiamo che possa apparire come una stranezza, visto e considerato che i cuochi, di norma, sono gelosissimi dei loro segreti. Ma la nostra Maria  era convintissima di un fatto: a fare la differenza non erano solo ingredienti e tecniche ma il tocco, lamano. E su quello non temeva confronti. Un esempio, così a caso? La scorsa settimana, mentre si parlava del più e del meno, ci disse a bruciapelo: “Volete sapere come si fa la pastella per la frittura delle alborelle?” Non abbiamo fatto in tempo ad aprir bocca  che stava già declinando la ricetta. “Dovete versare in una terrina duecentocinquanta grammi di farina. Ci aggiungete due cucchiai di olio extra-vergine di oliva  e un pizzico di sale fino. Versate a poco a poco un bicchiere di birra chiara. Fatelo molto lentamente, sbattendo man mano con una forchetta, così evitate che si formino grumi. Con una quantità d’acqua sufficiente, a occhio, si ottiene una bella crema. Sapete montare gli albumi a neve? Bene. Ce ne vogliono sei. Quando sono pronti, li aggiungete alla pastella, mescolando ben bene dal basso verso l’alto. A questo punto non vi rimane che passarci i pescetti prima di tuffarli nell’olio bollente”. Tirò il fiato solo al termine della lezione,servendoci un gran piattone di quelle prelibatezze poichè Maria, mentre parlava, cucinava. Gli architravi della nostra organizzazione, oltre a lei, erano Duilio e Giurgin. Per la scelta del vino occorreva un intenditore. Chi meglio di Jacopo di Piverone poteva vantare competenza e passione? Marcato stretto, evitando che si perdesse via in troppi assaggi, indicò nel vino da tavola di un produttore di Carema il migliore in assoluto. “Questo va bene per tutti i palati, anche per quelli più esigenti”, sentenziò, accompagnando le parole con un sonoro schiocco della lingua. Occorreva però una padella bella grande, larga quanto le braccia di Goffredo. Ma a questa aveva pensatoTomboli, che di nome faceva Mariano, operaio in un’impresa artigiana. L’aveva costruita un po’ per volta, sfruttando la pausa del pasto di mezzogiorno. Svuotata con quattro avide cucchiaiate la minestra della schiscèta, si metteva al lavoro. Batteva la lastra, ripiegando il metallo per ottenere un bordo abbastanza alto da non far schizzare fuori l’olio. Il fondo era doppio, robusto. Sul manico, saldato alla padella, aveva applicato un’impugnatura di legno, fissata con quattro viti. Per friggere i pesci in quantità era una cannonata. Se quella di Camogli rimaneva la padella per la frittura di pesce più grande d’Italia, quella di Mariano è la più capiente e robusta del lago di Viverone. Oreste si è fatto avanti per averne una uguale ma Mariano non aveva sentito ragioni. “Paganini non ripete. Non è questione di soldi o di tempo. E’ che una volta fatta una padella così, con tutta la passione che ci ho buttato dentro, non credo di poterne fare una uguale. Per non far brutta figura, rinuncio”. Così, tra mega padelle e tanta buona volontà, la festa di Azeglio si aprì con un successo da non credere: tanti, tantissimi in coda per le razioni di frittura dorata, sfrigolante nell’olio d’oliva. Gli amanti del pesce non avevano che l’imbarazzo della scelta, degustando alborelle, trote, salmerini, tinche, carpe, persici, lucci e soprattutto gli immancabili coregoni impanati e fritti, marinati in carpione, proposti in umido con le verdure e il bagnetto. Come tutte le associazioni che si rispettino, anche la Società Pesca Libera Lago Viverone – dall’impronunciabile e scivoloso acronimo SPLLV – aderiva ad un organismo che di tutela e rappresentanza come la Fips, la federazione della pesca sportiva. Così, nell’intenzione di fare le cose per bene, venne invitato il delegato provinciale, un tal Giampiero Nuvoloni di Chivasso, per un saluto. Il delegato, un omone di oltre cento chili, dal colorito rubizzo e con una imponente zazzera di capelli sale e pepe, si presentò puntuale. Gli avventori riempivano i tavoli e in gran numero stavano già onorando la cucina di Maria. Lui, guardandosi attorno compiaciuto, si avviò verso il microfono con Giurgin , al quale era stata affibbiato l’incarico di cerimoniere. Schiarita la voce con un colpo di tosse, accingendosi a presentare il dirigente della Fips, Giurgin iniziò a sudar freddo. Si era scordato il nome di quest’omone che, alle sue spalle, pareva incombesse su di lui, basso e mingherlino, con tutta la sua mole. Un vuoto di memoria improvviso e imbarazzante. Come diavolo si chiamava? Nugoletti, Nivolini, Nuvolazzi? Oddio, che guaio. Che fare, a quel punto? Non aveva alternative. Decise di stare sul generico e quindi, con tutte le buone intenzioni, provò a dribblare la difficoltà del momento, pronunciando poche ma decise parole: “Amici, cittadini, pescatori. E’ un onore ospitarvi e un privilegio dare la parola al.. mio didietro”. Le risate, soffocate a malapena, si sprecarono. Il Nuvoloni, che si trovava alle  spalle del povero Giurgin, si ritrovò in mano il microfono. Rosso in volto e schiumante di rabbia, lo avvicinò alla bocca quasi volesse morderlo o mangiarlo. L’altoparlante gracchiava di brutto e questo non aiutò la comprensione. Chi poté udire le parole dell’iracondo delegato Fips giurò in seguito che non fu un discorso particolarmente memorabile. Comunque, dopo meno di cinque minuti, il signor Giampiero, scuro in volto come il lago durante una tempesta, restituì il microfono e se ne andò, incavolato nero, senza guardare in faccia nessuno. Giurgin, affranto, piagnucolava: “Non l’ho fatto apposta. Ero in pallone e mi è venuta fuori così”. La sensazione che tutti ebbero era che, per un bel po’, difficilmente si sarebbe ancora visto da quelle parti il Nuvoloni e, molto probabilmente, anche gli altri della Fips. La festa azegliese, comunque, finì in gloria e allegria, consolando Giurgin con un allegro e chiassoso “prosit”!

