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IL RACCONTO- Pagina 3

La gita valdostana sul vecchio Fiat 314

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L’attesa, come ogni anno, si era fatta spasmodica con il passare dei giorni. L’appuntamento della gita parrocchiale – con il passare degli anni – era diventato la più importante occasione di cui potevano disporre gli abitanti del paese per respirare un po’ d’aria diversa, visitare qualche località, stare in compagnia.

 

Don Giusto, parroco di Sant’Anna, coadiuvato da Carlin e Isadora – il sacrestano e la fidatissima perpetua – dopo tanti viaggi nelle Langhe, tra le colline dell’astigiano e nelle campagne dell’Oltrepo pavese, aveva avanzato una proposta del tutto nuova. Ne discussero parecchio e alla fine decisero democraticamente, due contro uno: sarebbero andati in Valle d’Aosta, fino a Courmayeur.  Da subito si era registrata un’intesa tra il prelato e la sua assistente  mentre Carlin si espresse per  un itinerario “più tradizionale”. “Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia non sa quel che trova”, ripeté più volte, inascoltato. In realtà, le strade vecchie, negli anni precedenti, portavano dritte in mezzo alle vigne dei barbera, dei dolcetti e delle bonarde. E cosa c’era di meglio, a giudizio del Carlin, di un buon mezzo litro di quello buono? A spalleggiarlo, di solito, c’era il maestro Rubicondi, il quale – citando Molière – sosteneva come fosse grande “la fortuna di colui che possiede una buona bottiglia, un buon libro, un buon amico”. E loro due, libri a parte, erano grandi amici e, soprattutto, forti bevitori. Ma, per un caso fortuito, il maestro era costretto a letto per colpa di una brutta storta che si era procurato uscendo un po’ brillo dall’Osteria del Gatto Nero. Non aveva visto il gradino, inciampando e finendo lungo e tirato sul selciato. Senza l’aiuto e il sostegno dell’amico letterato, Carlin dovette soccombere all’altrui volere. Così la gita prese una via diversa da quelle a sfondo enologico anche se il sacrestano pensò che, in un modo o nell’altro, una puntata alle cantine della Vallée ci sarebbe scappata. Già prima dell’alba un piccolo gruppo si era dato appuntamento nella piazza, davanti  alla statua di Massimo d’Azeglio.

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L’attesa del torpedone li aveva resi insonni e tanto valeva, a quel punto, prepararsi  così da poter salire per primi sul mezzo e accaparrarsi i posti migliori, quelli davanti. Scarsamente abituati ai viaggi lunghi e immaginando una strada tutta curve, a scanso di equivoci e di fastidiosi mal d’auto, era consigliabile mettersi dietro al guidatore, con la strada bene in vista dal parabrezza dell’autobus. Carlin era tra questi. Sia lui che la moglie, Margherita, si erano tirati a lucido, con l’abito delle grandi occasioni. La consorte, oltre alla borsetta, aveva una grande sporta dove teneva il vettovagliamento necessario per quel viaggio. Tra i generi di conforto, nemmeno dovessero andare chissà dove, c’erano frittate, tomini elettrici, coregoni in carpione, capponatine di verdure, un paio di salami e di piccole tome, pane bianco e di segale. Ovviamente, ça va sans dire, un fiaschetto di quel vino che faceva resuscitare anche i morti.  Il torpedone arrivò puntualmente in ritardo di una buona mezz’ora e, brontolando sottovoce, la comitiva occupò tutti i posti disponibili, lasciando quello a fianco dell’autista a Don Giusto che sull’abito talare aveva indossato una vecchia giacca a vento nera. Partirono e dopo aver oltrepassato Ivrea, Montaldo Dora e Borgofranco, giunti nei pressi di Carema, si udirono i primi gemiti da parte di alcuni  passeggeri. Quel cartello che campeggiava all’ingresso del paese, “Fermati a Carema dove il tempo ha un sapore” era ben più che un invito per chi non vedeva l’ora di godersi la festa dell’uva, andar per cantine all’assaggio di quell’inebriante nebbiolo o sedersi al tavolo delle osterie. Il parroco, ben consapevole del significato di quei mugugni, non s’intenerì e invitando il conducente a proseguire, smorzò ogni speranza a coloro che pregustavano quel nettare rosso rubino. Nemmeno il tempo di una sosta lampo presso la piccola rivendita al minuto della signora Lina, tento il sacrestano con voce implorante? Don Giusto, ostinato e inflessibile, non rispose nemmeno, lanciando uno sguardo che non incenerì Carlin solo perché aveva bisogno del suo aiuto per tenere in ordine la sacrestia e la chiesa. Il vecchio Fiat 314  varcò il confine tra Piemonte e Valle d’Aosta ansimando. In breve si lasciò le spalle, dimostrando d’essere ancora in grado di svolgere la sua funzione dopo alcuni decenni di onorato servizio di linea, i primi paesi della Vallée. Il Forte di Bard, imponente fortezza costruita nel XIX secolo dai Savoia, dominava la valle dal suo strategico sperone roccioso, sbarrandone l’accesso. A bocca aperta, torcendosi il collo per guardar meglio le mura dai finestrini, gran parte dei partecipanti alla gita restarono incantati. I commenti  si sprecarono, al punto che passarono da Arnad velocemente, trovandosi alle porte di Verrès. L’unico ad accorgersi che avevano attraversato il paese del famoso lardo,  più immusonito che mai, era il povero Carlin. Ma dopo lo sgarbo di Carema, dal quel suo “don” non si aspettava più nulla di buono, almeno nel viaggio d’andata. Poi, per il resto, si sarebbe visto. Il torpedone faticò molto sulle rampe del Montjovet. La salita della Mongiovetta mise a dura prova i pistoni del motore del pullman che riprese la sua marcia regolare solo nei pressi di Saint Vincent ( lì nessuno ebbe da ridire: il casinò e il gioco d’azzardo non erano nelle corde e nelle possibilità dei gitanti). Il tratto da Chambave a Nus – con il castello medievale di Fénis, uno dei più famosi e meglio conservati d’Italia – venne “digerito” facilmente , una dozzina di chilometri più avanti, entrarono in Aosta. La visita all’antica Augusta Praetoria, la “Roma delle Alpi”, fu rapida. Don Giusto, basco in testa e passo garibaldino, guidò la comitiva della parrocchia di Sant’Anna dall’Arco di Augusto alla Porta Pretoria, attraversando la lastricata via Sant’Anselmo senza per star occhio a vetrine e botteghe. Un salto al Foro e al teatro romano, poi un giro in piazza Chanoux e l’immancabile preghiera nella Cattedrale di Santa Maria Assunta e San Giovanni Battista, con la sua facciata massiccia e i due campanili romanici. Il ritorno all’autobus fu ancor più rapido, con il gruppo sollecitato dal parroco che esortava “Dai, dai. Presto che è tardi! Passi lunghi e ben distesi che ci aspettano a Courmayeur per il pranzo!”. Poco meno di quaranta chilometri sulla Statale 26 furono percorsi in un soffio, passando da Sarre, Saint Pierre, Morgex.