Mariolino e la guida dell’uomo “col cappello”

Da qualche anno possiedo una barca. E’ la Lampreda, cedutami a poco prezzo dal vecchio Lino Sgambarolli, costretto a buttar l’ancora sulla terraferma a causa dei reumatismi e della sciatica che l’hanno piegato in due.

La “sua” Lampreda era la terza di una serie. Diventata mia, riverniciata di bianco e d’azzurro, si è guadagnata il titolo di quarta. Lino mi aveva lasciato piena libertà. “Il nome deve essere quello che più ti piace. Non c’è l’obbligo di tener lo stesso e lo puoi cambiare, tanto lei – che la si chiami per nome o no –  volterà la prua dove decidi tu, manovrando il timone o il colpo di remi. Ma se ti garba chiamarla come l’ho chiamata io, fai una cosa: ribattezzala “quarta”, così la storia va avanti”. Mi raccontò che prima di lei c’erano state altre due Lamprede. La prima, messa in acqua, sul finire degli anni trenta s’inabissò nell’agosto del 1944 davanti alla Punta di Crabbia, dov’era ormeggiata. Un aereo tedesco, volando sul lago in appoggio a un rastrellamento contro i partigiani del Mottarone, tanto per sfogare la sua rabbia impotente visto che i partigiani se ne stavano nascosti nei boschi, la  colpì a morte con una raffica di mitraglia , sventrandole entrambe le fiancate. La seconda barca era stata bagnata nel maggio del 1947, dopo quasi tre anni durante i quali Lino fu costretto ad una lontananza forzata dal lago, minatore prima e scalpellino poi in terra di Francia, dalle parti di Lione. I magri guadagni lasciavano ben poco alla speranza di metter qualcosa da parte ma quei quattro franchi in croce e qualche lira racimolata vendendo un boschetto di castagni dalle parti di Brolo gli bastarono per l’acquisto di una modesta ma robusta lancia da lago. Per trent’anni Lino e la sua barca hanno attraversato in lungo e in largo il Cusio, pescando in ogni dove, con ogni tempo e in tutte le stagioni dell’anno. Fatto salvi, ovviamente, i periodi di ferma. Dalle rive lo salutavano, nei mercati si vendevano i suoi pesci ( almeno finché l’ammoniaca, il cromo e gli altri veleni non trasformarono, a poco a poco, l’acqua in aceto), nelle osterie capitava di ascoltare le sue storie al modico prezzo di un quartino di barbera del Monferrato. A metà degli anni ’80, una massiccia immissione di carbonato di calcio,  riportò l’acqua ad un valore accettabile di acidità. Quella grande pastigliona di bicarbonato fece digerire il lago, tanto che i pesci – dopo tanto boccheggiare – tornarono a respirare e Lino si rimise a pescarli con la sua Lampreda ( la seconda, appunto). Giunta alle soglie del pensionamento forzoso, dopo più di trent’anni di onesta navigazione, figli e nipoti gli fecero una grande sorpresa, regalandogli un gioiello di barca, uscita fresca, fresca  dai cantieri navali di Solcio, sul lago Maggiore. La forma aguzza, slanciata; il fasciame di legno liscio e brillante, gli scalmi d’acciaio inossidabile, lucidi come i pomelli della stufa dell’osteria dove andava a far bisboccia. Un bijoux che si è goduto per poco. Lino è stato un gran vogatore che solo negli ultimi anni si è arreso al motore. Io non ho la sua tempra e seppur non disdegnando d’infilare i remi negli scalmi e darci dentro a bracciate regolari, uso frequentemente il motore. Al calare della sera, tiro in secca la barca nei pressi dell’ex Canottieri, dalle parti dell’Ospedale della Madonna del Popolo. A volte la ricovero da Mariolino, alla Bagnera di Orta. Una soluzione abbastanza comoda, dato che possiede uno sgabbiotto, chiuso con catena e lucchetto, dove si possono ritirare remi e motore. A far la guardia c’è Lupo, il cane di Mariolino: un bastardino bianco e nero che tira fuori i denti e ringhia proprio come un lupo quando s’avvicina un estraneo. “ Il tuo motore è come in banca, lì dentro”, rassicura Mariolino. Non ne dubito affatto. Lupo  esegue l’incarico come un mastino. E se il suo padrone gli dice di star di sentinella ( proprio così..”di sentinella” ) si può scommettere che lui ci mette una grinta sufficiente a scoraggiare i malintenzionati. Mariolino è fortunato ad avere, come “migliore amico dell’uomo” quel cagnetto. Sono sempre insieme, anche quando Mariolino guida la sua vecchia NSU Prinz. Lupo guarda fuori dal finestrino laterale, ringhia alle auto, abbaia alle luci colorate del semaforo, scodinzola quando si passa davanti all’osteria dove la signora Maria spesso gli “allunga” un cartoccio d’avanzi. Il problema è che  Mariolino, con la sua guida da “uomo col cappello”,  fa venire i brividi gelati lungo la schiena. Avete presente quella categoria di automobilisti che, con il loro stile di guida, fanno dannare l’anima? Se si ha la sventura di incontrarne uno così, magari su una strada stretta e tutta curve, o – peggio – essere costretti a stargli dietro mentre arranca sui tornanti, non ci sarà alcun bisogno di usare la tenaglia per strapparvi dalla gola il peggior campionario di accidenti, riversandoglielo addosso. Perché quando si mette al volante un “uomo col cappello” sono guai seri. Non superano mai i trenta all’ora, viaggiano a centro strada, frenano in continuazione, pigiano continuamente il clacson. Impermeabili a tutto: impettiti, con gli avambracci tesi e le mani intente a strangolare il volante. In più, come un distintivo, l’immancabile copricapo ben calcato sulla nuca. In casi come questi il vero malcapitato sei tu, povero diavolo, costretto a guidare a passo d’uomo, alternando il piede da un pedale all’altro: acceleratore ,freno, frizione. Cambio. Freno, acceleratore. Attento a non tamponarlo,  roso dall’indecisione sull’eventuale sorpasso. Manovra, quest’ultima, caldamente sconsigliata: l’uomo col cappello può decidere di svoltare da un momento all’altro, senza preavviso e, dunque, senza mettere la freccia. L’assoluta certezza che lo anima è proporzionale all’incapacità che manifesta impugnando il volante. Dunque, mai sottovalutare chi guida con il cappello. Non conviene contraddirlo. Non mettetegli fretta, armatevi di pazienza e fatevene una ragione. Ecco, Mariolino è uno di questi. L’ esatto contrario del mito futurista della velocità. Più lento della lentezza ma senza alternativa: prendere o lasciare. Si vede proprio che chi nasce uomo d’acqua fa fatica a muoversi con quattro ruote sulla terraferma.