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Forse fu la fame ( nonostante gran parte delle provviste, preparate per la merenda del ritorno, fossero già state consumate) ma l’arrivo a Courmayeur venne salutato da un gran applauso. Il signor Del Grosso, l’autista, si guadagnò delle robuste pacche sulle spalle, mostrando però di non gradire tutto quell’entusiasmo. Allo Chalet de la bonne cuisine, il cuoco – monsieur Vittoz – aveva preparato una grande tavolata, riservando la sala più spaziosa alla comitiva canavesana. Don Giusto fece accomodare tutti e chiese un minuto di silenzio e raccoglimento in preghiera. A voce bassa, il prelato disse: “Guarda con bontà, o Signore, e benedici questo cibo e tutti coloro che l’hanno preparato; aiutaci a condividere il nostro pane con tutti i poveri del mondo”. Dopo aver fatto tutti il segno della croce, iniziarono il pranzo. E, come promesso nei giorni precedenti, il banchetto fu davvero memorabile. Dopo gli antipasti con i salumi tipici – dal lardo d’Arnad al prosciutto alla brace, dalle mocette ai boudins – si passò al primo: una scodella di pèilà, la minestra di farina di segale e di frumento, con pane, fontina e burro. “Una cosina leggera,eh!”, disse la signora Margherita che però non ne lasciò nemmeno un’ombra. La seconda portata fu molto apprezzata. E a chi non piaceva la carbonade? Antico piatto di montagna a base di carne bovina salata a lungo e  cotta lentamente con aglio e lardo affumicato. Preparata con il vino rosso, sparì in un battibaleno. Poi, per gli stomaci più resistenti, quelli che il prevosto amava definire “i mai sazi”, una larga fetta di polenta con fontina e toma ( quella locale, poiché l’altra e più famosa, quella di Gressoney, era finita). Come dolce, per tutti, le tegole valdostane, celebri gallette di pasta di mandorle. E il vino? In fondo – da Carema in poi – l’attesa per quel nettare d’uva andava in qualche modo compensata. E così venne servito  dell’Enfer rosso, prodotto nelle vigne di Arvier. Sul nome, Don Giusto ebbe da ridire ma si trovò d’accordo sulla sua ottima qualità con il suo sacrestano, sentenziando un po’ brillo “A chi non piace il vino, il Signore faccia mancare l’acqua”. Si pentì, chiese perdono per quell’improvvida frase e, con fare mesto, se ne versò un altro bicchiere. Al termine del pranzo – sorbiti caffè e una grappa o un génépy come ammazza-caffè – raccolsero le loro cose predisponendosi al ritorno. Una breve sosta venne dedicata per una visita e una preghiera al Santuario di Notre Dame di Rochefort, poco distante da Arvier. E poi, via. In discesa, verso Aosta e il canavese, con il vecchio Fiat 314 affidato alle cure di Ausilio Del Grosso che, da autista provetto e responsabile, si era limitato ad un solo bicchier di vino e agli antipasti. Giunsero al calar delle prime luci della sera nella piazza dove, insensibile al tempo e alle stagioni, li aspettava la statua del grande statista  Massimo Taparelli. Si salutarono, congedando l’autista che doveva condurre il mezzo alla rimessa di Ivrea. Don Giusto era contento e strinse la mano a tutti, ringraziandoli per la compagnia e per l’ottimo contegno che avevano dimostrato. “ Ah, cari miei. Se il buon D’Azeglio, ai tempi suoi e di Cavour avesse potuto contare su dei concittadini così in gamba, in quel suo dire – “Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di fare gli italiani” – avrebbe inserito una nota di speranza in più”, disse il prelato. In qualche sguardo s’intuì un cenno di commozione e a un paio di gentildonne scese una lacrima fugace. Solo Margherita lanciò uno sguardo torvo al suo Carlin che, quatto quatto, se ne stava andando verso l’Osteria del Gatto Nero a verificare se almeno lì c’era traccia di quel Carema che avrebbe voluto sorseggiare e che gli era rimasto in mente come un desiderio inappagato.

 

Marco Travaglini

Polenta e coniglio

Difficile, per noi,  far politica in valle. A l’è  düra cume un ciod, cari miei…è dura come un chiodo”. Sconsolato, con il capo a ciondoloni, Mario dava voce alla sensazione che ci eravamo fatti un po’ tutti, alla sezione omegnese del PCI

 Diffidenti, poco inclini a prestar orecchio ai forestieri quant’anche venissero dal fondovalle, da Omegna e non da chissà dove, gli abitanti di Germagno, Loreglia, Strona e Massiola – frazioni comprese  – erano oltretutto legati a doppio filo ai loro parroci. Se, qualche anno prima, durante i mesi duri della lotta partigiana e nell’immediato dopoguerra, qualche spiraglio c’era, in quest’autunno del 1949 era scesa su noi un’opprimente  cappa di silenzio e di ostilità. Che fossero un po’bigotti e baciapile era risaputo ma, dopo la pubblicazione del decreto del Santo Uffizio con cui s’annunciava la nostra scomunica, ci fecero attorno terra bruciata. In tutti i paesi era stato affisso dalla Curia Vescovile un manifesto grigiastro che recitava, parola per parola, così: “Avviso. E’ peccato grave: 1) Iscriversi al Partito Comunista; 2) Favorirlo in qualsiasi modo, specie col voto; 3) Leggere la stampa comunista; 4) Propagare la stampa comunista. Quindi non si può ricevere l’assoluzione se non si è pentiti e fermamente disposti a non commetterlo più. Chi, iscritto o no al Partito Comunista, ne ammette la dottrina marxista, atea ed anticristiana e ne fa propaganda, è APOSTATA DALLA FEDE E SCOMUNICATO e non può essere assolto che dalla Santa Sede. Quanto si è detto per il Partito Comunista deve estendersi agli altri Partiti che fanno causa comune con esso. Il Signore illumini e conceda ai colpevoli in materia tanto grave, il pieno ravvedimento, poiché è in pericolo la stessa salvezza dell’eternità”. Parole come pietre, che non ammettevano replica e bollavano a fuoco chi, come noi e come i socialisti, provavano a dire la loro all’ombra di quei campanili. Ma ci voleva ben altro per scoraggiarci e così, insieme a Mario e agli altri, cercammo di escogitare uno stratagemma. Di incontri pubblici manco a parlarne. Ci avevamo provato più volte ma, una volta trovata a fatica la sala,  andavano quasi deserti. Gli unici partecipanti, in tutta la valle, erano sei reprobi che ogni volta osavano sfidare gli sguardi di condanna, rispondendo all’appello del partito. Erano Giuseppe Pialla e suo fratello Carlino, entrambi operai di fonderia alla Cobianchi, due cugini boscaioli che stavano a Luzzogno, i Giovannini, originari della Valsesia, il vecchio Libero, ex fuochista delle ferrovie, e suo cognato Lorenzo, detto “Lorenzone pignatta”. Quest’ultimo, tra i più bravi gratagamul  della”val di cazzuji“, la valle dei cucchiai di legno, era uno di quei artigiani che , come il mastro Geppetto di Pinocchio, da un tronco ricavava qualsiasi oggetto. Tutti e sei rappresentavano il passato e il presente dei comunisti in valle. E, se non si escogitava qualcosa per allargare il cerchio, anche il futuro. Fu proprio il “pignatta” ad avere l’illuminazione, complice la sua fama di gran mangione testimoniata dai suoi centotrenta chili per un metro e sessanta scarsi d’altezza. Non propriamente una silhouette, la sua, considerato che era più largo che alto. “Polenta e coniglio! Ecco cosa ci vuole”, sbottò Lorenzone dandosi una manata in fronte. In breve fummo tutti informati della bella pensata. “Statemi a sentire. Se non li possiamo prendere per la coscienza, visto che rispondono solo a quella che gli inculca il prete, proviamo a stimolar loro l’appetito, prendendoli per la gola”. Propose, quindi, di organizzare una serata  al Circolo di Fornero , invitando tutti ad una cena a base, appunto, di polenta e coniglio. Per i primi, si rese disponibile il Magretti che, a Borca, in fondo a via Repubblica, ne allevava almeno tre dozzine. “Per il partito ne metto a disposizione un terzo, va là…a prezzo politico, s’intende”. La polenta era affare di Libero e del “Pignatta” che avevano ereditato dallo zio Franchino un enorme paiolo di rame che faceva proprio al caso loro. Così, aiutati dai compagni, si misero all’opera. Vennero preparati dei grandi manifesti dove, appena sotto la data, il posto e l’ora, in piccolo si poteva leggere la frase “Incontro pubblico con l’onorevole Figurelli” e in grassetto, a caratteri cubitali da riempire per più della metà lo spazio, l’irresistibile richiamo: “Polenta e Coniglio”. L’idea era piaciuta al nostro deputato che, memore della sua esperienza di comandante partigiano, era sempre pronto a ricercare le strategie migliori per ottenere il risultato desiderato. “ Il fine giustifica i mezzi, cari compagni”, sentenziò, parafrasando il Macchiavelli e allungano una gran manata sulla spalla del “Pignatta” che gongolava dalla felicità, potendo rivendicare la paternità dell’idea .La sera della cena fu un successo inaspettato. Parteciparono più di ottanta persone e due terzi erano della valle. Alla fine, sazi e un po’ su di giri grazie alle due damigiane di vinello sacrificate sul campo di battaglia, la maggior parte applaudì il breve discorso dell’onorevole Figurelli.  Se, come dicevano in sacrestia, “nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede e Stalin no”, per quanto riguardò il salone del Circolo – non essendo sede di seggio e nemmeno periodo d’elezioni –  ci fu senz’altro una deroga, suggerita dalla fame e dal profumo che emanava  dall’azzeccato connubio tra la fumante polenta e il coniglio in umido. In fondo, si disse in paese, “i comunisti non sono poi così cattivi come dice il Don Gaudenzio. Non hanno mangiato nessuno ma semmai hanno dato loro da mangiare. La prossima volta chissà che cosa porterà in valle quell’onorevole. Magari trote in campione e frittura d’alborelle… Va là che dev’essere una brava persona anche lui, nonostante sia un po’ mangiapreti”.