Marco Travaglini

Lo schioppo del “Butta la chiave”

La moglie, Dorina, dopo anni e anni di rassegnazione aveva deciso di “prendere provvedimenti”. Ed il più “gettonato” – e più efficace – tra questi consisteva nel lasciar fuori dall’uscio il marito ubriaco.

“Che stia in giro tutta notte, così smaltisce i fumi dell’alcool e si rende conto che sarà bene darsi una regolata, d’ora in poi”. A volte s’ingegnava a raggranellare qualche lira, accettando dei lavoretti di straforo. Fu uno di questi lavoretti a creare il guaio con l’Oreste Marluschini. Quest’ultimo aveva un grosso problema da risolvere: il suo camino non “tirava bene”.

Quando arrivava sotto casa , dopo una serata passata  con gli amici al circolo dove – immancabilmente – alzava un po’ troppo il gomito, erano urla e strepiti. Giacomo Rubagoni, muratore di origini bresciane, si era guadagnato così il soprannome “Butta la chiave”. La moglie, Dorina, dopo anni e anni di rassegnazione aveva deciso di “prendere provvedimenti”. Ed il più “gettonato” – e più efficace – tra questi consisteva nel lasciar fuori dall’uscio il marito ubriaco. “ Che stia in giro tutta notte, così smaltisce i fumi dell’alcool e si rende conto che sarà bene darsi una regolata, d’ora in poi”. Giacomo, ovviamente, non si rassegnava e si metteva ad urlare, sotto al sua finestra, la solita frase: “Butta la chiave,Dorina. Butta la chiave, boia d’un ladàr”. Bussava al portone, spaventava il cane del geometra Grillo  – mettendosi a latrare come un indemoniato – destava anche gli altri cani del vicinato che a quel punto formavano una vera e propria “cagnara”. Il “Butta la chiave” si sgolava ma Dorina da quell’orecchio non ci sentiva proprio. La chiave del suo cuore il marito l’aveva persa da tempo e lei non l’aveva ancora messo all’uscio solo per non dar sfogo alle malelingue. Ma da qui a sopportare le scenate dell’uomo, eh no: questo proprio non lo sopportava. O meglio, non lo sopportava più dopo averlo subito per tante, troppe volte. Sapeva bene che  Giacomo, ubriaco e traballante, aspettava solo il dischiudersi della porta per  attaccar briga e fare la  solita scena-madre. Così, il “Butta la chiave”, esaurita la scorta d’ossigeno che gli era rimasta dopo le libagioni e le urla, accortosi ormai dell’inutilità di quel suo gridare alla luna, se ne andava mestamente verso il lungolago. In questi casi ( cioè due o tre volte – in media – alla settimana ) si acconciava a passar la notte, come diceva all’indomani della sbornia, “in emergenza”. Quando il clima era più mite scendeva  giù per la scaletta che portava all’attracco delle barche sotto la passeggiata, sdraiandosi – preferibilmente – sull’assito della “Bella Gioia”, la barca del Carlìn “Frances”. Pescatore a tirlindana, il “Frances” ( che si era guadagnato il soprannome scaricando merci al porto di Tolone, in Francia) lo svegliava, scuotendolo, al rintocco delle cinque. E Giacomo, sbadigliando e “cristandogli” dietro, se ne andava a zonzo.