Marco Travaglini

 

Luce rossa ad est

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A Firenze, in occasione del 17° congresso del Pci, nella prima metà dell’aprile 1986, erano stati invitati quasi tutti i veterani.

A loro erano stati riservati anche degli eventi  “collaterali”  pensati per il gruppo di iscritti che avevano condiviso le sorti del più grande partito della sinistra italiana fin dal 1921, anno della fondazione del Pcd’I a Livorno. Erano i reduci della pattuglia che il 21 gennaio di quell’anno, abbandonando il teatro Goldoni dove si teneva il XVII Congresso del Partito Socialista Italiano per raggiungere il Teatro San Marco con la frazione comunista capitanata da Amadeo Bordiga (alla presenza, tra gli altri, di Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti) avevano contribuito alla nascita del Partito comunista d’Italia che di lì a poco entrò in clandestinità a causa della vittoria del fascismo. In molti, sopravvissuti alle guerre del ‘900 e a mille peripezie, era rimasto nitido il ricordo di quell’evento che si consumò nel cuore del vecchio quartiere livornese della Venezia dove sorgeva il teatro San Marco, distrutto durante i bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale, del quale rimanevano solo i resti della facciata principale e di alcuni muri perimetrali. C’era sempre chi, nelle ricorrenze, depositava qualche fiore davanti alla lapide commemorativa che era stata collocata nel 1949 dai comunisti livornesi per il 28° anniversario. Come già detto, il 17esimo congresso nazionale comunista al Palazzo dello sport fiorentino (oltre mille delegati, 105 delegazioni estere, 1500 invitati, 586 giornalisti accreditati), aperto dalla relazione di Alessandro Natta che aveva assunto la guida del partito dopo la tragica morte di Berlinguer, aveva riservato alla “vecchia guardia” delle iniziative specifiche. Dibattiti, visite guidate alla città che ospitava i capolavori dell’arte e dell’architettura rinascimentale e sui celebri colli che la circondavano, appuntamenti gastronomici e mostre. Il folto calendario prevedeva anche una proiezione di un film cecoslovacco semiclandestino che celebrava la primavera di Praga. Mario ( useremo un nome di fantasia, celando la vera identità del protagonista – NdR) , classe 1899, comandante partigiano che a dispetto dell’età non aveva scordato il suo passo garibaldino, terminata la cena imboccò il viale che portava al cinema Moderno dove era prevista la visione della pellicola.

Il cartellone davanti al cinema non riportava titolo o immagini ma solo una grande scritta rossa in campo bianco sul manifesto 70 x 100: Luce Rossa. Mario che era stato l’ultima volta al cinema un bel po di anni prima per assistere alla proiezione di Riso amaro, spettacolare capolavoro del neorealismo girato interamente con le mondine  nelle risaie vercellesi. Un film-culto, diretto da Giuseppe De Santis nel 1949, con una superba e sensuale Silvana Mangano, Vittorio Gassman e Raf Vallone. Evidentemente anche questa pellicola aveva un tratto sociale ben marcato e lo stesso titolo, quel Luce Rossa che nella sua disarmante semplicità faceva intravedere l’inequivocabile messaggio politico che la trama senz’altro avrebbe offerto al pubblico che già s’immaginava ben folto e ancor meglio orientato. Appena varcato la soglia del cinema, incontrò nell’atrio una signora bionda che non aveva certo risparmiato il trucco sul suo volto non più freschissimo. Vedendo Mario puntare deciso verso il pesante tendone verde scuro che chiudeva l’accesso alla sala, la signora uscì dal botteghino rivolgendogli un acuto “Senta un po’ , lei. Dove crede di andare, senza il biglietto?”. Mario, sfoderando un largo sorriso, rispose: “Mi hanno detto che il biglietto non serve, bella signora. Sono un veterano!”. La bionda rimase di stucco, incapace di reagire. E lui entrò, salutandola con un garbato inchino. Il giorno dopo, a chi gli chiedeva come fosse stato il film, non ebbe dubbi. “ Ci sono stati molti cambiamenti in Cecoslovacchia. Ho intravisto grattacieli altissimi ma soprattutto delle scene che non avrei mai pensato che fossero possibili in un film. Ho ottantasette anni ma così tanti seni e sederi, in vita mia, non ne avevo mai visti e per di più tutti insieme. Se quella è stata la primavera, chissà come sarebbe stata calda, anzi torrida, l’estate da quelle parti”. Nessuno osò ribattere. Nemmeno per comunicare al malcapitato che aveva sbagliato posto e serata.

Marco Travaglini

Valontan

A Brunello Martoccini era nato un figlio. Una bella notizia per  l’anziano zio, il signor Virgilio Borlazza, che viveva a Romentino, nel novarese. Contadino in pensione, Virgilio, aveva promesso al nipote che avrebbe fatto da padrino al battesimo del primo figlio

Brunello, nel frattempo, si era trasferito a Torino. Quindi era lì, nella capitale sabauda, che doveva recarsi.  Nessun problema, a parte uno. In verità non un grande problema ma piuttosto, come dire?, delicato: il mal d’auto che Virgilio soffriva con particolare disagio. Anche da giovane, quando capitava di prendere la corriera alla fermata, davanti al cascinale dei Borlazza, appena messo il piede sul gradino avvertiva quel malessere che agguanta lo stomaco e lo strizza ben bene. “Comunque, la parola data va mantenuta”. E  il signor Virgilio non era uomo da venir meno alle promesse. “Piuttosto faccio il viaggio con la testa fuori dal finestrino ma quando il prete bagna la testa dell’Edoardo(questo il nome  scelto per l’erede di casa Martoccini)  devo esser lì, altro che balle!”, affermava deciso l’anziano contadino.La moglie , la signora Adele, doveva ritirare dei medicinali prescritti dal medico e , cogliendo al balzo l’occasione, per non perder tempo,  lo spedì in farmacia , raccomandandogli di acquistare anche delle pillole utili a contrastare quella fastidiosa nausea che alcuni, come lui, provavano durante i lunghi viaggi in automobile. Virgilio non si fece pregare, consapevole com’era che le decisioni della moglie erano irrevocabili e che a nulla sarebbe valso opporvi resistenza. Dunque, andò. In pochi minuti, raggiunta la farmacia e varcata la soglia, si trovò una sorpresa che avrebbe voluto evitare: dietro al bancone non c’era il farmacista D’Intrugli ma sua moglie, una signora un po’ impicciona e molto, ma molto curiosa.“Oddio, proprio quella lì mi toccava d’incontrare. E’ quasi peggio dell’Ercolino, quel gran rompiballe di mio nipote ”, sospirò Virgilio. Dopo lo scambio di saluti , molto formale e piuttosto freddino,  l’anziano allungò la ricetta sul bancone  e aggiunse: “..mi servono anche le pastiglie per l’auto”.  La moglie del farmacista, alzando gli occhi dal foglio, lo guardò negli occhi e chiese: “Valontan?”. Virgilio, contrariato per la domanda, borbottò dentro di sé..”Eccola qua, la curiosa. Vuol sapere dove vado,eh? Ma io non gli dico un bel niente”. E stette zitto. La signora intanto, voltando le spalle all’anziano,  cercava sugli scaffali le medicine, mormorando  tra sè e sè , “Valontan”.Virgilio, che aveva l’udito buono, a dispetto dell’età,  scosse la testa e pensò: “Di nuovo. Eccola che insiste. Non riesce proprio a farsi i fatti suoi…Ma io starò muto come una tomba e la soddisfazione di dirle dove devo andare proprio non gliela dò”. La farmacista, raccolte le confezioni sul bancone, rilesse quanto stava scritto sulla ricetta.. “Allora, vediamo un po’. Supposte di glicerina..sì..sciroppo per la tosse..eccolo.. antibiotico e antipiretico sono qui. Ah… ecco..Valontan”.Virgilio, esasperato dall’invadenza, rispose seccato: “Vado a Torino. Contenta, adesso? ”.La signora, sgranando gli occhi, disse:”Ma signor Virgilio, io non volevo sapere dove andrà lei. Valontan è il nome delle pastiglie”. L’anziano però non le credette. Pagò le medicine, ritirò la merce e lo scontrino e, prima di andarsene le disse: “Eh, sì! Altro che non vuol saperlo, la scìura farmacista. Ma se me l’ha chiesto tre volte, cara Madonna!  Farsi i fatti propri mai, eh..? Buongiorno”.

Marco Travaglini

La premiata ditta della Rosa Scarlatta

La signora Amelia era davvero una gran signora. Nonostante la non più giovane età era sempre, quotidianamente, in piena attività. Il portamento aveva un tratto che poteva definirsi persino nobile, se non fosse per il trucco troppo accentuato.

Non ho mai capito perché non fosse considerata per la grande disponibilità che, in tanti decenni, aveva dimostrato nel risolvere i problemi altrui. Specialmente, se non addirittura in via esclusiva, quelli di tanti uomini d’ogni età ed estrazione sociale. Forse perché svolgeva il mestiere più antico del mondo? C’era, nel non considerarne fino in fondo la delicata funzione che – senza false ipocrisie e dubbi moralismi – le avrebbe fatto meritare se non un attestato di benemerenza almeno una più generica riconoscenza, qualcosa di profondamente immorale. Sì, immorale. Come non tener conto che la signora Amelia, in arte  “Rosa Scarlatta“, aveva svolto in condizioni non propriamente agevoli e spesso senza entusiasmo, una funzione – per così dire – “sociale” a beneficio di buona parte della comunità di sesso maschile non solo bavenese ma anche stresiana e di chissà quanti altri comuni che si affacciano sulle rive del Verbano. Dopo una fase d’avvio della propria impresa, sotto “padrona”,  in una di quelle case che non andavano nominate per non inciampare nella già citata “morale”, appena superati i venticinque anni, si mise in proprio. Sì, perché la “premiata ditta della Rosa Scarlatta”, alla prova di quello che potremmo definire come “il mercato”, dimostrò competenza, professionalità e spirito d’iniziativa. Con una sorprendente dose di “savoir-faire” che, nel breve volgere di qualche anno, le fece guadagnare rispetto e simpatia.

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Ovviamente, non da parte di tutti. Le signore, anch’esse senza distinzione d’età, la guardavano in malo modo, commentando con parole poco garbate e lusinghiere le sue “gesta” e commiserando energicamente  quella sua “professione” che – detta da loro – “turbava la quiete delle famiglie e portava discredito all’intera comunità”.Non ho mai fatto caso al fatto che potessero avere torto o ragione. Forse, a ben guardare, ci stavano sia l’una che l’altra. Certo è che la signora Amelia non prestava molto orecchio alle chiacchiere, meno che meno a quelle più malevole. “Io professo e tiro dritto. Non rompo le scatole e pago le tasse. Dopotutto sono i loro uomini che mi cercano. Se non volessero basterebbe, quando gli chiedo se sono d’accordo a darmi una mano a tener aperta l’impresa, dire di no. Non li obbligo certo io a fermarsi, lungo la strada che, a volte, è persino accaduto qualche tamponamento. Una volta, tra due bei tipi, son volate persino parole grosse e qualche sberlone, per stabilire a chi toccava per primo a far la propria parte“. Eppure, come mi raccontava il Carlino di Loita, la “nostra” Amelia aveva dato fatto fare il salto tra l’adolescenza e l’età adulta ad un bel po’ di ragazzi, accompagnandoli alla scoperta di se stessi durante la loro pubertà. “ Tu, che sei ragioniere e hai studiato, dai, dimmelo un po’ tu: ti par possibile che, per aver fatto del bene, in anni in cui c’era ancora tanta ignoranza e tanto pregiudizio, si debba essere considerati come dei delinquenti, come dei poco di buono?“. Il Carlino, a differenza di me e di tanti altri, faceva parte della schiera di quelli che avevano “provato” a fare i conti con l’impresa della Rosa Scarlatta e si erano dichiarati soddisfatti. Non sopportava l’ipocrisia dei benpensanti. Gli faceva saltare la mosca al naso. “Roba da matt. In sempar lì a criticà a destra e sinistra, a cùra in gesa a confessare i peccati per poi, lasciato alle spalle il portone e svoltato l’angolo, a fare di nuovi”. E sgranava giù, come un rosario, i tanti peccati che le “signore-bene”, come le chiamava lui, erano d’uso commettere: accidia, avarizia, invidia, superbia,ira. La lussuria, invece, era – secondo lui – praticata dai loro compagni benché a loro stesse suscitasse ( senza dirlo, senza ammetterlo, per carità..) ben più che un vago interesse e ben più che un semplice desiderio. In materia, però, nessuna poteva battere l’offerta della “premiata ditta” individuale che faceva capo alla signora Amelia.

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Vera e propria artigiana del piacere, con una carriera ultra decennale sulle spalle, non temeva la concorrenza di quelle povere dilettanti. Così andò avanti e indietro, per un bel po’ d’anni, sulla litoranea del lago Maggiore. Sempre in ghingheri, sempre a testa alta, mostrando fieramente la sua “impresa” anche se il tempo l’aveva ormai irrimediabilmente consumata. Finché , da un giorno con l’altro, non si vide più. Come dire? Sparita. Volatilizzata. Puff..! Più o meno come la colomba nelle mani di un prestigiatore. Solo dopo un annetto si seppe che si era “ritirata” in una casa di riposo sulle rive del lago d’Orta. L’andirivieni l’aveva logorata e le gambe gli cedevano. Così, per non farsi commiserare del tutto e lasciare un buon ricordo di sé, se n’era andata senza neanche fare un “ciao” ai suoi vecchi amici, ai “clienti” più fidati che erano anch’essi cresciuti ed invecchiati con lei. Il Giustino propose addirittura a quel deputato che aveva potuto godere in gioventù, pure lui, dell’attività della “premiata ditta”, un intervento affinché fosse riconosciuto alla signora Amelia se non proprio la pensione almeno un piccolo vitalizio, come segno tangibile della riconoscenza nei confronti di una persona che aveva fatto molto nel campo del “sociale”. Dopotutto, diceva il Giustino, “l’Amelia di marchette ne ha messe insieme un bel po’ che bastano ed avanzano per la pensione“. Forse in altri paesi, dove la mentalità è più aperta e tollerante, la “premiata ditta” della signora Amelia sarebbe stata riconosciuta alla stregua di un servizio sociale e le prestazioni sarebbero state, con ogni probabilità, prescritte dal servizio sanitario e quindi mutuabili. Ma, per sua sfortuna, e per disappunto dei più tra i suoi “beneficiati”, questo non si rese possibile. E così non se ne fece un bel nulla. L’onorevole allargò le braccia e chiese, in relazione al suo passato, l’omissis o – quantomeno – una corretta applicazione della privacy. Le ormai vecchie iraconde, rinsecchite e acide, continuarono a pensare il peggio del peggio e, in fondo al cuor loro, a provare invidia per quella “impresaria” che si era fatta dal niente, utilizzando al meglio le doti naturali che aveva avuto in dono dalla nascita. I suoi clienti rimasero con i loro ricordi e con il rimpianto, forse, di non aver potuto approfittare più quanto non avessero fatto delle offerte di quella gran professionista del piacere altrui. Che dirvi, ancora?  La signora Amelia se n’è andata per sempre. E’ ormai da un paio d’anni che, come è d’uso dire, “ha lasciato questa valle di lacrime“. Probabilmente, essendo – a dispetto di chi la mal giudicava – credente e praticante, è salita direttamente in paradiso. Ci sarà pure un angolino anche per chi, come lei, ha operato tutta la vita per far felici gli altri rinunciando, almeno in parte, alla felicità propria. O no?

Marco Travaglini

Notte brava al “Calamaro Jazz”

L’idea di andare a fare una scampagnata a Genova era venuta allo Sterlazza. “Una bella botta di vita ce la siamo ben meritata, no?”, esordì alla riunione della Sezione di Zerbolò, appoggiato al bancone del baretto mentre sorseggiava una regolarissima “panaché”, con tre quarti di birra e uno di gazzosa.

In fondo, oltre alle riunioni, ai tornei di calcetto nei paesi della Lomellina e alla Festa de L’Unità, qualche puntata a Pavia o Mortara, la loro vita – dello Sterlazza e dei suoi amici – si consumava tutta lì, tra casa, campo sportivo, circolo Operaio e sezione intitolata a Gaspare Lunelli, comandante partigiano del pavese . L’organizzazione del viaggio verso il mare venne assegnata a Gaudenzio Sparagnetti, sacrestano di San Bartolomeo, detto il “cattocomunista”.