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Se, invece, faceva freddo e dal Mottarone veniva giù una bella “brisa” , s’infilava nel fienile del Mariolino “legnamèe”. Non era tanto distante: bastava salire verso Roncaro e ci si sbatteva quasi contro, in cima alla salita, dove finiva l’acciottolato. L’impresa più ardua era salire sulla scala di legno stando attenti a misurare i passi sugli scalini, aggrappato come un’edera al mancorrente. Sbagliarne uno significava farsi del male e Giacomo non si era fatto mancare nemmeno questo: grazie all’incrinature delle costole ed alle botte che gli avevano procurato dei bei “morelli” ( “le ecchimosi”, “gli ematomi”,avrebbe detto il dottor Segù) , ora “sentiva il tempo” che era un piacere. Ma il più delle volte, gli andava bene e si sdraiava sul fieno asciutto, vicino alla botola che dava sulla stalla. Era il posto migliore, grazie al tepore delle vacche che saliva da sotto. E lì sì che ronfava alla grande. Nessuno gli “rompeva le balle” fino al mattino tardi e la “ciucca” si smaltiva via liscia, senza il trauma del risveglio “forzato”. Se non avesse avuto il brutto vizio del bere, Giacomo Rubagoni sarebbe diventato, senza problemi, un buon capomastro. Ed invece, era rimasto seduto sul gradino più basso, quello del “magutt”, del muratore semplice. Oddio, non che fosse un disonore: quella del muratore era una professione non solo dignitosissima ma di grande utilità. Nel suo caso poi, grazie alla buona pratica ed al fatto che non si tirava indietro quando c’era da faticare, la “quindicina” che portava a casa dalla Dorina era tutt’altro che magra. Ovviamente , sua moglie provvedeva quasi subito a sequestrarla, evitando così che finisse in breve nelle tasche del Braschi, il banconiere del circolo, o del Luisin dell’Osteria di Quattro Cantoni. Lui borbottava un po’ ma non opponeva  che una debole ed incerta resistenza. A volte s’ingegnava a raggranellare qualche lira, accettando dei lavoretti di straforo.

Era il suo “argent de poche”: pochi spiccioli da trasformare in altrettanti calici di rosso del Monferrato. Fu uno di questi lavoretti a creare il guaio con l’Oreste Marluschini. Quest’ultimo aveva un grosso problema da risolvere: il suo camino non “tirava bene” ed il fumo, invece di uscire dal comignolo,”tornava indietro”, affumicando l’intera cucina. Aveva provato a pulirlo da solo ma senza successo. Di spazzacamini non ce n’erano in giro più. Non era più l’epoca in cui i piccoli rüsca, i bambini-spazzacamini, grazie alla loro esile statura riuscivano ad infilarsi nelle cappe , manovrando al buio con raspa e scopino, liberandole da scorie e fuliggine. Giacomo e Oreste provarono con gli attrezzi che aveva fornito loro l’anziano Umberto Rombini, che da giovane aveva fatto quella vita. Così, s diedero da fare con la raspa, il brischetin (lo scopino), il riccio ( un attrezzo di lame di ferro a raggiera, per raspare le canne fumarie ). Il Giacomo si era persino infilato nel camino, mettendosi in posizione quasi eretta dentro la cappa. Non vide, ovviamente, un fico secco e ne uscì “negar cuma’n scurbatt”, nero come un corvo, come una cornacchia. Non sapevano più che fare quando all’Oreste venne un’idea brillante: tirar via la pioda di sasso che chiudeva il comignolo e, da sotto, sparar su una scarica di pallettoni. Se c’era qualche impedimento, la fucilata avrebbe contribuito a disintegrarlo. Divisi i compiti ( l’Oreste sul tetto a rimuovere la copertura, il Giacomo con la doppietta in mano, pronto a far fuoco dentro al camino), procedettero. La piega che presero i fatti non fu, però,  quella desiderata. Nel spostare la “pioda”, all’Oreste – che stava a gambe larghe sul camino, puntando le gambe per “far forza” – sfuggì un “oooh!” che venne interpretato da Giacomo come il segnale del via. Seguì lo sparo, accompagnato all’istante dal grido di dolore di Oreste che finì investito dai pallettoni proprio nelle parti basse. Soccorso dall’amico e trasportato poi in ospedale, l’Oreste riportò a casa la ghirba ma non fu più , come dire, quello di prima. Nonostante l’incidente i due restarono amici e continuarono a frequentare il circolo e la stessa compagnia. Ad uno restò il rimpianto dell’ aver avuto quella sciagurata idea, all’altro la consolazione di non esser stato lui a fare quella bella “pensata”. All’Oreste, oltre al ricordo, rimase il problema di non aver più qualcos’altro.

 

Marco Travaglini