Per risparmiare era stato scelto il treno, da Pavia ad Alessandria e da lì dritti verso Frugarolo,Novi, Serravalle, Arquata, Ronco Scrivia e – finalmente! – Genova, la Superba. La visita alla città e il pernottamento si stabilì fossero compito dello Sterlazza, che vantava maggior dimestichezza con le “cose di mondo”, come diceva spesso, aggiungendo la sua intercalazione preferita: “Cavolo in fiore!”. Così, Sparagnetti, Sterlazza e Vito Sangiusti, il custode del campo sportivo di Zerbolò e factotum del Comune ( era l’unico dipendente e s’arrangiava in tutti i ruoli, dal messo all’operatore ecologico), partirono all’avventura. Giunti a Novi ligure, Sterlazza abbassò il finestrino del vagone e, respirando avidamente l’aria, esclamò: “Cavolo in fiore! Si sente già l’odore del mare. Sentite che roba!”. Amleto Scavardi, capostazione di Novi, lo guardò dalla banchina scuotendo la testa. Era giorno di mercato e lì, a pochi passi dalla stazione, sostavano l’acciugaio di Masone e il pescivendolo di Arquata, con i loro prodotti e i loro “profumi”. Ma l’entusiasmo dello Sterlazza era incontenibile . “E’ il vento che scende dal Turchino che porta fin qua l’odore del mare. Bello, eh?”. Gridava con voce tonante, sferrando tremende manate sulle spalle di Gaudenzio che subiva l’irruenza del compagno, emettendo lievi lamenti. A Genova Principe, appena usciti dalla stazione, s’incamminarono verso il Porto antico e da lì, per tutta la giornata, si persero tra i carruggi dei sestieri del centro storico, tra scalinate e bettole, il Lagaccio e Prè, la Maddalena e San Nicola, fino a Sampierdarena e alla Lanterna. Finirono la serata in un night-club e poi, stanchi e su di giri,a dormire in un alberghetto di Piazza Caricamento dove, a dire dello Sterlazza, si pernottava con poca spesa. Al loro ritorno furono in tanti i zerbolesi che, in preda alla curiosità e rosi dall’invidia, vollero sapere per filo e per segno i particolari di quel viaggio verso la città del mare. I tre non si fecero pregare e raccontarono le loro peripezie genovesi con un’enfasi che nemmeno Marco Polo fece trasparire dalle cronache dei sui viaggi raccolte ne “Il Milione”. Cos’avevano mangiato e bevuto, quali vie, monumenti e chiese avessero visitato e poi le persone incontrate, le cose curiose, il viaggio. Gaudenzio e Vito rispondevano alle domande un po’ intimiditi, quasi schernendosi. Sterlazza, invece, si sentiva a suo agio nel ruolo del narratore e teneva banco con la sua voce acuta e un po’ sgraziata, mitragliando a destra e sinistra i suoi “cavolo in fiore”, pavoneggiandosi per l’idea della trasferta in terra ligure. Alla domanda di Eugenio su quale fosse stata la cosa più incredibile che era capitato loro di vedere, si trovarono d’accordo su di un fatto accaduto quando,a sera inoltrata, erano finiti in quel locale notturno. Lì, mentre Sparagnetti e Sangiusti sorseggiavano l’ultimo amaro della giornata, Sterlazza era andato in bagno per espletare delle impellenti necessità idrauliche e lì, con grande sorpresa, si era trovato di fronte ad un water luccicante. “Non era di ceramica ma d’oro! Stupiti, eh? Era proprio un cesso d’oro zecchino. E io l’ho fatta lì. Che città, Genova!”. Sterlazza gonfiava il petto, compiaciuto. E chi lo ascoltava rimaneva lì, a bocca aperta. Così, in un crescendo di particolari che, con il passar del tempo, diventarono sempre più straordinari e unici, altri tre o quattro del paese decisero di avventurarsi a Genova sulle orme dei tre concittadini che, come esploratori, avevano aperto i loro occhi su di un mondo nuovo e meraviglioso. Detto e fatto, partirono e – giunti a Genova –  girarono per la città, guidati dallo Sterlazza che si era offerto come capo-comitiva. “Mi raccomando, non perdetemi di vista. Fate come facevano gli scout quand’ero giovane, eh. Seguire il capo senza indugio e senza troppe domande che vi faccio vivere io un’esperienza indimenticabile”. Sterlazza li portò ovunque ma non riuscì a trovare il locale dotato di quella rarità. Solo a tarda sera, ormai stanchi e un po’ sfiduciati, raggiunsero il “Calamaro Jazz”. Era quello il locale dove i sanitari erano del prezioso metallo, assicurò il Sterlazza. Entrarono e, dopo aver consumato, si avvicendarono al bagno senza però trovare il prezioso vaso sanitario. Che non fosse il locale giusto? Eppure Sterlazza era quasi certo di non sbagliare. Quasi, a dire il vero. Così, per togliersi ogni dubbio, avvicinandosi con cautela ad un cameriere, sussurrò: “Senta, mi sa dire dov’è il cesso d’oro dove, un paio di settimane fa, mi è capitato di fare i miei bisogni?”. “Ah, il cesso d’oro”, eh..rispose, sorridendo, il cameriere. E, ad alta voce, si rivolse ad uno degli orchestrali che stavano provando i loro strumenti:” Mario, vieni un po’ qui. Ho trovato quello che ti ha pisciato nel sassofono”. Cacciati a malo modo dal “Calamaro Jazz”, la comitiva degli zerbolesi tornò al paese. Il più mogio e silenzioso era proprio quel “cavolo” dello Sterlazza. E dire che poteva vantare un mezzo record: nessuno prima e nemmeno dopo di lui riuscì a fare ciò che aveva fatto, soddisfando in quel modo le sue più intime necessità.

Marco Travaglini

Ne è valsa la pena?

Faceva freddo in quella stalla abbandonata. Dai muri tirati su a secco entrava un’aria gelida, sibilata dal vento che quella notte di fine inverno del 1944 turbinava neve. Attorno a quel tavolo di fortuna, combinato da due vecchie assi poggiate su malfermi cavalletti di legno ci trovammo a parlare del futuro, di ciò che ci attendeva. Eravamo in tre: io, Giorgio e Renato.

La cera liquefatta della candela si era rappresa in pallide lacrime e le parole scorrevano veloci. Quando sarebbe finito l’incubo della guerra, dell’occupazione dei tedeschi, dell’arroganza dei fascisti della repubblica sociale con quei ghigni e i simboli delle teste da morto? L’Italia sarebbe tornata come prima del fascismo o sarebbe cambiata davvero? Certo, volevamo la libertà ma non si combatteva solo per questa ragione. “Il nostro obiettivo è tenere insieme, come una cosa sola, libertà e democrazia”, diceva Giorgio. “ Non è possibile che le cose rimangano come ai tempi dello Statuto Albertino. Non basta che ci sia un sovrano che conceda di sua iniziativa, che bontà, i diritti al popolo. Anzi. Non va nemmeno bene che ci sia un Re, la monarchia, i Savoia a decidere e comandare. Quelli sono scappati all’8 settembre lasciandosi alle spalle un paese dilaniato, distrutto, occupato. Prima hanno aperto le porte al Duce, poi all’avventura della guerra, lasciando l’esercito in rotta, e ora dovremmo accoglierli ancora, perdonando tutto? Nemmeno per idea!”. Picchiò un pugno sul tavolaccio, facendo tremare la candela che prontamente presi al volo. Su quel punto eravamo tutti d’accordo: non avevamo preso le armi per cacciare fascisti e tedeschi e poi tornare ad essere sudditi. C’erano giornate in quel duro inverno dove si aggiravano gli occupanti armati fino ai denti, e non era il caso di uscire allo scoperto; altri ancora dove si preparava o si effettuava un agguato o un’azione particolare.

Nei lunghi periodi di inattività eravamo impegnati anche in grandi discussioni dove si parlava del futuro, di come lo si immaginava. L’idea su cosa avrebbe dovuto essere il domani, anche per istinto, non era certo riflessa dalle immagini del passato, di prima del fascismo, ma autorizzava ad immaginare l’avvento di qualche cosa di completamente diverso che chiamavamo genericamente democrazia, cioè un Paese senza dittatura, senza imposizioni, senza violenza. A volte penso a quella sera e alle altre passate a discutere, quando l’inattività era obbligata dal bisogno di attendere o dalle pessime condizioni del tempo, e  vedendo quest’Italia piatta, meschina, ignorante mi scopro a pensare chi ce l’avesse fatto fare. Poi, superato lo scoramento, mi vengono in mente le parole di Renato quando diceva che non bisognava illudersi, che le cose sarebbero sì cambiate ma che non c’era conquista che sarebbe stata ottenuta una volta per tutte, che per noi che volevamo cambiare la società, che aspiravamo a cambiare il mondo non ci sarebbe mai stato congedo.  Quante volte ci siamo ritrovarti da anziani in tutti questi anni. Noi, i sopravvissuti, con i capelli bianchi e le ossa stanche. Noi che avevamo fatto saltare i ponti; con queste mani tremanti che un giorno avevano lanciato bombe a mano. Condividendo paure, ansie e speranze con quelle ragazze dallo sguardo deciso che da signore, madri, nonne e bisnonne è diventato più dolce e mite, capaci  in quei tempi da lupi di nascondere pistole, portare messaggi, ospitare e nutrire partigiani, prendere parte ai combattimenti con coraggio. Oggi facciamo fatica a camminare, sorretti da un bastone o una stampella. Attraversiamo lentamente le vie che un tempo ci videro muoverci con rapidità, colpendo e fuggendo. Vecchi, un po’ malandati. Faremo anche tenerezza ma a quel tempo sbaragliammo interi battaglioni,  rischiammo la vita, ci battemmo per garantire quella libertà della quale oggi tanti fanno cattivo uso, abusandone, senza immaginare quanto ci sia costata perché non ne sono mai stati privati e non hanno dovuto battersi per riconquistarla. Non c’è retorica in questi pensieri. Abbiamo imparato a nostre spese che non serve indulgere in nostalgie. C’è piuttosto la consapevolezza di aver fatto ciò che era giusto e che tutto quanto è accaduto non deve essere dimenticato perché quei semi di giustizia e libertà non inaridiscano mai. E a quella domanda c’è una sola risposta possibile: sì, ne è valsa la pena.

Marco Travaglini

Rasputin e Cri-Cri

All’altezza della piazzetta nel quartiere Domo, dove c’è Casa Morandi, camminando soprappensiero, sono inciampato in un gatto che stava lì, lungo e tirato, a prendere il sole. Barcollando, mi sono appoggiato al muro e solo grazie alla mia prontezza e ad un po’ di fortuna non sono caduto a faccia in giù

Al ritorno da una passeggiata sul lungolago di Baveno, dopo una breve sosta sulla panchina del parco giochi dove spunta dal terreno la scultura in granito rosa di “Maggi”, il mostro del lago Maggiore, ho imboccato la via Zanone. All’altezza della piazzetta nel quartiere Domo, dove c’è Casa Morandi, camminando soprapensiero, sono inciampato in un gatto che stava lì, lungo e tirato, a prendere il sole. Barcollando, mi sono appoggiato al muro e solo grazie alla mia prontezza e ad un pò di fortuna non sono caduto a faccia in giù. Spavento a parte, guardando il felino che – nonostante il trambusto – non aveva fatto una piega, mi è venuto in mente Rasputin. Era il gatto dell’Amalia ed era campato quasi vent’anni, prima  “da tirà i sciampitt”, di passare a miglior vita. Era pelle e ossa, magro da far paura. Quasi del tutto cieco, negli ultimi tempi brancolava per la piazzetta, miagolando stancamente. Persino i topolini che stavano rintanati nella cascina del Gèra, preso coraggio, gli correvano intorno, sfottendolo. Eppure c’era stato un tempo in cui Rasputin era il terrore di tutta Domo. Quando era “in caccia”, gli uccelli volavano alti, stando ben attenti a non abbassarsi troppo per evitare la “quota-rischio”. E gli altri animaletti che vivevano nei paraggi, negli orti o al margine del bosco (topi, lucertole, scoiattoli, ghiri e così via) erano impauriti. Aveva coraggio da vendere, Rasputin: il pelo fulvo, i lunghi baffoni, le unghie affilate, pronte a graffiare, erano il suo “biglietto da visita”. Una cosa sola lo metteva a disagio: i ciottoli bianchi delle stradine che scendevano dallo slargo davanti alla chiesa e “scivolavano” verso lago. Il perché discendeva dal ricordo, pressoché indelebile, di una scorpacciata di burro alla quale aveva fatto seguito una tremenda indigestione con dolori e nausee. Il gatto non aveva saputo resistere al desiderio di ingoiare, in un solo boccone, il bel pezzo di burro profumato che stava – coperto da un tovagliolo – sul piatto appoggiato sulla credenza. Con un gran salto – ovviamente, ”felino” – era balzato sul tavolo, affamato e goloso. La signora Amalia l’aveva trovato lì, qualche minuto dopo, ancora intento a leccarsi i baffi. Non aveva perso tempo, scacciandolo via, minacciandolo infuriata con la scopa di saggina.

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A Rasputin – vuoi per l’ingordigia con cui aveva “sbafato” l’intero panetto, vuoi per lo spavento e la precipitosa fuga – si era bloccata la digestione ed il burro, nello stomaco, si era trasformato in mattone. Da quel giorno, la sola vista di un sasso bianco, equivaleva a fargli rivivere quei momenti e, dunque, scappava via, con i crampi allo stomaco. Ma non c’era solo Rasputin.Rammentando gli animali che giravano lì attorno non si può non menzionare il piccolo “Cri-Cri”, il cagnolino del dottor Segù. Medico condotto, filosofo ed indagatore dell’animo umano, il dottore aveva un suo motto che sintetizzava, per così dire, la sua “funzione”: “ Se in cielo c’è Gesù, in terra c’è Segù”. Insieme a lui, in simbiosi perfetta, viveva il volpino “Cri-Cri”. Non era di razza pura, vivacissimo, dal pelo corto, bianco e nero, sempre affamato. Un giorno, mentre il suo padrone visitava la signora Gina, “cri-cri” addentò – rapido come un fulmine – il mezzo pollo, già pulito, che la moglie del Merico Birgoli stava per mettere in pentola. Inseguito e costretto a “mollare la presa” dopo un difficile “tira e molla”, ringhiava alla povera donna, mostrandogli i denti. “ Ma va da via i ciapp, bestiaccia boia. Vàrda, che disastro. La gallina l’è tuta ruinada, capito? Ro-vi-na-ta Adesso mi tocca buttarla via, mondo ladro. Come la mettiamo, eh dottore?”. E il buon Segù, serafico, senza scomporsi, rispose con voce calma: “Cara Gina, hai tutte le ragioni del mondo ma non devi prendertela così. Cosa vuoi mai: anche il piccolo Cri-Cri  è una creatura di Dio. E’ così perché risponde alla sua natura. E’ l’istinto a fargli perdere la trebisonda, capisci? Io non ti chiedo di comprenderlo ma, ti prego, non essere così dura con lui”. Lo giustificava, il dottor Segù. Ed il piccolo cagnetto, scodinzolando, a modo suo “ringraziava”. E Gina? Solo l’educazione religiosa e l’attaccamento alla fede le consentivano di non pronunciare parole peccaminose (anche se, secondo me, nessuno sarebbe stato in grado di garantire che non n’avesse pensate di irriferibili). Con gli animali, del resto, aveva già avuto esperienze che l’avevano – come spesso gli capitava di dire – “segnata”. Ad esempio, quella volta che aveva tagliato il collo all’oca per la cena dell’epifania, richiudendone il corpo nello stipetto sotto il lavandino. Quando, meno di un’ora dopo, aveva aperto lo sportello, l’oca era uscita sulle sue gambe, girando per la cucina. Alla Gina gli prese un sintomo. Stette lì lì per svenire e, gridando che era “opera del diavolo”, riuscì a scappar fuori in cortile. Toccò a suo marito, che stava girando le zolle di terra nel piccolo giardino dove coltivavano l’insalata e le patate, ad accorrere con la zappa e “finire” l’oca. Che non finì in pentola. La Gina si rifiutò fieramente di mangiare quella “bestia indemoniata”. E l’oca  dalla testa mozza finì sepolta come un cristiano, sotto mezzo metro di terra, vicino al bosco di castagni.

 

Marco Travaglini

“I pifferi di montagna vennero per suonare e furono suonati”

Un giorno che stavamo pescando in barca dalle parti di Oira – eravamo, mi pare, a fine marzo – Faustino si appisolò, tenendo la canna appoggiata sotto le gambe incrociate. L’abbiocco gli era venuto perché, la sera prima, era stato al circolo di Brolo a far bisboccia con una compagnia di tiratardi.

Nel dormiveglia aveva assunto quella posizione da fachiro che, a prima vista, non doveva nemmeno trovare tanto scomoda. Stavamo pescando le tinche a fondo, con la polenta. Il galleggiante – una bella e robusta “trottola” di sughero bianca e blu – sparì improvvisamente sott’acqua. Una tirata così secca lasciava intuire, senza margine d’errore, l’abboccata famelica di una bella sberla di pesce.La canna subì uno strappo netto, deciso. Faustino, svegliandosi bruscamente, l’agguantò al volo, scattando in piedi. Un movimento fatale che gli fece perdere l’equilibrio. La scena era quasi comica. Cominciò ad annaspare nell’aria, ricercando un appiglio che non c’era. Sembrava un goffo gabbiano che, dispiegate le ali, cercava di volare senza staccarsi da terra. Cadde pesantemente in acqua prima che potessi in qualche modo aiutarlo. L’attaccatura del  mulinello s’incastrò nello scalmo, bloccando la canna, ormai per metà inabissata. Faustino, nuotando a cagnaccio , stava faticosamente a galla. Aggrappatosi alla mia mano tesa, non senza fatica, riuscì a issarsi nuovamente sull’imbarcazione, facendola dondolare pericolosamente. Mancò poco che la barca si rovesciasse e che finissi anch’io in acqua. Bagnato fino al midollo, si levò i vestiti fradici. La cerata con cui coprivo la barca tornò utile al fine d’evitare lo spettacolo poco attraente del mio amico in mutande. Le parole che pronunciò, per quanto scarse, non credo sia il caso di trascriverle. Tra lago e cielo, i destinatari erano facilmente intuibili. Tempo una decina di minuti e, attraccata la barca al molo di Oira, eravamo nella cucina del Clemente Cristoforo, detto “Cavezzale”.

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Il nostro amico, pescatore anche lui, appena aperta la porta di casa e viste le condizioni di Faustino che, oltre a tremare come una foglia per il freddo, ansimava come un mantice, organizzò il pronto intervento: mastello d’acqua calda per il pediluvio, coperta di lana e un bel bicchiere di Barbera. Rinfrancatosi nel corpo e nello spirito,davanti ad una bottiglia di quello buono (Cavezzale ne teneva una sempre pronta, a portata di mano, per le “emergenze”)  Faustino diventò loquace e in vena di ricordi. Il tuffo fuori stagione gli rammentò la volta in cui dovette nascondersi nel fosso di una risaia dalle parti di Vignale, alle porte di Novara. Era di maggio, verso la metà del mese. L’anno non poteva certo scordarselo: il 1953. “ A quel tempo ero un giovane operaio e da meno di un anno ero stato indicato dal partito a rappresentarne l’organizzazione

 

giovanile a livello provinciale. Allora mi avanzava poco tempo per pescare le anguille”. Faustino  Girella-Nobiletti era stato uno dei più brillanti e vivaci dirigenti della gioventù comunista novarese nei primi anni cinquanta. Un’attivista coi fiocchi. Tanto bravo e affidabile che un giorno, su richiesta del senatore Leone, venne inviato a Vercelli.I comunisti della città del riso avevano

 

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Nel tentativo di ottenere quel premio di maggioranza nelle elezioni politiche di giugno,la Democrazia Cristiana e altri cinque partiti (Partito Socialdemocratico,Partito Liberale, Partito Repubblicano,la Südtiroler Volkspartei e il Partito Sardo d’Azione) effettuarono fra loro l’apparentamento. “Noi, tutta la sinistra e personalità come Ferruccio Parri e Piero Calamandrei avversammo con forza quella legge”. Aggiunse come nel Paese fosse ancora vivo il ricordo della “legge Acerbo”, voluta da Mussolini pochi mesi dopo la Marcia su Roma. In base a quella legge, la lista che prendeva più voti otteneva i due terzi dei seggi. E fu così che il “listone fascista” , grazie ai brogli e alle intimidazioni delle squadracce, nel 1924 ottenne il 64,9 per cento dei voti, dando il via libera al regime. Comunque, tornando al racconto, in quei giorni Faustino preparò il suo “corredo”. Infilò nel tascapane un po’ di vestiario di ricambio, la tuta, due pennelli ( “per le scritte murali”), una pagnotta di segale e una piccola toma di formaggio del Mottarone. Giunto a Vercelli con il treno, si recò alla sede del Pci dove ad attenderlo c’era Francesco Leone. Il senatore era un personaggio di prim’ordine. Noto antifascista, tra i fondatori del Partito Comunista, era stato comandante di formazioni antifranchiste durante la guerra civile spagnola e dirigente di spicco della Resistenza. La prima sorpresa l’ebbe in quel momento. L’incarico che egli era stato riservato consisteva nel contattare i vecchi monarchici vercellesi e, spacciandosi per un inviato della casa Reale ( i Savoia erano in esilio a Cascais , in Portogallo), doveva invitarli a mobilitarsi contro quella legge-tagliola.

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Del resto, in Parlamento, i rappresentanti del Partito Nazionale Monarchico avevano votato contro. Il “corredo” restò nel tascapane e gli venne consegnato un completo grigio scuro che gli andava un po’ stretto di spalle, corto di maniche e lungo di gamba ma a quei tempi non si badava troppo ai particolari. Anche a un inviato dei Savoia, in quegli anni del dopoguerra, si potevano perdonare dei difettucci sartoriali. Il falso anello con il sigillo della Real Casa invece gli andava a pennello. Bello, grande, solido:sarebbe parso vero in tutto per tutto anche all’esame dei più esperti conoscitori. Merito di Gianandrea Fiorino, un artigiano orafo di Valenza che aveva fatto il partigiano in Valsesia con Cino Moscatelli. “Mi venne da ridere, guardandomi allo specchio”, confidò Faustino. Rise ancora di più quando, appreso che sua madre vedova dimorava a Pratolungo, una frazione di Pettenasco, sfruttando il suo doppio cognome, il Partito decise di affibbiargli il titolo nobiliare: Fausto Girella-Nobiletti, Conte di Pratolungo. Si sganasciò pensando a un suo amico e compagno, sindacalista della FIOT-CGIL, la federazione nazionale italiana operai tessili. Lui sì che portava un nome e un cognome che era tutto un programma: Umberto Re. In fondo, sarebbe bastato invertire la sequenza con cognome e nome e, voilà: la più alta carica dei Savoia. Ma, forse, non era il caso di esagerare. Comunque, da quel momento e per oltre due settimane, con la nuova identità, girò in lungo e in largo il vercellese. Dal tè e pasticcini nei salotti di anziane dame ai cascinali dove vivevano contadini, mezzadri e fittavoli rimasti fedeli alla Corona, Faustino si dava da fare come un dannato per spiegare e convincere i suoi interlocutori che Sua Maestà , il Re Umberto II d’Italia, vedeva come il fumo negli occhi quel disegno ordito dai democristiani e dai loro alleati, del quale“l’ignobile legge” rappresentava l’arma più subdola e pericolosa. In fondo, da quanto s’intuiva, il “Re di Maggio” non la pensava in modo poi tanto diverso. Dunque, bastava calcare la mano un po’ qua e un po’ là per scaldare le passioni represse dei fedelissimi dei Savoia. Tutto andò liscio, tra baciamano e saluti militareschi, finché non accadde il guaio. E che guaio! In uno dei giri, sull’aia di un cascinale dove aveva appuntamento con un anziano veterinario nostalgico, udì un canto che conosceva bene, anzi, benissimo: “Son la mondina, son la sfruttata, son la proletaria che giammai tremò:mi hanno uccisa, incatenata, carcere e violenza, nulla mi fermò. Coi nostri corpi sulle rotaie,noi abbiam fermato i nostri sfruttator; c’è molto fango sulle risaie,ma non porta macchia il simbol del lavor..”.

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Si era imbattuto, colmo della sfortuna,in un gruppo di mondine. Alcune di loro, l’anno prima, avevano partecipato alle lotte sindacali per i contratti, il salario e l’occupazione nelle risaie di Lumellogno, nella bassa novarese. Lì avevano conosciuto Faustino nella sua veste di dirigente dei giovani comunisti. Una di loro, oltretutto, una morettina di un paese vicino a Reggio Emilia, l’aveva conosciuto proprio bene e a fondo. Quando lo videro, vestito come un signore, parlare fitto con quel vecchio monarchico, tenendolo per di più sotto braccio, ammutolirono. Lo sconcerto durò pochi secondi e poi, come un temporale estivo, si scatenò il putiferio. Insultandolo in tutti i modi possibili ( “traditore”, “venduto”, “carogna”, “voltagabbana” )fecero correre il malcapitato a perdifiato fin quando riuscì a nascondersi in un fosso pieno d’acqua. A mollo, insieme alle rane, ci stette fino a notte tarda. Scampato il pericolo, nei giorni successivi tornò a casa, con una tosse carogna e un raffreddore tremendo. La settimana dopo, il 7 giugno 1953, all’apertura dei seggi,la vittoria del blocco centrista sembra scontata. I “forchettoni”, come li chiamava Pajetta, si apprestavano a spartirsi la torta elettorale. E invece accadde il miracolo. Con grande sorpresa, lunedì 8, dal voto degli italiani le forze politiche della coalizione ottennero solamente il 49,85% non usufruendo così del premio di maggioranza, annullando gli effetti della legge che più tardi venne pure abrogata. Per circa 57 mila voti non scattò il premio di maggioranza. Rispetto al 1948 la Dc perse l’8,4 per cento e tutte le liste apparentate arretrarono. Il Pci ottenne il 22,6 per cento, il Psi il 12,7. I monarchici, a loro volta, passarono dal 2,8 al 6,9, più che raddoppiando i consensi. Il leader dei socialdemocratici, Giuseppe Saragat, sconsolato, esclamò: “La colpa è del destino cinico e baro”.Faustino, in cuor suo, restò convinto di aver dato una bella mano per far crescere il “cinismo” del destino. E pazienza se il giornale della Curia vercellese  – non si è mai saputo come –  gli dedicò un corsivo al vetriolo, titolato “pifferi di montagna vennero per suonare e furono suonati”. E così anche oggi, pur essendo passati tanti anni, nel ricordare la storia del suo “bagno” più famoso, non nascose il rammarico per “l’incidente” con le mondine. Si erano sì spiegati, più avanti, con alcune di loro ma aveva la sensazione che, pur fidandosi più del partito che di lui, non avessero compreso le ragioni strategiche che l’avessero portato a vestire, in quelle due settimane, i panni del Conte di Pratolungo.

 

Marco Travaglini

Mariolino e la guida dell’uomo col cappello

Da qualche anno possiedo una barca. E’ la Lampreda, cedutami a poco prezzo dal vecchio Lino Sgambarolli, costretto a buttar l’ancora sulla terraferma a causa dei reumatismi e della sciatica che l’hanno piegato in due.

La “sua” Lampreda era la terza di una serie. Diventata mia, riverniciata di bianco e d’azzurro, si è guadagnata il titolo di quarta. Lino mi aveva lasciato piena libertà. “Il nome deve essere quello che più ti piace. Non c’è l’obbligo di tener lo stesso e lo puoi cambiare, tanto lei – che la si chiami per nome o no –  volterà la prua dove decidi tu, manovrando il timone o il colpo di remi. Ma se ti garba chiamarla come l’ho chiamata io, fai una cosa: ribattezzala “quarta”, così la storia va avanti”. Mi raccontò che prima di lei c’erano state altre due Lamprede. La prima, messa in acqua, sul finire degli anni trenta s’inabissò nell’agosto del 1944 davanti alla Punta di Crabbia, dov’era ormeggiata. Un aereo tedesco, volando sul lago in appoggio a un rastrellamento contro i partigiani del Mottarone, tanto per sfogare la sua rabbia impotente visto che i partigiani se ne stavano nascosti nei boschi, la  colpì a morte con una raffica di mitraglia , sventrandole entrambe le fiancate. La seconda barca era stata bagnata nel maggio del 1947, dopo quasi tre anni durante i quali Lino fu costretto ad una lontananza forzata dal lago, minatore prima e scalpellino poi in terra di Francia, dalle parti di Lione. I magri guadagni lasciavano ben poco alla speranza di metter qualcosa da parte ma quei quattro franchi in croce e qualche lira racimolata vendendo un boschetto di castagni dalle parti di Brolo gli bastarono per l’acquisto di una modesta ma robusta lancia da lago. Per trent’anni Lino e la sua barca hanno attraversato in lungo e in largo il Cusio, pescando in ogni dove, con ogni tempo e in tutte le stagioni dell’anno. Fatto salvi, ovviamente, i periodi di ferma. Dalle rive lo salutavano, nei mercati si vendevano i suoi pesci ( almeno finché l’ammoniaca, il cromo e gli altri veleni non trasformarono, a poco a poco, l’acqua in aceto), nelle osterie capitava di ascoltare le sue storie al modico prezzo di un quartino di barbera del Monferrato. A metà degli anni ’80, una massiccia immissione di carbonato di calcio,  riportò l’acqua ad un valore accettabile di acidità. Quella grande pastigliona di bicarbonato fece digerire il lago, tanto che i pesci – dopo tanto boccheggiare – tornarono a respirare e Lino si rimise a pescarli con la sua Lampreda ( la seconda, appunto). Giunta alle soglie del pensionamento forzoso, dopo più di trent’anni di onesta navigazione, figli e nipoti gli fecero una grande sorpresa, regalandogli un gioiello di barca, uscita fresca, fresca  dai cantieri navali di Solcio, sul lago Maggiore. La forma aguzza, slanciata; il fasciame di legno liscio e brillante, gli scalmi d’acciaio inossidabile, lucidi come i pomelli della stufa dell’osteria dove andava a far bisboccia. Un bijoux che si è goduto per poco. Lino è stato un gran vogatore che solo negli ultimi anni si è arreso al motore. Io non ho la sua tempra e seppur non disdegnando d’infilare i remi negli scalmi e darci dentro a bracciate regolari, uso frequentemente il motore. Al calare della sera, tiro in secca la barca nei pressi dell’ex Canottieri, dalle parti dell’Ospedale della Madonna del Popolo. A volte la ricovero da Mariolino, alla Bagnera di Orta. Una soluzione abbastanza comoda, dato che possiede uno sgabbiotto, chiuso con catena e lucchetto, dove si possono ritirare remi e motore. A far la guardia c’è Lupo, il cane di Mariolino: un bastardino bianco e nero che tira fuori i denti e ringhia proprio come un lupo quando s’avvicina un estraneo. “ Il tuo motore è come in banca, lì dentro”, rassicura Mariolino. Non ne dubito affatto. Lupo  esegue l’incarico come un mastino. E se il suo padrone gli dice di star di sentinella ( proprio così..”di sentinella” ) si può scommettere che lui ci mette una grinta sufficiente a scoraggiare i malintenzionati. Mariolino è fortunato ad avere, come “migliore amico dell’uomo” quel cagnetto. Sono sempre insieme, anche quando Mariolino guida la sua vecchia NSU Prinz. Lupo guarda fuori dal finestrino laterale, ringhia alle auto, abbaia alle luci colorate del semaforo, scodinzola quando si passa davanti all’osteria dove la signora Maria spesso gli “allunga” un cartoccio d’avanzi. Il problema è che  Mariolino, con la sua guida da “uomo col cappello”,  fa venire i brividi gelati lungo la schiena. Avete presente quella categoria di automobilisti che, con il loro stile di guida, fanno dannare l’anima? Se si ha la sventura di incontrarne uno così, magari su una strada stretta e tutta curve, o – peggio – essere costretti a stargli dietro mentre arranca sui tornanti, non ci sarà alcun bisogno di usare la tenaglia per strapparvi dalla gola il peggior campionario di accidenti, riversandoglielo addosso. Perché quando si mette al volante un “uomo col cappello” sono guai seri. Non superano mai i trenta all’ora, viaggiano a centro strada, frenano in continuazione, pigiano continuamente il clacson. Impermeabili a tutto: impettiti, con gli avambracci tesi e le mani intente a strangolare il volante. In più, come un distintivo, l’immancabile copricapo ben calcato sulla nuca. In casi come questi il vero malcapitato sei tu, povero diavolo, costretto a guidare a passo d’uomo, alternando il piede da un pedale all’altro: acceleratore ,freno, frizione. Cambio. Freno, acceleratore. Attento a non tamponarlo,  roso dall’indecisione sull’eventuale sorpasso. Manovra, quest’ultima, caldamente sconsigliata: l’uomo col cappello può decidere di svoltare da un momento all’altro, senza preavviso e, dunque, senza mettere la freccia. L’assoluta certezza che lo anima è proporzionale all’incapacità che manifesta impugnando il volante. Dunque, mai sottovalutare chi guida con il cappello. Non conviene contraddirlo. Non mettetegli fretta, armatevi di pazienza e fatevene una ragione. Ecco, Mariolino è uno di questi. L’ esatto contrario del mito futurista della velocità. Più lento della lentezza ma senza alternativa: prendere o lasciare. Si vede proprio che chi nasce uomo d’acqua fa fatica a muoversi con quattro ruote sulla terraferma.

Marco Travaglini